Fare il possibile, di Claudio Bagnasco

Terrarossa porta in libreria Fare il possibile, di Claudio Bagnasco. Un libro che raccoglie schegge di esistenza, che possono essere lette come una biografia scomposta o come fulminei racconti percorsi da un medesimo sguardo, a volte ironico e irriverente, a volte malinconico e commosso.

Cattedrale vi propone due frammenti del testo, per gentile concessione dell’editore.

20 agosto 2012

Oppure quella volta che è nata mia figlia e nello stesso istante la Sampdoria ha fatto gol in trasferta contro il Barcellona, d’accordo che al Barcellona mancavano diversi giocatori titolari tra cui Leo Messi ma il Barcellona al Camp Nou è sempre il Barcellona al Camp Nou.
Si è giocato il 20 agosto 2012 davanti a cinquantacinquemila spettatori e con quel gol segnato da Roberto Soriano al secondo minuto, cioè alle 22:02, la Sampdoria ha vinto il Trofeo Gamper, e a questo punto vanno dette due cose.
La prima è che da anni, con la storia del gol di Soriano, baro di un minuto, perché mia figlia è nata alle 22:03, ma la coincidenza è troppo bella per lasciarsi intimidire dalla realtà.
La seconda è che mentre mia figlia stava per nascere rimbalzavo dal letto di Simona a una sedia messa lì accanto, da cui mandavo messaggi agli amici per chiedere notizie della partita, e immagino cosa mi si potrebbe dire, mi si potrebbe dire che non si fa il padre così, anzi che non ci si prepara così alla paternità (perché in effetti padre non lo ero ancora), e invece per me è proprio l’unico modo.
Non l’unico modo di affrontare la paternità, intendo l’unico modo di affrontare ogni cosa grande che mi succede, e che per quanto grande possa essere non credo che convenga accoglierla con chissà quali celebrazioni, perché in un niente le cose finiscono oppure entrano in relazione e si ridimensionano, non ho mai capito come facciano alcuni, molti, a essere completamente soddisfatti o felici di qualcosa, e sono poi gli stessi che sorridono in tutte le fotografie, e sono anche gli stessi secondo cui il mondo intero dovrebbe ammirare e accudire i loro figli, io subito dopo che è nata la mia, di figlia, e ha posato una mano su un seno di Simona nascondendo il mignolo sotto indice, medio e anulare ho creduto che avesse un dito in meno, e mi ha quasi rasserenato la scoperta di qualcosa di storto in quell’attimo di gioia così, poi mia figlia ha mosso la mano e il mignolo è comparso e mi è andata bene ugualmente, l’attimo di gioia estrema era stato neutralizzato dal dubbio del mignolo mancante e adesso potevo pure iniziare a fare il padre, alternando le gioie e le fatiche di qualunque genitore, qualunque tranne quelli che sorridono sempre nelle fotografie, loro hanno figli che inanellano un successo dopo l’altro sino alla fine, quando avere successo diventa arduo per chiunque, come dimostrano i funerali, dove nelle fotografie nessuno sorride.

23 giugno 2005

Oppure quella volta che Gianni mi ha detto: «Ce l’ho in tasca», e io: «Ma sul serio?», e lui: «Sul serio. E mi devi aiutare», e io: «Cioè?», e lui: «Ho paura di fare dei casini». Era una sera di giugno.
Tra noi amici il patto è sempre stato chiaro, tutto tranne l’eroina, ma Gianni aveva questa attrazione per il buio, ogni tanto provava anche a istigarmi, e io: «No, Gianni, la roba no», sino al giorno in cui se l’è comprata e mi ha messo in trappola.
«Comunque mi faccio lo stesso, con te o senza di te», aveva aggiunto, e io: «Ragioni già da tossico», e lui: «Può darsi».
Dieci minuti dopo ero con Gianni nella sua fiat Panda, l’ho guardato prepararsi la pera, quando mi ha detto di tenergli il braccio io gli ho domandato: «Perché?», e lui: «Per piacere, dai», allora gli ho stretto meglio il laccio emostatico, lui ha tolto l’aria dalla siringa, io gli ho posato una mano appena sotto la spalla e l’altra appena sopra il polso e mi è venuto da piangere, ma se avessi pianto avrei rischiato di tremare e combinare un guaio, seconda trappola, perciò mi sono morso il labbro inferiore e mi sono sforzato di rimanere immobile mentre Gianni si bucava, e poco dopo, quando mi ha detto che era bellissimo, gli ho chiesto se potevo andarmene, e lui: «Abbi pazienza un attimo», e così mi sono sistemato meglio sul sedile del passeggero e ho guardato fuori, dove il viola pulsava nel blu, come se la notte che stava per scendere portasse con sé la promessa dell’indomani.

SULLO SCAFFALE: Una vita in cui non succede mai niente, di Mazen Maarouf

Come ogni primavera, da oggi Cattedrale inaugura una sezione all’interno della rubrica Racconti d’autore che intende riportare l’attenzione dei lettori su libri non proprio freschi di pubblicazione, riproponendo racconti di raccolte ormai sul mercato da qualche tempo. SULLO SCAFFALE è la sezione in cui troverete proposte non recenti, per permettere ai lettori di stare al passo con le numerose uscite e, soprattutto, per permettere ai libri di godere del loro tempo: lento, attento, riflettuto - lontano dalle dinamiche isteriche e istantanee del mercato.

Inauguriamo questa sezione con grande orgoglio, proponendovi il racconto Una vita in cui non succede mai niente contenuto nel libro di Mazen Maarouf, Come un giorno di sole in panchina, pubblicato da Sellerio, uscito nel novembre del 2024 e tradotto da Barbara Teresi.

Buone letture!

Una vita in cui non succede mai niente
di Mazen Maarouf

Durante la guerra, mio padre non era mai spaventato a meno che non ci fossimo noi nei paraggi. Quando era solo, non gli importava. La sua paura era che morissimo davanti a lui, e questo lo faceva pensare per tutto il tempo a noi, cosa che non voleva. L’ho sentito mentre lo diceva a mia madre, aveva aggiunto che credeva di essere una di quelle persone nate per sopravvivere mentre tutti gli altri intorno muoiono. Gli scontri si facevano più cruenti e lui alzava il volume della radio per nascondere il frastuono dei bombardamenti, e così non abbiamo mai dubitato, neppure per un istante, che avesse paura. Riusciva sempre a trovare una canzone che non avevamo sentito prima. Pop, rock, folk, jazz, classica… Sempre musica. Noi gli chiedevamo di spiegarci il significato della canzone e lui diceva che parlava di un tale che viveva una vita in cui non succede mai niente. Era la stessa canzone che avevamo sentito la volta prima. Per noi bambini era incredibile come mio padre riuscisse a imbattersi tutte le volte nella stessa canzone, ma con una melodia diversa. E pensavamo che la sua insistenza per farci scendere al rifugio fosse dovuta al fatto che lui, invece, stava andando a combattere con i miliziani. Con tutte le fazioni armate che pullulavano intorno a noi, non capivamo chi fossero gli «eroi» e chi i «malviventi», ma di sicuro mio padre era dalla parte degli «eroi». La verità, però, era l’esatto contrario. Non appena scendevamo al rifugio, mio padre si stendeva sul pavimento del salotto, rivestito da cinque pesanti coperte ignifughe che avevamo ricevuto dagli aiuti umanitari, tenendo accanto a sé il suo quaderno degli schizzi. Voleva diventare un disegnatore di fumetti. Tuttavia, la sua immaginazione non gli era affatto d’aiuto nello scrivere storie. Continuava a disegnare personaggi che non dicevano niente, come nei disegni dei piccoli. Erano per lo più immagini di uomini armati e di bambini. Senza testi. Sosteneva di non poter scrivere perché nella sua vita con noi non succedeva mai niente.
Un giorno, mentre i ragazzi parlavano del fatto che nessuno conosceva il volto dei miliziani che andavano in battaglia (non gli stessi che giravano per le strade), ho detto che mio padre andava a combattere quando noi scendevamo al rifugio. Uno di loro mi ha chiesto di descrivere la sua uniforme, così ho preso in prestito l’immagine di una divisa da miliziano che avevo visto disegnata sul suo quaderno. Giorni dopo, al ritorno da scuola, abbiamo saputo dai vicini che alcuni uomini armati avevano portato via mio padre da casa nostra, che stavano cercando un’uniforme militare – identica a quella che avevo descritto allo studente – e che mio padre aveva sorriso dicendo che finalmente nella sua vita sarebbe successo qualcosa. Ho detto ai miei compagni di scuola che mio padre era stato rapito dai miliziani, ma che gli eroi lo avrebbero salvato. E invece sono passate settimane, poi mesi e anni, ma di mio padre non c’era traccia.
In seguito, siamo stati costretti a lasciare il palazzo, insieme agli altri inquilini, perché eravamo profughi e non avevamo il diritto di rimanere lì dopo la fine della guerra. Mia madre ha attaccato alla porta un foglio con l’indirizzo della nostra nuova casa, perché mio padre lo leggesse al suo ritorno. Il cartello è rimasto lì per mesi, finché il proprietario dell’edificio non lo ha strappato durante i lavori di ristrutturazione. Quando l’ha saputo, mia madre mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul giornale per spingere mio padre a tornare. Le ho detto che papà era scomparso. «Di sicuro è vivo», mi ha risposto, «ma quello scemo potrebbe pensare che siamo morti e non impegnarsi abbastanza per cercarci. Scrivi qualcosa, fagli sapere che la nostra non è una vita in cui non succede mai niente, come diceva sempre. Ma fa’ in modo che abbia ogni volta una forma diversa, tuo padre è un artista, e se vede che scriviamo sempre lo stesso annuncio penserà che non lo apprezziamo abbastanza. E che ha fatto bene a lasciarci».
E così ho fatto.
Quello è stato il mio primo tentativo di scrittura. Un semplice testo di tre o quattro righe che pubblicavo sul giornale ogni mese. Mia madre non ha mai letto quello che scrivevo né fatto domande in proposito. Lavorava e si limitava a pagare le spese di pubblicazione. Diceva che, se lo avesse letto, avrebbe provato dolore. Uno strano presentimento glielo faceva pensare. Ma era convinta che quello che scrivevo avrebbe dato i suoi frutti. E così, con quelle righe striminzite, ho continuato a parlare di un solo argomento, sempre lo stesso, ma in forme diverse. Esattamente come le canzoni che mio padre metteva alla radio durante i bombardamenti. Finché un giorno non è accaduto quello che mia madre si aspettava, e mio padre è tornato da noi.
Era in condizioni pietose, sul viso un misto di ansia, stanchezza e tristezza, ma neppure mezz’ora dopo il suo ritorno tutto questo si è trasformato in rabbia, e abbiamo litigato. Quel giorno mi ha detto che, se avessi deciso di diventare uno scrittore, avrei dovuto evitare la scrittura autobiografica, perché in quella non ero bravo; mi ha detto che se mai l’avessi impiegata, era sicuro che ne avrei fatto un uso improprio. Mi ha sfidato a scrivere di lui per dimostrare di avere ragione, così avremmo visto dove sarei andato a parare. Nonostante il suo tono di sfida, avevo la sensazione che in realtà mi stesse chiedendo qualcos’altro. Aiuto. Ma io non ho fatto nulla. Ho persino smesso di scrivere. Adesso, dopo tutti questi anni, seguire me stesso nel passato è come seguire un’ombra che in qualunque momento potrebbe assumere le sembianze di qualcun altro.
Per questo, di solito finisco per parlare di altre persone che avrei voluto essere. Mio padre, naturalmente, non è una di queste. Eppure, è più di ogni altro la persona di cui avrei voglia di scrivere, consapevole del fatto che non riuscire a catturare la sua personalità mi permette di apparire come se stessi davvero facendo un cattivo uso della scrittura, come aveva detto lui; quindi scrivo di qualcun altro. Qualcuno che mio padre avrebbe voluto essere.
Se vi state chiedendo cosa pubblicassi sul giornale, sperando di attirare l’attenzione di mio padre in quelle poche righe e senza spendere troppo, ebbene si trattava di necrologi nella pagina degli annunci mortuari. Ogni mese pubblicavo il necrologio per la morte di uno dei miei tre fratelli. All’inizio loro se ne erano avuti a male, ma poi avevamo preso a riderci su. «Quando scriverai un necrologio a tuo nome?», scherzavano dandomi dell’ossessivo. Secondo loro è una qualità utile se voglio diventare uno scrittore.
Mio padre non ha mai più disegnato fumetti. E oggi ascolta musica molto di rado. È anche convinto che io scriva solo per ricordare il periodo in cui ci ha abbandonati. Ma ogni volta che stiamo per metterci a litigare, io apro un’app con una playlist sul cellulare e alzo il volume, e allora lui si avvicina e mi dice: «Hai paura, eh? Paura. Dillo! Dillo!».

Le case editrici che desiderano aderire a SULLO SCAFFALE, possono scrivere a: rivistacattedrale@gmail.com

Un caso imprevisto, di Federico De Roberto

Un caso imprevisto
di Federico De Roberto
contenuto in Documenti umani, 1888

Come le carrozze si fermarono dinanzi alla porticina della casa in costruzione, e ne cominciarono a discendere i padrini col fascio delle sciabole avvolte in un vecchio panno verdastro di tavolo da giuoco, la comitiva raccolta nel Caffè della Stazione, in fondo alla piazza lì dirimpetto, si agitò.
- Eccoli!... Eccoli lì!
- Ci sono tutti? - chiese il Monterani.
- Manca ancora il marchese. Quello lì non è il dottor Salandri?
- E l'altro dottore?
- Non si vede. Sono già le tre.
Tutti gli occhi erano rivolti da quella parte; il cameriere, col tovagliolo sotto il braccio, se ne stava fermo sull'uscio a curiosare.
- Ed il motivo di questo duello? - chiese l'avvocato Corsi. - Se ne sa nulla?
- È semplicissimo. Luzzi annoiava il marchese con le sue assiduità presso la moglie.
- Ed il marito non ha trovato di meglio che mandarlo a sfidare?
- A proposito, - interruppe il Monterani rivolgendosi a Baldassare Gargano, che non aveva ancora aperto bocca. - Tu non sei stato pregato dal marchese di rappresentarlo?
- Sì, ma non ho accettato.
- Hai delle ragioni speciali?
- Ho giurato, dopo l'ultima volta che presi parte ad una quistione d'onore, di non fare più il padrino a nessuno.
- Perchè?... Che cosa ti è successo?
- Una scena che non dimenticherò mai più.
- Qualcuno dei combattenti è rimasto sul terreno?
- Al contrario; il duello non avvenne.
- Oh, allora? - Racconta, racconta un poco! - insistettero tutti, ad una voce.
- Bisogna innanzi tutto sapere, - cominciò Baldassare Gargano, - i motivi pei quali si scendeva sul terreno. Fu una sera, a..., al Circolo dello Sport, dove mi ero recato per caso, per non sapere che cosa fare di me. Avevo sfogliato dei giornali, scambiata qualche parola con alcune conoscenze, ed ero passato nella sala dei bigliardi. Stavo per sedermi, attirato dall'interesse di una partita impegnata fra due delle più forti stecche, quando scorsi, appoggiato allo stipite di una porta, quasi nascosto dalla tendina, il conte di Bauern; sapete, il figlio del ministro di Sassonia?.... In altre circostanze, quell'incontro non mi avrebbe fatto nè caldo nè freddo; ma il conte era stato di fresco colpito da una grande sciagura: la morte della sua giovane moglie adorata e pianta amarissimamente. Il triste avvenimento, che aveva commosso tutti coloro dai quali la contessa era stata conosciuta, non era molto recente, datava forse da quattro o cinque mesi; nondimeno, era quella la prima volta che lo sconsolato marito riappariva in pubblico. Questo fatto stesso vi potrà dare un'idea dell'intensità di un dolore le cui traccie, appena io ebbi scorto il conte, potei leggere sulla sua figura disfatta, nella magrezza e nel pallore del viso che l'abito nero contribuiva a mettere in ispicco, nello smarrimento degli sguardi nuotanti come in un vapore di lacrime. Il lutto che aveva nelle vesti, era anche nell'anima - di quanti vedovi credete voi che si possa dire altrettanto? Egli è che la contessa di Bauern, la gentile creatura così rapidamente sparita, riuniva tutte le condizioni per rendere felice un uomo - se la felicità è possibile. Bellezza, grazia, cultura, nobiltà di nascita e di sentimenti, austerità di costumi; ella aveva tutto; ed io non so se un nuovo Pigmalione, foggiandosi da sè un essere destinato a dividere la propria vita, avrebbe potuto farlo più perfetto. Per ogni dove, il conte di Bauern era guardato con un sentimento di invidia, che la possessione di un tale tesoro destava, ma che - pur troppo! - doveva presto mutarsi in pietà, quando il rapido estinguersi di quell'esistenza venne in certa guisa a dimostrare come essa non fosse fatta per questa terra....
- Ecco, ecco il marchese! - interruppe il Monterani. S'intese infatti il rotolare di un legno che venne anch'esso a fermarsi dinanzi alla casa in costruzione. Erano tre le carrozze stazionanti ora lì vicino, circondate da alcuni curiosi che domandavano notizie ai cocchieri.
- Dicevo dunque - riprese il raccontatore - che vedendo per la prima volta al Circolo il vedovo conte, non potei esimermi da un movimento di curiosità. Senza essere molto intimo con lui, lo conoscevo abbastanza. Al tempo della sua disgrazia, ero andato a lasciargli una carta - formalità che ha il grande vantaggio, come tutte le formalità, di dispensarvi da ogni altra cura; però, vedendolo al Circolo, notando la sua tristezza, la curiosa espressione dei suoi occhi nei quali si leggeva la ricerca della distrazione in lotta col bisogno di concentrarsi nel proprio dolore, credetti conveniente di avvicinarlo.
Quando gli fui accanto, mi pentii della mia iniziativa. Il conte di Bauern, presente col corpo in quella sala di bigliardo rischiarata dalle sei lampade dai grandi riflettori, ne era lontano con lo spirito - infinitamente lontano. Dove vagava esso? che cosa cercava? quale visione seguiva? Non lo so; so questo: che ebbi appena l'agio di stringergli la mano, di balbettare non ricordo più quali frasi di convenienza, e passai in una sala vicina.
«Quando il diavolo ci mette la coda....
- Un'altra carrozza!... Il medico del Luzzi....
- Silenzio! - ingiunse l'avvocato, che l'interesse aveva già preso.
- Quando il diavolo ci mette la coda?
- Nulla può impedire il precipitare delle catastrofi. Giusto quella sera, un'indisposizione della Nevosky aveva fatto sospendere lo spettacolo, e un tempo orribile aveva reso problematico per molta gente l'impiego della serata.
«A poco a poco, una comitiva rumorosa si formò nel Circolo, alla testa della quale era Rodolfo Vialli, un capo scarico, un essere leggiero più della cenere di questa sigaretta. Si chiacchierò, dapprincipio; si commentò la malattia della cantante, si mise non so che scommessa, e a un tratto il Vialli, pigliandosi sotto il braccio l'Ansaldi, un dilettante di musica suo competitore, lo trascinò al bigliardo. La curiosità mi spinse di nuovo da quella parte; il giuoco cominciò, fra il sopravvenire continuo di nuova gente....
All'orologio del caffè scoccò la mezz'ora.
- Debbono già essere in guardia - disse qualcuno.
- State a sentire! - ingiunse di nuovo l'avvocato.
- Se voi volete - riprese il narratore - che io vi ridica in qual modo da una questione d'arte il discorso sdrucciolasse a poco a poco nella maldicenza, io non potrei contentare la vostra curiosità. Sapete come avviene: una parola tira l'altra: si sa donde si parte, non si sa dove si va a parare. Si parlava di uno scandalo scoppiato in una famiglia dell'alta società, uno dei soliti drammi domestici: il marito che scopre la colpa, la moglie che deserta la casa coniugale per seguire l'amante.
«Povero Geppino, - esclamava il Vialli, parlando di quest'ultimo - che tegola sul capo!
Queste cose, da principio, sembrano il paradiso, come all'amante di Saffo pareva il paradiso salir le scale di casa portando l'amica sulle braccia. Arrivato in cima, stava per morire dalla stanchezza!...» Non so più chi osservò: «Quando si affronta una situazione, si ha il dovere di subirne le conseguenze.» - «Non dico il contrario - rispose lentamente il Vialli, studiando se gli convenisse di tirare la sua palla sulla bianca o sulla rossa. - Non dico di no.... ma l'adempimento di un dovere non è sempre una cosa allegra.... - E, mancata la carambola: Il malanno al dovere!... La fortuna è di poter rompere a tempo!...» L'Ansaldi, anche lui, sbagliò il suo colpo. «Alla rivincita!... - disse il Vialli, ma irritato da un nuovo sbaglio: - Le liberazioni, - esclamò, - come quella della Bauern non capitano tutti i giorni!...»
«Amici miei, io non so ripetervi quel che provassi in quell'istante. Che cosa voleva dire il Vialli? O avevo frainteso?... Automaticamente, appena egli ebbe pronunziato quel nome, gli occhi mi andarono alla portiera dove avevo visto il conte. Egli era ancora lì... scorsi soltanto i suoi occhi, gli occhi lucenti come fossero di fosforo. Si erano quegli altri accorti come me della sua presenza? Perchè nessuno si alzò? perchè io stesso non mi alzai di scatto gridando al malaccorto: Taci, sciagurato: non vedi tu chi ti ascolta?... Vi sono dei momenti nei quali una tragica fatalità sembra pesare su di noi; nei quali, con la nitida percezione di quel che ci avviene dintorno, noi abbiamo, come negl'incubi, l'assoluta impossibilità di far nulla per arrestare il corso delle cose.... Io vi dico tutto questo ora; in quel momento non vi fu il tempo di pensarne una minima parte. «Augusto Secchi - continuò il Vialli, sbattendo per terra la sua stecca - è stato ben fortunato di liberarsene....
«Oh, che scena; che terribile scena! S'intese sul tavolato il rumore di un passo, che fece voltare tutta quella piccola folla, e il conte di Bauern, come un'apparizione fantastica, si avanzò verso il Vialli. Nessuno si mosse; io non avevo fiato da respirare. Quando il conte fu vicino al giuocatore, disse con voce d'una freddezza stridente - lasciate pure correre l'espressione - che mi risuona ancora all'orecchio: «Mentitore vigliacco!...» Come allo scatto di una molla, il Vialli alzò la stecca; allora il conte, in un lampo, glie la strappò di mano e mandando indietro l'uomo con un urto nel petto, ruppe sul ginocchio il forte bastone come fosse un fuscellino.... Cieco d'ira, il Vialli fece per slanciarsi su lui, ma era troppo; il terrore da cui eravamo stati ammaliati svanì; dieci, venti persone si slanciarono in mezzo, io fra questi; e, trovatomi vicino al conte, lo trascinai in un'altra stanza....
«Egli era stato ammirabile di coraggio e di sangue freddo; ancora non un tremito tradiva l'emozione che certo aveva dovuto essere formidabile. Tutti, concordemente, condannavano il Vialli. Calunniare una donna su cui nessuno aveva mai avuto nulla da dire, infamare la memoria di una morta senza nessuna possibile scusa, e ciò dinanzi a tanta gente, dinanzi al marito, era una leggerezza che rasentava la colpa. «So che ho torto - esclamava egli nell'altra stanza - ma non sono disposto a soffrire in pace gl'insulti.» Il fatto è che, non potendo trovare padrini fra le persone presenti, fu costretto ad andarli a cercar fuori. Il conte, da parte sua, mi pregò con una correttezza impeccabile che in quel momento era ancor più notevole, di assisterlo in questa circostanza, indicandomi il barone Narconi come testimonio. «Accettino ogni patto; desidero solo che si faccia presto. Se è possibile, domani stesso.» E andò via. Erano trascorsi pochi minuti, che tornò l'altro coi suoi secondi. Avrei voluto stabilire ogni cosa in poche parole; facevo i miei conti senza il signor Mendosa, il padrino del Vialli. Un avvocato in tribunale, un diplomatico incaricato di negoziare un trattato, non è più minuzioso, più meticoloso, più circospetto, più attaccato alle forme di quel che egli era. Io non avevo una gran pratica di queste cose; ma parevami che vi fosse poco da discutere. La qualità delle offese, il modo con cui erano state fatte, quale fosse la più grave, a chi toccasse la scelta delle condizioni, le condizioni stesse: tutto fu soggetto di lunghi dibattimenti. Prevedevo che, con quella specie di contradditore, avrei avuto molto da fare sul terreno. Come Dio volle, si stabilì che lo scontro, alla spada, a discrezione dei dottori, sarebbe avvenuto il domani alle otto del mattino.
«Lasciai, la sera stessa, un biglietto dal portiere del conte, e il domani, alle sette, insieme col barone Narconi, passai da casa sua. Fummo introdotti in una sala di studio e il domestico passò ad annunziarci. Aspettammo, aspettammo: non veniva nessuno. Ci guardavamo l'un l'altro, non sapendo che cosa pensare. Ad un orologio vicino suonarono le sette e un quarto. E non veniva nessuno. È difficile farsi un'idea dell'imbarazzo in cui lo stranissimo caso ci metteva. Bisognava prendere una risoluzione mi avvicinai ad un bottone di campanello elettrico e suonai. Lo stesso domestico riapparve. «Avete annunziata la nostra visita?» - «Immediatamente.» - «Il signor conte è levato?» - «Signor sì.» - «Allora, ripassate a dirgli che non c'è tempo da perdere....» - Dopo qualche minuto, la porta si schiuse, ed il conte apparve. Si avanzò, lentamente, e con un tono di cerimonia, come dinanzi a degli sconosciuti, ci disse: «In che cosa posso servirli?...» Non mi perdo in commenti da darvi un'idea della nostra stupefazione, - più che stupefazione, cominciava ad essere sdegno. «Ma, scusi, iersera io le scrissi che lo scontro sarebbe avvenuto stamani alle 8!» - «Ah!» fece egli, e pareva cascasse dalle nuvole! Aveva ancora gli stessi abiti della sera, era evidente che tutta la notte non si era svestito. «Tutto è pronto - disse il barone - e sono già le sette e mezzo....» Il conte si passò una mano sulla fronte. «Dunque, bisogna andare?...»
«Imaginatevi come rimanessi! - In carrozza, nessuno disse una parola. Il conte guardava lo sfilare del paesaggio, e la sua destra passata nello sparato dell'abito aveva un piccolo tremito. Io cominciavo a sentire una viva inquietudine; quello che succedeva, mi faceva temere di peggio quando saremmo stati sul terreno, con l'aggravante che avremmo avuto da fare col terribile signor Mendosa. Il conte aveva paura di battersi: questa era la persuasione che, malgrado la scena drammatica a cui ci aveva fatto assistere la sera precedente, si faceva nel mio spirito. Il ridicolo della cosa ricadeva su di noi, ed io ero disposto a tutto, fuorchè a veder ridere il Mendosa alle mie spalle.
«Si arrivò. Era una villa signorile, nella cui corte, al riparo da ogni sguardo curioso, il combattimento doveva seguire. Il combattimento! Ma il conte di Bauern pareva avesse tutte le voglie, fuorchè quella di battersi. Guardava per aria, si pigliava la fronte tra le mani, strappava delle foglie dalle piante - e tremava! È vero che la mattinata era rigida. Malgrado la perdita di tempo, eravamo arrivati i primi. S'intese una carrozza fermarsi: era il nostro dottore. Alcuni istanti dopo, arrivarono tutti gli altri. Salutati quei signori, mi voltai a cercare del conte. Il conte era scomparso! Aveva oltrepassata tutta la corte ed era andato ad appoggiarsi ad un angolo dell'inferriata del giardino. Mi avvicinai a lui e lo ricondussi sul terreno, dicendogli con una concitazione che mi pareva troppo giustificata: «Spero che il signor conte non perderà la sua presenza di spirito!» Quegli altri si avanzavano anch'essi. Allora, come il conte di Bauern scorse il Vialli, scoppiò in una risata....
- Il duello è finito! - esclamò ad un tratto il Monterani. - Ecco Villardi che chiama la carrozza....
L'interruttore si alzò, per andare a chieder notizie, fra le proteste degli altri ai quali l'interesse del racconto aveva fatto dimenticare la curiosità che li aveva là radunati.
- Dicevi dunque?.
- Che il conte scoppiò ad un tratto, alla vista del Vialli, in una risata. Dire l'impressione che quello scroscio di risa fece lì in mezzo, non è possibile; lo scoppio improvviso di un tuono a ciel sereno non avrebbe prodotto l'eguale. Ma la luce come di un lampo si fece ad un tratto nel mio spirito: mi slanciai verso il conte.... Il nostro dottore mi aveva prevenuto. Fermandomi con un gesto della mano, e mostrando quella scomposta figura, le cui palpebre tratto tratto battevano, dalla cui bocca uscivano mezze parole, egli disse vivacemente «Questo duello è impossibile; il signore non gode delle sue facoltà mentali....» E di subito, quasi a conferma di quella sentenza, il conte si strappò violentemente il vestito, frugandosi con una mano nel petto. Era impazzito....
- Oh! dalla paura?... - interruppe l'avvocato.
- No, - rispose Baldassare Gargano.
- E allora?
- Voi volete sapere perchè il conte di Bauern era impazzito?... Perchè l'asserzione del Vialli nella sala dei biliardi era vera; perchè Augusto Secchi era stato proprio l'amante della contessa....
- Che!... - esclamarono tutti.
- Pare incredibile, non è vero? Eppure era stato così!... Rientrando in casa, quella sera, con le terribili parole ancora risuonanti all'orecchio, che cosa aveva provato il conte di Bauern? Quale sospetto rodente gli era entrato nel cervello? Per quali gradi insensibili o per quale rapido passaggio, l'indignazione prodotta dall'infame calunnia aveva dato luogo al dubbio tormentatore? Quali prove, quali indizii, quali ricordi sorsero nella sua mente e presero corpo? Nessuno potrebbe ridirlo. Non si possono accertare che i fatti; ed il fatto accertato è questo: che, dopo la morte della moglie, il conte passò, quella sera per la prima volta, nella stanza un tempo occupata dalla defunta, e lasciata religiosamente nello stato in cui si trovava quando era abitata. Nessuno seguì il conte in quella stanza; ma, al nostro arrivo, il domestico aveva trovato lì il suo padrone. In quella stanza, nascosta dentro un piccolo armadio la cui chiave stava ordinariamente nel nécessaire da lavoro della contessa, il conte trovò la corrispondenza di Augusto con la propria moglie.... Centinaia di lettere, le prove palpabili - le più eloquenti, le più irrefutabili! - di ciò che aveva asserito il Vialli! Quella relazione, troncata dalla morte, durava da più di due anni; e nessuno - o ben pochi - l'avevano sospettata, e il conte aveva votato tutto sè stesso alla memoria della moglie idolatrata!... Che cosa accadde dentro di lui alla improvvisa rivelazione? Dovette essere un crollo spaventevole, una rovina terribile. Un ciclone che si abbatte sopra la vostra casa, su tutto il vostro paese; un disastro che vi porta via tutta la vostra fortuna e non vi lascia altro che gli occhi per piangere; la morte d'una persona cara che isterilisce la sorgente delle lacrime, dànno appena un'idea della miseria in cui il conte fu repentinamente piombato. L'amor suo per la contessa era tutta la sua vita; scomparsa la creatura reale, restava almeno nel suo cuore l'immateriale figura, la pura idea; ed in quella religione d'oltre tomba l'uomo trovava ancora una ragione - l'unica ragione di vivere. Ora avveniva questa cosa orribile: la profanazione d'un ricordo, la morte d'una fede!... Ad un tratto, quella imagine ideale portata gelosamente nell'anima, adorata, divinizzata, invocata a tutti gl'istanti come il supremo dei beni in tanta amarezza ed in tanta solitudine, ad un tratto si dissolveva in putredine.... Che cosa posso io dirvi ancora? Come poter seguire in tutte le sue fasi il processo svoltosi nel secreto della coscienza di quell'uomo? Io ve ne ho detto il risultato, lo smarrimento della ragione, preparato da lunghe ore di un'agonia spirituale, affrettato dalla vista di colui che per il primo gli aveva rivelata l'amara verità....
- Il marchese ha una spalla fracassata, - venne in quel momento a riferire il Monterani.
- Ecco il giudizio di Dio! - esclamò l'avvocato Corsi.
- Non conosco cosa più buffa, - riprese Baldassare Gargano. - Ed il comico di quella tragica scena, sapete voi qual era? Che il Mendosa, alla dichiarazione del dottore, esclamò guardando in giro: «È un caso imprevisto!...» Io non dimenticherò mai l'aria di meraviglia, di sbalordimento, di curiosità, di indignazione, di incredulità, che alla folle risata ed alle parole del medico gli si era dipinta sul viso: «È un caso imprevisto!...»
«Una fede perduta, una ragione smarrita, un'esistenza spezzata, il terribile dramma scoppiato in una coscienza, si riducevano per quel signore ad un caso imprevisto nella giurisprudenza cavalleresca. Evidentemente, il codice aveva una lacuna. Perchè non si dice in un articolo che cosa bisogna fare se uno dei due avversari perde la ragione sul terreno? E quali conseguenze diverse derivano, secondo che l'impazzito è l'offeso o l'offensore? Come va fatto il verbale? E come accertare la pazzia?...»
Vi era un grande umorismo nella serietà con cui Baldassare Gargano diceva quelle cose.
- Avete ragione! - esclamò l'avvocato. - La verità, - aggiunse poi, a modo di conclusione, - è che siamo dei matti un po' tutti.

