Match Point: il racconto primo classificato di Flavia Catena

Match Point è il concorso per racconti inediti in italiano organizzato da Il Circolo – Associazione Culturale Italiana, in collaborazione con la scuola di scrittura Londra Scrive. L'iniziativa ha il patrocinio del Consolato Generale d'Italia a Londra.
Anche quest’anno siamo orgogliosi di collaborare con questa iniziativa prestigiosa, che mette cura, attenzione e dedizione sia alla selezione dei testi vincitori, che alla fase di editing dedicata ai tre racconti finalisti.
Il tema di quest’anno è stato ‘Futuro o no?’, declinato nei modi più personali e disparati.

In queste settimane Cattedrale vi ha presentato i racconti vincitori, proponendovi il secondo e il e terzo classificato. Oggi vi presentiamo il racconto che si è aggiudicato la vittoria del concorso: Rabbia, di Flavia Catena.

Per chi fosse interessato, venerdì 28 Febbraio Cattedrale pubblicherà il nuovo bando del concorso Match Point col nuovo tema!
Buone letture!

Primo classificato

In Rabbia, l’autrice mette in scena la distopia con un racconto apocalittico e delicato. Dalla finestra si guarda un mondo desolato dove vagano i cani. Lo scandire del tempo è dettato dal prosciugarsi del lago e ne rimane poco. Ma la promessa fatta a un bambino di finire di illustrare una fiaba va mantenuta. Tutto il racconto è permeato dalla scrittura precisa, dal tono bilanciatissimo e da un senso di premonizione, mai dichiarata, eppure molto profonda.


RABBIA
di
Flavia Catena


3 aprile

 

L’ultimo airone ha lasciato l’isola ieri. Sono migrate le anatre mandarine e le oche canadesi. Non vedo un cigno da settimane e il bianco che fa capolino dal canneto è quello delle folaghe con i loro becchi curvi e gli scudi cornei.
L’acqua del lago si è ritirata ancora di cinque o sei metri, svelando un fondale di sassi e spazzatura, tappi di bottiglia arrugginiti, ami, qualche straccio di rete. La luce densa che guizza sulla terra scoperta, tra le celle fangose e le crepe, mi riporta alla mente le carpe che mio padre pescava quand’ero bambino. Mi facevano paura le loro bocche enormi, spalancate da una preghiera silenziosa, e i loro occhi inespressivi, la sclera larga, la pupilla ridotta a un punto.
«Provano dolore?» chiedevo a papà, sempre con la stessa voce bassa e lo sguardo che sfuggiva agli scatti delle pinne, al rumore dei corpi che sbattevano contro le pareti del secchio.
Lui, non sapendo mentirmi, rispondeva: «Sì, ma dura poco.»

5 aprile

 

«Quanto tempo ci resta?» mi ha chiesto Luisa stamattina, a letto.
Fino a pochi anni fa aveva l’abitudine di dormire distesa sulla schiena, un cuscino sotto i piedi gonfi e due sotto la testa; adesso la trovo sempre rannicchiata, le ginocchia spinte contro il petto, il corpo adagiato sul fianco. Dal lenzuolo emergono solo i suoi capelli bianchi: mi tocca sollevarlo per vederla e farmi vedere.
«Forse un paio di mesi, al massimo tre», le ho risposto, facendo un calcolo approssimativo della velocità a cui l’acqua è evaporata nelle ultime settimane.
«Allora dobbiamo finire il libro il prima possibile.»
Ho guardato le carte accumulate sulla scrivania, pile che si macchiano di caffè annacquati e ore lente, prima di tornare alle mie operazioni mentali, nella speranza di essermi perso qualche numero, qualche giorno prezioso.
«Glielo abbiamo promesso», ha aggiunto Luisa.
Non lo dice ma teme che mi fermi, che mi arrenda. E a volte penso che dovrei, che sarebbe tutto più facile.
Il resto della giornata lo abbiamo trascorso in silenzio a combattere contro la fame, la stanchezza e le troppe pagine ancora vuote.

10 aprile

 

«Senti? I cani... se ne sono andati?»
Luisa mi ha svegliato alle quattro del mattino, scuotendomi. Non ricordo che cosa stessi sognando, ma era un bel sogno, di quelli che ti lasciano addosso una leggerezza piacevole. Ho acceso la lampada sul comodino e mi sono messo in ascolto.
Il vento frustava i rami del gelso, facendone battere le estremità contro il vetro della finestra. Alla sua voce si aggiungeva a tratti un cigolio ripetuto, che variava di intensità a seconda della direzione in cui tendevo l’orecchio. Forse era il cancello che si apriva, la banderuola che ruotava. Mi ci è voluto qualche istante per sentire oltre quel rumore.
«Sì, sembra che se ne siano andati».
Dalla terraferma e il vecchio paese si sollevava un silenzio spettrale. Era come se il vento soffiasse solamente sulla nostra isola; intorno il mondo era zitto, vuoto e immobile. Nelle case, voragini buie abbandonate da mesi in cui non entrava neanche un raggio di luna, le porte socchiuse non sbattevano né stridevano più.
«E se...»
Non gliel’ho lasciato dire e ho pregato che cancellasse dalla mente l’immagine a cui si era già aggrappata.
«Dormiamo ancora un po’, vuoi?»
Ci siamo stretti sotto il lenzuolo. Il battito del suo cuore ha coperto ogni altro suono e la sua assenza.  

17 aprile

 

I cani sono riapparsi stanotte e ci hanno svegliati con il più acuto dei guaiti. Fanno da guardiani al confine, sulla terra da cui il lago ci separa. Una decina tiene d’occhio la sponda a est, venti sono radunati a ovest, due soltanto vegliano sul bosco a nord, mentre un gruppetto di cinque o sei mantiene il controllo della zona sud, dov’era il porto.
Il binocolo usato un tempo per osservare gli uccelli, adesso mi aiuta a vedere loro. È così che li distinguo e li seguo.
Hanno tutti la bava alla bocca e si muovono a scatti, sferzando l’aria con la coda, grattando la terra con zampe robuste, irrequieti quasi bruciassero avvolti da una fiamma invisibile. Anche da fermi i loro corpi sono squarciati da convulsioni improvvise.
Poco fa ne ho visti due sulla sponda est che si assalivano, mentre uno di quelli a nord si avvicinava all’acqua, come se non distinguesse più le onde dai solchi del terreno. Quando se n’è accorto ha fatto un balzo all’indietro.
«Rabbia?»
È stata Luisa a pronunciare per prima quella parola. Io me l’ero rigirata in bocca decine di volte, per poi ingoiarla e trovarmi la gola graffiata dall’orrore.
«Rabbia», ha poi affermato. «Hanno paura dell’acqua».
È questo che, fino ad ora, ci ha salvati. Ma l’acqua si ritira in fretta e loro lo sanno.

