FIORE D'ARANCIO
di Marchesa Colombi
Da quanto più lontano risalgono le mie memorie, mi ricordo di aver aperta la corolla alla scossa di una brezza mattinale, e d'essermi trovato ad un'altezza straordinaria. Ero proprio sulla punta d'un ramo che si slanciava verso il cielo, e vedevo il terreno del giardino, al di sotto, molto al di sotto di me.
Mi guardai beatamente intorno, superbo della mia alta posizione.
Al di là del giardino che avevo immediatamente ai piedi, dominavo il pendìo della collina, nella sua discesa ripida fino al Po; su quel pendìo facevano macchietta tante ville signorili, sparse qua e là, come un branco di pecore biancheggianti. E giù giù in fondo, vedevo il Po, che s'incurvava, si torceva, mandava riflessi metallici come un serpente.
— Com'è bello stare al di sopra di tutti; dominare sui propri simili! pensavo olezzando dalla corolla sospiri di soddisfazione.
Poi guardavo gli altri fiori d'arancio che erano sbocciati sulla stessa mia pianta, ma nei rami inferiori, e che, per quanto allargassero i petali, non potevano vedere lo spazio immenso che io abbracciavo con uno sguardo. Li osservavo dall'alto, ed esclamavo con disprezzo: Poveretti!
Non l'avessi mai detta quella parola orgogliosa! Da Lucifero in poi, la superbia non ebbe mai miglior risultato che un capitombolo. Io ero destinato ad aggiungere un documento di più alla serie già numerosa di documenti, che provano la vanità delle cose di questo mondo.
Mentre ero assorto nella contemplazione della mia grandezza, vidi venire dall'estremità del giardino un signore abbrunato dal sole come una statua di bronzo, con un giubbino di tela bianca, ed un largo cappello di paglia. Camminava colle mani dietro il dorso canticchiando: «Uhm! Uhm! Uhm!» Teneva nella destra una piccola falce, lucente come un quarto di luna.
Quando fu vicino alla bella pianta d'arancio, che era come chi dicesse il mio albero genealogico, osservò con compiacenza il tronco robusto, le foglie spesseggianti, ed i fiori; fiori bassolocati, i miei umili fratelli che avevo disprezzati.
Ma invece di dividere la mia commiserazione, quel signor Botanico esclamò:
Bella pianta! Bella fioritura, per bacco! Questa va mandata all'esposizione.
Quella parola mi scese nel calice, soave come una goccia di rugiada! L'esposizione! Era là che la mia posizione eminente avrebbe attirata l'ammirazione di tutti.
Ad un tratto il signor Botanico alzò lo sguardo fino a me. Cercai di allargarmi e rizzarmi sullo stelo per piacergli. Ma egli si rabbuiò tutto in volto, e si pose a chiamare: Michele! Chele! Cheee!
— Signore! rispose il giardiniere sbucando in lontananza da dietro un chiosco di gelsomini, e correndo, con grande accompagnamento di zoccoli, alla nostra volta.
— Chi v'ha insegnato a lasciar allungare un ramo a quel modo? gli gridò il padrone accennando il mio ramo. Mi guasta tutta la pianta. Voi non badate a nulla. Ch'io stia una settimana in città, e ritrovo il mio giardino ridotto come l'orto di Renzo.
Il giardiniere non sapeva come fosse l'orto di Renzo. Ma io, che in una precedente esistenza aveva udito leggere i Promessi Sposi, stando nei capelli d'una bella signora, ed ero morto soffocato tra due pagine di quel libro, compresi benissimo. Lo slancio preso dal mio ramo non andava punto a genio del signor Botanico; provai un'angoscia indicibile.
— Vuole che lo tagli quel ramo, signor padrone? domandò con piglio compunto quello snaturato giardiniere.
Se avessi potuto stritolarlo!
— Sì eh? A quest'ora ci pensate? Ma quando sono qui io non ho bisogno di voi. Stateci attento un'altra volta.