Un toro davvero bello, di Laura Ortiz Gómez

Gran Vìa porta in libreria Creature della foresta, di Laura Ortiz Gómez, con la traduzione di Monica R. Bedana. Nella cartografia di un territorio, quello della Colombia, attraversato da ciclica violenza e ferite collettive, sottoposto al paramilitarismo e al conflitto armato, i personaggi dei nove racconti di Laura Ortiz Gómez mantengono forza e passione intatte, spinti da pulsioni vitali quali l’immaginazione e il desiderio. Con una scrittura che genera immagini e personaggi di una bellezza crepuscolare capaci di esprimere il dolore della terra, questo è un libro che celebra ciò che rimane, e persiste, dopo il passaggio della violenza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Un toro davvero bello
di

Laura Ortiz Gómez

L’ultima mucca al pascolo. Un orizzonte di quiete paranormale.
Jeremías conosce ogni colore dei sassi, ogni scabrezza della terra, ogni grido d’uccello. È in grado di intuire l’esatta portata di un fiume. I suoi piedi conoscono a memoria ognuno dei venticinque sentieri che conducono alle nevi perenni. Alle volte, quando rimane fermo, inizia a sentire che le braccia gli si coprono di peli e il cuore gli diventa verde e liquido. Fermo sotto il suo poncho è impercettibile.
Il mutismo di Jeremías è una pianta rampicante. Non vedi nulla, non senti nulla, non sai nulla, non ti immischiare in nulla. Il silenzio di una mula. La memoria della guerra in alta montagna. Un voto monastico. Jeremías, colui che nulla sa, che nulla vede.
Sta arando. Il beccastrino sbatte contro qualcosa di duro, produce un suono sordo. Jeremías scava e trova una cassa di legno, si direbbe una bara, un feretro per un corpo piccolo. Forse è una guaca, pensa, uno di quei famosi bottini di guerra sotterrati dagli eserciti. La tira fuori dopo una lotta con le radici e i cocci d’argilla. Il piccolo feretro è sigillato con dei chiodi. Jeremías lo porta in casa. Lo apre ansioso: contiene un sacchetto di plastica annodato e ingiallito. Nel sacchetto non c’è denaro.
Dentro ci sono due fotografie e una lettera. Nella prima si vede una donna rotondetta, in costume. Sullo sfondo c’è il mare. Sorride un po’ timida e un po’ leziosa. È sua madre. Jeremías sente un aculeo caldo, lungo e affilato trapassargli il petto. Una capsula di tristezza e di odio gli scoppia nello stomaco. Ha sempre pensato a sua madre nella terra di casa. Sola, contadina, rassegnata. Perché non gli ha mai detto di essere stata al mare? Quel costume fucsia, attillato, ha le forme precise del tradimento. Tutta la sua vita è stata modellata sulla menzogna di sua madre. Gli aveva fatto credere nello stoicismo, nel mutismo, nella montagna. E invece eccola lì, serena, estroversa, marittima. Credo di odiarti, sussurra Jeremías, mentre prende l’altra foto. Gli tremano le mani.
Nella seconda foto c’è sua madre con un tipo in pantaloni corti che potrebbe essere lui, ma non è lui. I suoi occhi dubitano. Per un attimo gli sfugge la capacità di riconoscere. Io e non io. Chi cazzo è questo qua? La risposta è un crollo: è suo padre. Ecco la faccia del grande segreto. Da piccolo non aveva mai chiesto di suo padre. Ha capito molto presto che il dolore di una madre non si tocca, non ci si fruga dentro. La ferita punzecchiata si infetta.
Nauseato, si avvicina alla stufa. Accende il fuoco. Guarda verso le montagne, ma non vede nulla. Guarda anche dentro, ma niente. Gli torna in mente Lucrecia. Gli unici momenti di sesso con una donna che ha conosciuto in vita sua e che per Jeremías è come dire amore. Penetrarla affannato nella stalla. La vita gli scivolava via intera lungo quel tunnel sdruccioloso e inequivocabile. Ebbro per il suo amore segreto, era stato sul punto di lasciare la madre. Di abbandonare tutto quello stoicismo, ogni codice, ogni patto, e di svignarsela nella capitale. Ma il senso di colpa aveva avuto il sopravvento. La visione di sua madre santificata, incarnazione immacolata della rassegnazione. Dove sarà Lucrecia adesso? Sarà una domestica che abita nella cintura urbana di Bogotá. Jeremías singhiozza. Ulula. Si stende sul letto. Il suo isolamento militare gli sembra ridicolo. Ogni cosa.
Sogna sua madre da giovane con il costume fucsia. Lei apre la porta di casa. Entra un gufo enorme che vola verso il suo viso. Gli si attacca al volto come una maschera. Metà gufo, metà Jeremías che sta sognando.

Si sveglia con un dolore acuto nel petto. Estrae la lettera dalla busta. Prova a leggerla, ma non ci riesce. Gli fa male la testa, l’alfabeto gli balla davanti agli occhi, i sensi e i suoni si muovono. Spinto dalla furia, scende in paese a cercare la sua maestra. Quando la troverà, le dirà: Adesso sì che mi deve insegnare a leggere. Il paese è pieno di cartelloni con la faccia dell’ennesimo candidato alle elezioni, un grassone dallo sguardo truce. Posti di blocco dell’esercito ovunque. Gente muta quanto lui. Bussa alla porta di casa della sua maestra. Gli risponde l’eco. Si rende conto che sono passati molti anni; la sua maestra, seppure fosse ancora viva, di sicuro non abita più lì. E i vicini, la stessa cosa. E pure tutto il resto.
«Chi è?»
«Sono Jeremías e voglio che lei m’insegni a leggere».
Un lungo silenzio. Poi un grido: «Se ne vada».
Non c’è anima viva. Solo il vento e la terra che volano via. L’unico movimento umano si percepisce dall’altro lato dei posti di blocco. Figure che ogni tanto si muovono, tossiscono oppure fumano. Jeremías sente un’urgenza, simile a quella che prova prima di eiaculare, ma senza il piacere che l’accompagna. Maledice sua madre, che gli ha seppellito la vita dentro una cassetta. All’improvviso ricorda che dietro la chiesa c’era una biblioteca. Bussa anche lì e gli apre un uomo piccolissimo. Jeremías vince la vergogna e gli dice che non sa leggere e che vuole imparare. L’uomo non riesce a trattenere del tutto un sorriso, che potrebbe essere di tenerezza o di sarcasmo. In effetti contiene un po’ entrambe. Gli dà dei quadernetti infantili e istruzioni precise su come sintonizzare Radio Sutatenza, per iniziare le lezioni a distanza. Jeremías lo guarda fisso, come per fargli delle domande. L’uomo dice a bassa voce: «Sono le contraddizioni di questo schifo di guerra. Non rimane più niente di niente, ma caspita, facciamo lezione via radio, pensi un po’». Jeremías arrossisce, la faccia bollente, il sangue gli è affluito tutto lì. Sulla via di casa mormora «guerra». Come vibra, quella parola. Erano quindici anni che non la sentiva pronunciare.
Lascia da parte la mungitura e il lavoro nei campi. Mette tutto l’impegno a imparare a leggere e a scrivere. Accende la radio e si concentra sui quadernetti. È difficile dominare il polso. Gli mette tristezza quella sua mano di uomo quasi vecchio, rugosa, dalle nocche grosse, piena di calli, che percorre tremante le collinette della “emme”. “Emme” di mamma. Si sforza, la lingua gli spunta dalle labbra. A fine giornata ci riesce. In corsivo e tutto attaccato: lamiamammamiama. È una magia: Mamma. E la mamma si materializza, quasi in carne e ossa. Giovane, rotondetta e con il costume fucsia. Lì, dentro il rancho, mentre ride. Un sole arancio le illumina il viso e i denti le brillano. Jeremías pensa che scrivere serve a evocare fantasmi. A dare un’anima a ciò che si ama e a ciò che si odia. Le collinette della “emme” rappresentano la formula di uno scongiuro. La mia mamma mi ama. Come se potesse estrarre un succo di madre e impregnarne la carta. Mamma, piccoli caratteri uno accanto all’altro che hanno un profumo. E non si sente assurdo. La mia mamma mi ama e mi accarezza. Ma “carezza” non sa scriverlo.
Il giorno dopo, la “pi”. Un palo con la pancia. Lingua di fuori e polso. Quando già fa sera, la parola nascosta: Papà. Ed è lì, insieme a lui, dentro il rancho. Talmente nitido che Jeremías teme che apra la bocca e si metta a parlare. Lo osserva da vicino, vede ogni suo pelo muoversi al vento. Così vicino che riesce ad annusare l’odore di mare della sua barba. E quindi questo è il mio taita, il mio papà. Anche se taita ancora non lo sa scrivere. Di notte, come un adolescente insonne, Jeremías continua a scrivere. Prova a mettere insieme le due parole, adesso. Entusiasta, scrive mamma e poi, accanto, papà. E vede un bacio cosmico, labbra incandescenti che incendiano il rancho. Lo rallegra pensare che almeno è nato da qualcosa che somiglia all’amore. Da qualcosa di incandescente come toccare le tette di Lucrecia.
All’alba, senza aver dormito nemmeno un secondo, Jeremías si spinge oltre. Azzarda una frase radicale. La matita traballa, ma ce la fa. Il mio papà mi ama. Finisce di scrivere e non succede niente. A poco a poco, dal silenzio emerge il suono di una serie di spari. Ed eccolo lì, dentro il rancho, il suo papà con la mitragliatrice, la selva nelle pupille. La visione dura solamente un secondo. Poi basta. Un silenzio d’acciaio.

Dopo una settimana di scrittura febbrile, Jeremías capisce che gli ci vorrà almeno un anno per decifrare il contenuto della lettera. Non può rinviare il mistero per così tanto tempo. E allora escogita un piano. Andrà in paese, a Chita, tutti i giorni, ogni giorno con una parola, e chiederà a qualcuno di leggergliela. In breve tempo e tenendo a mente le parole saprà cosa c’è scritto nella lettera.
Inizia il suo pellegrinaggio quotidiano. Il fantasma analfabeta che mendica significati. A volte deve aspettare tutta la mattina prima che in piazza passi furtivamente qualcuno. Non tutti gli rispondono. Ma lui, paziente, implacabile, continua a costruire un testo.
La parola più emozionante fu la prima. Gliela lesse un signore anziano. Jeremías aveva tirato fuori un bigliettino discreto.
«Mi scusi, signore. Sa dirmi per cortesia cosa c’è scritto qui?»
«C’è scritto ‘Javier’». E in quel momento una fitta, un piccolo arresto cardiaco e lui che fa finta di nulla.
E torna a casa di corsa, coi pensieri in cerchi concentrici. Il mio papà mi ama. Il mio papà è Javier. Taita Javier.
Per Jeremías non esiste più niente eccetto la lettera e la missione. La mucca lo guarda fisso, con le mammelle infiammate. Passa le giornate a raccogliere parole e ad ascoltare Radio Sutatenza e a tenere in mano la matita per continuare a riempire i quadernetti di “emme” e di “pi”. E di mamma e papà. E anche a ricopiare la parola Javier. Copia e ricopia: taita Javier. Ma senza taita perché la “ti” ancora non sa farla. Dopo nove giorni intensi, pieni di dolore e di viaggi furtivi a Chita, Jeremías ha già la prima frase: Javier. Un due gennaio ti hanno ucciso i paramilitari. Nove giorni col fiato sospeso. Il settimo fu il peggiore, quando quella bambina pelle e ossa gli disse: Qui c’è scritto “ucciso”. Poi impallidì e corse via. Anche lui in quel momento sentì un proiettile. Poi nella mente, un’idea, una pugnalata decisa: Taita Javier è morto. E dopo, l’ira del nono giorno, quando il bottegaio gli disse: Qui c’è scritto “paramilitari”. E anche il bottegaio impallidì, prese il fucile e lo cacciò dal negozio.

È buio e Jeremías piange. Nessuno mai è stato così orfano. Ricorda il piccolo feretro in cui ha trovato le foto, e capisce che quello è il funerale riservato a suo padre. Il corpo gli arde e adesso gli sembra di nuovo vera la frase che scrive giorno e notte: la mia mamma mi ama, la mamma ama il papà. Decide di fare un regalo ai suoi genitori e s’immagina un bel toro. Bianco, imponente, uno zebù con la gobba doppia e due corna da agganciare molto in alto, sulla luna. Un toro figlio di nubi e acqua, che tracci solchi nella notte di quella sua terra solitaria.
Allora si getta sul quadernetto e cerca la “ti”. Riempie molte righe, fino a che non riesce a capirla. Un palo e un altro palo, a forma di croce. Un segno mistico, questo del toro. Sono le tre di notte quando lo decifra. E su un foglio bianco scrive a lettere grandi: Toro. E allora lo vede, un toro bianco davvero bello, che pascola sovrano tra la nebbia. È lì, mansueto. Un gran bel maschio della luna.
Un colpo secco sulla porta, sembra una bomba. E due spari. Jeremías vede il proprio corpo cadere sul tavolo. La faccia gli rimbalza sul foglio dove c’è scritto “toro”. Lungo la mandibola un rivolo di sangue nero. La mano non molla la matita.
Lo sorprende l’assenza dell’orrore. Fluttua in un tempo di sabbia sospesa, poi finalmente riesce a guardare in basso. Vede gli zoccoli dell’animale tra la rugiada. Ormai è quasi giorno. Sente i suoi muscoli robusti e riesce a scorgere il suo manto regale e bianco. Muggisce al sole e mette alla prova la gola profonda nel brontolio del suo stomaco. Solleva le corna e li vede: sono lì, fermi. La mamma con un vaporoso vestito a fiori e papà Javier in giacca e cravatta. Con gli abiti della domenica, della messa o della festa del paese. Jeremías abbassa il muso e sua madre glielo accarezza. Formichine da una mano bianca. Entrambi gli montano in groppa. Si addentrano in quella terra solitaria lungo uno dei venticinque sentieri che conducono alle nevi perenni.

Mal di testa, di Antonio Francesco Perozzi

Pidgin porta in libreria Tranquillità assoluta, di Antonio Francesco Perozzi che, con una capacità unica di rappresentare la marginalità e di integrare il grottesco nel quotidiano, dipinge personaggi vividi e immersi in realtà stranianti che riflettono al meglio il nostro mondo proprio nei dettagli che le differenziano.

Cattedrale vi propone un estratto di uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.

Pidgin porta in libreria Tranquillità assoluta, di Antonio Francesco Perozzi che, con una capacità unica di rappresentare la marginalità e di integrare il grottesco nel quotidiano, dipinge personaggi vividi e immersi in realtà stranianti che riflettono al meglio il nostro mondo proprio nei dettagli che le differenziano.

Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.


Mal di testa
di
Antonio Francesco Perozzi


Praticamente Coman aveva scoperto dove tenevano gli I-Phone. Me l’aveva detto una sera sul Cotral, col braccio sinistro appeso e il bicipite che oscillava per le buche della Tiburtina. Si copriva le labbra col dorso della mano e ricordo bene quanto fossero infuocate le sue lucciole, quella notte: la fronte arancione, la luce che batteva sulla scritta fermata prenotata.
Forse gli era arrivata voce di quando mi ero infilato una micro-sd da 256 gb sotto la lingua: una storia così era impossibile che non si diffondesse. Ogni tanto mi capitava ancora di incrociare qualcuno, in magazzino, che mi diceva «Grande» o «Come cazzo t’è venuto in mente?» Ma quella di Coman sembrava roba seria, e a parte la sd io mi ero limitato a qualche Blu-Ray nelle mutande, o a pacchi di Fonzies aperti tra uno scan e l’altro.
Gli dissi di sì, comunque. Ci beccammo la prima volta da Cesare, a Guidonia, nella saletta sul retro. Coman beveva Peroni da 66 come acqua e quando lo raggiunsi, alle sette, se n’era già sparate due. Non avevo mai avuto a che fare chissà quanto con lui, capitavamo spesso in reparti diversi. Mi spiegò che era dentro da tre anni. Non facevo fatica a capire come uno della sua stazza fosse in grado più di altri di sopportare certi ritmi. Era dentro da tre anni e qualcosa ogni tanto se lo portava a casa: dischi, cavetti, roba così. Ma si era rotto il cazzo – diceva, usando una sola zeta – voleva di più.
Il coglione rideva mentre mimava l’azione di infilarsi cose sotto la lingua, batteva il palmo sul tavolino di metallo e spingeva il collo della Peroni nell’esofago. Con la birra che calava, io vedevo le sue lucciole agitarsi e micro-masse di luce picchiettargli la fronte dall’interno. Pure Cesare aveva un bel colorito arancione quel giorno. Lasciò la mia Peroni sul tavolo con quattro ditate sul vetro.
«Spiegami ’sta cosa».
Coman non aveva un piano vero e proprio, di fatto tutto il suo entusiasmo si basava sulla scoperta del “posto degli I-Phone”. Si fermò dopo avermi fatto capire dov’era, mischiando il suo italiano sputato con frasi in rumeno. Poi si appoggiò alla sedia, una mano ancorata alla bottiglia, l’altra a grattarsi la guancia ispida. Portava sempre quella felpa Givova coi lacci tagliati.
Il problema ovviamente era il metal detector. Quando cominciai a spiegare il mio punto di vista capii definitivamente che Coman il piano se l’aspettava da me, che la storia della lingua doveva avergli dato l’impressione che fossi un genio del crimine, o non so che. Appoggiai anch’io la schiena e iniziai a inghiottire lunghi sorsi di birra tra una frase e l’altra. Coman si mosse solo per ordinare ancora, con un cenno del mento e dell’indice che Cesare coglieva senza neanche rispondere.
Il cd non suona. Questo è il fatto. È di plastica e se lo togli dalla custodia, solo il dischetto, puoi tranquillamente infilartelo sotto le palle, spiegai: quando la guardia ti gira intorno con quel coso rettangolare non si accorge di niente. E al massimo può chiederti di aprire la felpa, rivoltare le tasche; di certo non si mette a smucinare in mezzo alle palle. Sollevai la birra e sentii le lucciole ammassarsi nella parte superiore del cervello: il silenzio di Coman mi diede la sensazione che non avesse capito una mazza. Allora aggiunsi che la sd è piccola, invece, e te la puoi mettere in bocca: non importa se suona, perché la guardia in faccia non ti controlla, a meno che non becchi quella pignola. Ma per un I-Phone come fai? Per dieci I-Phone, anzi. Poggiai la bottiglia sul tavolino, senza staccare la mano. Trasformai un rutto in un soffio.
«Troviamo un modo», Coman si piegò in avanti, i lacci monchi si tesero appena sopra il tavolo. Mi raccontò che aveva sentito di un tizio che durante il turno ammucchiava i telefoni in un angolo, un po’ alla volta, poi prima di staccare se li metteva dentro le scarpe.
«Sì, ma quanto tempo fa?» agitai la mano davanti al petto. Non lo sapeva, ma ero sicuro al 100% che fosse prima delle lucciole. O al limite che fosse una cazzata. «Ci vedono», picchiettai l’indice sulla tempia e avvertii un piccolo grumo di lucciole spostarsi verso il centro della fronte, poi ridistendersi di lato. «Le spegniamo», incrociò le braccia.

Quella sera tornai a casa con otto Peroni in corpo e l’idea assurda di volersi battere una decina di I-Phone. Poi la stronzata delle lucciole: trascinai la testa lungo le scale, mi ripetevo in mezzo ai denti che una roba del genere non avrebbe mai funzionato. Quel coglione di Coman. Dietro la porta apparve il secchio marrone: la busta dell’umido aveva iniziato a bucarsi sui lati, ma mi rifiutai. In quattro passi ero già a letto. Socchiusi gli occhi, provai a spingere all’indietro con le orbite, però l’immagine del metal detector continuava a venire a galla, la scena delle guardie che ci sgamano e ci fanno buttare fuori dall’azienda. Mi addormentai con la felpa ancora su, il collo rossastro di Coman stampato dentro le palpebre.
Un sonno solido, scuro, ma allo stesso tempo leggero, che sentivo scorrere e potevo quasi misurare, e che poi si squarciava di colpo non appena – cazzo – un boato non mi sollevò sul letto. I denti impastati di saliva amarognola. Portai le dita sulle lucciole, corpi minuscoli e agitati che deformavano la pelle dall’interno. Cercai sul comodino: le quattro. Il freddo delle mattonelle sui talloni mi diede una piccola scossa, solo al terzo tentativo acquistai un passo decente: bordo del materasso, finestra, tapparella. In strada un’Audi a3 fischiava e illuminava a intervalli le auto vicine.
Era quel fallito di Brunetto: ogni tanto cercava di incularsi la macchina dell’avvocato. Gonfiai il palmo con uno sbadiglio. Mi dissi che ormai non aveva senso riaddormentarsi e che avrei aspettato la sveglia guardando la tv. Mi appoggiai al davanzale. Su Rai 4 la notte capita che mandano qualche film mezzo porno, a volte ne ho beccato qualcuno rientrando dal turno. Ma l’avvocato non si decideva a uscire e così cominciai a focalizzarmi sul fischio. Le Audi hanno questi allarmi abbastanza soft, che però sono ipnotici, regolari, e alla lunga si infilano nei neuroni. A un certo punto si apre la porta e l’avvocato scende uno scalino in vestaglia bordeaux e occhiali tondi. Tende il braccio verso la macchina, schiaccia il telecomandino, chiude la porta. È in quel preciso istante che mi viene in mente – quando le luci della macchina si sono oscurate ma l’ipnosi continua a suonarmi nel cranio. Rientro, afferro il telefono e scrivo a Coman.

Match Point: il racconto primo classificato di Flavia Catena

Match Point è il concorso per racconti inediti in italiano organizzato da Il Circolo – Associazione Culturale Italiana, in collaborazione con la scuola di scrittura Londra Scrive. L'iniziativa ha il patrocinio del Consolato Generale d'Italia a Londra.
Anche quest’anno siamo orgogliosi di collaborare con questa iniziativa prestigiosa, che mette cura, attenzione e dedizione sia alla selezione dei testi vincitori, che alla fase di editing dedicata ai tre racconti finalisti.
Il tema di quest’anno è stato ‘Futuro o no?’, declinato nei modi più personali e disparati.

In queste settimane Cattedrale vi ha presentato i racconti vincitori, proponendovi il secondo e il e terzo classificato. Oggi vi presentiamo il racconto che si è aggiudicato la vittoria del concorso: Rabbia, di Flavia Catena.

Per chi fosse interessato, venerdì 28 Febbraio Cattedrale pubblicherà il nuovo bando del concorso Match Point col nuovo tema!
Buone letture!

Primo classificato

In Rabbia, l’autrice mette in scena la distopia con un racconto apocalittico e delicato. Dalla finestra si guarda un mondo desolato dove vagano i cani. Lo scandire del tempo è dettato dal prosciugarsi del lago e ne rimane poco. Ma la promessa fatta a un bambino di finire di illustrare una fiaba va mantenuta. Tutto il racconto è permeato dalla scrittura precisa, dal tono bilanciatissimo e da un senso di premonizione, mai dichiarata, eppure molto profonda.


RABBIA
di
Flavia Catena


3 aprile

 

L’ultimo airone ha lasciato l’isola ieri. Sono migrate le anatre mandarine e le oche canadesi. Non vedo un cigno da settimane e il bianco che fa capolino dal canneto è quello delle folaghe con i loro becchi curvi e gli scudi cornei.
L’acqua del lago si è ritirata ancora di cinque o sei metri, svelando un fondale di sassi e spazzatura, tappi di bottiglia arrugginiti, ami, qualche straccio di rete. La luce densa che guizza sulla terra scoperta, tra le celle fangose e le crepe, mi riporta alla mente le carpe che mio padre pescava quand’ero bambino. Mi facevano paura le loro bocche enormi, spalancate da una preghiera silenziosa, e i loro occhi inespressivi, la sclera larga, la pupilla ridotta a un punto.
«Provano dolore?» chiedevo a papà, sempre con la stessa voce bassa e lo sguardo che sfuggiva agli scatti delle pinne, al rumore dei corpi che sbattevano contro le pareti del secchio.
Lui, non sapendo mentirmi, rispondeva: «Sì, ma dura poco.»

5 aprile

 

«Quanto tempo ci resta?» mi ha chiesto Luisa stamattina, a letto.
Fino a pochi anni fa aveva l’abitudine di dormire distesa sulla schiena, un cuscino sotto i piedi gonfi e due sotto la testa; adesso la trovo sempre rannicchiata, le ginocchia spinte contro il petto, il corpo adagiato sul fianco. Dal lenzuolo emergono solo i suoi capelli bianchi: mi tocca sollevarlo per vederla e farmi vedere.
«Forse un paio di mesi, al massimo tre», le ho risposto, facendo un calcolo approssimativo della velocità a cui l’acqua è evaporata nelle ultime settimane.
«Allora dobbiamo finire il libro il prima possibile.»
Ho guardato le carte accumulate sulla scrivania, pile che si macchiano di caffè annacquati e ore lente, prima di tornare alle mie operazioni mentali, nella speranza di essermi perso qualche numero, qualche giorno prezioso.
«Glielo abbiamo promesso», ha aggiunto Luisa.
Non lo dice ma teme che mi fermi, che mi arrenda. E a volte penso che dovrei, che sarebbe tutto più facile.
Il resto della giornata lo abbiamo trascorso in silenzio a combattere contro la fame, la stanchezza e le troppe pagine ancora vuote.

10 aprile

 

«Senti? I cani... se ne sono andati?»
Luisa mi ha svegliato alle quattro del mattino, scuotendomi. Non ricordo che cosa stessi sognando, ma era un bel sogno, di quelli che ti lasciano addosso una leggerezza piacevole. Ho acceso la lampada sul comodino e mi sono messo in ascolto.
Il vento frustava i rami del gelso, facendone battere le estremità contro il vetro della finestra. Alla sua voce si aggiungeva a tratti un cigolio ripetuto, che variava di intensità a seconda della direzione in cui tendevo l’orecchio. Forse era il cancello che si apriva, la banderuola che ruotava. Mi ci è voluto qualche istante per sentire oltre quel rumore.
«Sì, sembra che se ne siano andati».
Dalla terraferma e il vecchio paese si sollevava un silenzio spettrale. Era come se il vento soffiasse solamente sulla nostra isola; intorno il mondo era zitto, vuoto e immobile. Nelle case, voragini buie abbandonate da mesi in cui non entrava neanche un raggio di luna, le porte socchiuse non sbattevano né stridevano più.
«E se...»
Non gliel’ho lasciato dire e ho pregato che cancellasse dalla mente l’immagine a cui si era già aggrappata.
«Dormiamo ancora un po’, vuoi?»
Ci siamo stretti sotto il lenzuolo. Il battito del suo cuore ha coperto ogni altro suono e la sua assenza.  

