Nessuna colpa, di Amalia Guglielminetti

Amalia Guglielminetti nacque a Torino il 4 aprile 1881.
A soli ventidue anni pubblica la sua prima raccolta di poesie, Voci di Giovinezza, di impronta carducciana. Nell’ambiente culturale di Torino dove frequentava la Società di Cultura insieme a Thovez, Pastonchi, Graf, Gozzano, Borgese forgiò il suo personaggio di donna appassionata e indipendente. Nel 1907 pubblicò Le vergini folli, dove le esperienze del chiostro si rivelano più apertamente, insieme però ai temi che saranno dominanti nei successivi lavori.
La lettura di Le vergini folli e il loro incontro alla Società di cultura, spinge il poeta Guido Gozzano a interessarsi di Amalia dando vita alla loro storia che trova testimonianza nell’interessante carteggio pubblicato da Garzanti a cura di S. Asciamprener nel 1951.

L’influenza autobiografica e della relazione con Guido appare evidente, ma Amalia sa andare comunque oltre, collocandosi con autorevolezza nella storia letteraria italiana del primo novecento. D’Annunzio la definirà l’unica vera poetessa che abbia oggi l’Italia. Sempre nel 1909 – e ormai la relazione con Guido ha segnato il raggiungimento dell’«ora dell’amicizia» – pubblica il volumetto di poesia Emma dedicato alla sorella morta di tifo a soli 29 anni. Tale opera si trova poi ripubblicata in I serpenti di Medusa (1934).

Le idee che Amalia matura a proposito della mascolinità rappresentata da Gozzano si esprimono dapprima in un articolo su «La Stampa», di cui è collaboratrice, e poi nel nuovo volume di poesie L’Insonne pubblicato nel 1913. La lirica di apertura, Risposta a un saggio, appare verosimilmente la risposta alle poesie di Gozzano L’onesto rifiuto e Una risorta.

Aumenta invece la fortuna delle opere di prosa: tra il 1915 e il 1920 Anime allo specchio, Le ore inutili, La porta della gioia e il romanzo Gli occhi cerchiati d’azzurro. Nel 1923 esce il romanzo La rivincita del maschio.

Cattedrale vi propone una delle sue novelle, contenuta nella raccolta ‘Anime allo specchio’, del 1925.