Nell'agonia di quel momento i miei sentimenti erano così eccitati, che stavo per fare un miracolo, ed in uno sforzo supremo sciogliere la parola, ad eterna meraviglia del signor Botanico e di tutti i botanici presenti e futuri. Ma non ne ebbi il tempo. Vidi il signore color di bronzo alzare il braccio verso di me, vidi balenare nella sua mano il piccolo quarto di luna, sentii un dolore atroce alla congiuntura del ramo. Tutto il paesaggio mi oscillò d'intorno; perdetti l'equilibrio, e caddi rovinando a terra, mentre il signor Botanico si allontanava ripetendo in tono di soddisfazione il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!»
Là, umiliato ripensavo ad Icaro, che era caduto anch'esso per aver voluto salire troppo alto; e le mie povere foglioline bianche si rammollivano al sole come le sue ali di cera.
Pensavo che presto sarei morto, per rinascere chissà quando e chissà come; ed olezzavo languidamente negli ultimi sospiri la mia animuccia di fiore quando vidi due scarpine di pelle bronzata, e due calzettine azzurre tese su due gambine rotonde, che si avanzavano rapidamente verso di me, col movimento alternato di due piccoli stantuffi d'una macchina a vapore.
Feci uno sforzo straordinario per guardare più in su, ma non potei vedere che due ginocchietti color di rosa che si piegavano al mio fianco; ogni energia mi mancò e rimasi appassito.
Udii vagamente una vocina armoniosa che diceva:
— Oh! chi me l'ha gettato a terra il mio povero fiore? Il mio fiore bello che saliva fino alla mia finestra? Povero fiore! Povero fiore!
Mi sentii rialzato nella posizione verticale, e due labbruzzi come due fragole, mi sfioravano i petali sussurrando ancora:
— Ti hanno gettato a terra, povero fiore! povero fiorellino mio! Ma io ti farò tornar vivo, e sarai la mia pianta. Io so fare; io so fare; m'ha insegnato il babbo.
Fui sottoposto ad un'operazione dolorosa. Mi si schiacciò con un sasso l'estremità del gambo; mi fu ravvolto intorno alla parte schiacciata qualche cosa come dei fili, poi fui piantato in terra. Ma tutto codesto era fatto con garbo infinito, da due manine minuscole e lisce, ed io pensavo nel mio dolore, che molti ammalati avrebbero voluto esser guariti a quel modo.
Quando fui piantato sul gambo, e la terra del vaso fu leggermente innaffiata, mi sentii rinfrescato, e ripresi abbastanza vigore per osservare il medico pietoso che m'aveva salvato.
Era una bella bimba di otto anni. Bianca, rosea, bionda come un puttino dell'Albani. E mi saltellava intorno giuliva, proprio come quei puttini nella Danza degli amori; soltanto un po' più vestita.
Dio dei fiori! Quanto ho voluto bene a quella bimba! Quanta riconoscenza le ho votata! Morii e mi riprodussi, sempre sulla sua pianta, e sempre devoto alla mia piccola salvatrice.
Ogni autunno veniva un giorno triste, in cui Dora mi salutava, mi copriva amorosamente i piedi colla paglia, mi raccomandava al giardiniere, poi saliva in carrozza mostrandomi le gambine, ed i ginocchietti dal rovescio, ed il fondo bianco delle gonnelline corte. Poi mi mandava un bacio, ed un altro, ed un altro; i cavalli scalpitavano, prendevano la corsa e via! Per sei mesi non la vedevo più.
L'inverno era lungo ed uggioso, e lo passavo pensando a lei, e tesoreggiando profumi per inebriarla in primavera.
Ad ogni maggio la vedevo tornare più alta, più bella. Mi faceva un gran chiasso d'intorno. Ripeteva le lezioni camminando su e giù accanto al vaso, con voce alta e monotona, ed alternando le risposte poco sicure, con domande fatte in tono cattedratico e colla voce grossa per imitare una maestra.
Poi buttava i libri all'aria, giocava, rideva, cantava; mi circondava il vaso di bambole. Talvolta stendeva a' miei piedi una tovaglina più stretta d'una pezzuola, disponeva tondini e bicchieri infinitesimali, chiamava i bimbi del giardiniere, ed imbandiva un banchettino da burla con foglie di rosa, confetti ed acqua inzuccherata.
Bei tempi erano quelli! Bei tempi!