17 aprile

 

I cani sono riapparsi stanotte e ci hanno svegliati con il più acuto dei guaiti. Fanno da guardiani al confine, sulla terra da cui il lago ci separa. Una decina tiene d’occhio la sponda a est, venti sono radunati a ovest, due soltanto vegliano sul bosco a nord, mentre un gruppetto di cinque o sei mantiene il controllo della zona sud, dov’era il porto.
Il binocolo usato un tempo per osservare gli uccelli, adesso mi aiuta a vedere loro. È così che li distinguo e li seguo.
Hanno tutti la bava alla bocca e si muovono a scatti, sferzando l’aria con la coda, grattando la terra con zampe robuste, irrequieti quasi bruciassero avvolti da una fiamma invisibile. Anche da fermi i loro corpi sono squarciati da convulsioni improvvise.
Poco fa ne ho visti due sulla sponda est che si assalivano, mentre uno di quelli a nord si avvicinava all’acqua, come se non distinguesse più le onde dai solchi del terreno. Quando se n’è accorto ha fatto un balzo all’indietro.
«Rabbia?»
È stata Luisa a pronunciare per prima quella parola. Io me l’ero rigirata in bocca decine di volte, per poi ingoiarla e trovarmi la gola graffiata dall’orrore.
«Rabbia», ha poi affermato. «Hanno paura dell’acqua».
È questo che, fino ad ora, ci ha salvati. Ma l’acqua si ritira in fretta e loro lo sanno.

 

 

23 aprile

 

Luisa ha aperto l’ultimo barattolo di gelatina di mele preparata l’anno scorso. Ce ne siamo concessi due cucchiai ciascuno su una pagnotta rafferma. Era così dolce da farmi arricciare il naso.
«Non ti piace?»
«È buonissima.»
Non mentivo, e Luisa lo sapeva. Abbiamo sorriso l’uno all’altra, le labbra impiastricciate come se fossimo bambini. Poi io mi sono messo a lavorare alle mie bozze, lei ai suoi disegni.
«Glielo abbiamo promesso», ha continuato a ripetermi. «Non possiamo fermarci.»
Nostra figlia Cecilia aveva sette anni quando siamo venuti in vacanza al lago per la prima volta, dodici quando abbiamo comprato questa casa, e quindici quando Luisa ha iniziato a illustrare libri per bambini.
«Perché non scrivi una storia per la mamma?»
Mi ricordo ancora con che occhi brillanti mi è venuta incontro un mattino, adolescente pallida, le guance gonfie delle canzoni che fischiettava per ore, dopo averle ascoltate alla radio.
«Che tipo di storia?»
«Una che parli di uccelli... gli uccelli del lago.»
«Ne hai uno preferito?»
«La folaga.»
«Un nome?»
«Oscar.»
Ed eccolo, qui accanto a me, Oscar, che zampetta sul bordo della pagina. Luisa si è concentrata su di lui oggi. Gli ha fatto aprire il becco, poi gliel’ha chiuso; ha lavorato sulle sue piume, sulle ombre e le luci che le frastagliano, sull’espressione che fa quando stringe gli occhi e quella a cui accompagna le sue parole.
A Cecilia sarebbero piaciute la sua curiosità e la malinconia, il suo modo di camminare, sempre sbilanciato un po’ in avanti, e l’abitudine di mettere una zampa sull’altra quando avvicina il becco a quello della compagna Aurora.
I suoi amici uccelli si chiamano Corrado (lo svasso) e Libero (il martin pescatore). Col primo nuota fino alle estremità del lago, col secondo saltella sulla sponda e parla di filosofia e religione. Oscar crede nel potere degli spiriti che si staccano dalle fronde dei salici al soffiare del vento, di quelli che aprono gli occhi sui fiori in boccio e che ridono sulla schiuma dell’acqua. Libero, invece, crede nelle divinità nascoste tra le stelle. Gli spiriti dei salici e dei fiori non hanno alcun potere, gli altri, invece, pare ne abbiano di infiniti.
“Rivolgiti a loro”, lo esorta infatti il martin pescatore, perché Oscar ha un desiderio che gli spiriti non hanno ancora esaudito: vuole diventare papà e vuole che la sua Aurora diventi mamma.
Hanno già perso ventisei delle uova deposte. Il delitto lo ha compiuto una volta una banda di ragazzini, un’altra una tempesta, un’altra ancora la cornacchia ferita a cui Oscar aveva prestato soccorso.
«Allora, l’hai scritta la preghiera?» mi ha chiesto Luisa, quando ci siamo messi a tavola.
Il momento in cui Oscar decide di pregare le divinità che abitano tra le stelle è uno dei più importanti del libro.
«Sì, ma non mi piace abbastanza.»
«Vuoi leggermela?»
Cari dei e care dee, io lo so che non vi ho mai pregato, e lo so che vengono prima quelli che invece vi pregano ogni sera, ma voglio chiedervelo lo stesso: potete aiutare me e Aurora a diventare genitori? Abbiamo questo amore dentro che cresce e cresce e ci rende pesanti, ci fa male. Aurora teme di morirne. E io temo di sopravviverle.
Luisa ha annuito. Anziché darmi il suo parere, ha preso il suo ultimo cucchiaio di polenta e lo ha versato nel mio piatto rimasto vuoto.

25 aprile

 

«Altri cani?»
«Sì», ho risposto a Luisa.
Camminavano verso il porto, macchie oscillanti nel bianco polveroso delle strade.
«Solo cani?»
Alcuni li ho visti strisciare dalle case come spettri. 
Per un momento, in quelle ombre, ho creduto di riconoscere i nostri amici. Ne avevamo di cari sulla terraferma: Luigi, l’architetto a cui abbiamo affidato il restauro della casa, don Patrizio, il parroco della chiesa, Felicia, l’infermiera che faceva le iniezioni a Cecilia, abitavano lì, a pochi metri dal porto.
«Solo cani».

 

 

29 aprile



Luisa ha avuto la febbre.
Non ho mai stretto la sua mano tanto a lungo, mai contato i battiti del suo cuore con la paura di sentirli interrompersi.
Ho trascorso ogni notte al suo fianco senza dormire, solo contando. I cani abbaiavano e io contavo. Partivo da uno e arrivavo a duemila, a tremila, prima di inciampare nel sonno. Ero terrorizzato al pensiero di chiudere gli occhi, di lasciare solo l’isola e l’acqua, o quel poco che ne resta, a difenderla. Per mantenerla in vita dovevo restare sveglio, l’indice sulla sua vena, la mente concentrata su ogni cifra.
Tre giorni così, forzandola a mangiare e a bere, poi, ieri mattina, Luisa ha riaperto gli occhi.
«Ho fatto un lungo sogno», mi ha detto. «Oscar diventava padre di cinque pulcini».
Ne aveva visto le uova schiudersi davanti a mamma e a papà folaga. Pare che io fossi lontano. Arrivavo appena in tempo per ammirare gli anatroccoli diventati adulti che spiccavano il volo.

1 maggio

 

Ci sono cose che un prigioniero non dovrebbe mai fare, tra queste discutere di cibo, battere la lingua contro ogni angolo della bocca cercandone il sapore, raccontare, su carta o a voce, la situazione e il momento in cui ne ha goduto. Dettaglio dopo dettaglio, inizierà a sentirne una voglia irrefrenabile, voglia che diventa tormento tanto più ampio è lo spazio che le si concede.
Io l’ho provata ieri, quando Luisa mi ha mostrato i suoi disegni per la scena del banchetto, una delle più tenere e romantiche del libro. È lì, sotto la tavola imbandita dalla vecchia signora Irma, che Oscar e Aurora s’incontrano per la prima volta. Avevo scritto il capitolo sorvolando sul cibo. Luisa, invece, ha fatto proprio l’opposto: Oscar e Aurora sono sullo sfondo e in primo piano spiccano la piramide dei bignè, la cesta colma di frutta, i biscotti alle mele e le focacce alle olive.
L’ho sentita allora, più forte che mai, la fame, la sofferenza. Voglia di budini al cioccolato, di fichi seccati al sole e riempiti di mandorle croccanti, di soufflé da sciogliere in bocca. Voglia di sapori intrappolati nel bambino, nell’uomo e nel padre che ero. Ci sono cose che non mangio da quando Cecilia non può più mangiarle, altre da quando i cani hanno sostituito gli uomini.
«Che cosa ti manca di più?» mi ha chiesto a un tratto Luisa, come se patisse anche lei.
«La frutta», ho risposto.
«Anche a me».
«Ricordi le albicocche comprate in quel mercato in Spagna? Non una punta di acido, solo dolcezza. E le pesche bianche, piccole, del frutteto di tua madre?»
«Mi ci lavavo la faccia da bambina. Ne avrei mangiate a chili».
Ci siamo tormentati così, io e Luisa, per buona parte del giorno. Il gioco del “ti ricordi?” ha reso appetibili, davanti ai nostri occhi allucinati, cibi che non avevo mai saputo mi piacessero e cibi che avevo sempre detestato, come i calamari, le mele verdi, la verdura amara, la liquirizia.

 

 

3 maggio

 

Non è chiaro come sia morto, forse a seguito di una ferita (ho sentito dei cani combattere ieri notte). All’acqua deve essersi avvicinato per disperazione o perché stordito.
È stata Luisa a vederlo per prima.
«Vado io al pozzo, tu resta in casa», le avevo detto, ma lei voleva lasciarmi scrivere.
Abbagliata dal sole, lo aveva creduto una delle tante macchie scure che le pulsavano sulle pupille. Poi la macchia era diventata carcassa.
Ho sentito il secchio nelle mani di Luisa che cadeva a terra, e sono corso fuori, senza sapere che cosa fosse successo.
Tremava, madida di sudore, irrigidita dall’ansia, mentre continuavo a ripeterle: «È morto!»
Ormai lo avevo visto anch’io. Era fermo al centro del lago; non c’era corrente che lo facesse procedere avanti o che lo spingesse indietro. La sua pelliccia, nera e lucida, sembrava mandare scintille a contatto con la luce.
«Rientriamo insieme», ha suggerito Luisa, con il terrore ancora negli occhi.
«Non ci può fare alcun male», ho ribadito con voce calma, tenendole il volto tra le mani.
Una volta a casa, lei ha smesso di guardare verso il lago; io, invece, ho aspettato di vedere muso, zampe e coda affondare insieme alla loro minaccia.



6 maggio

 

«Sono brutta, eh?»
Cecilia vedeva i nostri volti tesi da una spaventosa verità: che la sua vita si sarebbe spenta prima della nostra. Lei dimagriva, si faceva sempre più pallida, e noi le sorridevamo troppo, con dolcezza eccessiva.
«Non lo sei», le rispondevo. E le accarezzavo le mani.
Il gelso era carico di frutti quel giorno, il sole tiepido e il vento leggero. Cecilia passeggiava  lenta sulla sponda, Luisa dormiva sulla sdraio e io tenevo d’occhio entrambe mentre scavavo una buca. Mi ero ripromesso di piantare un albicocco e un mandorlo perché, insieme al gelso, un domani chiudessero la casa dentro una muraglia tutta verde.
Non mi ero accorto che Cecilia aveva in mano uno specchietto, tanto meno che fosse quello d’argento di nonna Franca. Lo aveva aperto piano, spiandone prima l’interno, poi si era inquadrata. Dalla fronte il suo sguardo era sceso sugli occhi arrossati, sulle guance scavate, sul naso, sul neo in cima all’arco di Cupido, e infine sul collo e la sua cicatrice.
«Che cosa c’è?» le ho chiesto avvicinandomi.
Nessuna risposta.
Lo specchietto era caduto in acqua e il volto di Cecilia, quello tremante di paura, la sua e la mia, era affondato.
Lo specchietto è riemerso oggi, sporco, dal nuovo tratto di fondale scoperto. Nel prenderlo, ho deciso di non guardarvi dentro. Luisa l’ha poi ripulito con cura e riposto sul comodino in camera di Cecilia, proprio dove lo teneva lei.

 

 

8 maggio

 

Le uova sono deposte, con la benedizione delle divinità che abitano tra le stelle. Cinque uova bianche punteggiate di nero riposano al centro di un bellissimo nido. Luisa lo ha disegnato rametto per rametto, foglia per foglia, china sotto la luce della lampada. È sulla scrivania che l’ho vista addormentarsi ieri, la mano poggiata sui fogli e la fronte sul braccio.
«Devi aiutarmi», le ho detto svegliandola.
Le sue palpebre gonfie hanno vibrato un po’ prima di aprirsi.
«A fare cosa?»
«A scegliere i nomi per gli anatroccoli».
Dalla scrivania, Luisa si è spostata sulla poltrona accanto al letto.
«Nomi di re?» ha suggerito.
Ci avevo già pensato, ma non ne avevo trovati cinque che mi soddisfacessero.
«Nomi di poeti?»
Messi insieme anche quelli, con poco successo.
«Nomi di artisti? Di piante? Di fiori?»
Ne abbiamo snocciolato alcuni, ma nessuno sembrava funzionare.
«Menecuccio, Tittillo, Renzone, Luccio, Iacovo».
«Mai sentiti».
«I cinque figli, non la conosci?»
Le fiabe raccontate a Cecilia Luisa le ricorda ancora tutte; le cita spesso, ne sfoglia i libri, ne disegna i paesaggi.
«No, di che cosa parla?»
«Di cinque ragazzi, un orco e una principessa».
«Ti ascolto», le ho detto.
Anche se la storia non mi ha convinto, ho detto sì ai nomi.

11 maggio

 

Gli ultimi uccelli se ne sono andati da giorni, l’acqua si continua a ritirare e i cani – saranno cinquanta, adesso, sessanta? – si avvicinano. Annusano la terra, scavano, litigano per quel che resta di un vecchio remo, per un cerchio di gomma e una lattina.
Poco fa, col binocolo, ne ho visto uno ingoiare qualcosa, poi il suo corpo ha iniziato a contorcersi sotto la violenza degli spasmi.
«Muori!» ho urlato, sperando che la sua disperazione fosse più forte della mia e lo uccidesse.
Un attimo dopo, vedendolo camminare a capo basso e bocca aperta sulla sponda, ho chiesto perdono non so se a lui o a me stesso.

 

 

23 maggio

 

Menecuccio, Tittillo, Renzone, Luccio, Iacovo sono nati.
Nella luce del tramonto che si allunga tra i rami, Oscar vede una piuma che si muove, poi una zampa, un occhio che si apre, un’ala. Vede il futuro che spalanca affamato il becco.
«Grazie», dice alle divinità che abitano tra le stelle, alle stelle stesse, al sole, alla luna, a Corrado e a Libero, ad Aurora, e a quel bambino che guarda dalla riva gli anatroccoli nel nido sorridendo. È un bambino buono, pensa Oscar, che non farebbe alcun male ai suoi figli. Gli si avvicina, infatti, e ringrazia anche a lui. Poi vola via, a pelo d’acqua, in cerca di cibo. È suo il compito di sfamare gli anatroccoli, mentre Aurora li stringe al suo petto caldo.

 

12 giugno

 

Sembra che sia sceso Dio in persona a bere dalla conca del lago.
In un solo giorno, l’acqua si è prosciugata del tutto. Il fondale scoperto è una fossa comune per pesci. Come lo specchietto, siamo riusciti a salvare dal fango altre cose di Cecilia: un suo fermaglio per capelli, un suo giocattolo, il gattino di giada comprato insieme alle bancarelle del porto.
Luisa esce. Corre scalza sulle pietre infuocate, sulle zolle taglienti, per andarlo a prendere.
«È intatto», dice, sorpresa come di fronte a un miracolo, e non vede il sangue che sgorga dai suoi piedi.



13 giugno - mattina

 

Procedono lenti senza abbaiare né guardarsi, quasi inconsapevoli l’uno dell’altro. Forse si chiedono anche loro dove sia finita l’acqua, forse ne sentono ancora l’odore, quest’odore di marcio che stringe l’aria in un pugno, che risale su per le nostre narici da settimane.
«Non hanno la bava alla bocca», mi fa notare Luisa.
Ho già scritto e detto forse decine di volte e ho paura di ripetermi: è un’arma troppo affilata la speranza.
Forse non è rabbia.
Forse non sono gli stessi cani.
Forse neanche ci vedono.

 

 

13 giugno - sera

 

Li ho visti accanirsi sui corpi dei pesci, alcuni ringhiare contro un’ombra, contro il luccichio di una pietra. Quattro si sono fermati, e ce n’è uno che gira su se stesso guaiolando come impazzito. I rimanenti hanno circondato l’isola.
Al nostro passato e al nostro futuro, alla nostra Cecilia e a tutti i bambini che leggeranno questa favola.
Rileggo la dedica del libro scritta giorni fa, poi io e Luisa firmiamo l’ultima pagina.
Se avessi più tempo, la riscriverei. Anzi, riscriverei tutto da principio, favola e vita.
“Va bene così”, sembra dirmi Luisa con gli occhi.
Va bene così per le cose lasciate a metà o mai iniziate, per quelle finite, ma non come volevamo, per gli abbracci mancati, per le telefonate non fatte quando qualcuno avrebbe ancora potuto rispondere, per la gelatina ammuffita prima che vi affondassimo il cucchiaio un’ultima volta.
Ora che mi ha raggiunto alla finestra, Luisa traccia con l’indice il contorno del gelso, per poi ricopiarlo sugli angoli vuoti del giardino, di fianco al capanno degli attrezzi, oltre il pozzo e dietro al gazebo e all’altalena.
«Sarebbe stato bello, così», bisbiglia.
Un’ampia muraglia verde...
La luce che resta del giorno è rannicchiata sopra l’orizzonte. A breve scivolerà dall’altra parte del cielo, quella che non riusciamo a vedere. E noi ce ne andremo con la notte.

Match Point: il racconto secondo classificato, di Alessia Piermarini

Match Point è il concorso per racconti inediti in italiano organizzato da Il Circolo – Associazione Culturale Italiana, in collaborazione con la scuola di scrittura Londra Scrive. L'iniziativa ha il patrocinio del Consolato Generale d'Italia a Londra.
Anche quest’anno siamo orgogliosi di collaborare con questa iniziativa prestigiosa, che mette cura, attenzione e dedizione sia alla selezione dei testi vincitori, che alla fase di editing dedicata ai tre racconti finalisti.
Il tema di quest’anno è stato ‘Futuro o no?’, declinato nei modi più personali e disparati.

Cattedrale vi presenta il secondo racconto classificato, dandovi appuntamento al prossimo venerdì per scoprire il primo classificato.
Qui trovate il terzo.
Buone letture!

Secondo classificato

Nel racconto La musica dentro, un’insegnante di canto porta la musica dentro un carcere. Ma la musica del racconto è anche quella che si portano dentro quelli che scontano la pena con la mancanza di libertà e, una volta che la fiducia reciproca si è instaurata, diventa un’urgenza comunicativa. Racconto originale nella scrittura, nella struttura e nel tema sociale, si sviluppa come una lunga canzone, tra le debolezze tenute a bada dell’insegnante, la vulnerabilità dei detenuti e il realismo dell’ambientazione.

LA MUSICA DENTRO
di
Alessia Piermarini

1.
la stella, il panopticon e il canto partigiano

 

Emily fa da apripista
ha lo speaker nella destra e l’asta del microfono nella sinistra
è il boss e soprano leggero
apre e chiude porte al passaggio
Rose è contralto
porta la borsa con cavi e spartiti
al tenore Benson tocca incollarsi la tastiera
Amalia avanza con cautela
lui si avvicina e sottovoce

 

- è la prima volta che entri?
- sì…
- respira…

 

si aprono le sbarre
Amalia respira
si ritrovano al centro della stella
la prigione è del 1840
cat. B massima sicurezza
centro di Londra
costruita secondo il piano del panopticon
conserva da allora l’identico scheletro
una stella a 7 ali
dallo spazio centrale si tengono d'occhio tutti i detenuti

Amalia è al primo giorno con un nuovo lavoro di performer e singing facilitator
il team di cantanti e musicisti porta ogni settimana la musica in prigione

la mattina si esibiscono aprendo un Open mic per i detenuti
il team oggi è di tre persone
due cantanti lirici e Amalia

 

loro portano Puccini
Amalia fa Stevie Wonder
loro Nessun dorma
Amalia Gansta’s paradise
loro inglesi
lei italiana

Amalia indossa la camicia del padre jeans e scarpe da ginnastica Nike
emozionata ma centrata

 entrare nella prigione è passare i controlli di Heathrow Stansted e Luton
tutti in mezz’ora 

le sequestrano i due evergreen delle sue tasche
burro di cacao Labello alla fragola
gomme da masticare

 si fanno strada tra le corsie labirintiche
Amalia butta un occhio nelle minuscole finestre delle celle

lo ritira subito
una continua lotta tra curiosità e rispetto

sui muri si leggono frasi ispirate da Muhammad Alì a Bob Marley

i pavimenti sporchi odore pungente
niente finestre che danno all’esterno
unica fonte di illuminazione il neon

un paio di detenuti tute grigie e mani in tasca
sono appoggiati al muro fuori dalle celle

- good morning
saluta Amalia al suo passaggio
- ‘morning Miss
ricambiano con un sorriso

si aprono e si richiudono porte
la scritta lock it prove it è ovunque
i prigionieri sono tutti maschi
le guardie sono tutte femmine

ci si ferma infine in una delle ali più affollate
ala G
una ventina di detenuti fuori dalle celle
un paio di guardie
il team di musicisti si dà da fare
collegano la tastiera
montano l’asta lo speaker e il lettore cd
un attimo manca il reggi-tastiera
nessun problema
Amalia adocchia una pila di vassoi giganti posati su un carrello
ora abbiamo il reggi-tastiera
soprano contralto e tenore attaccano un atto del Così fan tutte
Amalia dopo di loro fa O bella ciao
i cantanti lirici armonizzano il ritornello
i prigionieri battono le mani e cantano in perfetto italiano
O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

le si avvicina uno dei prigionieri
nero brizzolato e dai modi gentili
impacciato le fa
- Miss I don't know how to talk to you
esita
sorride intimidito
poi si avvicina ancora di più e azzarda con aria angelica

 - I’d like to LIVE with you do you think it's possible?

Amalia non è sicura di aver capito
la pronuncia di live è simile a quella di leave

 - I’m sorry... what?
ma lui ripete identico
- I’d like to LIVE with you do you think it's possible?
- yeah… no I don't think that's possible

ora
Amalia non saprà mai se il signore le ha proposto
vorrei VIVERE con te oppure vorrei ANDARMENE con te 

in entrambi i casi
è la prima volta che riceve una proposta simile

2.

il cerchio, il rap e la lettera per la libertà

dopo una settimana
Amalia torna in prigione
- stavolta ti trattengono
commenta sua madre
oggi sta a lei dirigere il workshop nella cappella
dispone i detenuti in cerchio
una forma geometrica che assicura equità
vedi e sei visto
spiccano tre personaggi degni di nota 

Joe


bianco basso e mingherlino
ha occhi azzurri e forse un tempo era biondo cenere
ora ha capelli lunghi castano scuro per assenza di lavaggi
faccia distrutta dalla droga
2 o 3 denti in bocca
in mano 4 o 5 pagine scritte fitte 

Red
mixed-race
enorme fisicamente e emotivamente
spumeggiante e dominante
2 denti d’oro
2 tatuaggi in faccia e sul collo con la scritta Nana
2 sigarette elettroniche tra le dita
scrive balla canta
ha un sorriso per tutti
una battuta per ogni evenienza
è street smart
così si dice

Kurt
nero e londinese
tra i trenta e i cinquanta
difficile a dirsi perché black don’t crack
tatuaggio di playboy su braccio destro
una grossa croce su braccio sinistro
né brutto né bello
ha l’aria molto seria forse annoiato o forse scocciato
è semi-sdraiato su una sedia
lunghe dita intorno a una penna
un quaderno
scrive qualcosa
ma non ne è contento
sta in disparte
sembra lì dentro per sbaglio
uno di quei personaggi
pensa Amalia
per cui si beccherebbe una sbandata
meno male che è rinchiuso

Amalia monta la tastiera
collega il pedale e strimpella gli accordi di Letter to the free
il pezzo di Common prevede un rap e un ritornello cantato
il tema la libertà

l’altra facilitator chiede se il tema sia appropriato in prigione
Amalia non risponde si attiene al suo programma

 la tastiera è un giocattolo di 4 ottave
con i pulsantini per cambiare suoni e groove di batteria
Amalia sceglie un beat
attacca gli accordi
canticchia il ritornello

Kurt si alza e va verso di lei
è alto circa 2 metri
una ruga sulla fronte dà indizi sul carattere 
le si siede vicino
il viso di lato
dondola la testa seguendo il groove 

Amalia continua a suonare quel dondolio la incoraggia
lui ricomincia a scrivere sul foglio
- mi puoi risuonare gli accordi di prima? 

parte il daydreaming
si vede già con velo bianco e un matrimonio attraverso il vetro
lui attacca un free style a mezza bocca ma poi si ferma e sorride
- no I can’t
- perché?
- perché quello che mi viene da dire is not appropriate

c’è una sola guardia nella stanza
miss Cooper
capelli biondi occhi azzurri e guance rosate
sorriso dolce ma non apre bocca 

Red attacca un rap multidisciplinare
le liriche sono intense e lo stile rilassato
in alcuni momenti squittisce come un criceto
si alza in piedi
è sovrappeso ma si muove con grazia e movenze sensuali
i versi sono così veloci e stretti che Amalia non capisce tutto
ma tutti capiscono quando fa
- I been thinking been thinking about ESCAPING 

a miss Cooper la guardia
cascano le guance
lancia a Red uno sguardo inconfondibile
silenzio di tomba
Kurt attacca la sua strofa
rimane seduto
non ha bisogno di spazio
ha una voce scura
è meno eccentrico e meno espressivo di Red
ma più arrabbiato
inciampa su una rima dopo circa 4 minuti straight di versi strettissimi
sono tutti in estasi 

scontroso introverso talentuoso emotivo sensibile e un passato turbolento
sono guai per Amalia

 comincia una battaglia rap tra Kurt e Red
rispetto e competizione
in misura perfetta
ma il bianco con 2 denti Joe
è convinto di saper rappare e vuole dire la sua

 i due lo lasciano fare
è negato
sorridono sarcastici
ma lo lasciano finire

Ronaldo il brasiliano logorroico dall’inglese sdentato si rivolge ad Amalia
you’re my favourite guest
ma tutti capiscono guess
e lui deve ripetere la frase 4 volte 

Liam chiede se si può avere il laboratorio di musica 2 volte a settimana
perché
- you know in here it’s a very dark place

 Kurt chiede se Amalia ci sarà la prossima settimana
promette di portarle il testo completo
- you’ll be happy

 sembrano bambini in un kindergarten
quei bambini che chiamano disruptive
qui sembrano tutti innocenti vulnerabili e un po’ persi
nessuno sa o chiede i motivi per cui sono dentro
né importa

 si chiudono le sbarre alle spalle
Amalia ha la testa in fiamme e lo stomaco in subbuglio
alcuni dovrebbero stare davanti a un microfono
invece stanno dietro alle sbarre 

sa anche di essere nel posto giusto e nel lavoro giusto
un’anima inquieta e un passato disfunzionale
birra ghiacciata in un alimentari italiano di fronte alla prigione
riflessioni a margine

 anche il più crudele dei criminali è un essere umano
cosa accomuna tutti gli esseri umani? il bisogno di esprimere sé stessi
dove finiscono quelli a cui viene tolta la possibilità di farlo? 

food for thought 



3.

don’t let me hanging

l’appuntamento settimanale con la prigione arriva

 Emily è malata
Amalia sarà da sola
nessun problema
che ci vuole a far cantare come usignoli venti giganti chiusi in una prigione di massima sicurezza?
severa ma giusta
accetta la sfida
una delle sue amiche più cattive commenta
-ma i detenuti che frequentano il tuo corso hanno uno sconto della pena? 

oggi i detenuti si presentano con 45 minuti di ritardo
dipende dalle guardie
li devono andare a prendere dalle celle e portarli in cappella
li fanno quasi sempre ritardare

 il primo riscaldamento si fa in cerchio vocalizzando il suono
zzzzzzz
un ronzio per allenare fiato e diaframma con movimento coordinato
Amalia è al centro di un cerchio di 20 omaccioni di ogni razza statura dimensione e fattezza
che come zanzare volano sbattendo le ali e corrono per la sala facendo zzzzzzzz

uno di loro sta diventando il suo preferito
ma va tenuto nascosto
non è professionale né etico avere preferenze o peggio
infatuazioni

 e oggi è di umore pessimo
come nota da subito Amalia
è stato in corte e non sembra sia andata come sperasse
si scusa
- non sono riuscito a scrivere niente questa settimana
ti prometto che la prossima scrivo qualcosa
anzi scriverò un pezzo per te

 il tizio non le rende le cose facili

c’è anche Maddy la transessuale
3 piercing in viso
barba appena rasata capelli di Cindy Lauper
corporatura di Maradona
accento incomprensibile del nord Inghilterra
non ce la fa a prendere il microfono
ma non ce la fa nemmeno a tenersi tutto dentro
- è la mia nuova missione
pensa Amalia

 sta raccontando agli altri che tra un po’ uscirà
ma non è contenta perché qui dentro ha gli amici e fuori nessuno

 un po’ di nuovi personaggi

 Farid
nero minuto e con viso d’angelo
si vede che vuole agguantare quel microfono
ma è intimidito dalla superstar Red
che con carisma e talento si prende tutto lo spazio

 c’è poi l’irrequieto e giovanissimo Chris
bianco occhi da husky e faccetta da monello
talento immenso del rap
tatuaggi su tutte le dita
ADHD ai massimi livelli
impossibile tenerlo fermo
viene al pianoforte mentre Amalia sta per suonare e comincia a premere tasti a caso
lei lo fulmina con lo sguardo

 - Miss miss can you rap?
Amalia è combattuta
- so fare rap?
è tentata dal dire no
e lasciare loro lo spazio
anche perché
che ti metti a fare rap con quelli che il rap se lo mangiano tutti i giorni a colazione?
ma dice sì
perché è dagli anni ’90 che aspetta questo momento

alla tastiera giocattolo seleziona hip hop beat
in un solo fiato attacca
I need love (LL cool J)
imparato a memoria nel 1987 tirando giù il testo a fatica
quando ancora tutti usavano il programma pre-google
le orecchie

 i detenuti la osservano tra l’incredulo e il divertito
femmina
bianca italiana
non ci sono proprio i presupposti per rappare!

 alla fine del pezzo
il massimo del rispetto
Chris e gli altri avvicinano la mano chiusa a mo’ di pugno in verticale
cogliendola impreparata e incerta sul da farsi
Kurt
- don’t let me hanging

 Amalia prende il pugno e lo chiude dentro la sua mano
tutti ridono
lei arrossisce
cala il sipario
si spengono le luci
si riempiono le celle
le sbarre separano il giusto dallo sbagliato
l’aggressore dalla vittima
la musica in macchina mentre si torna a casa dalla musica fatta per urgenza
la musica che ascolti sul cellulare dalla musica questione di vita o di morte


4.