NESSUNA COLPA
di Amalia Guglielminetti

La campana garrula squillò mentre il battello con un moto faticoso dell'elica si staccava dall'approdo e girava al largo. L'acqua era tutta azzurra fra il verde delle colline ondulate e le isolette vi si posavano come grandi fiori acquatici, immobili sotto il sole meridiano. Ma gli scarsi passeggieri del piroscafo non badavano al paesaggio. Cerano due vecchie inglesi ossute e occhialute come il giovine pastore protestante che le accompagnava, tutti e tre assorti nella lettura di una guida, coi tre medesimi cappelli di paglia nera un po' inclinati sulla fronte ad ombreggiare i volti quasi eguali. Cerano quattro negozianti, due grassi e due magri, intenti a scrivere cifre sui loro taccuini; ed una coppia di sposi in viaggio di nozze occupati a sorridersi ed a guardarsi negli occhi.
Soltanto una signora vestita di nero in un grave lutto vedovile, s'appoggiava al parapetto proprio sotto il ponte di comando e col velo rialzato sul suo fine volto di donna trentacinquenne osservava intorno a sè quelle linee e quei colori già tanto famigliari al suo sguardo, con la dolcezza affettuosa di chi ritrova ancora immutati e fedeli gli amici dimenticati.
Portava un piccolo cappello chiuso ai lati da due alette di crespo nero listato di bianco, simile al casco di una deità guerriera ed aveva di certe statue classiche il profio puro, i capelli biondi spartiti in due onde uguali, il collo agile e saldo emergente da una piccola scollatura rotonda. Ma la persona alta e smilza aveva la nervosa struttura moderna e le mani calzate di guanti neri che correvano tratto tratto a fermare il velo agitato dalla brezza, s'indovinavano lunghe e fini, piene d'impazienza e sensibilità.
Appena lasciato l'ultimo approdo qualche nuovo passeggiero apparve e la signora in lutto, gettato sui sopraggiunti un rapido sguardo, corrugò la fronte in una vivace espressione di disappunto e traendosi il velo sul volto volse il capo dal lato opposto. Ella aveva scorto e subito riconosciuto Romeo Valturba, il giovine che si era tre anni innanzi inimicato con lei e con tutta la sua parentela abbandonando quasi alla vigilia delle nozze la piccola Viviana Claresi, sua nipote e pupilla.
Ella stessa, d'accordo con la madre di lui, aveva vagheggiato e favorito quel matrimonio che doveva unire due bei nomi e due belle sostanze, e più d'ogni altro si era sentita offesa quando Romeo Valturba, senza una spiegazione, senza una scusa accettabile era partito per un lungo viaggio, all'improvviso, lasciando alla fidanzata una lettera breve in cui la lasciava libera, dichiarando di non sentirsi capace di renderla felice e chiedendole perdono. Il mistero di quella fuga non era stato sciolto nè allora, nè dopo; nessuno di casa Valturba aveva più messo piede in casa Claresi, e voci diverse esprimenti supposizioni e dubbi che si contraddicevano e si distruggevano a vicenda, circolarono per qualche tempo fra amici e conoscenti, senza nulla spiegare e senza convincere nessuno.
Si diceva che Romeo avesse in cuore qualche altra Giulietta e il facile bisticcio, passato di bocca in bocca, era anche giunto a Viviana in una lettera d'amica fin laggiù nel suo collegio francese dov'ella aveva voluto tornare dopo la delusione.
Si diceva pure e con maggiore fondamento che una colpa d'origine nella vita della giovinetta, ossia una madre di condizione equivoca, sposata soltanto per legittimare la figlia e morta poco dopo la sua nascita, fosse venuta a conoscenza dei Valturba un po' tardi, ma ancora in tempo per deciderli a troncare ogni progetto d'unione. Tale suscettibilità poteva sembrare troppo esagerata per essere convincente, tanto più che il padre di Viviana, noto a tutti come corretto gentiluomo, l'aveva lasciata anni innanzi, legandole un bel patrimonio e affidandola alle cure di sua zia, la giovine contessa Gabriella Claresi.
Più tardi, Viviana, lasciato a forza il collegio e dimenticato l'infedele fidanzato, aveva sposato un altro e sua zia, rimasta vedova da alcuni mesi, tornava in quella sua villa sul lago dove i due giovani s'erano un tempo conosciuti e dove ella subita la irritante sconfitta, aveva dovuto consolare il dolore e l'umiliazione dell'abbandonata. Ella continuava ora a fissare attraverso al suo velo l'azzurro paesaggio lacustre, irrigidendosi in quella posa d'ostentata indifferenza, quasi di altera lontananza, che doveva intimidire e ferire Romeo Valturba. Ed in realtà il giovine, fermo ad alcuni passi, la contemplava quasi estatico con un volto commosso ed impaurito ad un tempo. Egli teneva in una mano il cappello e si passava l'altra nelle brune chiome ondulate con un moto lento e convulso, pieno di perplessità e d'affanno.
Aspettava ch'ella si volgesse, che i suoi occhi si posassero distrattamente sulla sua persona per osare di salutarla, per tentare d'avvicinarsi e di parlarle, ed intanto non gli sfuggiva l'ostilità fredda del suo atteggiamento così bene accentuato dalla severa eleganza del lutto, dallo scultorio cadere di qualche piega, dal bel cappello tetro ed alato che chiudeva con armoniosa simmetria il fine volto dall'esatto profilo. Ella non si muoveva e finalmente con uno sforzo di tutta la sua volontà, con una abolizione di tutto il suo amor proprio, Romeo Valturba le si accostò ed inchinandosi profondamente le chiese il permesso di ossequiarla.