 

 

23 aprile

 

Luisa ha aperto l’ultimo barattolo di gelatina di mele preparata l’anno scorso. Ce ne siamo concessi due cucchiai ciascuno su una pagnotta rafferma. Era così dolce da farmi arricciare il naso.
«Non ti piace?»
«È buonissima.»
Non mentivo, e Luisa lo sapeva. Abbiamo sorriso l’uno all’altra, le labbra impiastricciate come se fossimo bambini. Poi io mi sono messo a lavorare alle mie bozze, lei ai suoi disegni.
«Glielo abbiamo promesso», ha continuato a ripetermi. «Non possiamo fermarci.»
Nostra figlia Cecilia aveva sette anni quando siamo venuti in vacanza al lago per la prima volta, dodici quando abbiamo comprato questa casa, e quindici quando Luisa ha iniziato a illustrare libri per bambini.
«Perché non scrivi una storia per la mamma?»
Mi ricordo ancora con che occhi brillanti mi è venuta incontro un mattino, adolescente pallida, le guance gonfie delle canzoni che fischiettava per ore, dopo averle ascoltate alla radio.
«Che tipo di storia?»
«Una che parli di uccelli... gli uccelli del lago.»
«Ne hai uno preferito?»
«La folaga.»
«Un nome?»
«Oscar.»
Ed eccolo, qui accanto a me, Oscar, che zampetta sul bordo della pagina. Luisa si è concentrata su di lui oggi. Gli ha fatto aprire il becco, poi gliel’ha chiuso; ha lavorato sulle sue piume, sulle ombre e le luci che le frastagliano, sull’espressione che fa quando stringe gli occhi e quella a cui accompagna le sue parole.
A Cecilia sarebbero piaciute la sua curiosità e la malinconia, il suo modo di camminare, sempre sbilanciato un po’ in avanti, e l’abitudine di mettere una zampa sull’altra quando avvicina il becco a quello della compagna Aurora.
I suoi amici uccelli si chiamano Corrado (lo svasso) e Libero (il martin pescatore). Col primo nuota fino alle estremità del lago, col secondo saltella sulla sponda e parla di filosofia e religione. Oscar crede nel potere degli spiriti che si staccano dalle fronde dei salici al soffiare del vento, di quelli che aprono gli occhi sui fiori in boccio e che ridono sulla schiuma dell’acqua. Libero, invece, crede nelle divinità nascoste tra le stelle. Gli spiriti dei salici e dei fiori non hanno alcun potere, gli altri, invece, pare ne abbiano di infiniti.
“Rivolgiti a loro”, lo esorta infatti il martin pescatore, perché Oscar ha un desiderio che gli spiriti non hanno ancora esaudito: vuole diventare papà e vuole che la sua Aurora diventi mamma.
Hanno già perso ventisei delle uova deposte. Il delitto lo ha compiuto una volta una banda di ragazzini, un’altra una tempesta, un’altra ancora la cornacchia ferita a cui Oscar aveva prestato soccorso.
«Allora, l’hai scritta la preghiera?» mi ha chiesto Luisa, quando ci siamo messi a tavola.
Il momento in cui Oscar decide di pregare le divinità che abitano tra le stelle è uno dei più importanti del libro.
«Sì, ma non mi piace abbastanza.»
«Vuoi leggermela?»
Cari dei e care dee, io lo so che non vi ho mai pregato, e lo so che vengono prima quelli che invece vi pregano ogni sera, ma voglio chiedervelo lo stesso: potete aiutare me e Aurora a diventare genitori? Abbiamo questo amore dentro che cresce e cresce e ci rende pesanti, ci fa male. Aurora teme di morirne. E io temo di sopravviverle.
Luisa ha annuito. Anziché darmi il suo parere, ha preso il suo ultimo cucchiaio di polenta e lo ha versato nel mio piatto rimasto vuoto.

25 aprile

 

«Altri cani?»
«Sì», ho risposto a Luisa.
Camminavano verso il porto, macchie oscillanti nel bianco polveroso delle strade.
«Solo cani?»
Alcuni li ho visti strisciare dalle case come spettri. 
Per un momento, in quelle ombre, ho creduto di riconoscere i nostri amici. Ne avevamo di cari sulla terraferma: Luigi, l’architetto a cui abbiamo affidato il restauro della casa, don Patrizio, il parroco della chiesa, Felicia, l’infermiera che faceva le iniezioni a Cecilia, abitavano lì, a pochi metri dal porto.
«Solo cani».

 

 

29 aprile



Luisa ha avuto la febbre.
Non ho mai stretto la sua mano tanto a lungo, mai contato i battiti del suo cuore con la paura di sentirli interrompersi.
Ho trascorso ogni notte al suo fianco senza dormire, solo contando. I cani abbaiavano e io contavo. Partivo da uno e arrivavo a duemila, a tremila, prima di inciampare nel sonno. Ero terrorizzato al pensiero di chiudere gli occhi, di lasciare solo l’isola e l’acqua, o quel poco che ne resta, a difenderla. Per mantenerla in vita dovevo restare sveglio, l’indice sulla sua vena, la mente concentrata su ogni cifra.
Tre giorni così, forzandola a mangiare e a bere, poi, ieri mattina, Luisa ha riaperto gli occhi.
«Ho fatto un lungo sogno», mi ha detto. «Oscar diventava padre di cinque pulcini».
Ne aveva visto le uova schiudersi davanti a mamma e a papà folaga. Pare che io fossi lontano. Arrivavo appena in tempo per ammirare gli anatroccoli diventati adulti che spiccavano il volo.

1 maggio

 

Ci sono cose che un prigioniero non dovrebbe mai fare, tra queste discutere di cibo, battere la lingua contro ogni angolo della bocca cercandone il sapore, raccontare, su carta o a voce, la situazione e il momento in cui ne ha goduto. Dettaglio dopo dettaglio, inizierà a sentirne una voglia irrefrenabile, voglia che diventa tormento tanto più ampio è lo spazio che le si concede.
Io l’ho provata ieri, quando Luisa mi ha mostrato i suoi disegni per la scena del banchetto, una delle più tenere e romantiche del libro. È lì, sotto la tavola imbandita dalla vecchia signora Irma, che Oscar e Aurora s’incontrano per la prima volta. Avevo scritto il capitolo sorvolando sul cibo. Luisa, invece, ha fatto proprio l’opposto: Oscar e Aurora sono sullo sfondo e in primo piano spiccano la piramide dei bignè, la cesta colma di frutta, i biscotti alle mele e le focacce alle olive.
L’ho sentita allora, più forte che mai, la fame, la sofferenza. Voglia di budini al cioccolato, di fichi seccati al sole e riempiti di mandorle croccanti, di soufflé da sciogliere in bocca. Voglia di sapori intrappolati nel bambino, nell’uomo e nel padre che ero. Ci sono cose che non mangio da quando Cecilia non può più mangiarle, altre da quando i cani hanno sostituito gli uomini.
«Che cosa ti manca di più?» mi ha chiesto a un tratto Luisa, come se patisse anche lei.
«La frutta», ho risposto.
«Anche a me».
«Ricordi le albicocche comprate in quel mercato in Spagna? Non una punta di acido, solo dolcezza. E le pesche bianche, piccole, del frutteto di tua madre?»
«Mi ci lavavo la faccia da bambina. Ne avrei mangiate a chili».
Ci siamo tormentati così, io e Luisa, per buona parte del giorno. Il gioco del “ti ricordi?” ha reso appetibili, davanti ai nostri occhi allucinati, cibi che non avevo mai saputo mi piacessero e cibi che avevo sempre detestato, come i calamari, le mele verdi, la verdura amara, la liquirizia.

 

 

3 maggio

 

Non è chiaro come sia morto, forse a seguito di una ferita (ho sentito dei cani combattere ieri notte). All’acqua deve essersi avvicinato per disperazione o perché stordito.
È stata Luisa a vederlo per prima.
«Vado io al pozzo, tu resta in casa», le avevo detto, ma lei voleva lasciarmi scrivere.
Abbagliata dal sole, lo aveva creduto una delle tante macchie scure che le pulsavano sulle pupille. Poi la macchia era diventata carcassa.
Ho sentito il secchio nelle mani di Luisa che cadeva a terra, e sono corso fuori, senza sapere che cosa fosse successo.
Tremava, madida di sudore, irrigidita dall’ansia, mentre continuavo a ripeterle: «È morto!»
Ormai lo avevo visto anch’io. Era fermo al centro del lago; non c’era corrente che lo facesse procedere avanti o che lo spingesse indietro. La sua pelliccia, nera e lucida, sembrava mandare scintille a contatto con la luce.
«Rientriamo insieme», ha suggerito Luisa, con il terrore ancora negli occhi.
«Non ci può fare alcun male», ho ribadito con voce calma, tenendole il volto tra le mani.
Una volta a casa, lei ha smesso di guardare verso il lago; io, invece, ho aspettato di vedere muso, zampe e coda affondare insieme alla loro minaccia.