Redemption roasters


oggi giorno di performance
su e giù per le scale della più antica prigione londinese
la key holder apre e richiude porte al passaggio

 la prigione sembra un labirinto
le ali sembrano tutte uguali
i detenuti sembrano tutti depressi
le celle tutte troppo piccole

 nell’ala F si crea un bel gruppetto intorno ai performers
Benson fa O sole mio
Emily fa La Traviata
Amalia attacca Shackels (catene) un pezzo gospel/RnB del 2000
alcuni detenuti lo conoscono e cantano nel ritornello

 la guardia miss Cooper
agguanta il microfono
si lancia in un rap concitato gesticolando come un rapper newyorchese
la prigione viene giù
la biondina dal volto angelico ma dalla nomea di una tosta rappa come uno di loro!

a metà mattinata c’è la pausa dai redemption roasters
i detenuti imparano a fare caffè e cappuccino con il supporto di una charity che poi li assumerà una volta usciti di prigione
la riabilitazione dal crimine attraverso il caffè

 le aspettative salgono quando è Amalia a chiedere un cappuccino scuro
sanno che è italiana
lei lo sorseggia
sorride
e come gli inglesi falsi e cortesi
dice poco convinta
- complimenti… it’s amazing
il caffè è pessimo
a Roma questi appena usciti di prigione ritornerebbero subito dentro
altro che redemption

 

5.

maybe I CAN sing

Amalia propone una nuova challenge
siete rappers straordinari e non posso insegnarvi molto
vi lancio una sfida
l’ultima riga delle vostre rime invece che rapparla la dovete cantare

 prevedibili le reazioni in sala

 no io non canto
no io non so cantare
no io faccio solo rap
no io non sono un cantante

 - tutti possono cantare
si impunta Amalia
ha cinque o sei fogli riempiti di rime tra le mani
rime dove non c’è lo spazio né il tempo di respirare

questo è il rap
l’urgenza è forte e l’urgenza è velocità
non c’è tempo per respirare
aspettare
aggiustare
o addirittura pensare

 Amalia chiede loro di rallentare
respirare
intonare una melodia
guardare la musica da un altro punto di vista

 con i suoi modi italiani
che poco hanno della delicatezza inglese
Amalia strappa uno dei fogli dalle mani di Chris
sceglie una riga a caso e la canta
lo invita con gli occhi a seguirla
Chris lo fa
dopo poco si illumina
ha gli occhi di un bambino che ha preso un 6 per la prima volta in vita sua
dice
- maybe I CAN sing…!
e aggiunge
- vorrei cantare Stand by me miss
Per Amalia è un successo ma non sa gli accordi
- perché non la fai a cappella?
- well no… I’m not accappelling that!
Amalia ride intenerita

 Kurt oggi ha portato un nuovo cd di basi hip hop
Amalia con le sue maniere dice
- give it to me
lui la corregge con sorriso sarcastico
- please…?
e aggiunge
- why are you always so angry?
- I’m not angry I’m italian

 dallo speaker esce un hip hop duro senza inflessioni Rnb
tutti i detenuti sembrano amarlo
si lanciano a turno sul microfono con rap infuocati e carichi di tensione
non apprezzati da tutti

 il cappellano manda occhiate al vetriolo
continua a chiedere di abbassare il volume
ma il volume è già basso

 si scopre in seguito che si è lamentato perché il rap
non è appropriato in cappella

 cosa non è appropriato?
il linguaggio non è appropriato? lo stile?
il volume il ritmo o i testi?
Amalia vuole chiarimenti
il rap non è solo uno stile musicale
è il prodotto di una società e la storia di un’esistenza
è arte è politica è libertà

molti detenuti si esprimono usando quel linguaggio
e lo fanno benissimo
non si può chiedere a un rapper di strada di diventare un cantante country
non si può chiedere a un uomo di chiesa di trasformarsi in un hippie
ma gli si può però chiedere di rispettare le altre culture e forme d’arte
perché se non ricordo male
Dio accoglie tutti

 se c’è qualche parolaccia
si dovrà chiudere un occhio o entrambe le orecchie

 Red aspetta la guardia che lo riaccompagni dentro
vi posso cantare la canzone preferita di mia madre?

 chiude gli occhi
la testa all’indietro
intona Summertime a cappella
una ninna nanna scritta all’inizio del secolo scorso
sul nascere di quella rivoluzione che avrebbe portato quella musica così spaventosa
nata dal mix di sonorità razze e culture così lontane e costrette alla convivenza
il jazz

 vivere in prigione è come il jazz
i detenuti convivono in spazi dettati da regole
in prigione le sbarre (bars)
nel jazz le misure (bars)
bianchi neri africani inglesi giamaicani rumeni italiani cristiani musulmani
devono convivere
sviluppano il loro linguaggio

 una delle volontarie è in lacrime
uno dei detenuti la abbraccia per consolarla ma il contatto fisico non è permesso

 Amalia restituisce il badge ed esce dal cancello principale
questo non è solo un lavoro
le gambe tremano e la mente è iperattiva
cento domande si alternano nella sua testa

la musica può trasformare l’odio in energia e la violenza in passione?
la musica eccita o calma gli animi?
stravolge distrugge o crea?

 si lascia alle spalle la grande stella e tutti i suoi inquilini
il lavoro cura le loro ferite e anche le sue


In memoria del meraviglioso tenore e prezioso amico Ben Thapa

 

Venerdì 28 Febbraio sarà pubblicato su queste pagine il
nuovo bando di MATCH POINT con il nuovo tema

Match Point: il racconto terzo classificato, di Max Mauro

Match Point è il concorso per racconti inediti in italiano organizzato da Il Circolo – Associazione Culturale Italiana, in collaborazione con la scuola di scrittura Londra Scrive. L'iniziativa ha il patrocinio del Consolato Generale d'Italia a Londra.
Anche quest’anno siamo orgogliosi di collaborare con questa iniziativa prestigiosa, che mette cura, attenzione e dedizione sia alla selezione dei testi vincitori, che alla fase di editing dedicata ai tre racconti finalisti.
Il tema di quest’anno è stato ‘Futuro o no?’, declinato nei modi più personali e disparati.

Cattedrale vi presenta il terzo racconto classificato, dandovi appuntamento ai prossimi venerdì per scoprire il secondo e il primo classificato.
Buone letture!

Terzo classificato

Il racconto Il dito si sviluppa tutto intorno all’evento insolito e inquietante di un uomo che, tornando a casa, trova un dito sul marciapiede. Di chi potrà essere? Come comportarsi? Cosa farne? L’elemento surreale non lascia mai il racconto che, allo stesso tempo, è assai analitico nel flusso di coscienza che questo evento scatena nel protagonista. Tra il comico e l’esistenziale, diventa quasi una parodia dell’incapacità adulta di assumersi responsabilità.


IL DITO
di
Max Mauro

 

Ho trovato un dito sul marciapiede. Era sporco di terra e polvere di asfalto, era stato calpestato più volte ma era ancora integro. L’ho raccolto, l’ho posato sul palmo della mano come fosse un diamante e l’ho guardato.
Era evidentemente un dito adulto. Maschile. Alcuni peli spessi e scuri puntellavano la pelle come bandiere solitarie. Era un anulare o un dito medio, di certo non un indice, perché difettava della leggera curvatura verso l’interno tipica dell’indice, e nemmeno un mignolo, che è minuto, palesemente mingherlino. La nocca era nodosa, piena di pieghe come quella di un guidatore di bobcat. Per muovere tali macchine servono mani forti e agili che all’aria aperta si screpolano lasciando profondi segni nelle nocche. Un monito per chi li accarezza, ricordano che la vita è una sequenza di rughe che nascondono ferite. Il dito aveva una storia.
Era un dito straniero? Difficile dirlo. Chi è lo straniero? C’è sempre qualcuno che è straniero rispetto a qualcun altro. Non era un dito nero, questo potevo intuirlo, quindi se era straniero era meno straniero di altri stranieri, almeno agli occhi di chi detta le regole, in questo luogo, in questo momento.
Forse era stato il dito di un operaio di una ditta di traslochi, un operaio senza contratto e senza permesso di lavoro, fuggito sanguinante per timore della legge o del padrone. Un dito sacrificato all’altare della forza. Bruta. La legge dei moderni fuorilegge: stato e padroni.
O forse era stato il dito di un ladro maldestro, costretto a saltare dalla finestra della casa che stava cercando di svuotare. Nel volo si è impigliato, o meglio la mano si è impigliata, in un momentaneo supporto. Zac. Il dito è volato altrove. Solo.
E se fosse il dito di un uomo pestato da altri uomini? Ubriachi. Incazzati. Inconsciamente disperati. Convinti di ripulire il marcio insidiato dentro di loro gettandolo sugli altri. Pestato, l’uomo è stato trascinato lontano dalle abitazioni. Ma il dito è rimasto lì, in mezzo alla strada, sul marciapiede, affinché io lo trovassi.
Che ci faceva un dito sul marciapiede? Di chi era?

Mi seccava lasciarlo in terra, non mi sembrava umano ignorare un pezzo di mano, anche se appartenuto a uno sconosciuto. Forse avrei dovuto avvolgerlo in un foglio di giornale, quello stesso giornale abbandonato in strada, uno degli ultimi giornali, o in un fazzoletto di carta, un mezzo più discreto, più conveniente. E poi appoggiarlo sul davanzale della casa più vicina e appiccicarci sopra un biglietto. Attenzione: contiene dito abbandonato. Oppure avrei dovuto scrivere più biglietti e appenderli sui muri del quartiere, nell’atrio del palazzo, sui pali della luce, all’ingresso del negozietto all’angolo. Chi ha perso un dito è pregato di rivolgersi a – e metterci il mio numero di telefono e magari pure un’email. Oppure avrei potuto postare l’immagine su Facebook, Instagram o Twitter e chiedere notizie del possessore di un dito mancante. Questo dito è stato trovato in tale via in tale giorno – contattatemi se siete la persona interessata. Infine, avrei potuto telefonare all’emergenza medica e raccontare il fatto: ho trovato un dito, che ne faccio? Ve lo venite a prendere?
Invece no. L’ho raccolto e l’ho pulito con un tovagliolo di carta mezzo usato, residuo del tardivo pranzo. A parte la terra e la polvere non c’erano macchie, sul dito; il sangue colato nel momento dello strappo, perché di taglio non c’era segno, si era rappreso e col suo colore nero buio scuro indicava un estremo, il limite del dito. Oltre il nero c’è il vuoto: la fine del dito.
Poi l’ho messo in tasca, ma nella tasca della giacca, che è più morbida e larga. Non volevo che si trovasse stretto nella tasca dei pantaloni rischiando un nuovo trauma. La tasca dei pantaloni è inadatta a contenere cose delicate. È fatta per accogliere le nostre mani, o solo le dita, le nostre, quando non sappiamo cosa farne.
Poi me ne sono andato. Incamminandomi, però, mi sono guardato attorno. Ero un ladro? Probabilmente il possessore del dito a quest’ora se n’era già fatta una ragione. Forse l’aveva cercato assieme ai suoi complici o amici (ma che amici sono quelli di qualcuno che lascia un dito in strada e non se ne avvede?) e non avendolo trovato si sarà detto: un dito in meno, cosa vuoi che sia? Basta farci l’abitudine. Così mi sono giustificato, alleviando il senso di colpa.
Ma, sinceramente, che senso può avere un dito da solo, staccato dalla mano con cui era nato e insieme a cui era cresciuto? Cosa ne possiamo fare? Oddio, dovrei essere più prudente nei miei pensieri. Non vorrei suggerire un nuovo, ennesimo, valore di scambio. Offriamo un dito su eBay, qualcuno interessato a comprarlo di certo ci sarà. Ma io resisto, mi illudo di essere umano. Altrimenti non mi sarei trovato col dito di un estraneo infilato nella tasca della giacca, avvolto in un tovagliolo di carta.
Salendo le scale del mio palazzo l’eccitazione per l’insolito ritrovamento si è tramutata in ansia. Ogni scalino un po’ più ansia e un po’ meno eccitazione, fino ad arrivare alla porta dell’appartamento con lo stato d’animo di un accusato di omicidio colposo. Dovevo sbarazzarmi del dito. Eppure fino a pochi minuti prima era stata una ragione di curiosità, perché questo cambio repentino?
Nella tasca, il dito mi pesava. Aveva assunto il peso di un martello, un martello che picchiava contro l’anca ma in realtà picchiava dritto alle tempie. Mi picchiava in testa per dirmi qualcosa. Il dito non è tuo. Ma io l’ho trovato. Il dito non è tuo. Ma io l’ho pulito. Il dito non è tuo. Ma l’hanno calpestato. Il dito non è tuo. Il dito non è tuo.
Ho aperto la finestra e l’ho gettato via. Lontano, oltre il muro che separa il mio palazzo da un parco. Mi sono seduto sul balcone con l’orecchio teso in quella direzione, in attesa di reazioni. Ho buttato lo sguardo, potevo vedere il punto dove era finito il dito. Non c’era nessuno intorno. Forse vado a riprendermelo, non è giusto lasciarlo così, è pur sempre un dito. I pensieri si accavallavano, confusi.
È arrivato un cane, correndo, le orecchie penzolanti a fendere l’aria. Ha annusato. Ha annusato ancora e poi ha aperto la bocca. Il dito è scomparso nella sua bocca, in un angolo del parco. Fine.

Venerdì 28 Febbraio sarà pubblicato su queste pagine il
nuovo bando di MATCH POINT con il nuovo tema

La cagna, di William T. Vollmann

Minimum fax porta in libreria Tredici storie e tredici epitaffi di William T. Vollmann, tradotto da Chiara Belliti e Simona Vinci. Tredici storie che sfumano irrimediabilmente il confine tra l’invenzione e il reportage, la finzione e l’autobiografia, i mostri immaginati e quelli reali, e costituiscono uno dei più coraggiosi, approfonditi e sovversivi ritratti dell’America di oggi, un mosaico ardente sempre sospeso tra brutalità e romanticismo, in cui ogni storia si conclude con una piccola riflessione sulla morte, intesa come perdita irrecuperabile: piccoli epitaffi.

Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.


La cagna
di William T. Vollmann

...come dire che solo gli uomini possono essere abbastanza stupidi, nella società che ci ritroviamo, da indulgere nelle rapsodie dello scatenato Femminino.
Robert Harrison, Pharaoh’s Dream: the Secret Life of Stories

Blackwell se ne stava seduto con una mano sul ginocchio, l’altro palmo appoggiato al mento mentre con le dita tamburellava lentamente sulla visiera del berretto da baseball, e fissava dritto davanti a sé attraverso le dita pensando, e come li rimedio i soldi? In quel momento, odiava sua moglie. La odiava come merda velenosa su un vetro rotto. Ciò che desiderava, e che Naomi non era di sicuro, era una Pollastrella Qualsiasi che gli facesse smettere di fare i soldi a quel modo, ovvero attraversando il muro. Naomi non diceva mai: Blackwell baby dev’esserci un’altra soluzione; Naomi non diceva mai: ascoltami bene figlio di puttana guarda che ti lascio se non la smetti con questa follia di merda, be’, Naomi era giovane, stava appena cominciando a scoprire che cos’è la vita; Blackwell sapeva di dover mettere la testa a posto, ma doveva trovare i soldi per farlo, e Naomi di sicuro sapeva come sprecarli, i soldi, con la droga e i pantaloni stretch firmati e qualsiasi altra cosa, e non che gli portasse mai soldi a casa perché tutto ciò di cui era capace era comunque quello, e lo faceva fregandosene bellamente: lo faceva sia che ci fossero di mezzo i soldi oppure no. Maledizione, una volta mentre passava in macchina per strada l’aveva vista in piedi con un abitino color argento a fissare le auto con le mani serrate – non che quella fosse una prova, ma era comunque qualcosa. E un’altra volta l’aveva vista con sua sorella Marietta, e tutte e due avevano dei vestiti lunghi fino alle caviglie con più strati di una torta nuziale! Naomi in giallo, Marietta in azzurro, e indossavano quella specie, sapete, quella specie di sandali egizi e avevano i capelli a treccine e poi erano piene di anelli e di braccialetti di oro-plastica; Marietta portava un braccialetto con un crocifisso come per sforzarsi di essere proba o qualche altra stronzata del genere; e Naomi aveva una corona dorata e Marietta aveva una bandana azzurro cielo da cui pendevano perline di plastica; e lui aveva visto i balordi che ronzavano loro intorno, come se facessero finta di non sapere che erano lì per succhiare i loro cazzi o che altro. Quando si ricordava di quella scena, cominciava a sentirsi dispiaciuto per se stesso e allora si sedeva a bere e a cazzeggiare nel parco, dove faceva caldo e i ragazzi delle bande passeggiavano con i loro sorrisi bianchi e splendenti. Odiava Naomi. La odiava come il fetore.
Due uomini cominciarono a litigare.
Farai meglio a lasciare in pace la mia piccolina, disse uno dei due combattenti, altrimenti avrai dei problemi.
Nel giro di un minuto arrivò uno sbirro grasso. Smettetela, smettetela!, gridò. Circolare! Si appoggiò a un bidone dei rifiuti a braccia incrociate, le gambe accavallate, ad aspettare che ogni cosa tornasse bella e pacifica. Un altro poliziotto lo raggiunse.
E adesso ne abbiamo due!, disse Blackwell. Se mi rompono i coglioni, finisce male! Il cuore gli pulsava infuriato nel torace e nelle spalle finché non cominciò ad aver voglia che qualcosa succedesse, succedesse davvero, ma poi il secondo sbirro se ne andò, finalmente, e il suo collega si mise a camminare avanti e indietro lungo la fila delle panchine, guardando intensamente tutti in faccia. I gentiluomini della strada accanto a Blackwell annuivano e poi se ne andavano al piccolo trotto prima che arrivasse il loro turno.
Blackwell guardò dritto negli occhi di Bianchiccio. Non stavo facendo niente, disse.
E chi ti ha chiesto qualcosa?, rispose lo sbirro. Ho detto forse qualcosa?
Blackwell lo squadrò da capo a piedi. Stavolta non accadde nulla, così si avvicinò a un gruppo di ragazzini e cominciò a giocare a football. Non così lontano, capo, non così lontano, disse quando uno dei ragazzini scappò via. È troppo per me! Ma era ancora in grado di fare un bel lancio anche a quella distanza: era un uomo forte. Forse lancio più forte di quanto pensavo, disse in tono modesto, e il ragazzino aveva gli occhi spalancati per l’adorazione. Avanti, boss, rise Blackwell. Devi sviluppare il passaggio! Alla fine della storia, il punto era, pensò tra sé Blackwell, che lei non lo fermava, e allora perché doveva fermarsi lui, se a lei non gliene fregava un cazzo? In ogni modo, i suoi erano lavoretti di serie B. Non faceva male a nessuno. A volte, nelle notti giuste, rubava una camionata di vestiti di lusso da donna da un magazzino e poi li portava nei Projects, dove li passava in rassegna con mani rapide ed esperte, scegliendo quelli che voleva, arraffando tutti quelli che riusciva a caricare sul furgone preso a prestito, e per Blackwell era un po’come Natale e allora rideva e fumava un po’di crack e la vita era bella e lui gridava a se stesso oh, baby! E, quando aveva finito, la gente del Project calava sul camion con tutto il rispetto tipico degli avvoltoi e artigliava le rimanenze, mentre Blackwell stava a guardarli dallo specchietto retrovisore allontanandosi lentamente nell’oscurità, con i vestiti che gli tenevano caldo durante la notte, e rideva perché sapeva che, quando gli sbirri fossero arrivati – sempre che accadesse – ci sarebbe stato un fuggi fuggi tale in ogni direzione che non sarebbero mai riusciti a riconoscere chi c’era e chi no. Quando arrivava a casa, trovava Naomi in lacrime a singhiozzare cose tipo oh mio Dio e che cosa faremo se ti sbattono in galera, ma Blackwell aveva notato che un vestito nuovo di zecca, magari rosso e nero lucido e della taglia perfetta per coprire il suo piccolo culo sodo era più che sufficiente a farla stare zitta. Certo che se ne era accorto. In ogni caso, lui non faceva male a nessuno. Ehi, se rubava una camionata di soprabiti di lusso che poi si rivendevano bene come merda di cane fritta, dopotutto si trattava di pubblicità; per quei soprabiti del cazzo: avrebbero venduto alla grandissima nei negozi, di lì a qualche mese, aspettate e vedrete. – Ma Naomi quello non lo capiva mai, non l’aveva mai capito. Pensava che Blackwell fosse un poco di buono o qualcosa del genere. Be’, e lui che cosa doveva fare? Non era colpa sua, se aveva dovuto passare il confine. Non era colpa sua se era successo quello che era successo. Una volta aveva scassinato una cassaforte aspettandosi di trovare un paio di centinaia di bigliettoni, invece là dentro ce n’erano ottomila, tutti in biglietti da venti e da cento, e allora li aveva buttati in macchina e aveva cominciato a guidare verso i Projects e la polizia l’aveva inseguito e lui era andato sempre più veloce e ne era venuto fuori lasciando qualche porco a imprecare nella sua cazzo di autopattuglia, incazzato nero proprio come Naomi quando le aveva dato quello schiaffo, ma poi aveva sentito altre sirene della polizia arrivare, erano tante, erano sempre di più, e allora si era nascosto tra due torri dei Projects e aveva parcheggiato la macchina dietro le altre auto abbandonate ed era saltato fuori e aveva strisciato sotto, accovacciato, tra i vetri rotti e le lattine di birra, ed era rimasto nascosto lì tutta la notte. All’alba gli sbirri pattugliavano in lungo e in largo per la strada, gli davano la caccia, perché sapevano che lui era lì, ma non erano riusciti a beccarlo e lui aveva pensato di potercela fare davvero e si era immaginato lei che lo aspettava piangendo e a quel punto un sogghigno enorme gli aveva allargato la faccia; così avrebbe recitato quella cagna! E poi aveva pensato a quanto sarebbe stato bello quando sarebbe arrivato a casa girando silenziosamente la chiave nella serratura per non svegliarla ed eccola lì, addormentata con ancora i vestiti addosso, la testa appoggiata sul tavolo della cucina e le palpebre rosse e gonfie di pianto, e allora lui avrebbe strillato: BU!, e lei si sarebbe svegliata con un gridolino di paura e l’avrebbe fissato e lui avrebbe visto la rabbia che saliva a colorarle la faccia e poi, quando lei avrebbe aperto la bocca per mettersi a imprecare contro di lui, lui avrebbe cominciato a riempirgliela di dollari, ficcandoglieli bene dentro! Biglietti da dieci, biglietti da venti, da cento, avrebbe ficcato tutti i soldi nella sua boccaccia per imbavagliarla e farla star zitta e stupirla così tanto che lei l’avrebbe amato davvero. Oh, quanto la amava – la verità era che non trovava una sola ruga in più, sulla sua faccia, rispetto al giorno in cui l’aveva vista per la prima volta, la sua pelle così morbida e fine, le labbra piene color cremisi e scintillanti tanto che, quando aveva cominciato a baciarlo, tutta la sua faccia e il suo corpo erano rimasti macchiati di rossetto, un po’come se lei spalmasse il suo sapore un po’dappertutto su di lui, e le sue ciglia erano graziosamente letali come carta moschicida (ma negli ultimi tempi gli occhi erano diventati più grandi nella maschera sottile del volto e il modo in cui lo guardava non era né amichevole né ostile). Insomma, Blackwell aveva le sue speranze, e non sarebbe nemmeno andata così, oltretutto, se non ci fosse stata una signora che nella notte l’aveva visto andare a nascondersi sotto da quella parte! Aveva guardato il muretto e aveva visto gli occhi liquidi di Blackwell che la guardavano e lei l’aveva fissato ancora con una sorta di faccia impietosa e determinata e spaventata e aveva fatto un passo indietro e Blackwell aveva pregato Oh Signore fa’ che muoia d’infarto proprio in questo preciso momento oh Signore fa’ che non apra la sua bocca grassa e lurida, Amen. Ma Miss Ficcanaso stava già correndo verso l’autopattuglia strillando: Agente! Ehi Agente!, e uno sbirro era uscito e le aveva detto di sloggiare subito, che quella era una zona pericolosa adesso, e Blackwell aveva pregato che un jet le precipitasse nel cuore, ma la puttana continuava a non volersi fare i cazzi suoi ed era corsa dall’altra parte della strada dove c’era un gruppo di sbirri che se ne stavano in crocchio con le radio che friggevano come pancetta la mattina, ma in quel momento c’era soltanto una poliziotta rimasta a perlustrare la zona quando Miss Ficcanaso aveva strillato: Ehi, agenti, io l’ho visto!, e i porci erano rimasti ad ascoltarla blaterare per un minuto e poi la poliziotta aveva estratto la pistola e si era avvicinata con tanta determinazione da convincersi che magari Blackwell avrebbe pensato che non aveva paura di lui, ma cazzo! lui non era nato ieri anche se il suo cuore continuava a bomb-bomb-bombargli nel petto perché Miss Piggy stava guardando dritto verso di lui come se lo vedesse (ma non era possibile) e poi aveva detto: Ehi tu vieni fuori di lì, e Blackwell era rimasto immobile sapendo che lei non poteva vederlo nonostante i suoi grandi occhioni blu stessero guardando proprio verso di lui da dietro gli occhiali di plastica e lui poteva vedere gli occhi che diventavano sempre più grandi e allora Blackwell si era accovacciato ed era rimasto perfettamente immobile dietro i cespugli di rovi pensando tra sé Mi piacerebbe farti grugnire brutta puttana poliziotta culona e il cuore che batteva sempre più forte; si sentiva così vivo, e allora pensò tra sé non mi vede ma poi Miss Ficcanaso urlò: È PROPRIO Lì L’HO VISTO, e lady sbirra mise il dito sul grilletto e intimò ancora una volta a Blackwell di venire fuori da lì e lui ora sapeva che lei lo stava vedendo e sentiva il suo fiato addosso da tanto era vicina: stava respirando alla svelta e lui disse: non sparare, e cominciò a uscire dal suo nascondiglio e la poliziotta cagna andò verso la macchina, senza mai distogliere lo sguardo da lui, e chiamò rinforzi via radio – oh, si era guardata bene dall’ammettere davanti a Blackwell di essere l’unico sbirro in zona, eh? Eh? Ma lui sapeva cosa stava succedendo e lo trovava perfino divertente; non aveva intenzione di tentare scherzi strani, però, perché la tipa teneva quella pistola puntata, e così si era accovacciato lì ed era rimasto mezzo fuori e mezzo dentro il suo nascondiglio, con la testa fuori come quella di una tartaruga e le mani sulla nuca e allora erano arrivati correndo anche gli altri sbirri e gli avevano detto di uscire lentamente e Blackwell aveva detto: Sto uscendo, e poi riconobbe lo sbirro che aveva seminato all’inizio sull’autostrada e quello era furioso perché Blackwell gli era sfuggito e a catturarlo era stata una stramaledetta vacca e non lui – pensate un po’! – e così con il gomito strinse Blackwell in una morsa che per poco non lo strangolò e lo stese per settimane e poi gli misero le manette e lo sbatterono in galera. E tutto quello che Blackwell riusciva a pensare era: è tutta colpa di mia moglie, maledizione a quella fottuta cagna.

Il rublo fatato, di Renato Fucini

Il rublo fatato
di Renato Fucini

Vi è in Russia una leggenda popolare, la quale insegna il modo di procurarsi, per mezzo della magia, un rublo fatato; e questo rublo, quando si spende, ha la virtù di ritornare da sé, intatto, nella tasca di chi lo ha speso. Per giungere a possedere questa magica moneta occorre sottoporsi a una quantità di prove paurose che io non ricordo bene quali e quante siano. Ne ricordo una sola: quella del gatto.

Per questa prova occorre prendere un gatto nero e far di tutto per venderlo nella notte di Natale, tenendo bene a mente che questa vendita deve aver luogo sul crocicchio di tre strade, una delle quali è assolutamente necessario che conduca ad un cimitero. Alla mezzanotte in punto apparirà un individuo il quale entrerà subito in trattative con voi per la compra del gatto. Costui offrirà per la povera bestiola molti denari; ma il venditore è in obbligo di accettare un solo rublo, né più né meno; se no, tutto è inutile. Quando il venditore avrà riscosso la moneta, è indispensabile che se la metta subito in tasca stringendola con la mano, e che si allontani più presto che può, senza voltarsi indietro. Il rublo riscosso sarà quello fatato, sarà cioè quel rublo meraviglioso che ha la virtù di tornare nella tasca del suo padrone subito appena egli lo abbia speso. È inutile dire che quest’affare del rublo e del gatto dev’essere una fiaba bella e buona; ma è certo che molte persone del volgo vi prestano fede a occhi chiusi, come ve la prestavo io quando ero bambino.