Ella gli volse lentamente lo sguardo, come se prima d'allora non lo avesse scorto e abbassò il capo in un dignitoso saluto, senza porgergli la mano.
– Mi perdoni, – proseguì il giovine mal celando la sua commozione – se ho ardito d'avvicinarmi a lei pur sentendomi tanto mal giudicato, pur sapendomi tanto disdegnato.
– Oh! – esclamò ella soltanto con un piccolo riso fra amaro e sprezzante, un riso di gelo che non riuscì a paralizzare l'umile fervore di Valturba.
– Io le mandai le mie condoglianze mesi fa, alla morte di suo marito – egli continuò – e non ebbi risposta; non l'aspettavo, è vero, ma questo silenzio mi ha fatto molto male. Sapevo d'averla involontariamente offesa, ma m'illudevo di non avere in lei, almeno in lei, una nemica mortale.
– Nemica mortale è troppo – ella mormorò sarcastica, – è troppo per così piccola cosa. Di grande in tutta quella poco simpatica faccenda non vi fu che la sua leggerezza. Ora Viviana ha preso marito ed è felice: perchè dovrei serbarle rancore di una colpa che è tornata soltanto a suo danno!
Il battello si fermò ad un altro approdo, gli inglesi discesero, salì altra gente e la campana di partenza tornò a squillare, mentre l'elica rompeva rumorosamente l'acqua azzurra in un gorgo di spume candide. I due viaggiatori, appoggiati al parapetto del ponte, avevano seguito le manovre in silenzio, ma lo sguardo del giovine si era spesso rivolto alla sua compagna con una così viva ansietà scrutatrice che pareva volesse penetrarne il pensiero.
– Fra pochi minuti io scendo, – ella avvertì gettando uno sguardo al minuscolo orologio di smalto nero che le ornava discretamente il polso.
Egli sbattè le palpebre e si passò la mano sulla fronte col suo gesto abituale di perplessità affannosa, poi disse tentando un sorriso: – Io non la vedrò forse mai più, non l'avrei forse più riveduta senza l'incontro così casuale, quasi direi così fatale d'oggi.
– È probabile, – ella mormorò freddamente, a fior di labbra.
– Ebbene, bisogna ch'io approfitti di questi pochi minuti che il destino mi concede per farle una confessione. Ella gli gettò un'occhiata interrogativa sollevando le sopracciglia.
Egli proseguì: – In tutto quello che accadde io fui senza colpa; io fuggii vilmente, è vero, ma fuggii per non essere colpevole più tardi, per salvarmi da una terribile tentazione, per togliermi ad una situazione dolorosa e falsa.
Ella lo osservava stupita e interdetta, pur sentendo nella sua voce l'accento della verità. – Io avrei amato e sposata Viviana se vicino a lei non vi fosse stata un'altra donna infinitamente più bella, più attirante, più inquietante, se vicino a Viviana non vi fosse stata lei.
Le ultime parole furono appena sussurrate con un'ansietà quasi timida, con uno sforzo quasi angoscioso e la donna che le ascoltava ne fu scossa.
– Il mio torto fu quello di lasciarmi trascinare dalle circostanze fino ad un momento troppo decisivo e poi di fuggire vigliaccamente, con un pretesto puerile, meritandomi l'odio di Viviana e il suo disprezzo.
Ma se ella sapesse quanto ho sofferto in quella incertezza tremenda, quanto ho lottato contro la tentazione di rivelare tutto a lei, a lei che forse mi avrebbe aiutato e compatito un poco. Invece nascondevo la mia passione come un male vergognoso e mentivo, mentivo a Viviana, mentivo a lei, mentivo a tutti, finchè al momento dell'ultima menzogna ho perduto il mio coraggio e sono fuggito. Ma non ebbi colpa, è vero? Me lo dica lei ora, dopo tre anni, ch'io non ebbi nessuna colpa.
– Che ragazzo! – ella mormorò crollando il capo con un sorriso mite; – ha fatto male a non confidarsi a me; questo è certo.
E poichè il battello s'avvicinava alla riva e villa Claresi già appariva fra il verde, ella fece l'atto d'avviarsi all'uscita. Ma il giovine le porse la mano, afferrò la sua, la trattenne ancora un momento, le domandò con tutta l'anima nello sguardo: – Mi permette di confidarmi adesso? Verrò domani da lei. Ho ancora tante cose da dirle, tante. E bisogna ch'io gliele dica.
Ella esitava a rispondere ed egli la incalzò di domande corrucciate.
– Non è libera ora? Di che ha paura? Mi disprezza ancora? Non mi crede? Sono un uomo d'onore e voglio darle la mia vita.
– Silenzio! – ella disse con un lieve ridere sommesso scendendo la scaletta seguita da Romeo Valturba. E come furono in basso presso il rumore assordante delle macchine in moto, si fissarono un lungo momento senza parola, costretti dalla folla a una tale vicinanza ch'ella incontro al suo braccio sentiva battere il cuore del giovine.
Gli uomini gettarono il ponte d'approdo e quando tutti furono passati, anche la contessa Gabriella Claresi vi si diresse con un gesto di saluto.
– A domani, dunque? – la supplicò Romeo Valturba, ed ella gli si volse, abbassò il capo in un cenno di consenso.
Quindi attraversò il ponte ultima e sola sottile e nera, con la bella persona drappeggiata nobilmente nel velo vedovile.