Poi venne un anno, lo ricordo sempre, un anno in cui non vidi più le gambine rotonde ed i ginocchietti color di rosa. Le gonnelline corte erano allungate. I bei capelli, sciolti fin allora come una pioggia d'oro, erano intrecciati e raccolti a spirale a sommo il capo.
Dora non saltava più; camminava composta. Non canticchiava più canzonette stonate al vento; cantava in tempo ed a tono, con accompagnamento di pianoforte; non mi ingombrava più il vaso di bambole; vi sedeva tranquilla con qualche libro accanto, e leggeva versi e prose in lingue strane che non potevo comprendere, ma che sonavano soavi come una melodia udite dalla sua voce armoniosa.
La bimba era divenuta una signorina.
Però mi amava sempre, mi chiamava sempre la sua pianta, il suo fiore; ed io mi avvezzai a vederla così.
Fu ancora un tempo bello. La signorina veniva in villa colle sue compagne. Sedeva o passeggiava con loro intorno a me. Parlava di studi, d'arti, di teatri, di libri, di musica, di abbigliature.
Posava sul mio vaso la gabbia del canarino, e gli diceva molte cose graziose, molti vezzeggiativi, a cui il canarino rispondeva gorgheggiando. Allora erano grandi elogi, grandi ammirazioni pel suo canto e pe' suoi occhi innamorati; ed io ero geloso. Non de' suoi occhi, che per la bellezza non avevo nulla da invidiargli; ma dei suoi gorgheggi. Oh come avrei voluto sciogliere anch'io una canzone a quella bella fanciulla!
Nel mio dolore, le soffiavo in volto una ondata di profumo, ed allora ella si volgeva a me, e dava a me pure espansioni e lodi. Ed io pensavo:
— A lui il canto, a me l'olezzo. E non invidiavo più il canarino.
Più volte si diedero delle feste. Vennero molti bei signori dalla città. Si appesero lampioncini a tutti gli alberi del giardino. Tutte le sale furono illuminate. Udivo la musica. Vedevo traverso le finestre belle coppie di signori e dame agitarsi in tempo di danza. Ed i bicchieri tinnivano, ed echeggiavano i discorsi galanti e le risa.
La mia salvatrice era ammirabile allora, col volto acceso dal movimento e dall'allegrezza. Andava, veniva, danzava, rideva, ricercata da tutti, cortese con tutti, bella, gioconda, felice.
Il signor Botanico, vestito di nero, coi guanti, e senza il terribile quarto di luna, ma sempre color di bronzo, la seguiva coll'occhio passeggiando di sala in sala, e spesso gli sfuggiva, sui tre toni più alti della soddisfazione paterna, il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!
Quell'anno Dora venne a salutarmi il mattino dopo la festa, un po' abbattuta dalla lunga veglia, ma sorridente, spensierata. Andava incontro al carnovale, co' suoi divertimenti che amava tanto; e non si affliggeva punto di tornare in città.
Ne fui lungamente crucciato, tanto più che il canarino era partito con lei. E nelle giornate uggiose dell'inverno ripensai quel saluto senza rimpianto della signorina, lo confrontai coi saluti espansivi della bimba, ed appassii di dolore. Mi sentivo meno amato.
Con che ansietà aspettai la primavera! Con che gioia la sentii venire tepida e serena! Il succo mi corse più rapido e caldo negli steli; mi sentii ravvivato, e sperai.
Un mattino, quando non me l'aspettavo ancora, udii rotare la carrozza dei signori. Mi feci investire dal primo soffio d'aria che passò per voltarmi da quella parte ed essere il primo a vedere la mia salvatrice.
Stava seduta in fondo alla carrozza. Era pallida e mesta.
Il mio primo sguardo fu per lei; il secondo per cercare il mio piccolo rivale biondo. Ma né presso la signorina, né dietro colla cameriera, mi riuscì di vedere la gabbia. Il canarino non c'era.
— Forse è morto pensai. E nella mia semplicità di fiore compiansi sinceramente il mio rivale.
Ma, nello scendere di carrozza, la vecchia zia di Dora, che faceva raccogliere dalla cameriera una catasta di scialli, mantelli, sciarpe, veli, borse ed ombrelli, si volse alla nipote, e le disse:
— E il tuo canarino, Dora?