E appunto quando ero bambino, una sera di Natale (avrò avuto allora circa sette anni) la mia bambinaia, mettendomi a letto, mi parlò di tante belle cose che avrei potuto fare con quel rublo miracoloso e, prima di lasciarmi, si chinò sul mio capezzale e dolcemente mi sussurrò in un orecchio che questa volta le cose non sarebbero andate come il solito perché la mia nonna era in possesso del rublo fatato, e che si era decisa di regalarmelo. Meravigliato da questa ella notizia, chiesi impaziente alla bambinaia un monte di spiegazioni; ma essa, dandomi un bacio sulla fronte, mi rispose: – Ti spiegherà tutto la nonna; ora dormi tranquillo, e quando ti sveglierai essa ti porterà il rublo agognato e ti dirà come dovrai contenerti quando quella moneta sarà tua.
Allettato da questa cara promessa, mi addormentai più presto che mi fu possibile, col cuore gonfio di gioia, pensando che il giorno di poi sarei diventato finalmente padrone del magico rublo.
La bambinaia non mi aveva ingannato; la notte mi passò di volo, tanto che restai sorpreso di vedere il giorno chiaro quando mi destai e di sentirmi gli occhi fradici di lacrime. La nonna era già accanto al mio letto, con la sua cuffietta bianca ornata di nastri, e mi guardava sorridendo, tenendo fra le dita della sua mano sottile una moneta d’argento, nuova e luccicante.
– Tu hai pianto! – mi disse. – Perché?
Il perché non volli dirglielo, ed essa soggiunse: – Ecco; per consolarti, io t’ho portato, e te lo regalo, il rublo fatato. Prendilo, alzati e fa’ la tua preghiera. Più tardi, noi vecchi, andremo da padre Basilio a prendere il tè, e tu solo… ma intendi bene, perfettamente solo, potrai andare alla fiera di Kron a comprarti tutto quello che ti farà piacere. Là, dopo aver contrattato un oggetto qualunque, metterai la mano in tasca, caverai fuori il rublo e pagherai; ma potrai contrattar subito nuovi oggetti perché il rublo, appena toccate le mani del venditore, sarà di nuovo tornato nella tua tasca.
Io soggiunsi: – Lo so, nonna, lo so! – e strinsi la moneta meravigliosa nella palma della mano, con tutta la mia forza.
La nonna seguitò: – Il rublo ritorna, sì, è vero; e questa è la buona qualità che la natura gli ha dato, e, per di più, non si può smarrire; ma ha però un’altra proprietà che non è punto vantaggiosa: il famoso rublo non ritornerà nella tua tasca, se tu comprerai un oggetto che non sia utile e buono per te e per gli altri, perché se tu spenderai anche un soldo solo malamente, il rublo sparirà subito e sarà impossibile che tu lo ritrovi.
– Cara nonna – dissi – le sono riconoscentissimo per tutto ciò che mi ha detto, ma nonostante che io sia sempre piccino, non mi creda tanto semplice da non saper distinguere le cose utili e buone da quelle inutili e cattive.
– Va bene! Sono contenta delle tue buone intenzioni, ma soltanto mi sembra che tu sia un po’ troppo sicuro di te stesso. Stai in guardia, ragazzo mio, e persuaditi che l’impresa alla quale ti accingi non è tanto facile quanto te la figuri.
– In tal caso, non potrebbe lei accompagnarmi alla fiera?
La nonna acconsentì; ma mi prevenne che non avrei potuto avere da lei alcun consiglio, perché il possessore del rublo fatato deve far tutto da sé, ispirato dal proprio cuore e dalla propria intelligenza.
– Mia cara nonnina, lei stia sicura: basterà che io la guardi in viso, perché così potrò leggerle negli occhi tutto quello che mi occorrerà sapere da lei.
La nonna, vinta dalle mie calde preghiere, mandò ad avvisare il padre Basilio che da lui sarebbe andata più tardi; e ci incamminammo verso la fiera.
Laggiù incontrammo una gran quantità di gente tutta rivestita a festa; e fra questa gente, i ragazzi delle famiglie più ricche, i quali avevano avuto dai loro babbi i soldi occorrenti per le piccole spese, davano una nota gaia, avendo molti di essi già consumato il loro capitale in fischietti di coccio, in trombette e in tamburini, coi quali facevano un terribile frastuono. I bambini poveri che non avevano avuto dai loro genitori altro che pochi spiccioli, stavano indisparte a guardare con invidia, grattandosi il capo e leccandosi le labbra. Io capivo quanto sarebbero stati felici quei poveri piccini se avessero potuto possedere anche uno di quegli ammirabili strumenti musicali per unirsi con tutta la loro anima a quella rumorosa allegria. I fischietti, le trombette, i tamburi non mi sembravano, per dire il vero, oggetti indispensabili, e nemmeno utili; nonostante, il viso della nonna non espresse disapprovazione all’idea che m’era venuta nella mente, anzi il suo sguardo era raggiante di gioia. Questa gioia io la presi, naturalmente, come un segno di approvazione, e, tirato fuori il mio famoso rublo, acquistai una grande quantità di quei rumorosi strumenti, provando la doppia contentezza di veder subito allegri quei poveri piccini e di sentire che proprio, sul serio, nella mia tasca c’era sempre il famoso rublo dopo averne già spesi una diecina.

Fatta la distribuzione dei regali, la nonna, accarezzandomi dolcemente, mi disse: – Vedi, carino mio, tu hai agito benissimo perché anche i bambini poveri hanno diritto di divertirsi; e le persone che, avendone i mezzi, cercano di procurare a questi un poco di piacere, fanno cosa degna di un animo gentile e di un cuore generoso. E per provarti che ho veramente ragione, frugati in tasca e sentirai che il tuo rublo è sempre al posto.
E io pronto risposi: – Lo so, nonna; l’ho già sentito prima che lei me lo dicesse. Il rublo eccolo sempre qui.

Dopo aver comprato qualche dolce per me, mi avvicinai a una bottega di merciaio dove si vendevano stoffe divario genere, nastri, fazzoletti ed altre cose di comodità e d’eleganza, e ne comprai per tutte le persone di servizio alle quali, essendo molte di esse lì presenti, feci subito la distribuzione, guardando che ogni regalo fosse assegnato secondo l’età e il desiderio di ciascuna. Ed era per me una grande contentezza il sentire che, dopo ogni spesa fatta, quel famoso rublo era sempre lì ad aspettare che io l’adoperassi per altre compre. Più tardi acquistai per la figlia della fattoressa, la quale quel giorno s’era promessa sposa, un bel vezzo di corallo, un bel libro di salmi per la vecchia Marta portinaia, un orologio per il cuoco, una canna d’India col pomo d’argento per il padre Basilio e, forse eccedendo in spese che mi parvero alquanto di lusso, comprai anche una bella cintura di cuoio al cocchiere e un organino col mantice al nostro giovane giardiniere che è tanto allegro.

Nel fare tutte queste compre mi dette sempre coraggio il viso della nonna, la quale non prese mai atteggiamento di disapprovazione; e più me ne dette il sentire che in fondo alla tasca c’era sempre intatto il rublo miracoloso.
La mia condotta a questa fiera attirò su di me l’attenzione della moltitudine: tutti mi guardavano, tutti mi seguivano e da ogni parte si sentiva esclamare: – Ma guardate come è bravo e come è buono il nostro signorino Demetrio! – E qualcuno aggiungeva: – È vero che la sua famiglia è ricca; ma se egli ha il modo di fare tanta spesa, non v’è dubbio che deve essergli riuscito d’avere a sua disposizione il famoso rublo fatato!
Per dire il vero, gli elogi di tutta quella gente che mi seguiva guardandomi con affetto e con ammirazione, mi arrivavano dolcemente al cuore; ma nel fondo dell’anima io mi sentivo triste e agitato.

In questo mentre (e non so da qual parte venisse) si avvicinò a me un mercante, il più giovane e il più simpatico di quanti si trovavano a quella fiera, il quale facendomi una profonda riverenza, mi disse: – Io sono, è vero, qui a questa fiera, il più giovane e il più simpatico di tutti i mercanti, ma sono anche quello che ha più esperienza di tutti; e lei non riuscirà ad ingannarmi. So anche che ella può comprare tutto ciò che vi è su questo mercato perché possiede il celebre rublo fatato; ma vi è qualche cosa che anche col suo miracolosissimo rublo ella non potrà acquistare.
– Sì, lo so, lo so anch’io – risposi – sono le cose inutili le quali io, certamente, non comprerò mai.
– Ebbene, lo vedremo. Intanto faccia ben attenzione a quanti, dopo i benefizi da lei fatti, le stanno d’intorno.

Mi voltai di scatto a guardare, e fui dolorosamente sorpreso nel vedere che ero rimasto solo col mercante. La folla che prima mi attorniava si era riversata da un’altra parte della fiera e attorniava invece un certo uomo, lungo come una pertica e magro come una cavalletta, il quale, sopra la pelliccia, indossava una leggera sottoveste di tela, tutta sparsa di larghi bottoni di vetro che ad ogni movimento della sua persona gettavano lampi di luce vivissima.
– Io non trovo in quell’uomo nulla che meriti tanto entusiasmo – dissi al mio compagno.
– Sarà. Ma lei osservi come quest’uomo, invece, piace a tutti. Guardi quanta folla gli corre dietro! E fra quella folla non riconosce nessuno?… Osservi… Li vede? Quei bambini che fanno tanto schiamazzo davanti a lui, sono quei medesimi ai quali ella ha regalato poco fa fischi, tamburi e trombette; quella bella ragazza che si pavoneggia sotto quel ricco vezzo di corallo, è la figliola della fattoressa; la vecchia che si arranca dietro agli altri, tenendo in mano quel libro nuovo dei salmi, è Marta la portinaia; quel prete che si appoggia ad una magnifica canna d’India col pomo d’argento, è padre Basilio; quello che porta alla vita una superba cintola di cuoio e quell’altro che tiene sotto il braccio un delizioso organino col mantice, sono il suo cocchiere e il giovane allegro che guarda i suoi giardini.

Quella vista risvegliò in me un sentimento di dispetto; mi sembrò che tutto quell’entusiasmo sonasse offesa per me e, nello stesso tempo, sentii pungermi acutamente dalla smania di stornare da quel ciarlatano tanta ammirazione e di richiamarla intera, come sentivo di meritarmela, verso di me. E frettolosamente corsi incontro a quell’uomo, e, stringendo nella mano il mio rublo, gli domandai: – Vuoi vendermi la sua sottoveste?

L’uomo dai bottoni di vetro voltò la sua persona dalla parte del sole, i bottoni mandarono lampi da accecare, e risolutamente e con voce sonora mi rispose: – Sì, signore. Io gliela venderò con piacere: ma l’avverto che essa costa molto cara.
– E che me ne importa? Mi dica il prezzo che ne vuole e il nostro affare sarà subito concluso.
– Lei, caro signor bimbissimo, è senza esperienza; ed è naturale alla sua età! – E sorridendo furbescamente, soggiunse: – Ella non capisce di che si tratta. La mia sottoveste non ha alcun valore e, per quello che essa merita, gliela potrei dare anche gratis; ma i bottoni, sebbene di vetro, costano cari… molto cari. Quelli io non potrei darglieli per meno di dieci rubli l’uno. Essi, è vero, non tengono caldo e sono continuamente esposti al pericolo, per la loro fragilità, d’andare in bricioli; ma hanno, in compenso, la grande virtù, coi lampi di luce che mandano, di abbagliare la folla e di tirarsela dietro nel modo come lei vede accadere, qui intorno a me.
– Non c’è nessuna difficoltà – gli dissi. – Sono pronto a darle, per ogni bottone, i dieci rubli che chiede. Si levi da dosso la sottoveste e me la dia.
– Gliela darò; ma prima deve pagarmi.
– Sta bene.
Mi frugai in tasca, tirai fuori il primo rublo e glielo detti: mi frugai di nuovo… la tasca era vuota!… Cercai, raspai, sperando che per qualche sdrucio delle costure mi fosse andato fra la stoffa e la fodera del vestito… Nulla! Il mio rublo era scomparso!
Tutti mi guardavano ridendo; e io, dopo aver tentato inutilmente di trattenere le lacrime, detti in un pianto dirotto, di stizza e di vergogna… In quel momento mi svegliai.

Era spuntato il giorno, e accanto al mio letto vidi la nonna con la sua cuffietta bianca ornata di nastri, la quale, guardandomi sorridente, teneva fra le dita della sua mano sottile un rublo nuovo d’argento che essa, ogni anno, era solita portarmi in regalo la mattina del Natale.
Alla vista di quella vecchina a me tanto cara, capii che tutto ciò che avevo veduto non era altro che un sogno; e mi affrettai a raccontarle per quale causa, dormendo, avessi pianto. Quando le ebbi raccontato tutto, la nonna, così buona, mi disse: – Il tuo sogno è bello, adorabile bambino mio, e potrà esserti anche utile, se mi riuscirà fartene capire il significato. Secondo me, il rublo fatato rappresenta il dono dell’intelletto che la Provvidenza da all’uomo fino dalla nascita; e quel ritornare del rublo tutte le volte che lo avevi speso utilmente significa che la ricchezza dell’intelligenza e del cuore non diminuisce mai, anche se cuore e intelligenza spendono da prodighi tutto il bene che posseggono. L’uomo con la sottoveste sopra la pelliccia e coi bottoni di vetro lucente, rappresenta la stolta Vanità, la quale non è buona altro che ad offuscare la mente; e anche tu, senza accorgertene, ne sei rimasto offuscato, poiché, non contento del molto che avresti potuto fare in seguito col tuo rublo fatato, sei corso dietro al ciarlatano per voler comprare una sottoveste buona a nulla e dei bottoni di vetro, buoni soltanto per abbagliare gli sciocchi. E la punizione t’è venuta meritata e sollecita quando, frugandoti nella tasca, hai sentito che il famoso rublo non c’era più. Così doveva succedere; e sono contenta che dal tuo sogno tu abbia avuto una lezione la quale, spero, non ti uscirà né facilmente né presto dalla memoria. Ora vèstiti, bambino mio, fa’ la tua preghiera e disponi tutte le tue cosine per venire con me alla fiera dove potrai fare in realtà molti acquisti di quelli che avevi fatti in sogno. Vuoi venire?
– Si figuri, nonnina mia! E stia certa che, di tutte le cose che ho comprato sognando, una sola cosa non comprerò ora che sono desto, – io dissi.
– Lo so che cosa non comprerai. Non comprerai la sottoveste coi bottoni di vetro.
– No, non l’ha indovinato! Non comprerò i dolci per me!

La falsa filastrocca, un racconto di Mary Shelley

Nel Gennaio 2023 le edizioni Clichy portano in libreria La tomba senza nome, e altri racconti inediti di Mary Shelley tradotti da Francesca Rizzi. Un’appassionante raccolta di racconti dell’autrice di Frankenstein, la maggior parte dei quali inediti in Italia.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La falsa filastrocca
di Mary Shelley

Vieni, dimmi dove si trova la damigella il cui cuore può amare senza inganno,
e girerò il mondo intorno per sospirare un momento ai suoi piedi.
Thomas Moore

Un bel giorno di luglio, la bella Margaret, regina di Navarra, in visita presso il fratello reale, organizzò una festa in campagna per il mattino seguente, alla quale Francis rifiutò di partecipare. Era malinconico, si diceva a causa di un litigio fra amanti con una dama favorita. Giunse il mattino e una pioggia scura e cupe nuvole distrussero in colpo solo i piani della corte. Margaret era arrabbiata e si stava stancando: la sua unica speranza di svago era riposta in Francis, ma questi si era chiuso in sé stesso, un’ulteriore ottima ragione per volerlo vedere. Lei entrò nella sua stanza: lui era in piedi vicino alla finestra contro la quale batteva la pioggia rumorosa, scrivendo sul vetro con un diamante. La sua unica compagnia erano due bellissimi cani. Non appena Margaret entrò, questi chiuse velocemente le tende di seta della finestra, e sembrò un po’ confuso.
«Che tradimento è questo, mio signore» disse la regina, «che vi fa arrossire? Devo vederlo anche io».
«È un tradimento» replicò il re, «perciò, dolce sorella, non potete vederlo».
Ciò accrebbe ancora di più la curiosità di Margaret e ne seguì una divertente sfida; Francis alla fine cedette: si gettò su un enorme divano dallo schienale alto e quando la dama scostò le tende con un ampio sorriso, divenne serio e malinconico, mentre rifletteva sulla ragione che aveva ispirato il suo disprezzo contro tutto il genere femminile.
«Cosa abbiamo qui?» esclamò Margaret, «no, questa è lèse majesté [1]:
“Souvent femme varie, bien fou qui s’y fie!” [2]
Un piccolissimo cambiamento migliorerebbe enormemente le vostre rime… non funzionerebbero meglio così:
“Souvent homme varie, bien folle qui s’y fie!”? [3]
Potrei raccontarvi venti storie sull’incostanza degli uomini».
«Mi accontenterò di una storia vera sulla fedeltà di una donna» disse seccamente Francis, «ma non provocatemi. Mi piacerebbe non sentir parlare delle piccole mutevolezze, per amor vostro».
«Sfido Vostra Grazia» rispose Margaret, d’impeto, «a dimostrare la falsità di una nobile e ben nota dama». «Nemmeno Emilie de Lagny?» chiese il re.
Questo era un tasto dolente per la regina. Emilie era cresciuta nella sua stessa casa, era la più bella e la più virtuosa delle sue damigelle d’onore. Aveva amato molto il sire de Lagny, e le loro nozze erano state celebrate con gioia, ma senza il lieto fine. L’anno successivo de Lagny fu accusato di aver ceduto a tradimento all’imperatore una fortezza sotto il suo comando e fu condannato alla reclusione perpetua. Per qualche tempo Emilie sembrò inconsolabile, faceva spesso visita alla squallida prigione del marito, soffrendo al suo ritorno per aver assistito alla sua miseria, con parossismi di dolore che la mettevano in pericolo di vita. Improvvisamente, nel pieno della sofferenza, scomparve, e le indagini fecero trapelare solo il disonorevole fatto che era fuggita dalla Francia, portando con sé i suoi gioielli e in compagnia del suo paggio, Robinet Leroux. Si mormorava che, durante il loro viaggio, la dama e il giovane avessero spesso occupato una sola camera, e Margaret, infuriata per queste scoperte, ordinò che non si facessero ulteriori ricerche sulla sua prediletta smarrita. Così, schernita dal fratello, difese Emilie, dichiarando di ritenerla priva di colpe e arrivando persino a vantarsi che entro un mese avrebbe portato la prova della sua innocenza.
«Robinet era un bel ragazzo» disse Francis, sorridendo.
«Facciamo una scommessa» esclamò Margaret, «se perdo, porterò questa vostra vile filastrocca come epigrafe sulla mia tomba; se vinco…»
«Manderò in frantumi la finestra, e vi concederò qualsiasi cosa chiediate».
Le conseguenze di questa scommessa furono cantate a lungo da trovatori e menestrelli. La regina impiegò un centinaio di emissari, promise ricompense per qualsiasi informazione su Emilie: tutto invano. Il mese volgeva al termine e Margaret avrebbe dato molti brillanti gioielli per riscattare la sua parola. La vigilia del giorno fatidico, il carceriere della prigione in cui era rinchiuso il sire de Lagny chiese udienza alla regina; le portò un messaggio dal cavaliere per dirle che se Lady Margaret avesse chiesto la grazia per lui, e lo avesse fatto condurre davanti al fratello, avrebbe vinto la sua scommessa. La bella Margaret ne fu molto felice, e adempì volentieri alla richiesta. Francis non voleva vedere il suo falso servitore, ma era di ottimo umore, perché quel mattino un cavaliere aveva riportato la notizia di una vittoria sugli imperialisti. Lo stesso messaggero veniva lodato nei dispacci come il cavaliere più impavido e coraggioso di Francia. Il re lo riempì di doni, rimpiangendo solamente il fatto che un giuramento impediva al soldato di alzare la visiera o di dichiarare il suo nome.
Quella stessa sera, mentre il sole al tramonto splendeva sulla vetrata su cui era tracciata la filastrocca poco cortese, Francis stava riposando sullo stesso divano quando la bella regina di Navarra, con il trionfo nei suoi occhi luminosi, si sedette accanto a lui. Il prigioniero fu portato dentro, accompagnato dalle guardie: era indebolito dalle privazioni e barcollava. S’inginocchiò ai piedi di Francis e si scoprì il capo, così fuoriuscì una massa di meravigliosi capelli d’oro, che cadde sulle guance infossate e sulla fronte pallida del supplicante. «Abbiamo un inganno qui!» gridò il re, «signor carceriere, dov’è il vostro prigioniero?» «Sire, non incolpatelo» disse la voce dolce e tremante di Emilie, «uomini più assennati di lui sono stati ingannati dalla donna. Il mio caro signore non era colpevole del crimine per il quale ha sofferto. Non c’era che un modo per salvarlo: ho preso su di me le sue catene. Egli è scappato con il povero Robinet Leroux nei miei vestiti, e si è unito al vostro esercito: il giovane e valoroso cavaliere che ha consegnato i dispacci a Vostra Grazia, che avete sommerso di onori e doni, è il mio Enguerrard de Lagny. Ho solamente aspettato il suo arrivo con le testimonianze della sua innocenza, per annunciarmi alla mia signora, la regina. Non ha vinto la sua scommessa? E la sua richiesta è...»
«È il perdono di de Lagny» disse Margaret, inginocchiandosi anche lei davanti al re, «risparmiate il vostro fedele vassallo, sire, e premiate l’onestà di questa signora».
Francis per prima cosa ruppe la finestra menzognera, poi fece alzare le dame dalla loro posizione supplichevole.
Nel torneo indetto per celebrare questo «Trionfo delle dame», il sire de Lagny portò a casa ogni premio e sicuramente c’era più bellezza nella guancia infossata di Emilie - più bellezza nel suo corpo emaciato, marchi di vero affetto - che nel portamento più orgoglioso e nella carnagione più fresca della bellezza più sfolgorante che assisteva alla festa di corte.

1 «Lesa maestà», in francese nel testo originale (N.d.T.).
2 «Spesso le donne cambiano idea, stolto chi si fida!». In francese nel testo originale (N.d.T.).
3 «Spesso gli uomini cambiano idea, stolta chi si fida!». In francese nel testo originale (N.d.T.)

Sogno di Natale, di Luigi Pirandello

Sogno di Natale
di Luigi Pirandello

"Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l'impressione d'una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l'anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors'anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.
Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:
- Buon Natale - e sparivo...Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l'immagine di lui m'attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m'arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d'una luce interiore, sorvolava su un'alta siepe di rovi, che s'allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant'egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall'irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d'una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell'immenso arco dell'orizzonte.
Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d'una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.
- Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d'odio e d'invidia pronunziate nell'interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l'impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto...
Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch'ero la sua ombra per terra, non mi disse:
- Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.
- E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.
Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:- Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.
- La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni?
- Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.
- Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l'impressione sul mio capo inchinato, m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

Il serpente d'acqua, di Lev Tolstoj

Ortica Editrice porta in libreria Racconti animali di Lev Tolstoj, tradotto da Angelo Treves.
Favole e brevi racconti dedicate agli animali e al nostro rapporto con loro rivolte anche ad un pubblico di giovani lettori. Osservazioni descrizioni e considerazioni reali o immaginarie che ci conducono nei territori del meraviglioso mondo animale. Alcune delle favole sono adattate da Esopo, altre da La Fontaine, altre provengono da fonti arabe o indiane. Tolstoj desiderava che i suoi scritti raggiungessero direttamente l'anima del popolo e dei semplici e che formassero le nuove generazioni ad un'etica della fiducia e della generosità. Commosso da tutte le manifestazioni della vita e della natura, in particolar modo degli animali, Tolstoj cerca di trasmettere ai suoi giovani discepoli il rispetto verso tutti gli esseri viventi.

Cattedrale propone uno dei racconti contenuti nel testo, per gentile concessione dell’editore.

Il serpente d’acqua
di Lev Tolstoj

Una donna aveva una figlia, chiamata Marietta. Un giorno, Marietta andò a bagnarsi nel fiume con le sue amiche. Le ragazze si tolsero le camicie, le lasciarono sulla riva e saltarono in acqua.
Una grossa lucertola strisciò fuori dall’acqua, si arrotolò in forma di palla e si coricò sulla camicia di Marietta. Le ragazze uscirono dall’acqua, rimisero le camicie e tornarono a casa di corsa. Quando Marietta andò per prendere la sua, vide sopra il serpente; prese un bastone e tentò di scacciarlo. Ma questo alzò la testa, fischiò dolcemente, e mormorò queste umane parole.
— Marietta, Marietta, prometti di sposarmi.
Marietta pianse e disse: — Prima rendimi la mia camicia, poi sarò pronta a tutto.
— Mi prenderai per marito?
Marietta disse: — Ti sposerò.
Il serpente, immediatamente, abbandonò la camicia e sparì nell’acqua.
Marietta rimise la camicia e corse a casa.
Come vi giunse, disse a sua madre: — Mamma, un enorme serpente era coricato sulla mia camicia, mi disse: Sposami, altrimenti non riavrai la tua camicia. Ed io ho dato la mia parola.
La madre rise dicendo: — Avrai sognato, figlia mia. Una settimana dopo, ecco che una banda di serpenti giunse strisciando fino alla casa di Marietta.
Quando Marietta li vide avvicinarsi, ebbe paura e disse: — Mamma, ecco i serpenti: vengono a prendermi. La madre dapprima non volle credere, ma quando ebbe visto, provò anche lei una gran paura; chiuse la porta d’entrata e quella della camera. I rettili si ritirarono. Formarono un grosso pacco avvinghiandosi fra loro, rotolarono in una sola massa verso la casa e, come un’enorme palla, con un solo balzo vennero ad urtare la finestra. L’urto ruppe i vetri: i serpenti caddero sul pavimento, strisciarono sul banco, sui tavoli, fin sulla stufa. Marietta s’era nascosta in un angolo dietro la stufa; ma i serpenti la scoprirono, la trassero fuori e la trascinarono fino al fiume. La madre, tutta in lacrime, gli corse dietro, ma non li poté raggiungere. I serpenti si gettarono in acqua, trascinando con loro Marietta.
La madre credette che Marietta fosse morta, e la pianse.
Un giorno, la madre di Marietta era seduta presso la finestra e guardava dalla strada, quando ad tratto vide Marietta che veniva verso di lei, tenendo per mano un bambino e fra le braccia una bambina. La madre si rallegrò molto e abbracciò sua figlia: — Dove vivi, le chiese, e di chi sono questi bambini?
Marietta rispose che erano suoi, che il serpente l’aveva sposata e che essi vivevano nel più profondo del regno delle acque. — Vi si vive bene?, domandò la madre.
E la figlia rispose che vi si viveva meglio che sulla terra.
La madre pregò la figlia di restare con lei, ma la figlia non acconsentì. Disse di aver promesso a suo marito di tornare.
Allora la madre le domandò: — E come farai a tornare a casa tua?
— Andrò al fiume, griderò: Jo! Jo! esci dall’acqua! vieni qui! vieni a prendermi!; egli striscierà sulla sponda e mi prenderà con sé.
La madre rispose: — Bene. Ma resta almeno stanotte con me.
Marietta andò a letto e s’addormentò. La madre prese una scure e andò al fiume.
Giunta in riva all’acqua gridò: «Jo! Jo! esci dall’acqua! vieni qui!».
Il serpente mise la testa fuori dall’acqua per arrampicarsi sulla sponda. La madre gli assestò un colpo con la scure e gli tagliò la testa. L’acqua divenne tutta rossa di sangue.
La madre tornò a casa. La figlia si svegliò e disse: — Voglio tornare a casa mia: comincio ad annoiarmi.
E Marietta partì, tenendo il bambino per la mano e la bambina fra le braccia.
Quando fu sulla sponda, gridò: «Jo! Jo!, esci, vieni da me!». Ma nulla uscì dall’acqua.
Guardò il fiume e vide che era rosso e che una testa di serpente galleggiava sull’acqua.
Allora Marietta baciò suo figlio, e baciò sua figlia dicendo: — Voi non avete più padre, voi non avrete più madre. Tu, piccina, diventa la rondinella che si libra sulle acque; e tu, mio piccino, diventa l’usignuolo che canta all’alba la sua canzone. Io, sarò il cuculo, il cui monotono lamento piange la perdita del suo compagno.
E si separarono. Ciascuno prese il volo, ciascuno partì nella propria direzione.

La mia bebisitter è un orco, di Paolo Di Orazio

D Editore porta in libreria Nuovi delitti di Paolo Di Orazio. I piccoli assassini di Primi delitti sono cresciuti, ed è arrivato, per loro e per noi, il tempo di assaporare il sanguinolento sapore di… Nuovi delitti. Con Nuovi Delitti, il maestro dell’horror Paolo di Orazio riporta alla luce i protagonisti che hanno infestato le pagine del primo libro, ormai adulti, ma non per questo meno pronti a sporcarsi le mani di sangue!

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nel libro per gentile concessione dell’editore.

La mia bebisitter è un orco,
di Paolo Di Orazio

Buio in sala. Stasera ho scelto i Polar Inertia col brano XLR8R Mix.
Sono completamente nuda e la mia pelle è bianca sotto le luci allo xeno. La pulsazione del ritmo, io appartengo all’acciaio. Ho freddo. Non mi piace tenere i capelli legati durante la sospensione. È un patto con la gravità, non posso truffare il Creato. Sigfrido è bravo con le luci. Lui sa come fare. La musica non è per le orecchie, ma per il rito. Il rito è per me. Io sento il respiro e il cuore del pubblico, le persone che stanno nel buio. Stanno lì, hanno pagato, ma devono scomparire perché io sono la loro dea. Qualcuno è già eccitato, perché pensa che io sia una puttana, perché pensa che io scoperei chiunque, lo sento il respiro diverso di quelli che vorrebbero scoparmi. Lo sento benissimo. Se mi concentro su quel respiro, io sarò pronta prima, pronta a staccarmi da terra. Più mi vogliono e più devo staccarmi da terra.
Io mi amo e non sono di nessuno.

Il ritmo è perfetto, la pelle affamata. La mia pelle è affamata.
Suoni siderali.
Sigfrido al mixer luci orienta il fascio dei faretti sul Ragno muovendoli rapidi. Li fa correre nel buio. Si inseguono. La struttura sopra di me si illumina in fulmini geometrici al passaggio degli spot bianchi. Sono completamente nuda e distesa sul pavimento di questa sala teatrale. Il pubblico per ora vede solo me, in un ovale di luce, io non vedo il pubblico. Ancora per poco sarò Klarissa.
E appena il Ragno mi solleverà coi suoi fili, io non sarò più Klarissa.
Libera di nuovo.
Ma solo per un po’.
Finché stanotte non torno a casa.