6 maggio

 

«Sono brutta, eh?»
Cecilia vedeva i nostri volti tesi da una spaventosa verità: che la sua vita si sarebbe spenta prima della nostra. Lei dimagriva, si faceva sempre più pallida, e noi le sorridevamo troppo, con dolcezza eccessiva.
«Non lo sei», le rispondevo. E le accarezzavo le mani.
Il gelso era carico di frutti quel giorno, il sole tiepido e il vento leggero. Cecilia passeggiava  lenta sulla sponda, Luisa dormiva sulla sdraio e io tenevo d’occhio entrambe mentre scavavo una buca. Mi ero ripromesso di piantare un albicocco e un mandorlo perché, insieme al gelso, un domani chiudessero la casa dentro una muraglia tutta verde.
Non mi ero accorto che Cecilia aveva in mano uno specchietto, tanto meno che fosse quello d’argento di nonna Franca. Lo aveva aperto piano, spiandone prima l’interno, poi si era inquadrata. Dalla fronte il suo sguardo era sceso sugli occhi arrossati, sulle guance scavate, sul naso, sul neo in cima all’arco di Cupido, e infine sul collo e la sua cicatrice.
«Che cosa c’è?» le ho chiesto avvicinandomi.
Nessuna risposta.
Lo specchietto era caduto in acqua e il volto di Cecilia, quello tremante di paura, la sua e la mia, era affondato.
Lo specchietto è riemerso oggi, sporco, dal nuovo tratto di fondale scoperto. Nel prenderlo, ho deciso di non guardarvi dentro. Luisa l’ha poi ripulito con cura e riposto sul comodino in camera di Cecilia, proprio dove lo teneva lei.

 

 

8 maggio

 

Le uova sono deposte, con la benedizione delle divinità che abitano tra le stelle. Cinque uova bianche punteggiate di nero riposano al centro di un bellissimo nido. Luisa lo ha disegnato rametto per rametto, foglia per foglia, china sotto la luce della lampada. È sulla scrivania che l’ho vista addormentarsi ieri, la mano poggiata sui fogli e la fronte sul braccio.
«Devi aiutarmi», le ho detto svegliandola.
Le sue palpebre gonfie hanno vibrato un po’ prima di aprirsi.
«A fare cosa?»
«A scegliere i nomi per gli anatroccoli».
Dalla scrivania, Luisa si è spostata sulla poltrona accanto al letto.
«Nomi di re?» ha suggerito.
Ci avevo già pensato, ma non ne avevo trovati cinque che mi soddisfacessero.
«Nomi di poeti?»
Messi insieme anche quelli, con poco successo.
«Nomi di artisti? Di piante? Di fiori?»
Ne abbiamo snocciolato alcuni, ma nessuno sembrava funzionare.
«Menecuccio, Tittillo, Renzone, Luccio, Iacovo».
«Mai sentiti».
«I cinque figli, non la conosci?»
Le fiabe raccontate a Cecilia Luisa le ricorda ancora tutte; le cita spesso, ne sfoglia i libri, ne disegna i paesaggi.
«No, di che cosa parla?»
«Di cinque ragazzi, un orco e una principessa».
«Ti ascolto», le ho detto.
Anche se la storia non mi ha convinto, ho detto sì ai nomi.

11 maggio

 

Gli ultimi uccelli se ne sono andati da giorni, l’acqua si continua a ritirare e i cani – saranno cinquanta, adesso, sessanta? – si avvicinano. Annusano la terra, scavano, litigano per quel che resta di un vecchio remo, per un cerchio di gomma e una lattina.
Poco fa, col binocolo, ne ho visto uno ingoiare qualcosa, poi il suo corpo ha iniziato a contorcersi sotto la violenza degli spasmi.
«Muori!» ho urlato, sperando che la sua disperazione fosse più forte della mia e lo uccidesse.
Un attimo dopo, vedendolo camminare a capo basso e bocca aperta sulla sponda, ho chiesto perdono non so se a lui o a me stesso.

 

 

23 maggio

 

Menecuccio, Tittillo, Renzone, Luccio, Iacovo sono nati.
Nella luce del tramonto che si allunga tra i rami, Oscar vede una piuma che si muove, poi una zampa, un occhio che si apre, un’ala. Vede il futuro che spalanca affamato il becco.
«Grazie», dice alle divinità che abitano tra le stelle, alle stelle stesse, al sole, alla luna, a Corrado e a Libero, ad Aurora, e a quel bambino che guarda dalla riva gli anatroccoli nel nido sorridendo. È un bambino buono, pensa Oscar, che non farebbe alcun male ai suoi figli. Gli si avvicina, infatti, e ringrazia anche a lui. Poi vola via, a pelo d’acqua, in cerca di cibo. È suo il compito di sfamare gli anatroccoli, mentre Aurora li stringe al suo petto caldo.

 

12 giugno

 

Sembra che sia sceso Dio in persona a bere dalla conca del lago.
In un solo giorno, l’acqua si è prosciugata del tutto. Il fondale scoperto è una fossa comune per pesci. Come lo specchietto, siamo riusciti a salvare dal fango altre cose di Cecilia: un suo fermaglio per capelli, un suo giocattolo, il gattino di giada comprato insieme alle bancarelle del porto.
Luisa esce. Corre scalza sulle pietre infuocate, sulle zolle taglienti, per andarlo a prendere.
«È intatto», dice, sorpresa come di fronte a un miracolo, e non vede il sangue che sgorga dai suoi piedi.



13 giugno - mattina

 

Procedono lenti senza abbaiare né guardarsi, quasi inconsapevoli l’uno dell’altro. Forse si chiedono anche loro dove sia finita l’acqua, forse ne sentono ancora l’odore, quest’odore di marcio che stringe l’aria in un pugno, che risale su per le nostre narici da settimane.
«Non hanno la bava alla bocca», mi fa notare Luisa.
Ho già scritto e detto forse decine di volte e ho paura di ripetermi: è un’arma troppo affilata la speranza.
Forse non è rabbia.
Forse non sono gli stessi cani.
Forse neanche ci vedono.

 

 

13 giugno - mattina

 

Li ho visti accanirsi sui corpi dei pesci, alcuni ringhiare contro un’ombra, contro il luccichio di una pietra. Quattro si sono fermati, e ce n’è uno che gira su se stesso guaiolando come impazzito. I rimanenti hanno circondato l’isola.
Al nostro passato e al nostro futuro, alla nostra Cecilia e a tutti i bambini che leggeranno questa favola.
Rileggo la dedica del libro scritta giorni fa, poi io e Luisa firmiamo l’ultima pagina.
Se avessi più tempo, la riscriverei. Anzi, riscriverei tutto da principio, favola e vita.
“Va bene così”, sembra dirmi Luisa con gli occhi.
Va bene così per le cose lasciate a metà o mai iniziate, per quelle finite, ma non come volevamo, per gli abbracci mancati, per le telefonate non fatte quando qualcuno avrebbe ancora potuto rispondere, per la gelatina ammuffita prima che vi affondassimo il cucchiaio un’ultima volta.
Ora che mi ha raggiunto alla finestra, Luisa traccia con l’indice il contorno del gelso, per poi ricopiarlo sugli angoli vuoti del giardino, di fianco al capanno degli attrezzi, oltre il pozzo e dietro al gazebo e all’altalena.
«Sarebbe stato bello, così», bisbiglia.
Un’ampia muraglia verde...
La luce che resta del giorno è rannicchiata sopra l’orizzonte. A breve scivolerà dall’altra parte del cielo, quella che non riusciamo a vedere. E noi ce ne andremo con la notte.