— Ah! esclamò Dora con un atto di sorpresa incresciosa; ma fu passeggera. Riprese subito con indifferenza:
— L'ho dimenticato!
Flora e Cerere! Aveva dimenticato il canarino! Ma a che cosa pensava dunque?
Mi passò accanto senza guardarmi ed entrò in casa. Più tardi però uscì, e venne a vedermi, e mi accarezzò. Ma erano carezze distratte. Il suo cuore non era più là. Le olezzai contro tutto il mio profumo per consolarla. Ella lo accolse colla stessa indifferenza con cui s'era ricordata del canarino.
Passò un mese senza che udissi la sua voce intonare una canzone. Non la vidi mai sorridere. Passeggiava lenta, solitaria, silenziosa, e spesso aveva gli occhi rossi e gonfiati.
Piangeva? E perchè? Avrei voluto saperlo, ed avrei dato fin l'ultimo atomo d'essenza che poteva esalare dalla mia corolla per risparmiarle una pena.
Anche il signor Botanico avrebbe voluto saperlo, ed avrebbe dato fin il suo quarto di luna per risparmiarle una pena. Ma non riusciva neppur lui a capirne nulla e gemeva tristamente in tuono di dolore il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!
Un giorno erano tutti seduti dinanzi a me sotto la gradinata della sala da pranzo. Tutti non erano molti. Il signor Botanico, la vecchia zia e Dora.
Parlavano d'una festa da dare in villa, come l'anno precedente.
Dora aveva un taccuino sulle ginocchia, e scriveva colla matita l'elenco delle persone da invitare. La zia le dettava una filza sterminata di nomi da signora, che Dora scriveva con indifferenza. Finita quella litania femminile, cominciò un'altra litania più lunga di nomi maschili, che la signora continuava a dettare, come le si affacciavano alla memoria.
Si affacciavano prima i marchesi, i baroni, i conti, poi i cavalieri, gli avvocati, gli ingegneri, ed i signori Tali.
Dora scriveva sempre senza dare il menomo segno di approvazione o di biasimo. Giunta in fine dell'elenco, la zia conchiuse per ultimo:
— E Franco.
— Franco? disse Dora facendosi rossa come una fragola.
— Sicuro, Franco. Vorresti escludere dagli invitati mio cugino?
Dora non fece altri commenti. Scrisse, poi ripeté:
— Capitano Franco Trestelle.
La signora non aveva più nomi da aggiungere. Si alzarono per andare a scrivere gli indirizzi delle circolari.
Per quella sera Dora non uscì più in giardino, ed io rimasi solo a pensare cosa, o chi, o come potesse essere quel Franco, al cui nome soltanto Dora si scuoteva dalla sua apatia, e si coloriva come una fragola.
Venne il giorno della festa. Dora era troppo occupata per pensare a me. La vidi tutto il pomeriggio andare e venire in abito di percalle azzurro, ed incontrare ed accogliere le sue ospiti. Era gentile con tutti. Ma non sorrideva, non si animava. Una cura penosa doveva starle nel cuore.
Sull'imbrunire cominciarono a giungere i landeaux ed i breacks senza signore, tutti carichi di giovani eleganti, coi lunghi pastrani di lustrino, che scendevano fin sulle scarpe per coprire le abbigliature da ballo. La vecchia zia ed il signor Botanico li accoglievano salutandoli dalla gradinata del salotto; ma Dora non c'era più.
— È intenta alla sua abbigliatura di gala, pensai: e mi rassegnai a non vederla; ma il tempo mi parve lungo.
Verso le due di notte, quando la musica era più animata, e le coppie si movevano più allegramente nelle sale, vidi un'ombra solitaria e bianca [169]scendere la gradinata, ed avviarsi con rapidità convulsa verso di me.
Era Dora con un bell'abito di seta color di zolfo; aveva la coda lunga come una cometa, ed era ornato da sciarpe di velo reseda, sostenute con mazzi di rose d'un bel carmino. A breve distanza, ed a luce di luna quell'abbigliatura chiara pareva bianca.