Mi chiamo Iodea. Klarissa è un nome d’arte. Ho trentasei anni. Da bambina ho ucciso la mia babysitter. Si chiamava Melania e, a quanto ne so, era psicopatica. Se la faceva con mio padre mentre mia madre viaggiava per lavoro. Melania mi perseguitava, quando era sola con me. Non ho mai capito se abbia fatto veramente qualcosa o se l’ho soltanto immaginato.
Comunque l’ho uccisa. Con un rasoio, mi pare. Sì. Nuda nella vasca da bagno.
Così mi hanno sempre detto.
Ventisette colpi di rasoio di cui uno fatale alla giugulare.
Ventisette.
Ma io non ci credo.

Me l’hanno detto tante di quelle volte che alla fine ho iniziato a sospettare di me stessa, ma poi sono cambiata quando ho scoperto la sospensione e me ne fotto delle stronzate.
Io non me la ricordo, quella roba, infatti. No.
Conosco solo la storia generale.
Chiacchiere. Poi, però, i racconti hanno trovato un riscontro.
E questo non va bene.

Un giorno mi è capitato fra le mani un articolo di quotidiano.
Me lo fa vedere un tizio che avevo cominciato a frequentare quando avevo quindici anni, la prima scopata. Un tizio fissato coi ritagli di giornale, articoli su fatti di sangue del presente e del passato. Li prendeva, li tagliava e li appiccicava su un quadernone. Aveva uno scaffale di quadernoni gonfi di ritagli. I quadernoni erano intitolati a penna Squarci di cronaca 1, 2, 3 e via dicendo, con la data di inizio e fine raccolta. Era incredibile.
Avevo sei anni quando uscì l’articolo sul delitto di Melania. Tra la pubblicazione dell’articolo e il mio personale raffronto con quella striscia di carta stampata, io sono stata data in affidamento dal tribunale a una specie di scuola per bambini soli e poi spedita in una casa famiglia. Che è un carcere per canarini.
Il tizio dei ritagli aveva scoperto che quella storia mi riguardava. La località, le mie iniziali e le chiacchiere di paese completavano il quadro. Non gliel’ho confermato perché non avevo memoria di un cazzo di ciò che diceva l’articolo, mi sembrava una follia, una somma di coincidenze sfigate. Avevo riconosciuto la ragazza nella foto, sì, ma i miei ricordi si fermano a quel volto in bianco e nero e pochi altri elementi. Però il tizio mi piantò perché la famiglia non voleva che suo figlio fosse traviato da un’assassina. A lui piacevo perché era finalmente venuto a contatto con una protagonista dei suoi ritagli. Un mostro che esce da un pezzo di carta, da una notizia. Per lui ero una magia vivente. Ma chi passa per i servizi sociali è schedato, e io avevo pure il carico della condanna popolare sulle spalle. In una piccola provincia dove non esistono segreti è peggio che andare in giro col cartello «siete tutti stronzi» sulla testa. Così, a diciotto anni ho preso e me ne sono andata a Bologna. Mi sono nascosta al Dams. Ma non servì a nulla. Aver visto la foto di Melania sul trafiletto è stato come se il mondo avesse spento le luci. Almeno per me. Ovunque andassi, con chiunque fossi. Facevo finta di studiare, di divertirmi, di scopare. No, niente psicanalisi, né tantomeno ipnosi. Non ci penso. Eppure dovrei.
Perché, Cristo santo, da quando ho visto la foto di Melania, da quando ho visto la foto di Melania su quel cazzo di trafiletto, da quindici anni in qua sento qualcosa che si muove nella vasca da bagno quando la porta è chiusa.

Adesso il Ragno mi solleva di nuovo coi suoi fili. E così questa notte ho vinto io. Per un po’. Ho scelto stasera un beat sociopatico dei Vatican Shadows. Perfetti per coprire il rumore dell’argano che mi tira su e per creare il momento ipnotico.
Gli uncini tirano la pelle.
Sospensione di coma.
Il dolore mi abbraccia.
Iodea mi abbandona.
Sto volando. Klarissa è libera.
Ogni mio nervo urla nella tensione.
Sono completamente dolore, ora.
Sono pura.
Il dolore è Dio.
Grazie, Dio.

Da quando sento qualcuno muoversi nella vasca da bagno, ho iniziato a cercare conforto nel dolore. L’alcol non fa un cazzo e le droghe non le voglio. Pregare non se ne parla perché nemmeno mi gira di tenere a memoria come mi chiamo. Ma anche perché non ho proprio voglia di ricordare. Ciò che Iodea da bambina avrebbe fatto a quella ragazza non lo so e non voglio che, in caso, me lo ritrovi davanti per tutta la vita come un film della colpa.
Però mi insegue il dubbio. A loop. E a quello, cazzo, non sfuggi.
È come avere una fogna in casa: tiri su il tombino, fuori la merda.
Il trafiletto diceva che la vittima perseguitava la piccola assassina con storie macabre sugli orchi e che lo spavento abbia scatenato l’omicidio. Be’, mi sembrano tutte delle grandi cazzate. Le solite che servono ai giornali per ingrassare la notizia con un tocco morboso.
Ma poi è il dubbio, che mi frega. È quello che mi insegue quando sto al buio e da sola.
Lo sento anche adesso.
«Ehi, c’è qualcuno?»
Qualcosa che rotola dentro la vasca.
E non è Sigfrido che batte i gomiti a terra mentre lo calpesto sotto gli stivali se la pressione è insopportabile. Lui se ne sta buono a farsi schiacciare.
Lui, questi rumori, non li sente.

Infatti, non sono allucinazioni.
Infatti, non sono spiriti, ci mancherebbe.
Sono idee. Sono idee così forti che le sento muoversi in casa.
Le sento muoversi dentro l’armadio, o nell’altra stanza. O, appunto, in bagno, nella vasca. Un corpo che si rigira, che cerca una posizione. Mentre dormo, sento qualcuno che mi tocca, sento qualcosa passarmi fra le gambe nude. Se cammino al buio tra le stanze, sento bolle di calore, come se qualcuno fosse stato lì lasciando la sua impronta nell’aria. Ma sono solo minchiate che mi vengono in mente, lo so. Mi vengono in mente con una forza così intensa che le avverto col naso, le orecchie, la pelle. O le vedo fuggire con la coda dell’occhio.
Ma sono.
Solo.
Delle.
Idee.
Di merda.

Certo, Sigfrido non sente nulla, non vede nulla. E non gliene parlo perché lui non è disturbato da questo mio percepire, non gli scarico addosso la mia frustrazione. Ma neanche mi vede parlare con presenze invisibili. Proprio perché non sono pazza. È un carnevale che va nel mio cervello, nel mio soltanto. Idee che penso perché c’è una parte della mia volontà a plasmarle. Sono scintille che arrivano e che devo completare affinché io le senta solide. Non mi posso fermare, quando cominciano.
E l’unico sollievo è il dolore. Controllare il dolore. L’elettroshock della sofferenza con la pratica della sospensione annulla questa folla di idee, mi porta anche a perdere conoscenza. Col risultato però di sgombrare la mente. Più dolore provo, più il cervello resta pulito e posso riposare.
Ma la folla delle idee si comporta come la polvere.
Dopo un po’, merda, quella torna, puoi pulire quanto vuoi, è una lotta contro l’infinito.

Durante i primi due anni bolognesi ho scoperto la body art. Mi ha iniziata un tatuatore col quale ho avuto una storia. Mi faceva paura con quella tuta zentai in ecopelle nera che lo copriva dalla testa ai piedi. Un umanoide senza volto, isolato dai sensi eppure vivo, abbozzo umano da schiacciare, colpire, stritolare nonostante il suo corpo immenso e scolpito. Grazie a lui mi sono innamorata della cultura apocalittica, delle videoinstallazioni, dei dj set, dei rituali pagani. Ho visitato le stanze senza finestre delle parafilie nei palazzi del bdsm alla ricerca della mia dimensione. Dormivo pochissimo e facevo di tutto pur di esplorare la realtà alternativa dove il corpo e la spiritualità si ritrovano nell’oscuro mondo dell’inconscio. La pratica della body suspension è arrivata dopo la scarificazione, con cui ho abbellito e potenziato il mio corpo. Quella era la mia strada. Non so se la mia trasformazione avrà mai uno stadio finale, ma finché non avrò fermato la formazione anarchica delle idee, io continuo a scavare il mio corpo.
Lo intaglio.
Scrivo cicatrici di formule per disattivare le colpe.

Il Ragno questa sera mi solleverà a testa in giù per le ginocchia.
Il dolore lombare e la pressione al cervello dovrebbero sgombrarmi la testa dalle idee per almeno una settimana.

Fallito miseramente.
Non me lo aspettavo, sono delusa da me stessa.
Mi sono svegliata piena di dolori alle gambe, ma con qualcuno che si rotola nella vasca da bagno, si lamenta.
Contavo che avrei avuto tregua. Non so.
Sigfrido non è ancora tornato e non abbiamo in programma una performance. Farò senza il Ragno, che la struttura di sollevamento è troppo grossa da aprire in casa. Mi appendo alle travi del tetto. Lo abbiamo già fatto. L’ho già fatto da sola.
Voglio una sospensione facciale.

Com’era quella storia degli orchi? Ora li vedo.
I ganci bucano la pelle del volto e inizio a vedere.
I ganci sono i loro denti, gli artigli.
Bucano e trapassano la pelle.
Un dolore mai sentito prima.
Non morirò.
So in quali punti del volto conficcare i ganci.
Qualcuno rotola nella vasca, in preda agli spasmi.
Melania è nuda nella vasca.
È una mia idea, una suggestione o un ricordo?
Gli orchi e Melania. Vaffanculo, cazzate.
Sono piccola, ho sei anni, ho i capelli lunghi e un rasoio in mano, di quelli da barbiere.
Stronzate.
Melania è seduta sul bordo della vasca e mi dice: «Tieni stretto il rasoio e passalo qui». È un ricordo o un’idea suggerita da quel cazzo di trafiletto di giornale? Dev’essere un’altra delle mie idee, perché quei rumori sono una mia idea, non c’è nessuno in casa, non c’è nessuno intorno a me. Le idee arrivano come il polline e ognuna sceglie la propria testa. Nulla è casuale.

Dodici ganci possono bastare, sono pronta.
I cavi sono predisposti. Il mio volto è un fiore di metallo, adesso, e tra poco diventerà un’esplosione di dolore. Perderò i sensi. Nonostante ventiquattro fori di entrata e uscita dei ganci attorno al viso e sulla fronte, le idee di quel delitto che non ricordo prendono luce fondendosi assieme come bolle di mercurio. Devo appendermi prima che io mi convinca di averlo fatto veramente. Non mi interessa cosa succederà. Spero di perdere i sensi, ma almeno voglio vedermi un momento. Voglio potermi guardare. Voglio vedere come sono.

Mi chiamo Iodea, ho sei anni e la mia babysitter mi perseguita. Mi spaventa, mi insegue per tutta casa. Non so se è un sogno o una suggestione dei racconti di paese, di quelle righe sulla carta stampata, ma nella testa mi ritrovo legata a dormire una notte da sola nel buio e tutta nuda dentro la vasca da bagno. Poi sento Melania che mi dice che sono stati gli orchi. E poi dice che l’orco è lei e mi vuole mangiare. Ma essendo un orco femmina, deve tagliarsi i peli dalla pelle. Un giorno si spoglia nuda e mi insegue. Mi prende per i capelli e mi trascina in bagno. Prende un rasoio, il rasoio di mio padre e mi insegna come si maneggia sulla pelle. Io stringo il pugno sul rasoio, stringo i denti e ho paura, tanta paura. Lei cade nella vasca urlando.
Chiudo gli occhi per la paura. E poi non vedo più nulla.

Apro gli occhi e mi vedo allo specchio.
Oggi.
Da quel giorno, è passato un battito di palpebre.
Il mio volto è un sole.
Il peso del corpo sui ganci fa tirare la pelle del mio volto in dodici raggi di dolore.
Mi vedo.
Mi guardo.
Svengo.

La ragazza dai capelli rossi è tornata.
La rivedo.
È Melania, la mia babysitter, ma non come la ricordavo.
È una bambina di sei anni. Ora sono io l’adulta.
Melania è scalza. Indossa un pigiama rosa con orsi e gatti. I capelli lunghi e le efelidi sparse sulla faccia come una costellazione sotto gli occhi verdi.
«Iodea, vieni a vedere», mi fa.
La piccola rossa mi fa battere il cuore.
Nessuno in casa. Sigfrido è fuori. Non mi piace stare da sola. Lo sono sempre stata.
«Devi venire di là», dice la ragazzina seduta in un angolo della stanza.
Sono inchiodata al letto. Le ferite del Ragno e dei ganci ancora non del tutto rimarginate. Il dolore e il peso del mio corpo sono un macigno, ma riesco a scendere dal letto perché sto sognando. Cammino piano sul pavimento sporco, passo oltre la bambina, lasciandomela alle spalle. Vado verso il bagno, dove sento qualcuno rotolarsi dentro la vasca. La porta è chiusa, ho paura, il rumore è presente, reale.
Devo aprire.
Spalanco la porta.
La luce mi acceca.
Mi sveglio urlando.
«Iodea, calma, stai calma», dice Sigfrido.
Lo prendo per la camicia.
Sto sul letto, lui cerca di tenermi giù.
Sono ferita. «Chi c’è, in bagno, Frido, vai a vedere», gli urlo.
Sigfrido diventa rosso. E come mai?
«Non c’è nessuno. Sei svenuta appesa ai ganci.
Cazzo, non devi farlo da sola».
Sta dicendo cazzate. Mi sta nascondendo qualcosa. Proprio come mio padre, quando proteggeva Melania.
«Non è vero che non c’è nessuno, stronzo. Lasciami, devo andare a vedere».
«Non c’è niente da vedere, stai calma. Stai delirando. Hai la febbre a quaranta. Guarda che cazzo ti sei fatta alla faccia, perdio».
«E lasciami, coglione. Che cazzo mi nascondi?»
«Chiamo un dottore».
«Cosa?»
«Stai giù, che ti sei sfigurata. Cazzo, ti sei rovinata la faccia».
No. Non devi chiamare l’ambulanza.
No. Non mi devi voltare le spalle per telefonare.
Ho un gancio in mano, coglione.

I rumori sono spariti, adesso.
Possibile?
Da quanto tempo sono in piedi a guardare Sigfrido a terra?
È stata la mia ultima idea. Il mio volto è segnato per sempre.
Alla fine, le idee sono svanite.

Eppure, avrei giurato che in bagno ci fosse qualcuno.
Devo andare a vedere.

Sto tremando. Sono attraversata da un freddo mai sentito prima. Dalla testa ai piedi. Come se tutti i fori per i ganci nel corpo fossero spalancati e il vento ne approfittasse per riempirmi d’aria. Non c’è più nessuna impronta di calore.
Vorrei urlare.
Vorrei vomitare.
Nella pancia qualcosa si muove, mi fa male. Che cazzo è?
Arrivo alla porta del bagno.
Poi sento l’odore.

Nella vasca, la bimba legata è nuda.
Mi vede.
«Signora, per favore, basta. La prego, voglio tornare a casa».

Il demone della rima, di Filippo Cerri

Effequ porta in libreria Le malaveglie, storie di paura popolare, di Filippo Cerri. Tra crudeli divinità etrusche e banchetti blasfemi, tra sirene nascoste in un’ansa del Tirreno e demoni che possono donare la rima perfetta, le storie delle Malaveglie nascono dalla stessa esigenza oscura, e si agitano nelle ombre tracciando una cupa geografia del grottesco e del folklore. Le Malaveglie sono meraviglie nere, fiabe sporche raccontate intorno a quei fuochi dove la notte è infinita.

Cattedrale vi propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

IL DEMONE DELLA RIMA
di Filippo Cerri

La rima la devi cercare sulla punta della lingua, è lì che si genera.
La prendi dal vento, non so, dalla tua prima nostalgia, dalla volta che t’è sembrato che il mondo seguisse un segreto meccanismo, che ci fosse un ordine nascosto sotto la trama dei giorni da poter svelare cantando.
Devi comprendere di essere l’ultimo di una catena che costrinse al mestiere Orfeo, lui che sottomise i misteri dell’Ade, ammansì le bestie tenebrose, perse tutto per un’impazienza, per una debolezza troppo umana che fa strano al dio. Fu fatto a pezzi e la sua voce si incagliò nel barbaglio del fiume, nel sommesso rigurgito che l’acqua produce nell’ansa, dove la schiuma si forma. La sua testa, lanciata con rabbia dalle mani sanguinanti delle baccanti, terribilmente offese, custodiva in bocca la rima segreta, quella che apre le porte a una visione senza tempo. Tutta la vita ho cercato il mistero arcano nascosto e ripetuto nei suoni della natura che solo il primo uomo ascoltò, appena fatto il mondo, un segreto che solo alcuni poeti hanno circoscritto.
Si è detto poco delle origini della poesia in ottava e dei poeti a braccio, una tradizione mantenuta da contadini e pastori semianalfabeti che nel riposo dei campi e delle greggi hanno cercato di rievocare il sentimento di una terra vergine tramite quel momento unico d’ispirazione capace di far saltare il tempo. Il riposo offerto alle ombre degli alberi sotto le quali hanno letto i classici nel momento in cui le greggi pascolavano tranquille o il lavoro dei campi era sospeso, il contatto diretto ed estenuato con un mondo immobile, il ricordo delle transumanze, dei campi incolti degli immensi latifondi, hanno fatto sentire loro di essere parte di qualcosa che non ha epoca, un sentimento prorompente grazie al quale hanno trovato, là dove posavano lo sguardo, i segni di un’Arcadia dimenticata e l’hanno cantata, con la gioia nelle vene e nella voce.

La parola poetica ha capacità magiche, l’ottava rima è solo uno dei modi che l’uomo ha trovato di incanalarne la potenza. Assistere a un contrasto poetico in ottava rima è testimoniare la meraviglia di un duello dialettico. Non si conosce bene chi per primo ha imbrigliato la rima in otto versi e imposto le regole dei contrasti: il rispetto dell’endecasillabo, la concatenazione a cui si risponde riprendendo l’ultimo verso e via dicendo. Il duello verbale dei poeti è parente strettissimo di quello degli stregoni che si contendono la supremazia di un sapere esoterico e antico, pronti a usare ogni abracadabra a disposizione per sopraffare l’avversario, è la sfida di un sapere che si fa voce, che evoca visioni sorprendenti tramite la modulazione della voce e dalla melodia.
Non è raro il caso di poeti d’ottava che, nel pieno di una trance, abbiano testimoniato di essere stati preda di una potenza superiore, una metafisica del canto poetico, che li ha resi capaci di farsi tramite di una forza primigenia, come gli sciamani siberiani, come gli invasati sacri o gli oracoli di mezzo mondo.

Mio nonno fu poeta e mi trasmise la tecnica. L’ho visto cantare ed evocare visioni di soverchiante incanto nelle piazze di borghi ora spopolati, nelle feste al tempo in cui si festeggia il raccolto, spalla a spalla con vecchi ossuti e sfiniti capaci di rianimarsi per l’attimo della rima. Fu lui a parlarmi di Menico Circi, il poeta di ottava capace di avvicinarsi più di tutti al genio, colui che evocò talmente bene i sogni di un paradiso anteriore da perdercisi dentro. Per anni contemplò gli scenari delle maremme, le valli e le piane del Centro Italia, dagli Abruzzi ai monti di Bacugno, fino a Montalto, alle valli del grossetano, sfidando i poeti ischiani, borbontini, casentini. Tutti li vinse, e cantò fino a che la pazzia non lo rese muto, un pupazzo senza più ventriloquo.
Menico Circi, il più grande e il più misero dei poeti, riuscì a intonare una melodia che solo lui sapeva e a cantare ottave di rara bellezza, ma della sua impresa si sono perse le tracce. Si diceva che, come Odino, Menico si fosse dato alla macchia, alla solitudine dei boschi e dei campi, vagabondando in cerca della conoscenza incisa nella voce delle cose e che, un giorno tra i tanti, il sipario del reale gli si fosse squarciato di fronte agli occhi e al di là dal velo della visione gli fosse apparso uno scenario primigenio. Ma la poesia orale, come la memoria, non lascia traccia, se non nel cuore degli uomini. E anche la vita di Menico Circi divenne qualcosa di più simile alla leggenda che alla cronaca. A lungo ho cercato gli indizi di quella melodia che precede i riti dell’uomo e la storia del poeta che riuscì a cantarla.
Ho molto viaggiato. Difficile chiudere in una frase così stretta il senso di un peregrinare indefesso, vasto, spesso inutile per mezza Italia. Trovai, al colmo di sforzi inenarrabili, un vecchio prossimo alla fine, in un paese che non posso riferire, in una di quelle terre in cui un tempo si veneravano gli dèi sabini. Tratteneva nel cuore il segreto, nell’occhio cieco l’importanza di ciò che aveva testimoniato. Era il figlio del figlio di Menico. Casa sua era un covo di cimici, sedie spagliate accatastate agli angoli, bucce di frutta annerite; fumava del tabacco umido arrotolato in foglie sporche e maleodoranti che gli avevano ingiallito le punte delle dita e reso i baffi un cespo di saggina. Si affrettò a dirmi che lui non cantava in ottava, non l’aveva mai fatto.
La melodia e la rima, disse, non ebbe bisogno d’altro suo nonno. Le due chiavi per la porta del paradiso. Menico, per quel che il nipote mi raccontò, sentì che se il tempo è uno solo, dentro il quale ci muoviamo tutti; esiste, tuttavia, un luogo che ne rimane fuori. Menico vide un paradiso intatto, rigoglioso, colpito da un sole gentile. Sentì il cuore colmarsi d’una gioia mai sentita, fino a che, al colmo dell’emozione, non vide qualcos’altro che lo spaventò senza riparo. Si mozzò la lingua coi denti, il dolore lo riportò al suo tempo, la visione svanì. Non ha più cantato, non è più uscito di casa. Ma la tempra era forte, e visse ancora. Vennero gli anni della demenza, quando la volontà si sottomise alla confusione dei ricordi, e il vecchio non riuscì più a trattenere le immagini che gli infestavano la mente.
Il nipote previde la domanda che covavo in silenzio, e indicò una tela grezza appesa al muro sulla quale, coi suoi mezzi, Menico aveva cercato di replicare l’esperienza di essere solo in un mondo appena fatto. Aveva dipinto il Giardino dell’Eden così come gli era saltato all’occhio. Il figlio del figlio mi indicò un dettaglio nel disegno: c’era un punto scuro, a cui Menico aveva aggiunto tempera nera su tempera nera fino a farlo diventare un grumo spesso e gibboso.
Il vecchio nipote non seppe dirmi cosa fosse, né era a sua detta in grado di rivelarmi il segreto del canto di Menico, la melodia su cui appoggiava la rima. Disse di conoscere solo una parola, e che era proprio quella a contenere la melodia. Me l’avrebbe rivelata, a condizione che giurassi di seppellirla nel mio cuore. Giurai, naturalmente. Un mugugno che non aveva niente a che fare con il canto gli scivolò a malapena sulle labbra secche, come se il respiro che lo evocava si portasse dietro una maledizione antica: Mharahammau. Risi, convinto dello scherzo: “Perché sei morto?”, canticchiai in risposta, ma il vecchio si offese, e fui invitato a lasciare la sua casa per sempre.

Con vergognoso ritardo capii che la parola magica portava davvero in sé una cadenza melodica su cui appoggiare la rima, e non me la tolsi più dalla bocca per anni. Mharahammau: vi ricavai una melodia e su quella presi a srotolare un tappeto di ottave che cantavo fino a che il fiato reggeva. Eremita tra i campi, perduto nelle selve, tra le valli del Vomano, del Fiora e del Velino, ricercai uno stato di completa adesione alla natura, intonando rime come se le strappassi ogni volta al vuoto dell’aria. Il settimo anno, un giorno tra i tanti, mentre cantavo vicino a un abbeveratoio nel mezzo della campagna desolata, arrivai lì dove il talento di Menico aveva posto la pietra miliare. E mi si spalancò la sua medesima visione.
Ho avuto soprattutto paura: c’era una bellezza terribile dietro il sipario, una bellezza che non avrei potuto contenere. C’era un profilo di monti a cui la mano del Creatore aveva appena fatto le punte, piante vigorose dagli alti fusti che si allungavano verso il più gentile dei soli, il cui calore si posava sulla pelle in un modo che mai avevo avvertito nella mia vita, e la luce dava fondo a colori la cui intensità faceva tremare il cuore. E i profumi, gli afrori densi come se l’aria fosse miele in cui tutto era immerso, un silenzio abitato da ronzii e fughe affannose di bestie docili e impaurite.
L’estasi durò il tempo di accorgermi di due occhi che erano spilli bianchi in un secchio di pece, mi scrutavano tra l’erba alta. Era il grumo disegnato da Menico. Comprendevo solo adesso cosa fosse. Era ancora là, era là da sempre, prigioniero fuori dal tempo, recluso nel Paradiso, impossibilitato a tuffarsi nel flusso dei secoli e dei millenni.
Mharahammau. Ripeteva il suo nome come un ebete, con il tono del neonato che tartaglia le sue prime esperienze di voce. Era una figura d’uomo a metà, con ali rattrappite su corpo e muso di scimmia. Capii con sgomento di avere davanti l’Avversario, il Serpente a cui una forza superiore impediva di partecipare alla Creazione. Nel momento stesso in cui l’avevo inteso avrei dovuto fuggire, come Menico fece. Ma io restai, contemplai quell’essere antico e decaduto come fosse un temporale lontano. Fui stupido, superbo. Nel gioco di un secondo mi si fece sopra, sentii la sua mano di gorilla artigliarmi la spalla, scivolare verso la gola. Nell’istante prima della fine mi tornò in mente la via d’uscita di Menico e i miei denti chiusero fuori dalle labbra la lingua, che strinsi in preda al terrore più antico. Sentivo il Male incarnato cercarmi addosso l’ultimo respiro, e chiusi gli occhi.
Mi ritrovai vicino all’abbeveratoio, lì dove il sogno era cominciato. Ero steso a terra, confuso e preda d’un dolore acuto, sentii sciogliermisi in cuore una paura che mi seccò la voce; in bocca avevo il sapore umido e ferroso del sangue e il vuoto che la lingua aveva lasciato. Senza più parole o voce o canto, dissipato come un fiume d’estate pensai di aver sognato, pregai di aver sognato. Poi mi accorsi di una fila di impronte né di bestia né di uomo: si allontanavano da me e si perdevano in direzione del bosco, facendosi sempre più vicine tra loro, come fossero il risultato di una corsa folle verso una libertà terribile.

Il bouquet di Janie, di Lucy Maud Montgomery

Mattioli 1885 porta in libreria Magia bianca, di Lucy Maud Montgomery, tradotto da Enrico De Luca. Queste sette short stories appartengono a quel genere letterario che Lucy Maud Montgomery, prolifica autrice di racconti, ha maggiormente praticato durante tutto l’arco della sua vita e nel quale ha dimostrato al meglio il suo talento. In questo libro sono presenti alcuni testi inediti e mai tradotti in Italia.

Cattedrale vi propone uno dei racconti per gentile concessione dell’editore.