Match Point: il racconto secondo classificato, di Alessia Piermarini

Match Point è il concorso per racconti inediti in italiano organizzato da Il Circolo – Associazione Culturale Italiana, in collaborazione con la scuola di scrittura Londra Scrive. L'iniziativa ha il patrocinio del Consolato Generale d'Italia a Londra.
Anche quest’anno siamo orgogliosi di collaborare con questa iniziativa prestigiosa, che mette cura, attenzione e dedizione sia alla selezione dei testi vincitori, che alla fase di editing dedicata ai tre racconti finalisti.
Il tema di quest’anno è stato ‘Futuro o no?’, declinato nei modi più personali e disparati.

Cattedrale vi presenta il secondo racconto classificato, dandovi appuntamento al prossimo venerdì per scoprire il primo classificato.
Qui trovate il terzo.
Buone letture!

Secondo classificato

Nel racconto La musica dentro, un’insegnante di canto porta la musica dentro un carcere. Ma la musica del racconto è anche quella che si portano dentro quelli che scontano la pena con la mancanza di libertà e, una volta che la fiducia reciproca si è instaurata, diventa un’urgenza comunicativa. Racconto originale nella scrittura, nella struttura e nel tema sociale, si sviluppa come una lunga canzone, tra le debolezze tenute a bada dell’insegnante, la vulnerabilità dei detenuti e il realismo dell’ambientazione.

LA MUSICA DENTRO
di
Alessia Piermarini

1.
la stella, il panopticon e il canto partigiano

 

Emily fa da apripista
ha lo speaker nella destra e l’asta del microfono nella sinistra
è il boss e soprano leggero
apre e chiude porte al passaggio
Rose è contralto
porta la borsa con cavi e spartiti
al tenore Benson tocca incollarsi la tastiera
Amalia avanza con cautela
lui si avvicina e sottovoce

 

- è la prima volta che entri?
- sì…
- respira…

 

si aprono le sbarre
Amalia respira
si ritrovano al centro della stella
la prigione è del 1840
cat. B massima sicurezza
centro di Londra
costruita secondo il piano del panopticon
conserva da allora l’identico scheletro
una stella a 7 ali
dallo spazio centrale si tengono d'occhio tutti i detenuti

Amalia è al primo giorno con un nuovo lavoro di performer e singing facilitator
il team di cantanti e musicisti porta ogni settimana la musica in prigione

la mattina si esibiscono aprendo un Open mic per i detenuti
il team oggi è di tre persone
due cantanti lirici e Amalia

 

loro portano Puccini
Amalia fa Stevie Wonder
loro Nessun dorma
Amalia Gansta’s paradise
loro inglesi
lei italiana

Amalia indossa la camicia del padre jeans e scarpe da ginnastica Nike
emozionata ma centrata

 entrare nella prigione è passare i controlli di Heathrow Stansted e Luton
tutti in mezz’ora 

le sequestrano i due evergreen delle sue tasche
burro di cacao Labello alla fragola
gomme da masticare

 si fanno strada tra le corsie labirintiche
Amalia butta un occhio nelle minuscole finestre delle celle

lo ritira subito
una continua lotta tra curiosità e rispetto

sui muri si leggono frasi ispirate da Muhammad Alì a Bob Marley

i pavimenti sporchi odore pungente
niente finestre che danno all’esterno
unica fonte di illuminazione il neon

un paio di detenuti tute grigie e mani in tasca
sono appoggiati al muro fuori dalle celle

- good morning
saluta Amalia al suo passaggio
- ‘morning Miss
ricambiano con un sorriso

si aprono e si richiudono porte
la scritta lock it prove it è ovunque
i prigionieri sono tutti maschi
le guardie sono tutte femmine

ci si ferma infine in una delle ali più affollate
ala G
una ventina di detenuti fuori dalle celle
un paio di guardie
il team di musicisti si dà da fare
collegano la tastiera
montano l’asta lo speaker e il lettore cd
un attimo manca il reggi-tastiera
nessun problema
Amalia adocchia una pila di vassoi giganti posati su un carrello
ora abbiamo il reggi-tastiera
soprano contralto e tenore attaccano un atto del Così fan tutte
Amalia dopo di loro fa O bella ciao
i cantanti lirici armonizzano il ritornello
i prigionieri battono le mani e cantano in perfetto italiano
O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

le si avvicina uno dei prigionieri
nero brizzolato e dai modi gentili
impacciato le fa
- Miss I don't know how to talk to you
esita
sorride intimidito
poi si avvicina ancora di più e azzarda con aria angelica

 - I’d like to LIVE with you do you think it's possible?

Amalia non è sicura di aver capito
la pronuncia di live è simile a quella di leave

 - I’m sorry... what?
ma lui ripete identico
- I’d like to LIVE with you do you think it's possible?
- yeah… no I don't think that's possible

ora
Amalia non saprà mai se il signore le ha proposto
vorrei VIVERE con te oppure vorrei ANDARMENE con te 

in entrambi i casi
è la prima volta che riceve una proposta simile

2.

il cerchio, il rap e la lettera per la libertà

dopo una settimana
Amalia torna in prigione
- stavolta ti trattengono
commenta sua madre
oggi sta a lei dirigere il workshop nella cappella
dispone i detenuti in cerchio
una forma geometrica che assicura equità
vedi e sei visto
spiccano tre personaggi degni di nota 

Joe


bianco basso e mingherlino
ha occhi azzurri e forse un tempo era biondo cenere
ora ha capelli lunghi castano scuro per assenza di lavaggi
faccia distrutta dalla droga
2 o 3 denti in bocca
in mano 4 o 5 pagine scritte fitte 

Red
mixed-race
enorme fisicamente e emotivamente
spumeggiante e dominante
2 denti d’oro
2 tatuaggi in faccia e sul collo con la scritta Nana
2 sigarette elettroniche tra le dita
scrive balla canta
ha un sorriso per tutti
una battuta per ogni evenienza
è street smart
così si dice

Kurt
nero e londinese
tra i trenta e i cinquanta
difficile a dirsi perché black don’t crack
tatuaggio di playboy su braccio destro
una grossa croce su braccio sinistro
né brutto né bello
ha l’aria molto seria forse annoiato o forse scocciato
è semi-sdraiato su una sedia
lunghe dita intorno a una penna
un quaderno
scrive qualcosa
ma non ne è contento
sta in disparte
sembra lì dentro per sbaglio
uno di quei personaggi
pensa Amalia
per cui si beccherebbe una sbandata
meno male che è rinchiuso

Amalia monta la tastiera
collega il pedale e strimpella gli accordi di Letter to the free
il pezzo di Common prevede un rap e un ritornello cantato
il tema la libertà

l’altra facilitator chiede se il tema sia appropriato in prigione
Amalia non risponde si attiene al suo programma

 la tastiera è un giocattolo di 4 ottave
con i pulsantini per cambiare suoni e groove di batteria
Amalia sceglie un beat
attacca gli accordi
canticchia il ritornello

Kurt si alza e va verso di lei
è alto circa 2 metri
una ruga sulla fronte dà indizi sul carattere 
le si siede vicino
il viso di lato
dondola la testa seguendo il groove 

Amalia continua a suonare quel dondolio la incoraggia
lui ricomincia a scrivere sul foglio
- mi puoi risuonare gli accordi di prima? 

parte il daydreaming
si vede già con velo bianco e un matrimonio attraverso il vetro
lui attacca un free style a mezza bocca ma poi si ferma e sorride
- no I can’t
- perché?
- perché quello che mi viene da dire is not appropriate

c’è una sola guardia nella stanza
miss Cooper
capelli biondi occhi azzurri e guance rosate
sorriso dolce ma non apre bocca 