Il volto pallido della signorina, i suoi occhi gonfi si accordavano male coll'aria di festa della sua casa e della sua abbigliatura.
Si gettò a sedere sul mio vaso, mi appoggiò la fronte al tronco, e rimase a lungo cosí, a capo chino, come se contemplasse la terra che mi circondava. Ma le cadevano dagli occhi grosse gocce cristalline, che non erano pioggia né rugiada. Avevano un sapore acre. Erano lacrime.
Io le effusi intorno tutto il mio olezzo, la avvolsi in un'atmosfera di profumo, come si ravvolgono le reliquie adorate in nubi d'incenso. Ed il suo cuore, commosso da quella espansione, si aperse ad una confidenza intima, e sospirò:
— Se potessi non amarlo più!
Non amare, più chi? Il Canarino? Ma se l'aveva dimenticato! E poi perchè non amarlo più? Erano sempre andati d'accordo... No. Non poteva essere il canarino. Ma chi dunque? Io no di certo. Non le avevo dato alcun motivo per desiderare di non amarmi più.
Pensai un momento. Ricordai le persone che vedeva, quelle che nominava, le espressioni del suo volto, le sue parole, i suoi atti: e ad un tratto mi ricordai:
— Franco! Franco, che non voleva invitare. Franco per cui ha arrossito come una fragola. È per lui che piange. È lui che vorrebbe non amare.
Dunque lo amava. Maledetto Franco! Chi era? Non lo conoscevo punto; ma avrei voluto asfissiarlo.
Dora alzò gli occhi, ancora bagnati di pianto, e stette a guardare distrattamente la porta a cristalli della sala che era in faccia a noi.
La musica cessò. Poi due figure si affacciarono nel vuoto illuminato della porta. Un ufficiale ed una bella signora che si davano il braccio, ed accostavano le teste per parlare sommessamente; poi ridevano. Formavano un bel quadro oscuro su quel fondo chiaro di luce.
Dora li vide, e scoppiò in singhiozzi. Compresi che quell'ufficiale era il capitano Franco Trestelle. Era gelosa di quella signora, come io ero geloso del canarino. Povera Dora!
Le due ombre eleganti scesero lentamente la gradinata, e si avanzarono verso di noi sussurrandosi all'orecchio parole animate, e guardandosi negli occhi, e ridendo.
Dora si rannicchiò dietro a me, si nascose alla mia ombra.
Io invece, più ardito, rimasi immobile in faccia ai misteriosi passeggiatori. Guardai Franco. Era un bel giovine bruno, dalla persona alta e florida, dal portamento baldanzoso, dagli occhi neri, scintillanti, temerari e buoni.
Guardai la sua compagna. Il volto un po' dipinto, la persona tondeggiante, l'abito damascato, i pizzi di Bruxelles, i brillanti che parevano lucciole...
Per tutti i profumi del Serraglio! era una donna maritata.
Tutto il mio senso morale di fiore si rivoltò a quella scoperta. Lanciai dietro a Franco un tal buffo di profumo, ch'egli volse il capo dicendo:
— Che buon odore d'arancio!
E nel voltarsi vide un lembo di quella coda interminabile color di zolfo, ed indovinò che Dora lo vedeva e lo udiva.
Si fece serio, e tirò via in silenzio, malgrado il cinguettio ameno e civettuolo della bella signora.
Quando furono scomparsi tra la folla della sala, Dora si alzò anch'essa. Non sospettava punto d'essere stata scoperta. Mentre si avviava alla sala del ballo, io le mandai un olezzo che voleva dire: Prendimi con te.
Ella staccò un fiore dal mio stelo, e se lo pose nei capelli sussurrando: Non ho che te da amare, mio povero fiore. E rientrò. Franco le andò incontro per domandarle un ballo. Ella stese la mano e lo seguì in silenzio.
— Si diverte Dora? domandò il cugino, non abbastanza prossimo per darle del tu, non abbastanza lontano per chiamarla signorina.
— Sì, rispose Dora.
— Non l'avrei mai creduto; mi sembra malinconica.
— È il mio carattere.
— È pallida.
— Lo sono sempre.
— Da quando?
Dora non rispose. Franco osservò ancora:
— Ed ha anche freddo, mi pare.