Il bouquet di Janie
di Lucy Maud Montgomery

Janie era giù in giardino dietro il traliccio dei fiori rampicanti e del pisello odoroso (1) e stava piangendo! Non capitava di frequente che Janie piangesse, ma quando lo faceva – ed era estate – si nascondeva sempre dietro il traliccio di fiori e si sfogava. Nessuno poteva vederla lì finché tutto non fosse finito, e i fiori di solito erano splendidi consolatori. Erano sempre così luminosi e spensierati che, loro malgrado, semplicemente allietavano le ragazzine.
Ma quella volta neppure i fiori profumati riuscirono a confortare Janie: non voleva nemmeno vederli, parevano così provocatoriamente felici. Non erano mai stati delusi nel desiderio più caro del loro cuore. Accidenti, i fiori semplicemente non sapevano che guaio fosse! Solo il Cielo sa quanto tempo Janie sarebbe rimasta seduta lì a piangere se la zia Margaret non l’avesse scoperta. Forse la zia Margaret, da una finestra del piano superiore della casa accanto, aveva visto una piccola figura sconsolata dietro i piselli odorosi, ma non credeva fosse una cosa importante. Janie pensò che la zia Margaret fosse capitata lì per caso.
“Diamine, che succede, Janie?” chiese la zia Margaret.
“Oh, zia Magsie, sono così… così… d-d-delusa” singhiozzò Janie. “Oh, sono sicura che non riuscirò mai a farmela passare.”
“Raccontami tutto, tesoro” disse la zia Margaret con tono comprensivo.
“Papà doveva andare a Raleigh domani… con la zia Ethel, e mi avrebbero portato con loro. Non sono mai stata in città, zia Magsie, ma non è per questo che piango. È perché volevo così tanto incontrare Miss Edna. Non conoscete Miss Edna, zietta, perché non siete venuta a Hexham l’estate scorsa, ma lei insegna in città e l’estate scorsa è andata a pensione a Hexham durante le vacanze… proprio di fronte alla casa della vecchia Mrs Fraser. È stata semplicemente adorabile, zia Magsie; eravamo amiche molto intime. Doveva venire anche quest’estate, ma non può perché è ammalata ed è in ospedale. Ed è per questo che volevo andare a Raleigh, perché papà ha detto che mi avrebbe portato a farle visita. E adesso papà non può andare e ovviamente neanch’io posso, perché la zia Ethel non ci ritornerà. Oh, sono così delusa che non riesco proprio a rallegrarmi.”
La zia Margaret sorrise mentre accarezzava la testa riccia della nipotina di nove anni.
“È un peccato, dolcezza. Ma non preoccuparti. Ti dirò io cosa fare. Scegli un bel tenero bouquet dei tuoi fiori più graziosi e gentili e invialo a Miss Edna. Lo prenderà zia Ethel… deve trascorrere quattro ore a Raleigh. Forse potresti scrivere anche un bigliettino per accompagnarlo.”
Janie balzò in piedi sorridendo tra le lacrime.
“Oh, zia Magsie, siete davvero uno splendido aiuto quando bisogna pensare a come risolvere un qualche problema. Spero di diventare intelligente quanto voi quando sarò grande. Questo è proprio quello che farò. Manderò a Miss Edna il bouquet più incantevole che potrò scegliere e scriverò anche il biglietto. Non so scrivere molto bene e la mia ortografia non è molto buona, ma so che a Miss Edna non importerà. È brava a capire quanto voi, zia Magsie.”
Nel pomeriggio del giorno seguente, due medici dell’ospedale stavano discutendo ansiosamente il caso di una paziente del Reparto tre.
“Non sono soddisfatto” stava dicendo uno di loro. “Non sta facendo i progressi che dovrebbe. L’operazione è riuscita e non c’è motivo per cui non dovrebbe riprendersi rapidamente, ma sembra che manchi di vitalità. Mi viene da pensare che la ragazza non desideri vivere… non sembra avere alcun interesse per la vita, in effetti. Se non si riscuote in tempi brevi, non c’è speranza per lei. Un caso simile è il più difficile da gestire. Quando la natura si rifiuta di aiutarci possiamo fare ben poco. La ragazza sta morendo per il semplice fatto che non vuole più aggrapparsi alla vita.”
Nel frattempo, Edna Bruce era sdraiata sulla branda con gli occhi chiusi e l’apatico volto pallido. Si sentiva, oh, così stanca. Non le importava se sarebbe migliorata o no. Non c’era niente per cui migliorare – non c’era nessuno a cui importava se fosse sopravvissuta o meno. Era completamente sola nella grande città dove non aveva vissuto abbastanza a lungo per farsi degli amici. No, non le importava; era troppo stanca e sola per voler vivere. Non ne valeva la pena.
Poco dopo una delle infermiere venne da lei.
“Miss Bruce, ecco un bouquet per lei. È stato lasciato da una signora pochi istanti fa.”
Miss Bruce aprì gli occhi e vide un delizioso bouquet di piselli odorosi rosa e bianchi – un bouquet che all’improvviso le rammentò un grande giardino antico in cui aveva trascorso molte ore felici nell’estate dell’anno precedente, e una fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli ricci con la quale aveva avuto molte interessanti chiacchierate. Una nuova luce sostituì la languida malinconia dei suoi occhi mentre apriva e leggeva il bigliettino che l’accompagnava.
Con la grafia piuttosto incerta di Janie, il biglietto recitava:

Mia carissima Miss Edna,
desideravo tanto venire a farvi visita, ma non ho potuto perché papà ha così tanti affari. Sapete bene che gli affari sono una cosa molto importante e bisogna occuparsene. Sono uscita e mi sono messa a piangere dietro i piselli odorosi quando ho saputo di non poter venire. Ma la zia Magsie ha detto di mandarvi dei fiori, e ho pensato anch’io che poteva essere una cosa carina. Li ho raccolti tutti dai miei piselli odorosi. La mamma ne ha molti di più e i suoi sono più grandi, ma volevo darvene alcuni dei miei perché vi voglio così tanto bene, Miss Edna. Mi dispiace tanto che state male e desidero che guarite subito. Prego per voi ogni notte e molte volte durante il giorno quando ci penso. Avete promesso di venire a trovarmi quest’estate e che dovete guarire e mantenere la vostra promessa, perché mi avete detto che le persone dovrebbero sempre mantenere una promessa, e lo dice anche la zia Magsie. Addio con tanto affetto.
Distinti saluti, Miss Janie Miller

Miss Edna si asciugò le lacrime dagli occhi con le sottili dita bianche. Ma sorrideva. Qualcosa di lieto e felice si mosse nel suo cuore. A qualcuno importava – qualcuno le voleva bene – qualcuno aveva pensato a lei. Doveva guarire, voleva guarire, ritornare al lavoro e far visita di nuovo a quel caro antico giardino. Dopotutto, la vita valeva la pena di essere vissuta – valeva la pena lottare. L’espressione disperata e indifferente scomparve dal suo volto.
Pochi giorni dopo lo stesso medico stava parlando della stessa paziente.
“Sta migliorando. A breve starà meglio che mai. È stato come se si fosse risvegliata all’improvviso, interessandosi di nuovo alla vita. E questo era tutto ciò che serviva. Era uno di quei casi in cui tutto dipende dai pazienti stessi.”
Prima della fine dell’estate, Miss Edna aveva mantenuto la sua promessa trascorrendo due settimane a Hexham prima di ritornare al lavoro. Lei e Janie passarono momenti meravigliosi insieme, e Janie venne a sapere con gioia e stupore il ruolo che i suoi fiori avevano avuto nella guarigione di Miss Edna.
“Oh” disse allegramente, “sono così felice di avere una zia Magsie. L’ha suggerito lei, sapete. È una cosa splendida avere una zia Magsie in una famiglia.”
“Sì. Ed è una cosa splendida avere anche una bambina dal cuore cordiale e amorevole in una famiglia” disse Miss Edna baciandola.





Nella verde gola delle lupe, di Lucrezia Pei e Ornella Soncini

Moscabianca edizioni porta in libreria Nella verde gola delle lupe, di Lucrezia Pei e Ornella Soncini.
Nel cuore unità matriarcale ribelle. Ana è una delle Lupe sfuggite alla Grande Ingiustizia e non conosce il monddella selva, dove secoli prima una giovane santa-cacciatrice sconfisse un grande lupo nero, vive isolata una como fuori dal verde. Finché un giorno s’imbatte in una delle misteriose creature che ogni estate le sue compagne incontrano per diventare madri...
Lucrezia Pei e Ornella Soncini tessono una storia dagli echi distopici su identità, corpi e confini ambientata in un Cinquecento alternativo, tra bestie con voci umane e un’oscura piaga che rende le bambine più preziose dell’oro. L'accompagnano le tavole allegoriche di Marco Calvi, meravigliose come antichi arazzi, che dipanano le molte verità della Storia.

Cattedrale vi propone l’incipit della novella, per gentile concessione dell’editore

Verno

Ana

Nel profondo della grotta è sempre notte, e fuori dal cerchio della torcia le altre sembrano fatte di ombra. Ana si allunga verso l’altare: la Piccola Speranza somiglia a una lucertolina stecchita dai primi freddi di verno.
Sotto la luce, ava Orfemia lava il corpicino mormorando sdentata nella lingua del Cielo, accomoda braccia e gambe malcresciute nel sudario di lepre. Quando l’ha ben stretto nelle pelli, accende un fascio di erbe spargendo nell’aria un fumo che pizzica. Nella nebbia odorosa un’ombra si stacca dalle altre: Fede si avvicina all’altare e apre il libro ordinario per guidarle nei canti delle morte. Ana le guarda la faccia tutta bianca e pieghe come quelle delle ave. Le ha svegliate piangendo prima delle preghiere del mattino: «Mia sorella…»
«Tua nonna ti rimprovera se non preghi, Ana…» Il fiato di Mamma le solletica l’orecchio.
Nonna se ne sta discosta dall’altare, insieme ad ava Esaltazia. Le torce non la illuminano sotto il
cappuccio di lupo, ma anche nell’ombrosità i suoi occhi vedono tutto – specialmente le cose malfatte.
Ana apre la bocca, ma le parole faticano a uscire. Vicino a lei Luce canta chiara e sicura. La fa sempre arrabbiare quando le dice che si impratichirà col tempo.
Come fa a ricordarsi parole che non capisce?
Sua sorella tiene gli occhi su Fede che fa piovere lacrime sul libro ordinario. Sembra che il Cielo voglia punirla: prima Nostradonna le ha preso la madre, ora la sorella. Finiti i canti, quelle che hanno tenuto la Piccola Speranza al seno si asciugano le guance a vicenda, carezzano gentili la testa di Fede.
Il latte di una è il latte di tutte.
(Nonna, però, lo diceva che andava sprecato: «Dovevamo dare la bambina al bosco quando è morta Carità».)
Ana la guarda fare parole con le altre ave. Coi manti dei cappucci di lupo calati in testa, sembrano tre bestie spaventose, ritte sulle zampe di dietro. Si avvicina cauta mentre Mamma e Luce confortano Fede.
«La terra è troppo dura per seppellirla, Anna», fa ava Esaltazia.
«Non svernerà fino addentro febbraio. L’ho letto negli spicchi di cipolla», biascica ava Orfemia.
«La conserveremo qui», decide Nonna. «Finché non comincia a puzzare».
Si accorgono di lei, e basta uno sguardo duro per cacciarla via.

 La Piccola Speranza riposa tranquilla sull’altare. Nonna ha messo all’opera le acchiappatopi più abili, e vapori di erbe si levano tutt’attorno dai cocci per conservarla profumata più a lungo.
Fede però piange lo stesso. Ana la sente quando si sveglia di notte per spargere acqua.
«È perché aveva solo una sorella?» chiede a Luce una sera mentre riparano una rete, sedute sotto la stessa pelliccia in camera grande. Fede lavora a faccia bassa in un cantuccio, tutta da sola.
Nonna è in cucina che bada alla Vecchia Speranza, ava Esalzatia sta dietro alle bambine e ava Orfemia vigila in chiesa sulle lettrici. Finché la campanella non le chiama per l’ultima preghiera possono fare parole sotto il sussurro delle fiamme, tra i sospiri stanchi della fine del giorno. Sua sorella però non risponde niente.
Mentre aspetta, Ana cerca le teste scure di Magdala e Maddalena tra le altre bambine attorno al fuoco. Hanno gli stessi capelli di Mamma e Luce, ma tutti disordinati per le gran corse di prima.
«Se ve lo meritate, vi racconto di santa Agilulfa che ammansì il lupo», quieta mielata ava Esaltazia.
Anche lei vorrebbe correre, uscire di grotta, fosse solo con zia Susanna e zia Giuditta a cogliere neve pulita dalla grande buca, non importa se tornano stanche e bruciate di freddo. Ma Nonna dice che bisogna farsi scoiattoli: raccogliere provviste col caldo e stare al sicuro col gelo. Però gli scoiattoli escono anche di verno e non fanno cestini, corde e reti, non cuciono le pelli e rassettano la cucina, non badano al
fuoco e alle malate tra il puzzo di sego per tutto il giorno…
Candida si avvicina agitando la coda e posa il muso sopra la pancia bella grossa di sua sorella.
«Luce?»
Lei gratta le orecchie della cagna. «Ha perduto anche sua madre. Tu non saresti triste?»
Ana pensa a madre Carità verso la fine, tutta ingrossata come una vescica gonfia di fiato, con le braccia e le gambe grandi come tronchi. Però a Mamma non può capitare. La sua pancia è toccata dal Cielo.
«Anche noi abbiamo perduto una sorella, e nessuna ci ha trattato così bene».
«Nonna l’ha data al bosco. Non è lo stesso». Luce sospira. «Si deve sempre essere tristi quando muore una creatura».
«Nonna dice che quest’anno siamo state benedette». Dopo tanto tempo di magra quelle dello scorso vere sono ancora tutte vive, tranne la Piccola Speranza, e le pance crescono bene sotto le tuniche.
«Le prossime possono nascere malfatte. O morire le madri».
Ana alza gli occhi sulla faccia piena di ombre di Luce. «Tu prometti che non muori». Subito si sente sciocca: nessuno decide da sé quando arriva il tempo, né il pullo caduto dal nido né la Vecchia Speranza che avrà più di cent’anni.
Luce si allunga a toglierle un ragnetto dai capelli.
«Sarà come vorrà Nostradonna».
Le sorride, ma appena finito il lavoro la lascia per sedersi con Fede.
Sembrano loro due quelle uscite dalla stessa pancia: magre, scure e tristi. Fanno parole, ma ora si sente solo la voce di ava Esaltazia che riempie tutta la camera grande: «Al tempo in cui si viveva fuori dal verde, Nostradonna visitò in sogno santa Agilulfa e le disse che in queste zone si aggirava un grave pericolo…» Si ferma un momento per fare effetto, come ogni volta. «Un grande lupo nero come il male, affamato di donne. Così la buona fanciulla venne nella nostra selva».
Ad Ana sembra di vederla, santa Agilulfa. Cammina tra gli alberi come chi vive da tutta la vita nel
bosco, è giovane e ha i capelli del colore del fuoco. Arriva al ciglio del loro fosso, dove la terra si cambia in gradoni, e sul fondo vede la loro grotta. Nello spiazzo davanti al portale mancano il pollaio e la meridiana. L’eremo è vuoto come una bocca spalancata, senza lingua e denti. Da buio e silenzio emerge un’oscurità pelosa con due file di zanne sul muso allungato e gli stessi occhi obliqui che la fissano ciechi dai cappucci delle ave.
«La bestia spaventosa si alzò sulle zampe di dietro…» – ed è davvero alta, più di madre Santina che
è la più alta tra tutte loro. Ana gli vede la pancia gonfia come prossima al parto – «… e spalancò le fauci: “Se te ne andrai senza farmi danno ti rivelerò un grande segreto”. Ma la fanciulla era retta e savia: “Non mi tenterai”».
(«Che segreto?» domandava Ana quando era più piccola delle gemine.
(«A noi non è dato sapere», la seccava ava Esaltazia.)
Agilulfa alza una mano benedicente. Il lupo perde la ferocia e si avvicina mansueto, le posa il capo sul grembo come un cane dopo le botte.
«La buona santa lo legò con la cintura. Poi chiamò la gente, che accorse con bastoni e coltelli: gli levarono la pelle per donarla alla Cacciatrice gentile e ne bruciarono le carni. Infine, nella grotta della bestia costruirono il nostro eremo…»
Nonna suona la campanella. È ora di compieta.
«Il resto la prossima volta. A pregare».

Scarso a matita, di Daniela Gambaro

Nutrimenti porta in libreria Verdissime, di Daniela Gambaro, che – dopo la vittoria del Premio Campiello Opera Prima – con la sua voce intima, misurata e ironica, torna con una raccolta di racconti sull’infanzia e sull’adolescenza. Verdi, per età o per indole. Bambine, ragazze e donne raccontate nei loro desideri più naturali: trovare una madre dopo la morte di quella biologica e manifestarlo con un singhiozzo difficile da debellare; guadagnare qualche soldo per comprare una torta o un fermaglio pieno di perline; cercare una buona maestra o un buon maestro, confrontarsi con la perdita di un fratellino e fare in modo che il lutto non sotterri anche te; rincontrare da adolescente il mito di quando si era bambine; scoprire il sesso e la libertà che possono essere nascosti in un comunissimo cassetto dei calzini; raggiungere una vita migliore dopo un lungo viaggio attraversando paesi e frontiere impervie. Irrorate di linfa giovane, con le chiome perennemente spettinate, le protagoniste di questi racconti hanno subito qualche potatura indesiderata, e i loro tronchi sono attorcigliati e storti, ma trovano un proprio modo di crescere e farsi spazio tra alberi più forti e regolari, una maniera d’esistere, d’amare e di non darsi per vinte.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Scarso a matita
di Daniela Gambaro

Il professore di Educazione artistica è un pezzo di pane. Durante le sue ore gli allievi fanno un baccano del diavolo, ma lui è come se non sentisse, come se non vedesse le palle di carta che volano compatte da banco a banco, né le mani allungate dai maschi sulle ragazze o i ceffoni elargiti in risposta, che da vicino erompono come scoppi ma che alla cattedra arrivano smorzati, già inghiottiti dal caos generale; il professore spiega assorto come si abbozza un paesaggio, come si traccia un’ombra, o come si riproduce una prospettiva.
Paolo aspetta le ore di Educazione artistica tutta la settimana e la mattina del venerdì, quando prepara la valigetta con tutti i materiali dentro – pastelli, cere, album e pennelli – si sente euforico come se stesse andando in vacanza. Cammina verso scuola e ipotizza quale tecnica si studierà oggi: chiaroscuro, acquerello, tempera, graffito su cera o collage. Lucia, accanto a lui, lo guarda e dice: Dopo le medie, se non fai l’artistico, sei matto. I capelli le oscillano intorno al viso e i riflessi ramati brillano come piccole barche che prendono il largo.
Questa pratica di alzarsi dal banco mentre il professore è voltato, e di dare una strizzata a questo o a quel seno, per Paolo è una crudeltà senza senso ma non può sottrarsi perché gli altri maschi gli direbbero che è come Simone, che se ne sta immobile al banco, con lo sguardo perso, lo sbadiglio continuo, e che tutti chiamano scemo, o finocchio, o entrambe le cose (impossibile scordare quella volta in cui Simone fu preso per mani e piedi e lanciato di faccia tra le ortiche e del modo furibondo in cui si grattò per interminabili minuti).
Le ragazze della classe sono tutte più alte e forti dei maschi, e gli schiaffi che tirano sono potenti e ben assestati. Qualcuna gioca a pallavolo e quando parte il ceffone si sente l’aria scappare, ritrarsi ai lati, come risucchiata. È difficile sfuggire a quei colpi la cui precisione è dettata dalla rabbia e dall’indignazione, e Paolo nemmeno ci prova, sta ben fermo per essere sicuro che la mano gli centri la faccia. Gli sembra l’unico modo per chiedere scusa: la guancia che brucia un po’ consola.
Oggi si studia il ritratto. Dopo la spiegazione teorica, interrotta di continuo da risate, battute e scherzi vari, il professore sistema sulla cattedra un poster della Gioconda e chiede agli alunni di riprodurla, solo a matita per il momento, massima concentrazione sul tratto. Quindi comincia a fare su e giù per la classe controllando i lavori: come vengono impostati, come devono essere corretti, dove vanno potenziati. Alle sue spalle succede di tutto: le mani dei maschi arrivano da dietro, toccano, soppesano, stringono; quelle delle femmine scattano, puniscono, si ritraggono. Il professore procede ignaro. La sua fiducia nei confronti degli studenti è incrollabile. Tale è l’amore che prova per la sua materia che non può proprio avvertire il disinteresse generale, l’approccio gigionesco, l’utilizzo becero di quelle ore, più libere delle altre, per fare chiasso e importunare. Al disegno di Paolo il professore dà un’occhiata pregna di aspettative, poi se ne allontana fiero, ricaricato. Paolo osserva Lucia al banco di fianco. Cos’è la Gioconda rispetto a lei?
Anche Lucia lo fissa: che peccato, sembra dicano i suoi occhi, che peccato che non si possa godere tranquilli di quello che quest’uomo ha da insegnare. E che peccato anche per te, Paolo, per quello che sei costretto a fare.
Tutti i venerdì va consegnato il compito assegnato la settimana precedente: il professore lo esamina, lo commenta davanti alla classe e dà un voto. Se qualcuno, per negligenza o dimenticanza, non porta il lavoro a scuola, riceve uno scarso, che viene scritto a matita sul registro e che potrà trasformarsi in un indelebile scarso a penna il venerdì successivo, se l’alunno non avrà rimediato consegnando l’arretrato. Visto il tempo a disposizione, lo scarso a penna non viene di solito mai assegnato. L’alunno moroso consegna il compito e il professore cancella con la gomma lo scarso a matita: usando il profilo della mano sposta dal registro i trucioli arricciati, e quasi con sollievo assegna il nuovo voto riparatorio.
Bravo, dice con soddisfazione, hai recuperato il tuo scarso a matita.
Il compito da fare per oggi era il ritratto di un compagno di classe e Paolo ha disegnato Lucia. Non è stato difficile: via via che il viso di lei si andava delineando sul foglio, ogni sfumatura si aggiungeva alla precedente da sola, come una carezza. Il professore, nel vederlo, si illumina come se avesse trovato la ragione del suo stesso esistere e mostra il lavoro alla classe: Guardate che bel ritratto ha fatto il vostro compagno! Lo fa senza considerare che gli animi dei suoi allievi ignoreranno completamente la finezza della fattura e la delicatezza del tratto e si concentreranno invece, maliziosamente, sulla stranezza della scelta di Paolo. Finora nessun maschio ha mai disegnato una femmina, né alcuna femmina ha mai raffigurato un maschio, in nessuna delle esercitazioni proposte nel corso di quei due anni di scuola media. Paolo si rende conto solo ora della propria avventatezza. Per il desiderio di compiacere Lucia ha sottovalutato il terremoto di ottusi pensieri che si poteva scatenare.
Amore, uccello, passerina, anello, matrimonio.
Queste le parole più ricorrenti nella presa in giro che lo aspetta durante l’intervallo. Un cerchio si stringe attorno a lui e dimenticando per qualche minuto le ragazze, i compagni si concentrano sul pittore innamorato, rendendolo l’oggetto primario dello scherno quotidiano. Nelle loro parole non c’è però soltanto la giocosità un po’ volgare della presa in giro, c’è il risentimento per quel segreto tenuto nascosto, il sospetto che lui si senta sopra e oltre il gruppo. Solo ora si spiegano perché Paolo in classe non abbia mai sfiorato Lucia, neanche per sbaglio. E come avrebbe potuto? Non sarebbero bastati tutti gli schiaffi del mondo per mettere a tacere il senso di colpa, né a calmare il cuore che già scalpita confuso ogni volta che la vede spuntare dal portone di casa sua. Si sarebbe fermato, il cuore, atterrito e pieno di vergogna.
E adesso una bella dichiarazione, mettiti in ginocchio e facci sentire! Lo incalzano. Paolo fa segno di no, che hanno capito male, e più fa così e più loro, sghignazzando, lo spingono in massa verso il banco di lei. I piedi puntati sul pavimento scolorito, avanza suo malgrado, ignobile zimbello tra gli echi del coretto: Matrimonio! Matrimonio! Paolo si divincola, trattenendo malamente l’insofferenza, che esalta ancor di più i compagni. Lucia, che stava parlando con le amiche, si volta e lo osserva avvicinarsi sotto i colpi ritmati di quelle spinte ostinate, di quelle mani che come al solito non vedono l’ora di toccare e umiliare. Gli offre i suoi occhi come appiglio. Paolo, grato, ci si aggrappa: Diglielo tu che ci conosciamo da una vita! Che i nostri genitori ci mettevano nella culla insieme! Che siamo cresciuti così!
Lucia fissa severa il gruppo che aspetta col fiato sospeso, sperando in una smentita.
Siamo amici da quando eravamo piccoli, conferma invece tra la delusione generale. Siamo come fratelli, ribadisce tra il chiassoso ritrarsi ai banchi dei ragazzi orfani di burle.
Paolo le lancia uno sguardo di gratitudine, che lei ricambia appena, tornando svelta ai discorsi con le amiche, qualcosa sui programmi per il pomeriggio. Paolo si chiede se quella fretta, quella specie di noncuranza, sia un modo per dirgli che è arrabbiata. Forse non voleva essere coinvolta, e forse l’ha delusa quella sua richiesta di aiuto, fatta per uscire da una situazione che avrebbe potuto districare da solo.
Il pensiero lo tormenta per tutta la settimana, anche se Lucia si comporta come sempre, come se avesse dimenticato; mentre vanno e tornano da scuola, lei parla dell’interrogazione di Geografia, o dell’incidente nell’ora di ginnastica in cui una compagna, per difendersi dai soliti palpeggiamenti maschili, ha schiaffeggiato un ragazzo e l’ha mandato in ospedale con la cornea graffiata. Paolo ascolta distratto, cercando il coraggio di indagare quel dubbio che non lo abbandona nemmeno di notte, quando le palpebre sono chiuse sugli occhi: ha sbagliato? cosa avrebbe dovuto fare?
Oggi è di nuovo venerdì, giorno di Educazione artistica. Paolo e Lucia camminano un po’ discosti, a ritmo sostenuto per rimediare al ritardo mattutino. Obbligati a sostare, mentre osservano il disco rosso del semaforo dall’altro lato della strada, Lucia confida che ieri non è riuscita a finire il suo paesaggio a tecnica libera. Paolo si offre di cederle il suo per evitarle uno scarso a matita. Ha fatto un graffito su cera che raffigura quello che si vede dalla finestra: l’argine del canale, la gente che passeggia, e intorno i campi rivoltati dal passaggio dell’aratro, con qualche passero in cerca di cibo. Ma Lucia scuote la testa, non vuole il suo disegno.
Ieri sono stata al parco del museo con Simone, dice. Voleva parlarmi.
Simone voleva parlarti? E di che?
Mi ha chiesto di mettermi con lui.
Paolo ride a quell’idea: E tu che gli hai detto?
Gli ho detto che si può fare.
Lui la fissa. Lei gli sorride. Forse è uno scherzo.
Non guardarmi così, spiega lei. Tutte in classe hanno baciato, resto solo io. E poi Simone è uno dei pochi gentili, a parte te…A parte te, cosa? A parte te che sei un amico? Che sarai sempre un amico? O forse – no, no, ti prego – che vuoi essere solo un amico.
Aprire la cartellina dei materiali, frugare e tirare fuori la lametta da barba, quella che in classe si usa per il graffito su cera. Ecco, guarda bene Lucia, adesso con questa io gratto la cera color rosa, quella della pelle, e continuo finché non arrivo alla cera bianca, l’osso. Ma non preoccuparti, quello rosso che vedi non è sangue, è solo un fiume di cera color carminio. Questo Paolo vorrebbe fare, invece di camminare muto, troppo veloce, con lei che ora lo rincorre a piccoli passi: Aspetta, ho la gonna stretta, non ti sto dietro!
Per tutta la mattina Paolo evita di guardare verso il banco di Simone, per paura di confrontarsi con quello che lui stesso avrebbe potuto essere e non è, ma alla fine lo fa. Si volta e lo studia: la fissità del suo sguardo è svanita (era reale?), la sua postura non è così femminea come tutti hanno sempre pensato (l’avranno immaginata?) e il suo starsene da solo, su un banchetto un po’ appartato rispetto a quelli dei maschi raccolti vicini, non gli pare più quel chiaro indice di stupidità che gli è finora sembrato.
Quando arriva l’ora di disegno e il professore lo chiama alla cattedra, Simone si alza e consegna il suo foglio. Ha disegnato a matita due figure appena abbozzate nel parco del museo, con i platani e gli abeti, ma nel disegno i due soggetti, maschio e femmina, sono indistinguibili, le panchine sembrano sassi e i sassi paiono fiori. Il professore sospira e gli dà un sufficiente motivato soprattutto dalla pietà verso la sua indiscutibile assenza di talento. Eppure Paolo pensa che Simone, con quelle due figurine, per il solo fatto di averle immaginate insieme e di averle fatte convergere al museo, di aver proposto quello che ha proposto ieri pomeriggio, avrebbe meritato un buono, anzi un ottimo, e che nessun altro voto, per quanto alto, varrà mai un centesimo di quel suo sufficiente. Vieni tu, Paolo? Lo chiama il professore, con occhi premurosi e bendisposti. Paolo spinge il suo paesaggio in fondo alla cartellina, e risponde: Non ce l’ho il compito. È la prima volta in due anni che manca una consegna e il professore sbatte le ciglia su e giù, incredulo, e spera fino all’ultimo in una scusa ineccepibile, in un inevitabile contrattempo. Ma Paolo non parla, non si giustifica. Come spiegherebbe che un voto lui non lo vuole, che non lo merita?
Devo metterti uno scarso a matita, lo sai? dice il professore, con il tono amareggiato di chi sta per infliggere una pena controvoglia. Paolo annuisce risoluto e Lucia lo guarda, incuriosita da quel comportamento, mentre il professore indugia combattuto: vorrebbe approfondire, ma la vista di un banco sollevato e fatto ricadere di schianto in fondo all’aula lo distoglie dal suo proposito. Cosa fate? Il banco viene rimesso al suo posto. Il professore sospira, cerca il rigo giusto sul registro e scrive lo scarso a matita, poi passa a esaminare i disegni degli altri studenti, ma lo fa con prostrazione, senza la minima speranza di trovare una scintilla, un incentivo, una ricompensa. E in quell’arrancare stanco, in quell’assenza di orizzonti, il suo udito è come se pian piano andasse perdendo l’impermeabilità al rumore che nasceva dalla sua predisposizione amorosa verso la materia e i ragazzi. Improvvisamente comincia a sentire i bisbigli, le risate, il clangore dei banchi sbattuti, l’esplosione degli schiaffi. Basta! Tuona al colmo della sopportazione, atterrito dalla scoperta di una realtà finora ignota. Cos’è oggi questa confusione? Non si può lavorare con questo rumore!
L’aula si fa silenziosa in modo inedito, sorpreso. Le mani abbandonano i seni delle compagne e tornano vicine ai corpi di appartenenza, gli schiaffi a mezz’aria fanno dietrofront. Il professore posa con gravità una formella per il chiaroscuro sulla cattedra, i ragazzi lo fissano per un attimo poi frugano negli zaini alla ricerca dei materiali e si mettono a disegnare. Si sentono i temperini che macinano e le punte delle matite che grattano sulla carta.
Paolo si guarda intorno incredulo: le teste chine sui fogli, i gomiti posati sui banchi, le dita allacciate alle matite. È miracolo o realtà? Durerà o scomparirà nel giro di una mattinata? I suoi occhi corrono verso quelli di Lucia, per commentare quello che sta succedendo, quello che loro, loro due insieme, hanno sempre sperato che sarebbe accaduto. Ma Lucia è intenta a tracciare una linea, assorta e quieta, e quando il suo viso si solleva dal foglio, increspandosi in un sorriso, lo sguardo che cerca non è il suo.

Il mondo di Novellare, di Maurizio Silvestri

ExÒrma Editore porta in libreria Viaggetti in Emilia, di Paolo Marlini e Maurizio Silvestri.
Si parte dalla Val Trebbia, da nord, con l’idea di oscillare tra l’appennino e il Po percorrendo strade periferiche. Ci si allontana dalla Via Emilia cercando un diverso baricentro: da una parte “sotto la strada”, il mondo che sale verso l’appennino, dall’altra “sopra la strada”, quello della pianura che dilaga verso il grande fiume.
La geografia dei corsi d’acqua e delle valli ci guida alla ricerca dell’osteria perduta, piacevolmente trascinati da un’onda anomala di luoghi, persone comuni e personaggi noti, scrittori, poeti, trattorie, cibi, libri, vini, film, canzoni, montagne, fiumi…

Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.