Red attacca un rap multidisciplinare
le liriche sono intense e lo stile rilassato
in alcuni momenti squittisce come un criceto
si alza in piedi
è sovrappeso ma si muove con grazia e movenze sensuali
i versi sono così veloci e stretti che Amalia non capisce tutto
ma tutti capiscono quando fa
- I been thinking been thinking about ESCAPING 

a miss Cooper la guardia
cascano le guance
lancia a Red uno sguardo inconfondibile
silenzio di tomba
Kurt attacca la sua strofa
rimane seduto
non ha bisogno di spazio
ha una voce scura
è meno eccentrico e meno espressivo di Red
ma più arrabbiato
inciampa su una rima dopo circa 4 minuti straight di versi strettissimi
sono tutti in estasi 

scontroso introverso talentuoso emotivo sensibile e un passato turbolento
sono guai per Amalia

 comincia una battaglia rap tra Kurt e Red
rispetto e competizione
in misura perfetta
ma il bianco con 2 denti Joe
è convinto di saper rappare e vuole dire la sua

 i due lo lasciano fare
è negato
sorridono sarcastici
ma lo lasciano finire

Ronaldo il brasiliano logorroico dall’inglese sdentato si rivolge ad Amalia
you’re my favourite guest
ma tutti capiscono guess
e lui deve ripetere la frase 4 volte 

Liam chiede se si può avere il laboratorio di musica 2 volte a settimana
perché
- you know in here it’s a very dark place

 Kurt chiede se Amalia ci sarà la prossima settimana
promette di portarle il testo completo
- you’ll be happy

 sembrano bambini in un kindergarten
quei bambini che chiamano disruptive
qui sembrano tutti innocenti vulnerabili e un po’ persi
nessuno sa o chiede i motivi per cui sono dentro
né importa

 si chiudono le sbarre alle spalle
Amalia ha la testa in fiamme e lo stomaco in subbuglio
alcuni dovrebbero stare davanti a un microfono
invece stanno dietro alle sbarre 

sa anche di essere nel posto giusto e nel lavoro giusto
un’anima inquieta e un passato disfunzionale
birra ghiacciata in un alimentari italiano di fronte alla prigione
riflessioni a margine

 anche il più crudele dei criminali è un essere umano
cosa accomuna tutti gli esseri umani? il bisogno di esprimere sé stessi
dove finiscono quelli a cui viene tolta la possibilità di farlo? 

food for thought 



3.

don’t let me hanging

l’appuntamento settimanale con la prigione arriva

 Emily è malata
Amalia sarà da sola
nessun problema
che ci vuole a far cantare come usignoli venti giganti chiusi in una prigione di massima sicurezza?
severa ma giusta
accetta la sfida
una delle sue amiche più cattive commenta
-ma i detenuti che frequentano il tuo corso hanno uno sconto della pena? 

oggi i detenuti si presentano con 45 minuti di ritardo
dipende dalle guardie
li devono andare a prendere dalle celle e portarli in cappella
li fanno quasi sempre ritardare

 il primo riscaldamento si fa in cerchio vocalizzando il suono
zzzzzzz
un ronzio per allenare fiato e diaframma con movimento coordinato
Amalia è al centro di un cerchio di 20 omaccioni di ogni razza statura dimensione e fattezza
che come zanzare volano sbattendo le ali e corrono per la sala facendo zzzzzzzz

uno di loro sta diventando il suo preferito
ma va tenuto nascosto
non è professionale né etico avere preferenze o peggio
infatuazioni

 e oggi è di umore pessimo
come nota da subito Amalia
è stato in corte e non sembra sia andata come sperasse
si scusa
- non sono riuscito a scrivere niente questa settimana
ti prometto che la prossima scrivo qualcosa
anzi scriverò un pezzo per te

 il tizio non le rende le cose facili

c’è anche Maddy la transessuale
3 piercing in viso
barba appena rasata capelli di Cindy Lauper
corporatura di Maradona
accento incomprensibile del nord Inghilterra
non ce la fa a prendere il microfono
ma non ce la fa nemmeno a tenersi tutto dentro
- è la mia nuova missione
pensa Amalia

 sta raccontando agli altri che tra un po’ uscirà
ma non è contenta perché qui dentro ha gli amici e fuori nessuno

 un po’ di nuovi personaggi

 Farid
nero minuto e con viso d’angelo
si vede che vuole agguantare quel microfono
ma è intimidito dalla superstar Red
che con carisma e talento si prende tutto lo spazio

 c’è poi l’irrequieto e giovanissimo Chris
bianco occhi da husky e faccetta da monello
talento immenso del rap
tatuaggi su tutte le dita
ADHD ai massimi livelli
impossibile tenerlo fermo
viene al pianoforte mentre Amalia sta per suonare e comincia a premere tasti a caso
lei lo fulmina con lo sguardo

 - Miss miss can you rap?
Amalia è combattuta
- so fare rap?
è tentata dal dire no
e lasciare loro lo spazio
anche perché
che ti metti a fare rap con quelli che il rap se lo mangiano tutti i giorni a colazione?
ma dice sì
perché è dagli anni ’90 che aspetta questo momento

alla tastiera giocattolo seleziona hip hop beat
in un solo fiato attacca
I need love (LL cool J)
imparato a memoria nel 1987 tirando giù il testo a fatica
quando ancora tutti usavano il programma pre-google
le orecchie

 i detenuti la osservano tra l’incredulo e il divertito
femmina
bianca italiana
non ci sono proprio i presupposti per rappare!

 alla fine del pezzo
il massimo del rispetto
Chris e gli altri avvicinano la mano chiusa a mo’ di pugno in verticale
cogliendola impreparata e incerta sul da farsi
Kurt
- don’t let me hanging

 Amalia prende il pugno e lo chiude dentro la sua mano
tutti ridono
lei arrossisce
cala il sipario
si spengono le luci
si riempiono le celle
le sbarre separano il giusto dallo sbagliato
l’aggressore dalla vittima
la musica in macchina mentre si torna a casa dalla musica fatta per urgenza
la musica che ascolti sul cellulare dalla musica questione di vita o di morte


4.

Redemption roasters


oggi giorno di performance
su e giù per le scale della più antica prigione londinese
la key holder apre e richiude porte al passaggio

 la prigione sembra un labirinto
le ali sembrano tutte uguali
i detenuti sembrano tutti depressi
le celle tutte troppo piccole

 nell’ala F si crea un bel gruppetto intorno ai performers
Benson fa O sole mio
Emily fa La Traviata
Amalia attacca Shackels (catene) un pezzo gospel/RnB del 2000
alcuni detenuti lo conoscono e cantano nel ritornello

 la guardia miss Cooper
agguanta il microfono
si lancia in un rap concitato gesticolando come un rapper newyorchese
la prigione viene giù
la biondina dal volto angelico ma dalla nomea di una tosta rappa come uno di loro!

a metà mattinata c’è la pausa dai redemption roasters
i detenuti imparano a fare caffè e cappuccino con il supporto di una charity che poi li assumerà una volta usciti di prigione
la riabilitazione dal crimine attraverso il caffè

 le aspettative salgono quando è Amalia a chiedere un cappuccino scuro
sanno che è italiana
lei lo sorseggia
sorride
e come gli inglesi falsi e cortesi
dice poco convinta
- complimenti… it’s amazing
il caffè è pessimo
a Roma questi appena usciti di prigione ritornerebbero subito dentro
altro che redemption

 

5.

maybe I CAN sing

Amalia propone una nuova challenge
siete rappers straordinari e non posso insegnarvi molto
vi lancio una sfida
l’ultima riga delle vostre rime invece che rapparla la dovete cantare

 prevedibili le reazioni in sala

 no io non canto
no io non so cantare
no io faccio solo rap
no io non sono un cantante