Dora tacque sempre, ed abbassò il capo. Franco le domandò:
— Dove l'ha preso, quel fiore d'arancio?
— Non so... sulla mia toeletta.
— Ma che, Dora; si confonde. Mezz'ora fa non l'aveva.
— L'ho colto or ora.
— L'ha colto sulla toeletta? Ed abbassando la voce con una nota di petto, appassionata come un sospiro, continuò:
— Perchè stava sola, al freddo della notte, sul vaso d'arancio? Perchè ha gli occhi rossi, Dora? Dica; perchè!
E la guardava fissamente in volto collo sguardo scintillante, temerario e buono.
Dora non osò rispondere. Si fece rossa e continuò a tener gli occhi bassi in silenzio.
Era la loro volta di ballare, e Franco la strinse forte al seno, e nel lasciarla le premette lungamente la mano.
Fu l'ultimo ballo. Dora si ritirò nella sua camera, ma non dormì. Guardava il mio fiore, ripensava tutto il discorso che aveva fatto nascere, e mormorava:— Chissà?
Il domani tutti gli invitati partirono. Anche la bella signora dai pizzi, dai brillanti, dai colloqui civettuoli e segreti.
Franco solo, come parente della famiglia, rimase.
— Resti con noi, Franco? domandò la zia.
— Sì. Dora mi ha promesso una gemma del suo arancio. Mi fermo per staccarla, e per piantarla. Ed offerse il braccio alla cuginetta, e la trasse presso il mio vaso.
— Sa perchè non sono partito? le domandò colla sua bella voce di petto. Lo sai Dora?
A quell'ultima parola che le dava del tu, Dora ebbe un sussulto che la scosse tutta. Per un sentimento di decoro volle allontanarsi, ma non ebbe il coraggio. Si lasciò cadere come nella notte sul mio vaso, e si nascose il volto tra le mani.
Franco sedette egli pure, e le mormorò:
— Non sono partito perchè ti voglio bene; e perchè so che tu pure mi vuoi bene.
— Oh, Franco! esclamò Dora singhiozzando. Questa notte non era a me che volevi bene.
— Sì, Dora, sempre. Ebbi un momento di debolezza, ma volevo bene a te sola.
E le prese una mano, ed accarezzandola continuò:
— Ed il tuo fiore mi fece voltare col suo profumo; e mi fece vedere che eri qui sola, e che mi avevi veduto, e che piangevi. Ed allora non ho più pensato che a te; te lo giuro. Vuoi perdonarmi, Dora?
E mentre parlava sommesso, tirava dolcemente la manina, e faceva chinare verso di sè la personcina sottile e la bella testa bionda.
— E poi se ti accade ancora un momento di debolezza? disse Dora. Ne hai tanti quando ti trovi fra belle signore...
— Sta sempre con me, cara. Sii tutta mia, ed i momenti di debolezza li avrò soltanto per te. Lo vuoi Dora? Vuoi essere mia moglie? Di', vuoi?
Il braccio dell'ufficiale cingeva la personcina sottile, e la bella testa bionda sfiorava quasi la sua spalla, mentre egli la guardava negli occhi collo sguardo scintillante, temerario e buono.
Sì... Dora sussurrò che voleva, e gli diede uno dei miei fiori:
— È stato il mio fiore d'arancio che ci ha riuniti; quando andremo in chiesa a sposarci lo porterò nei capelli.
Le labbra dell'ufficiale avevano incontrate quelle di Dora, e, per quella combinazione improvvisata, il discorso rimase interrotto.
«Uhm! Uhm! Uhm! s'udì canticchiare quasi subito sul tono languido d'uno sbadiglio.
— Il babbo! disse Dora. Ed i due giovani balzarono in piedi, e corsero incontro al signor Botanico, e colla voce commossa e gli occhi lucenti, gli dissero tutto... o quasi.
— Benedetti ragazzi! borbottò il babbo. Ma quel giorno, malgrado la stanchezza della notte vegliata, si osservò che intonava con insolita giocondità il suo piccolo crescendo:
«Uhm! Uhm! Uhm!»
E fu a questo modo ch'io divenni un fiore nuziale.