Il mondo di Novellare
di Maurizio Silvestri


Grandi risaie e filari di pioppi, e all’orizzonte montagne maestose, non si può dire che sia il paradiso ma è il paese dove son nato. La gente chiusa e un poco scontrosa ma quando ama sa amare davvero.
È l’attacco de Il paese, una delle canzoni immancabili a ogni concerto dei Nomadi, e il paese in questione naturalmente è Novellara, che ha dato i natali allo storico complesso (negli anni Sessanta si chiamavano così i gruppi musicali) e ad Augusto Daolio, suo leader e voce iconica. Le grandi risaie non ci sono più, Augusto è scomparso prematuramente trent’anni fa, ma a Novellara il suo ricordo è sempre vivissimo, anche tra coloro che, quando lui cantava, non erano ancora nati. Dall’anno successivo alla sua scomparsa, a Novellara si svolge annualmente il 18 febbraio, la sua data di nascita, il Nomadincontro, una due giorni di mostre e concerti in ricordo di Augusto che richiama in paese un grande pubblico da tutta Italia.
Quando ho detto all’autista che sarei sceso a Novellara, scherzando mi ha fatto una raccomandazione: “A Novellara puoi fare tutto, tranne parlar male dei Nomadi”. E non tanto perché attualmente la sindaca della città è Elena Carletti, figlia di Beppe, fondatore dei Nomadi insieme ad Augusto, quanto perché sono l’orgoglio cittadino, un simbolo di cui il paese va molto fiero. Se si trovasse in America, Novellara probabilmente sarebbe stata già ribattezzata “Nomadland”.
La fermata è di fronte alla stazione della ferrovia, di fianco c’è il più classico dei bar anonimi, dietro il bancone del quale un ragazzo cinese serve caffè e birrette a gente impegnata alle macchinette slot. Novellara è un municipio multietnico, considerato una capitale della solidarietà e dell’integrazione. Qui c’è la più grande comunità sikh d’Italia, che è la forza lavoro alla base del parmigiano reggiano ma anche di molte altre industrie. Mimetizzato nella zona artigianale c’è il Gurdwara, il tempio più importante della religione sikh in Italia, il secondo in Europa. Oltre cinquemila gli abituali frequentatori. A Novellara circa il quindici per cento dei residenti regolari sono stranieri extracomunitari. È come se in Italia ne abitassero regolarmente nove milioni, cioè il triplo di quanti sono attualmente registrati.
Sotto la pensilina c’è una ragazza seduta sulla panchina, indossa jeans chiari e occhiali scuri. Ha gli auricolari, forse non ascolta i Nomadi o forse sì, ma è certo che quando Augusto è morto lei non era ancora nata; però alla mia domanda risponde pronta, certo che lo sa dov’è il cimitero e mi indica la direzione dalla parte opposta del paese.
Novellara è una di quelle città assolutamente di fiume senza essere sul fiume, il Po si respira nell’aria, si intravede sui morbidi colori pastello delle sue case che si incendiano al sole del tramonto, si intuisce nella sinfonia dei suoi portici eleganti e austeri, te lo immagini scorrere lì in mezzo, tra la torre della Rocca gonzaghesca e il campanile della Collegiata.
Per scoprire dove si trova la tomba di Augusto Daolio è sufficiente domandare alla prima signora che esce dal cimitero. Lo chiedo timidamente con il timore di essere inopportuno, ma lei sfodera un sorriso materno e non ci pensa due volte a tornare indietro e accompagnarmi davanti a quello che tutto sembra meno che un sepolcro. “Eccolo qui il nostro Augusto”, mi dice salutandomi, perché Augusto Daolio è il figlio di tutte le mamme di Novellara, il fratello maggiore a cui chiedere consiglio o l’amico di ogni scorribanda.
In effetti non sarebbe stato difficile trovarla da solo. Intorno alla tomba, che si trova ai piedi di un biancospino dai rami ancora spogli, ci sono una quantità impressionante di ex voto e di omaggi lasciati dai fan provenienti da ogni parte d’Italia che frequentano assiduamente questo luogo. Sigarette, targhe, sciarpe, bandiere, fiori, biglietti, libri, quaderni, fotografie, quadretti, magliette, lumini, cappelli, taccuini, fogli sparsi, una chitarra, peluche, decine di poesie, versi e semplici pensieri incisi su targhe di ogni tipo sono il segno della perenne devozione e del massimo rispetto di cui gode Augusto Daolio.
Tra la selva di oggetti e l’edera che coprono la pietra tombale, si intravedono scolpiti due mani, un sole, un flauto, il serpente e la frase “Amico mio benedetta sia la pietra che testimonia la nostra breve amicizia”. Incise su una stele di fianco le date 18.2.1947 e 7.10.1992. Me la posso solo immaginare, quel giorno di ottobre, la folla immensa che era qui a salutarlo. Amo visitare i cimiteri in cui sono sepolti gli artisti e ne no visitati molti, ma questo è uno dei più incredibili e vitali sepolcri che abbia mai visto. Augusto Daolio è ricordato per la sua voce unica e caleidoscopica, ma è stato un artista completo oltre che libero, ha lasciato una grande quantità di poesie, disegni, pregevoli dipinti, alcuni dei quali sono conservati nella sala consiliare del comune, intitolata a lui.
Felice della visita non mi resta che tornare verso il centro passando davanti al gigantesco murale che il municipio gli ha dedicato di fronte alla sua abitazione. È ritratto in una posa pensosa con la sua folta barba grigia e gli occhiali tondi, tra le dita l’inseparabile sigaretta.
Ma più di piazza Unità, più dei portici, più della tomba di Augusto, il luogo magnetico di Novellara è la Rocca. La sua torre con le campane e l’orologio si staglia alta e rassicurante come un faro. È il retaggio del ducato dei Gonzaga che qui hanno governato più di due secoli, è una delle meraviglie delle piccole corti padane che hanno creato modelli culturali con un secolo di anticipo rispetto al Rinascimento.
Dentro la rocca di Novellara ci puoi passare un giorno intero, è uno spazio vivo. C’è la sede del comune, la biblioteca, il museo dei Gonzaga con una preziosa collezione di vasi farmaceutici, c’è un grande prato con un pozzo e tre enormi ippocastani su un lato, un set perfetto per concerti e spettacoli ma anche solo per stare seduti su una panchina e godersi il brusio della vita che scorre incurante di te. Infine a impreziosire il tutto c’è il teatro, dedicato a Franco Tagliavini, cantante lirico novellarese del secolo scorso. È nel foyer che incontro casualmente Maria Grazia, con la quale non ci siamo mai visti ma è come se fossimo vecchi amici. Occhiali tondi e capelli castani che le cadono sulle spalle, ha un’allegria contagiosa e sprigiona energia. Mi guida all’interno della bomboniera da duecentosettantacinque posti e tre ordini, inaugurata nel 1858 sulle rovine dell’antico teatro di corte gonzaghesco, progettato a immagine del teatro Valli di Reggio. Ora è deserto, ci accoglie solo il profumo avvolgente dei preziosi velluti.
Maria Grazia lavora per Etoile, centro teatrale di Reggio Emilia responsabile di Teatro Lab, il progetto di formazione teatrale organizzato in collaborazione con il comune di Novellara e scuole superiori di tutta Italia. Quest’anno le scuole partecipanti vengono dalla Puglia, da Trieste, da Cuneo e quattrocento studenti rimangono in paese per tre giorni. Mentre siamo lì entra un gruppo di ragazzi dai volti belli e radiosi. Vengono da Olanda, Portogallo e Italia, devono preparare l’allestimento per lo spettacolo che faranno domani. Maria Grazia è di origini pugliesi, è laureata in Storia dell’arte a Perugia, ha una passione coltivata da sempre per il teatro, vive in Emilia da quindici anni. Lavora molto nelle scuole e mi racconta che c’è una forte integrazione tra i ragazzi italiani e gli stranieri. “A Perugia mi sentivo forestiera, qui invece è stato subito diverso. La città di Reggio Emilia è molto aperta ma l’integrazione è il valore aggiunto anche in centri piccoli come Novellara”.
Per provare a capire qualcosa di più di questo singolare comune che ha fatto della multiculturalità una bandiera, mi faccio accompagnare al bar La Fenice, sulla provinciale tra Novellara e Bagnolo in Piano. È un bar come un altro, con i giornali sportivi e la radio locale in sottofondo che dispensa musica pop, frequentato per una pausa pranzo veloce o un aperitivo. Lo gestisce Youssef Salmi, originario di Rabat, in Marocco, arrivato a Novellara nel 1990 dove ha vissuto i primi anni da clandestino. Incollato sul bancone c’è un foglio con una piccola lista di “Parole belle”, tratte da un vecchio libro delle scuole elementari degli anni Sessanta: “Permesso? Grazie, Prego, Scusa, Buongiorno”. Di fianco una cassetta per le donazioni all’Associazione Augusto per la vita, che da decenni raccoglie fondi per la ricerca oncologica. Sulla bacheca alle mie spalle, un foglio che recita “Uno straniero per amico”, scritto dallo stesso Youssef.
“Quando sono arrivato ce l’ho messa tutta per inserirmi attraverso il lavoro e lo sport. Ho trovato subito un’occupazione come operaio e mi sono inserito in fretta, ma negli anni Novanta la società italiana era più ricca ed è stato più facile”. È riuscito a inserirsi così bene che in dieci anni è passato dalla condizione di clandestino a essere eletto nel consiglio comunale di Novellara con la carica di assessore alle politiche giovanili. Volto pulito, capelli neri, Youssef parla veloce un italiano molto corretto e ti guarda dritto negli occhi. Continua a lavorare mentre racconta la sua esperienza, ha una battuta sempre pronta per tutti ed è molto solerte nel servizio. Ha due figli, un maschio e una femmina, che oggi hanno più di vent’anni e sono i figli dell’integrazione ideale, ma non è stato facile.
“Mia figlia è fidanzata con un ragazzo italiano, ma ho dovuto scontrarmi con la mia famiglia d’origine per farle accettare questa unione. Secondo i miei connazionali avrei anche sbagliato l’educazione dei miei figli. Parte della mia famiglia non ha mai accettato nemmeno che io sposassi una donna cattolica”.
Sullo sfondo la vicenda di Saman, la ragazza pakistana di Novellara uccisa dai famigliari perché rifiutava un matrimonio combinato. Secondo Youssef fino al 2016 c’era un sistema di integrazione che poteva contare su un fiorente associazionismo, si organizzavano feste multietniche, eventi sportivi e culturali che stimolavano la conoscenza reciproca. Come assessore ha fatto anche realizzare un cortometraggio sul problema delle relazioni miste tra ragazzi di religione diversa. Sull’integrazione ha una sua teoria. “Non la pronuncio questa parola, perché riguarda due corpi estranei. Tolgo la “g” di ghetto e parlo invece di interazione, cioè convivenza senza spogliarsi della propria cultura. Vorrei scrivere un libro dal titolo Vocabolario di convivese”. Non abbiamo servizi sociali articolati per gli immigrati. Durante la crisi economica degli ultimi dieci anni non sono state create le condizioni per far restare tutti gli immigrati arrivati negli anni, costringendo molti stranieri che avevano già fatto un percorso di inserimento ad andarsene. Tutti quelli che non avevano una rete di protezione se ne sono andati con il semplice permesso di soggiorno e quelli che sono rimasti comunque non sono trattati come prima. Adesso si ricomincia da zero con i nuovi immigrati”.
Oggi è uscito dalla politica ma il suo impegno sociale continua attraverso il lavoro. “Non sono pessimista, ma realista, l’Italia oggi non è pronta ad assorbire un nuovo flusso migratorio, non ci sono le condizioni. Gli africani e gli asiatici ora dicono: come, bloccano le navi di immigrati di colore che vengono da guerre ma accolgono a braccia aperte gli ucraini che vengono ugualmente da una guerra? C’è un peso e due misure!”. La parola d’ordine deve essere apertura. Si deve lavorare dentro le scuole, è lì che c’è la dimensione internazionale: ragazzi da tutto il mondo e di ogni colore. E mi saluta con un proverbio africano: “Se vuoi arrivare subito vai da solo. Se vuoi andare lontano vai accompagnato”.

Elegia alla signora Nodier, di Silvio d'Arzo

Elegia alla signora Nodier
di Silvio d'Arzo

È stato detto che tutti noi, almeno per un certo periodo, viviamo una vita non propriamente nostra: finche ´, ad un tratto, arriva il «nostro giorno», qualcosa come una seconda nascita, e solo allora ciascuno di noi avrà la sua inconfondibile vita.
Io ho avuto modo di riscontrarlo in più d’uno. Ma, quanto alla signora Nodier, proprietaria dei campi confinanti coi nostri, mi sembra che essa abbia sempre vissuto la sua.
Caso abbastanza singolare, la signorina Nodier aveva raggiunto i venticinque, i trent’anni ed anche più, senza sposarsi: non solo, ma senza esser mai stata nemmeno richiesta. Eppure era distinta e quasi ricca, avendo terre, un po’ qua e un po’ la `, per quasi tutta la provincia. Inoltre, chi l’ha conosciuta ancor giovane ricorda ancora come la sua espressione tendesse continuamente alla bellezza, senza però mai raggiungerla: che è poi la sola maniera di esser belle sul serio e per sempre. La trovavano, insomma, sprezzante. Ma nessuno aveva abbastanza spirito da ammetterlo. Si trovava più comodo dire «che non c’era femminilità in lei », « che non aveva senso della vita» (la frase più usata era questa) ed altre tristi sciocchezze.
Verso i trenta, come accade in provincia, non si parlò più di lei. E cosı ` per cinque, sei anni. Ma, proprio sul punto che stava per raggiungere quell’età in cui delle signorine distinte, con relazioni, e di ricca famiglia si va vagamente dicendo che «fanno del bene», la città all’improvviso riseppe che si sposava col generale B.D.
La cosa lì per lì apparve strana (in provincia appaiono strane le cose anche più ovvie): benché veramente nessuno riuscisse a spiegarsene il perché. Ma quando qualche tempo più tardi, si ebbe modo di conoscere il generale B.D., di vederlo a pranzo o alla caccia, la cosa fu trovata sin troppo naturale. E, a parte l’assurdità, era perfino il caso di pensare che lei si fosse compor tata per anni ed anni a quel modo, sfidando con inalterabile calma, disprezzo, ironia e l’ombra di un malinconico avvenire, nella certezza di quell’avvenimento.
Sul momento il generale deluse. Poi, ad un tratto, si riconobbe che era elegante: leggermente convenzionale, ma elegante: e che la sua eleganza consisteva appunto nel fatto che la si era notata solo dopo qualche tempo e per caso. Poi, di lì a poco, si ammise, addirittura che era un uomo di spirito. «Ah, ma è un uomo di spirito... Però ha dello spirito, conveniamone...»si sorprendevano a dire come se qualcuno li avesse contraddetti e la cosa avesse particolare importanza.
Il generale, in realtà, non aveva in nessuna maniera l’aspetto e i modi di un militare: e lo stesso suo passato era il meno militare che si potesse ragionevolmente supporre. Era stato un po’ qua, un po’ là per il mondo, con incarichi fra burocratici e politici, e alle campagne aveva partecipato solo raramente e alla lontana; il suo nome non era mai stato legato a una giornata: in compenso, però, non aveva mai commesso errori o sciocchezze, e non era mai apparso ridicolo: quella noncurante ironia, con cui riguardava la sua carriera, ed in fondo ogni sua azione, glielo avevano sempre impedito. Con tutto questo, però, generali dei più conosciuti, dai nomi familiari ai giornali, gli chiedevano spesso consigli.
Egli giunse ai primi di ottobre. E per qualche giorno lo si vide girare un po’ dappertutto, come un turista discreto, con al fianco una cagna scozzese. Lei, spesso, non c’era. Ma nessuno notò come questa mancanza fosse, a suo modo, qualcosa di più della stessa presenza. Un pomeriggio, poi, qualcuno lo vide a caccia nella campagna vicina, in fustagno olio cotto e stivaloni rossicci: e la cagna era sempre al suo fianco. Alla fine del mese si celebrò il matrimonio e noi non lo ve demmo mai più.

Erano andati ad abitare, come seppi più tardi (confesso che feci di tutto per non perderli troppo a lungo di vista), in una sua vecchia villa di campagna, dove, nel periodo della caccia, egli era solito ritirarsi ogni anno. Ma noi non ne sapemmo più niente. E del resto nemmeno quelli del paese avrebbero potuto dire granché: sempre ammesso che un paese possa trovare particolare interesse per una coppia in fondo così ragionevole e composta, e senza la minima stravaganza. Solo un diario, mi sembra, avrebbe potuto dire qualcosa. Ma i diari, in cui le pause abbiano un significato maggiore anche delle stesse parole, si vanno facendo ogni giorno più rari e io giurerei che, a quei tempi, la signora Nodier non ci avesse ancora pensato.
Egli partiva, ogni mattina, per la caccia; e lei lo guardava, ogni mattina, dai vetri della stanza allontanarsi fra i campi con al fianco la cagna scozzese. Qualche volta essa apriva ridendo la finestra per richiamarlo e ricordargli qualcosa. Qualche altra, che lui si era dimenticato, ad esempio, il coltello– cosa che accadeva abbastanza spesso– essa glielo mostrava di là, agitando il braccio, e la cagna, di colpo, accorreva a prenderlo in bocca. Non più di questo, a ogni modo: perchè tutto questo, e non più, poterono vedere ogni giorno servitù e giardiniere.
Più tardi seppi anche che essi non fecero mai il minimo progetto sull’avvenire, e ben di rado si chiesero che cosa il giorno dopo avrebbe loro portato. In autunno la nebbia saliva presto dal fiume. Per le strade di campagna, già dure del primo gelo, non si vedeva quasi nessuno. A volte, l’unico segno di vita era il volo di un’anitra selvatica: tal’altra, verso il crepuscolo, il bambino colla capra che ritornava pigramente alla casa. Naturale perciò che, nei tardi pomeriggi o verso sera, le conversazioni fossero lunghe e frequenti. Tutte rivolte al passato, però. Ed essa potè dirsi veramente sicura di lui, solo quando fu riuscita a conquistare tutto il suo passato.
Una volta, tra l’altro– era venuta a un tratto a mancare la luce per via di un temporale che si abbatteva sui prati e le serve correvano qua e là per gli anditi in cerca di candelieri–,essa gli chiese dei suoi vecchi amori. E la domanda fu così naturale, che egli non s’accorse nemmeno della sua naturalezza. Quella sera parlarono a lungo; e quando la serva bussò per portare la luce fu pregata di tornare più tardi.
Con tutto questo, però, ella non diventò mai un personaggio: né cadde mai nella leggenda, così facile soprattutto in paese. Fu sempre viva, e comprensiva, e di spirito. Così di spirito, anzi, che capiva perfettamente come in questo loro atteggiamento ci fosse anche egoismo, e che era ragionevole quindi l’ostilità e l’antipatia della gente.
Ma due giornate la rimisero, per qualche tempo almeno, nel mondo, benchè poi, di lì a poco, essa riuscisse a farle completamente «sue»: quando il generale, colla sua cagna, partì per la guerra in colonia, e quando, sette mesi più tardi, gliene fu comunicata la morte.
Fu, mi ricordo, in settembre, e i giornali ne diedero l’annunzio in due righe.
Ma noi lo sapemmo solo molto più tardi e per caso, per via di una vocale sbagliata.

Fu (qualche volta la banalità è inevitabile) una cosa terribile.
Tanto più che lei la trovava assolutamente ingiusta, mostruosa, come una cosa che esca dal suo ordine naturale. «Ah, Dio mio» le accadeva di dire torcendo il fazzoletto od i guanti, «perchè a me, proprio a me?Ma per gli altri è diverso... Ma sì, sì, è diverso, diverso. Senza nemmeno confronto» aggiungeva, poi, con impazienza, come in risposta ad un’interna obiezione. «Non dimenticano, forse? Non dimenticano ogni giorno di più?» E faceva nomi; e pensava perfino che in questo soprattutto s’assomigliassero gli uomini. Né mancarono momenti in cui fu convinta d’essere perseguitata da qualche cosa di più intelligente e personale dello stesso destino. Provò a far del male e poi del bene, ma l’uno e l’altro con soddisfazioni ben povere: e se alla fine decise di attenersi al bene soltanto, fu perché, dopotutto, la cosa le era molto più facile.
E, questo, per alcuni mesi di seguito. Fino, cioè, a mezzo marzo. Allora la si vide di nuovo, se pur raramente, uscire in paese: alle volte faceva delle piccole compere inutili, alle volte parlava brevemente con qualcuno. E fu proprio in quei tempi che prese a tenere il suo diario. «Ah, ma io non son più la stessa. Sono di ventata così buona» scriveva qualche giorno più tardi «che riesco a guardare di buon animo anche le felicità degli altri a due passi da me. E non me ne offendo più; è mai possibile? Non sento nemmeno più invidia...» E poi, quattro pagine dopo: «Comincio a preoccuparmi realmente. Ma non so proprio che farci: sarei disposta a dare metà di me stessa...» e via di seguito.
Essa era, sì, disposta a dare metà di se stessa: ma non certa mente ad accettare l’altra metà che la gente necessariamente le avrebbe voluto dare in cambio. E dovette accorgersi presto che il dono non sarebbe mai stato accettato, senza accettare, a sua volta, il compenso. Ora, questo era chiederle troppo. Era superiore, realmente, alle sue forze.
Gli stessi contadini, inoltre, non avevano più l’antico rispetto, ma la guardavano con una certa espressione come se lei avesse oscure colpe. Quella, ad esempio, di sorridere di certe cose e problemi sui quali essi, invece, giuravano: di essere serena, lontana e di avere in fondo, per loro, non più che una materna ironia: quella, forse, della sua stessa presenza. «Il generale sì che ha capito» li sentiva quasi pensare. «Si è accorto che non ci saranno più tempi per lui... Se ne è andato in tempo... Ha capito... Ma lei, lei cosa aspetta? »
Fu allora che si ridusse a vivere quasi senza interruzione nella villa: e, poichè vi era nel parco una vecchia cappella che ebbe cura di far restaurare, non usciva nemmeno per andarsene in chiesa. Questa specie di isola fu, in definitiva, la sua salvezza: e, a poco a poco, la morte del generale si andò tramutando via via in una sopportabile infelicità: in una, neanch’io so, eterna sera. A una nuova scossa ella non avrebbe, forse, resistito: ma, certamente, non avrebbe resistito allo spegnersi di quella infelicità. Ella se l’era venuta costruendo giorno per giorno, come altri, giorno per giorno, si va costruendo la sua illusione: era, a modo suo, un’illusione, verso il passato anziché verso l’avvenire: le era assolutamente necessaria: era, insomma, se stessa. Nella villa, adesso, ogni cosa le parlava del generale e di tutto quello che, ai suoi giorni, egli aveva significato per lei: vecchi tempi e serenità e cortesie ed altro ancora. Ella aveva però un’inarrivabile cura nell’evitare ogni cosa od incontro che rendesse troppo recente e vivace quei ricordi: perchè allora il dolore avrebbe preso di nuovo il posto di quella sua dolce infelicità, e questo non lo voleva in nessun modo. Rifiutò, per esempio, di andare ad assistere a una cerimonia in memoria di lui, e non lesse nemmeno un discorso che ne ricordava la morte. Un giorno, sì, sarebbero diventati ricordi e lei sarebbe venuta di mano in mano riscoprendoli: ma ora erano soltanto vita, era il giorno appena passato: e la vita era troppo forte per lei.
Quando seppe, però, che in provincia era venuta per qualche giorno una signora di cui molti anni prima si era parlato come di un vecchio amore del generale, lei non mancò di invitarla. E dovette essere una singolarissima scena: molto fine, molto seria, e al tempo stesso con quel po’ di ridicolo che rende umana ogni cosa. Anche quel giorno parlarono a lungo: parlarono fino a quando, di là dalla vetrata, il giardino si tinse in certo senso di viola. Allora, quasi sorpresa, l’altra signora si alzò. Ora, dai vetri, ella poteva scorgere, oltre i campi arati e i vigneti, lo scorrere pigro del fiume.
«Ah, le sue vecchie anitre...» ricordò a un tratto guardando la campagna già squallida. E lo disse sorridendo, come alle volte, guardando un vecchio ritratto infantile si accenna ai piccoli difetti di una persona a cui si vuol bene.
«Perché, ci andava anche ‘allora’?» domandò la signora Nodier, lei pure accostandosi ai vetri. E la guardò sorridendo: essa era, in fondo, un po’ lui.
«Sì, ma un pessimo cacciatore, allora» disse l’altra, ridendo.
«Non tutti lo volevano in compagnia... Trovavano, perfino, delle scuse. Una volta gli diedero addirittura un appuntamento sbagliato... Fortuna che lui non è mai venuto a saperlo.»
«Non mel’ha mai confessato» pensò ad alta voce, dopo aver ricordato un poco, la signora Nodier. «Ma credo di averlo sempre sospettato ugualmente.» Ed aggiunse come a se stessa: «Lo faceva troppo seriamente per far bene».
«Era quasi solenne» completò l’altra.
«È vero, è vero» assentì la signora Nodier, quasi grata di quel termine che rendeva più viva l’immagine di lui. «Ma sì, è vero, solenne.»
E cominciarono, tutte e due, a parlare dei difetti di lui: ed, appunto per questo, sembrava che non di un morto si parlasse, e nemmeno di un vivo, ma di una mite, comprensiva presenza che avesse dell’uno e dell’altro. Nè si accorgevano nemmeno che c’erano di mezzo anni, la morte ed, inoltre, altre cose più tristi. La signora Nodier considerò quella giornata una delle più importanti e più «sue».
Ne conobbe una ancor più importante.
Due anni dopo, una sera, mentre la serva più vecchia stava stirando, si sentì a un tratto suonare al cancello. Dai vetri, contro il fanale del giardino, si vedevano fiocchi di neve, e, a tratti, anche pioggia. Era inverno avanzato. «Vacci tu, Agata» si rivolse allora alla giovane, dopo aver dato un’occhiata alla finestra e riabbassando gli occhi sul lavoro.
Dovette alzarli, però, un momento più tardi. Sebbene ansimante per la corsa attraverso il giardino fino al cancello, e avesse i piedi bagnati e qualche fiocco di neve sui capelli, Agata apparve tutta sorridente, concitata, e parlava con qualcuno che era ancora fuori dell’uscio. Poi entrò un militare. Poi un cane. La vecchia s’accorse subito che era la vecchia cagna di lui.
Il militare, dal canto suo, si guardava intorno impacciato. Lui non sapeva niente di niente. Sapeva soltanto che, per quella vecchia cagna che non aveva mai visto, affidatagli da un altro soldato, era stato costretto a fare un lunghissimo giro: che era stanco: pioveva: e aveva i panni bagnati. Trovava tutto ben strano.
Lo trovò, ancora più strano quando la donna, dopo più di mezz’ora, scese a dirgli che la signora lo ringraziava moltissimo e che il suo era stato certo un gran gesto, ma che quella sera non poteva riceverlo: «non poteva in nessun modo riceverlo», e lo accompagnò di nuovo fino al cancello.
«Giovanna» disse poi, quando fu di ritorno, «vado a portare la cagna nella casa dei contadini.» «Con questo tempo?» alzò il capo l’altra stupita.
«Non può dormir qui vicino al fuoco? E ‘lei’, per vederla, dovrà an dare fin là?»
«No... non in casa. Non qui» disse brevemente la giovane accostandosi colla cagna alla porta. Fuori si vedevano ancora neve e pioggia, e un lembo di siepe bagnata. Cercò qualcosa da mettersi in testa per ripararsi dall’acqua, ma non trovò che un vecchio giornale. Prese quello ed uscì. Dal primo gradino si volse ancora alla vecchia. «Sta’ attenta che lei ti chiamerà per darti un biglietto.»
Ma per tutto il giorno dopo la signora Nodier non le consegnò alcun biglietto. E nemmeno il giorno seguente. Essa se ne stette quasi sempre in camera sua, e l’unica volta che scese fu per domandare qualcosa al giardiniere. Ma il terzo giorno il biglietto era sul tavolo: indirizzato a Quintilio, suo vecchio contadino, al paese di lei.
Io potei leggerlo solo molti anni più tardi.

Caro Quintilio, non vorrete, dopo tanto tempo che non ci vediamo, farmi un ultimo favore? Senza dubbio è un po’ grande, ma l’ultimo.
Di questo potete esser certo. Vi prego soprattutto di non chiedermi nulla, se vorrete venire: di non domandarmi due volte di spiegarmi, come se non aveste capito bene la prima. Più strana vi sembrerà la cosa, e meglio avrete capito. Ma che stupida so no! Voi mi fate il favore (me lo farete, Quintilio?) e sono io che pongo delle condizioni. Davvero che non mi riconosco più. Tanti saluti amichevoli, e tanti saluti alla vecchia Maria, ai vecchi Tromp e alla vecchia Felicita. Tutti vecchi, ormai: co m’è triste!

E c’era anche un poscritto: «Non negatemi questo favore, Quintilio. Se, per una qualsiasi ragione, credete di non poterlo più fare a me, fatelo almeno alla ragazza a cui una volta avete in segnato a pescare...»
Il contadino rispose puntualmente all’invito.
Una settimana dopo mi trovai a passare di lì e non mancai di farle una visita.
Come sempre, essa mi accolse nel migliore dei modi ed io ebbi perfino l’impressione che le mie parole potessero anche non annoiarla. Mi ricordo che a un certo punto ella si alzò e mi lasciò, per qualche attimo, solo: ed io ebbi modo di guardarmi attorno per la stanza. Prima, in sua presenza, mi sarebbe sembrato offensivo. Potei vedere, così, quadri, ritratti, e qualche strano mobile e qualche vecchia rivista, e infinite altre cose di buon gusto: e tutto aveva un’aria come di chi a un tratto, di propria volontà, si sia, senza morire, arrestato. Da ultimo, poiché in parte nascosta dal l’ombra di una tenda, vidi una cagna scozzese imbalsamata. E anche questo, ricordo, con un’aria di mite, comprensiva presenza: qualcosa assai più di un ricordo, e quasi una pallida vita. Poi ella rientrò di nuovo, scusandosi, e riprendemmo a parlare. Di tanto in tanto prestavo orecchio ai rumori della strada e tenevo gli occhi su lei: per strano che sembri, ella sembrava qua si felice.
È una storia vera.