 - tutti possono cantare
si impunta Amalia
ha cinque o sei fogli riempiti di rime tra le mani
rime dove non c’è lo spazio né il tempo di respirare

questo è il rap
l’urgenza è forte e l’urgenza è velocità
non c’è tempo per respirare
aspettare
aggiustare
o addirittura pensare

 Amalia chiede loro di rallentare
respirare
intonare una melodia
guardare la musica da un altro punto di vista

 con i suoi modi italiani
che poco hanno della delicatezza inglese
Amalia strappa uno dei fogli dalle mani di Chris
sceglie una riga a caso e la canta
lo invita con gli occhi a seguirla
Chris lo fa
dopo poco si illumina
ha gli occhi di un bambino che ha preso un 6 per la prima volta in vita sua
dice
- maybe I CAN sing…!
e aggiunge
- vorrei cantare Stand by me miss
Per Amalia è un successo ma non sa gli accordi
- perché non la fai a cappella?
- well no… I’m not accappelling that!
Amalia ride intenerita

 Kurt oggi ha portato un nuovo cd di basi hip hop
Amalia con le sue maniere dice
- give it to me
lui la corregge con sorriso sarcastico
- please…?
e aggiunge
- why are you always so angry?
- I’m not angry I’m italian

 dallo speaker esce un hip hop duro senza inflessioni Rnb
tutti i detenuti sembrano amarlo
si lanciano a turno sul microfono con rap infuocati e carichi di tensione
non apprezzati da tutti

 il cappellano manda occhiate al vetriolo
continua a chiedere di abbassare il volume
ma il volume è già basso

 si scopre in seguito che si è lamentato perché il rap
non è appropriato in cappella

 cosa non è appropriato?
il linguaggio non è appropriato? lo stile?
il volume il ritmo o i testi?
Amalia vuole chiarimenti
il rap non è solo uno stile musicale
è il prodotto di una società e la storia di un’esistenza
è arte è politica è libertà

molti detenuti si esprimono usando quel linguaggio
e lo fanno benissimo
non si può chiedere a un rapper di strada di diventare un cantante country
non si può chiedere a un uomo di chiesa di trasformarsi in un hippie
ma gli si può però chiedere di rispettare le altre culture e forme d’arte
perché se non ricordo male
Dio accoglie tutti

 se c’è qualche parolaccia
si dovrà chiudere un occhio o entrambe le orecchie

 Red aspetta la guardia che lo riaccompagni dentro
vi posso cantare la canzone preferita di mia madre?

 chiude gli occhi
la testa all’indietro
intona Summertime a cappella
una ninna nanna scritta all’inizio del secolo scorso
sul nascere di quella rivoluzione che avrebbe portato quella musica così spaventosa
nata dal mix di sonorità razze e culture così lontane e costrette alla convivenza
il jazz

 vivere in prigione è come il jazz
i detenuti convivono in spazi dettati da regole
in prigione le sbarre (bars)
nel jazz le misure (bars)
bianchi neri africani inglesi giamaicani rumeni italiani cristiani musulmani
devono convivere
sviluppano il loro linguaggio

 una delle volontarie è in lacrime
uno dei detenuti la abbraccia per consolarla ma il contatto fisico non è permesso

 Amalia restituisce il badge ed esce dal cancello principale
questo non è solo un lavoro
le gambe tremano e la mente è iperattiva
cento domande si alternano nella sua testa

la musica può trasformare l’odio in energia e la violenza in passione?
la musica eccita o calma gli animi?
stravolge distrugge o crea?

 si lascia alle spalle la grande stella e tutti i suoi inquilini
il lavoro cura le loro ferite e anche le sue


In memoria del meraviglioso tenore e prezioso amico Ben Thapa

 

Venerdì 28 Febbraio sarà pubblicato su queste pagine il
nuovo bando di MATCH POINT con il nuovo tema

Match Point: il racconto terzo classificato, di Max Mauro

Match Point è il concorso per racconti inediti in italiano organizzato da Il Circolo – Associazione Culturale Italiana, in collaborazione con la scuola di scrittura Londra Scrive. L'iniziativa ha il patrocinio del Consolato Generale d'Italia a Londra.
Anche quest’anno siamo orgogliosi di collaborare con questa iniziativa prestigiosa, che mette cura, attenzione e dedizione sia alla selezione dei testi vincitori, che alla fase di editing dedicata ai tre racconti finalisti.
Il tema di quest’anno è stato ‘Futuro o no?’, declinato nei modi più personali e disparati.

Cattedrale vi presenta il terzo racconto classificato, dandovi appuntamento ai prossimi venerdì per scoprire il secondo e il primo classificato.
Buone letture!

Terzo classificato

Il racconto Il dito si sviluppa tutto intorno all’evento insolito e inquietante di un uomo che, tornando a casa, trova un dito sul marciapiede. Di chi potrà essere? Come comportarsi? Cosa farne? L’elemento surreale non lascia mai il racconto che, allo stesso tempo, è assai analitico nel flusso di coscienza che questo evento scatena nel protagonista. Tra il comico e l’esistenziale, diventa quasi una parodia dell’incapacità adulta di assumersi responsabilità.


IL DITO
di
Max Mauro

 

Ho trovato un dito sul marciapiede. Era sporco di terra e polvere di asfalto, era stato calpestato più volte ma era ancora integro. L’ho raccolto, l’ho posato sul palmo della mano come fosse un diamante e l’ho guardato.
Era evidentemente un dito adulto. Maschile. Alcuni peli spessi e scuri puntellavano la pelle come bandiere solitarie. Era un anulare o un dito medio, di certo non un indice, perché difettava della leggera curvatura verso l’interno tipica dell’indice, e nemmeno un mignolo, che è minuto, palesemente mingherlino. La nocca era nodosa, piena di pieghe come quella di un guidatore di bobcat. Per muovere tali macchine servono mani forti e agili che all’aria aperta si screpolano lasciando profondi segni nelle nocche. Un monito per chi li accarezza, ricordano che la vita è una sequenza di rughe che nascondono ferite. Il dito aveva una storia.
Era un dito straniero? Difficile dirlo. Chi è lo straniero? C’è sempre qualcuno che è straniero rispetto a qualcun altro. Non era un dito nero, questo potevo intuirlo, quindi se era straniero era meno straniero di altri stranieri, almeno agli occhi di chi detta le regole, in questo luogo, in questo momento.
Forse era stato il dito di un operaio di una ditta di traslochi, un operaio senza contratto e senza permesso di lavoro, fuggito sanguinante per timore della legge o del padrone. Un dito sacrificato all’altare della forza. Bruta. La legge dei moderni fuorilegge: stato e padroni.
O forse era stato il dito di un ladro maldestro, costretto a saltare dalla finestra della casa che stava cercando di svuotare. Nel volo si è impigliato, o meglio la mano si è impigliata, in un momentaneo supporto. Zac. Il dito è volato altrove. Solo.
E se fosse il dito di un uomo pestato da altri uomini? Ubriachi. Incazzati. Inconsciamente disperati. Convinti di ripulire il marcio insidiato dentro di loro gettandolo sugli altri. Pestato, l’uomo è stato trascinato lontano dalle abitazioni. Ma il dito è rimasto lì, in mezzo alla strada, sul marciapiede, affinché io lo trovassi.
Che ci faceva un dito sul marciapiede? Di chi era?

Mi seccava lasciarlo in terra, non mi sembrava umano ignorare un pezzo di mano, anche se appartenuto a uno sconosciuto. Forse avrei dovuto avvolgerlo in un foglio di giornale, quello stesso giornale abbandonato in strada, uno degli ultimi giornali, o in un fazzoletto di carta, un mezzo più discreto, più conveniente. E poi appoggiarlo sul davanzale della casa più vicina e appiccicarci sopra un biglietto. Attenzione: contiene dito abbandonato. Oppure avrei dovuto scrivere più biglietti e appenderli sui muri del quartiere, nell’atrio del palazzo, sui pali della luce, all’ingresso del negozietto all’angolo. Chi ha perso un dito è pregato di rivolgersi a – e metterci il mio numero di telefono e magari pure un’email. Oppure avrei potuto postare l’immagine su Facebook, Instagram o Twitter e chiedere notizie del possessore di un dito mancante. Questo dito è stato trovato in tale via in tale giorno – contattatemi se siete la persona interessata. Infine, avrei potuto telefonare all’emergenza medica e raccontare il fatto: ho trovato un dito, che ne faccio? Ve lo venite a prendere?
Invece no. L’ho raccolto e l’ho pulito con un tovagliolo di carta mezzo usato, residuo del tardivo pranzo. A parte la terra e la polvere non c’erano macchie, sul dito; il sangue colato nel momento dello strappo, perché di taglio non c’era segno, si era rappreso e col suo colore nero buio scuro indicava un estremo, il limite del dito. Oltre il nero c’è il vuoto: la fine del dito.
Poi l’ho messo in tasca, ma nella tasca della giacca, che è più morbida e larga. Non volevo che si trovasse stretto nella tasca dei pantaloni rischiando un nuovo trauma. La tasca dei pantaloni è inadatta a contenere cose delicate. È fatta per accogliere le nostre mani, o solo le dita, le nostre, quando non sappiamo cosa farne.
Poi me ne sono andato. Incamminandomi, però, mi sono guardato attorno. Ero un ladro? Probabilmente il possessore del dito a quest’ora se n’era già fatta una ragione. Forse l’aveva cercato assieme ai suoi complici o amici (ma che amici sono quelli di qualcuno che lascia un dito in strada e non se ne avvede?) e non avendolo trovato si sarà detto: un dito in meno, cosa vuoi che sia? Basta farci l’abitudine. Così mi sono giustificato, alleviando il senso di colpa.
Ma, sinceramente, che senso può avere un dito da solo, staccato dalla mano con cui era nato e insieme a cui era cresciuto? Cosa ne possiamo fare? Oddio, dovrei essere più prudente nei miei pensieri. Non vorrei suggerire un nuovo, ennesimo, valore di scambio. Offriamo un dito su eBay, qualcuno interessato a comprarlo di certo ci sarà. Ma io resisto, mi illudo di essere umano. Altrimenti non mi sarei trovato col dito di un estraneo infilato nella tasca della giacca, avvolto in un tovagliolo di carta.
Salendo le scale del mio palazzo l’eccitazione per l’insolito ritrovamento si è tramutata in ansia. Ogni scalino un po’ più ansia e un po’ meno eccitazione, fino ad arrivare alla porta dell’appartamento con lo stato d’animo di un accusato di omicidio colposo. Dovevo sbarazzarmi del dito. Eppure fino a pochi minuti prima era stata una ragione di curiosità, perché questo cambio repentino?
Nella tasca, il dito mi pesava. Aveva assunto il peso di un martello, un martello che picchiava contro l’anca ma in realtà picchiava dritto alle tempie. Mi picchiava in testa per dirmi qualcosa. Il dito non è tuo. Ma io l’ho trovato. Il dito non è tuo. Ma io l’ho pulito. Il dito non è tuo. Ma l’hanno calpestato. Il dito non è tuo. Il dito non è tuo.
Ho aperto la finestra e l’ho gettato via. Lontano, oltre il muro che separa il mio palazzo da un parco. Mi sono seduto sul balcone con l’orecchio teso in quella direzione, in attesa di reazioni. Ho buttato lo sguardo, potevo vedere il punto dove era finito il dito. Non c’era nessuno intorno. Forse vado a riprendermelo, non è giusto lasciarlo così, è pur sempre un dito. I pensieri si accavallavano, confusi.
È arrivato un cane, correndo, le orecchie penzolanti a fendere l’aria. Ha annusato. Ha annusato ancora e poi ha aperto la bocca. Il dito è scomparso nella sua bocca, in un angolo del parco. Fine.

Venerdì 28 Febbraio sarà pubblicato su queste pagine il
nuovo bando di MATCH POINT con il nuovo tema

La cagna, di William T. Vollmann

Minimum fax porta in libreria Tredici storie e tredici epitaffi di William T. Vollmann, tradotto da Chiara Belliti e Simona Vinci. Tredici storie che sfumano irrimediabilmente il confine tra l’invenzione e il reportage, la finzione e l’autobiografia, i mostri immaginati e quelli reali, e costituiscono uno dei più coraggiosi, approfonditi e sovversivi ritratti dell’America di oggi, un mosaico ardente sempre sospeso tra brutalità e romanticismo, in cui ogni storia si conclude con una piccola riflessione sulla morte, intesa come perdita irrecuperabile: piccoli epitaffi.

Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.


La cagna
di William T. Vollmann

...come dire che solo gli uomini possono essere abbastanza stupidi, nella società che ci ritroviamo, da indulgere nelle rapsodie dello scatenato Femminino.
Robert Harrison, Pharaoh’s Dream: the Secret Life of Stories

Blackwell se ne stava seduto con una mano sul ginocchio, l’altro palmo appoggiato al mento mentre con le dita tamburellava lentamente sulla visiera del berretto da baseball, e fissava dritto davanti a sé attraverso le dita pensando, e come li rimedio i soldi? In quel momento, odiava sua moglie. La odiava come merda velenosa su un vetro rotto. Ciò che desiderava, e che Naomi non era di sicuro, era una Pollastrella Qualsiasi che gli facesse smettere di fare i soldi a quel modo, ovvero attraversando il muro. Naomi non diceva mai: Blackwell baby dev’esserci un’altra soluzione; Naomi non diceva mai: ascoltami bene figlio di puttana guarda che ti lascio se non la smetti con questa follia di merda, be’, Naomi era giovane, stava appena cominciando a scoprire che cos’è la vita; Blackwell sapeva di dover mettere la testa a posto, ma doveva trovare i soldi per farlo, e Naomi di sicuro sapeva come sprecarli, i soldi, con la droga e i pantaloni stretch firmati e qualsiasi altra cosa, e non che gli portasse mai soldi a casa perché tutto ciò di cui era capace era comunque quello, e lo faceva fregandosene bellamente: lo faceva sia che ci fossero di mezzo i soldi oppure no. Maledizione, una volta mentre passava in macchina per strada l’aveva vista in piedi con un abitino color argento a fissare le auto con le mani serrate – non che quella fosse una prova, ma era comunque qualcosa. E un’altra volta l’aveva vista con sua sorella Marietta, e tutte e due avevano dei vestiti lunghi fino alle caviglie con più strati di una torta nuziale! Naomi in giallo, Marietta in azzurro, e indossavano quella specie, sapete, quella specie di sandali egizi e avevano i capelli a treccine e poi erano piene di anelli e di braccialetti di oro-plastica; Marietta portava un braccialetto con un crocifisso come per sforzarsi di essere proba o qualche altra stronzata del genere; e Naomi aveva una corona dorata e Marietta aveva una bandana azzurro cielo da cui pendevano perline di plastica; e lui aveva visto i balordi che ronzavano loro intorno, come se facessero finta di non sapere che erano lì per succhiare i loro cazzi o che altro. Quando si ricordava di quella scena, cominciava a sentirsi dispiaciuto per se stesso e allora si sedeva a bere e a cazzeggiare nel parco, dove faceva caldo e i ragazzi delle bande passeggiavano con i loro sorrisi bianchi e splendenti. Odiava Naomi. La odiava come il fetore.
Due uomini cominciarono a litigare.
Farai meglio a lasciare in pace la mia piccolina, disse uno dei due combattenti, altrimenti avrai dei problemi.
Nel giro di un minuto arrivò uno sbirro grasso. Smettetela, smettetela!, gridò. Circolare! Si appoggiò a un bidone dei rifiuti a braccia incrociate, le gambe accavallate, ad aspettare che ogni cosa tornasse bella e pacifica. Un altro poliziotto lo raggiunse.
E adesso ne abbiamo due!, disse Blackwell. Se mi rompono i coglioni, finisce male! Il cuore gli pulsava infuriato nel torace e nelle spalle finché non cominciò ad aver voglia che qualcosa succedesse, succedesse davvero, ma poi il secondo sbirro se ne andò, finalmente, e il suo collega si mise a camminare avanti e indietro lungo la fila delle panchine, guardando intensamente tutti in faccia. I gentiluomini della strada accanto a Blackwell annuivano e poi se ne andavano al piccolo trotto prima che arrivasse il loro turno.
Blackwell guardò dritto negli occhi di Bianchiccio. Non stavo facendo niente, disse.
E chi ti ha chiesto qualcosa?, rispose lo sbirro. Ho detto forse qualcosa?
Blackwell lo squadrò da capo a piedi. Stavolta non accadde nulla, così si avvicinò a un gruppo di ragazzini e cominciò a giocare a football. Non così lontano, capo, non così lontano, disse quando uno dei ragazzini scappò via. È troppo per me! Ma era ancora in grado di fare un bel lancio anche a quella distanza: era un uomo forte. Forse lancio più forte di quanto pensavo, disse in tono modesto, e il ragazzino aveva gli occhi spalancati per l’adorazione. Avanti, boss, rise Blackwell. Devi sviluppare il passaggio! Alla fine della storia, il punto era, pensò tra sé Blackwell, che lei non lo fermava, e allora perché doveva fermarsi lui, se a lei non gliene fregava un cazzo? In ogni modo, i suoi erano lavoretti di serie B. Non faceva male a nessuno. A volte, nelle notti giuste, rubava una camionata di vestiti di lusso da donna da un magazzino e poi li portava nei Projects, dove li passava in rassegna con mani rapide ed esperte, scegliendo quelli che voleva, arraffando tutti quelli che riusciva a caricare sul furgone preso a prestito, e per Blackwell era un po’come Natale e allora rideva e fumava un po’di crack e la vita era bella e lui gridava a se stesso oh, baby! E, quando aveva finito, la gente del Project calava sul camion con tutto il rispetto tipico degli avvoltoi e artigliava le rimanenze, mentre Blackwell stava a guardarli dallo specchietto retrovisore allontanandosi lentamente nell’oscurità, con i vestiti che gli tenevano caldo durante la notte, e rideva perché sapeva che, quando gli sbirri fossero arrivati – sempre che accadesse – ci sarebbe stato un fuggi fuggi tale in ogni direzione che non sarebbero mai riusciti a riconoscere chi c’era e chi no. Quando arrivava a casa, trovava Naomi in lacrime a singhiozzare cose tipo oh mio Dio e che cosa faremo se ti sbattono in galera, ma Blackwell aveva notato che un vestito nuovo di zecca, magari rosso e nero lucido e della taglia perfetta per coprire il suo piccolo culo sodo era più che sufficiente a farla stare zitta. Certo che se ne era accorto. In ogni caso, lui non faceva male a nessuno. Ehi, se rubava una camionata di soprabiti di lusso che poi si rivendevano bene come merda di cane fritta, dopotutto si trattava di pubblicità; per quei soprabiti del cazzo: avrebbero venduto alla grandissima nei negozi, di lì a qualche mese, aspettate e vedrete. – Ma Naomi quello non lo capiva mai, non l’aveva mai capito. Pensava che Blackwell fosse un poco di buono o qualcosa del genere. Be’, e lui che cosa doveva fare? Non era colpa sua, se aveva dovuto passare il confine. Non era colpa sua se era successo quello che era successo. Una volta aveva scassinato una cassaforte aspettandosi di trovare un paio di centinaia di bigliettoni, invece là dentro ce n’erano ottomila, tutti in biglietti da venti e da cento, e allora li aveva buttati in macchina e aveva cominciato a guidare verso i Projects e la polizia l’aveva inseguito e lui era andato sempre più veloce e ne era venuto fuori lasciando qualche porco a imprecare nella sua cazzo di autopattuglia, incazzato nero proprio come Naomi quando le aveva dato quello schiaffo, ma poi aveva sentito altre sirene della polizia arrivare, erano tante, erano sempre di più, e allora si era nascosto tra due torri dei Projects e aveva parcheggiato la macchina dietro le altre auto abbandonate ed era saltato fuori e aveva strisciato sotto, accovacciato, tra i vetri rotti e le lattine di birra, ed era rimasto nascosto lì tutta la notte. All’alba gli sbirri pattugliavano in lungo e in largo per la strada, gli davano la caccia, perché sapevano che lui era lì, ma non erano riusciti a beccarlo e lui aveva pensato di potercela fare davvero e si era immaginato lei che lo aspettava piangendo e a quel punto un sogghigno enorme gli aveva allargato la faccia; così avrebbe recitato quella cagna! E poi aveva pensato a quanto sarebbe stato bello quando sarebbe arrivato a casa girando silenziosamente la chiave nella serratura per non svegliarla ed eccola lì, addormentata con ancora i vestiti addosso, la testa appoggiata sul tavolo della cucina e le palpebre rosse e gonfie di pianto, e allora lui avrebbe strillato: BU!, e lei si sarebbe svegliata con un gridolino di paura e l’avrebbe fissato e lui avrebbe visto la rabbia che saliva a colorarle la faccia e poi, quando lei avrebbe aperto la bocca per mettersi a imprecare contro di lui, lui avrebbe cominciato a riempirgliela di dollari, ficcandoglieli bene dentro! Biglietti da dieci, biglietti da venti, da cento, avrebbe ficcato tutti i soldi nella sua boccaccia per imbavagliarla e farla star zitta e stupirla così tanto che lei l’avrebbe amato davvero. Oh, quanto la amava – la verità era che non trovava una sola ruga in più, sulla sua faccia, rispetto al giorno in cui l’aveva vista per la prima volta, la sua pelle così morbida e fine, le labbra piene color cremisi e scintillanti tanto che, quando aveva cominciato a baciarlo, tutta la sua faccia e il suo corpo erano rimasti macchiati di rossetto, un po’come se lei spalmasse il suo sapore un po’dappertutto su di lui, e le sue ciglia erano graziosamente letali come carta moschicida (ma negli ultimi tempi gli occhi erano diventati più grandi nella maschera sottile del volto e il modo in cui lo guardava non era né amichevole né ostile). Insomma, Blackwell aveva le sue speranze, e non sarebbe nemmeno andata così, oltretutto, se non ci fosse stata una signora che nella notte l’aveva visto andare a nascondersi sotto da quella parte! Aveva guardato il muretto e aveva visto gli occhi liquidi di Blackwell che la guardavano e lei l’aveva fissato ancora con una sorta di faccia impietosa e determinata e spaventata e aveva fatto un passo indietro e Blackwell aveva pregato Oh Signore fa’ che muoia d’infarto proprio in questo preciso momento oh Signore fa’ che non apra la sua bocca grassa e lurida, Amen. Ma Miss Ficcanaso stava già correndo verso l’autopattuglia strillando: Agente! Ehi Agente!, e uno sbirro era uscito e le aveva detto di sloggiare subito, che quella era una zona pericolosa adesso, e Blackwell aveva pregato che un jet le precipitasse nel cuore, ma la puttana continuava a non volersi fare i cazzi suoi ed era corsa dall’altra parte della strada dove c’era un gruppo di sbirri che se ne stavano in crocchio con le radio che friggevano come pancetta la mattina, ma in quel momento c’era soltanto una poliziotta rimasta a perlustrare la zona quando Miss Ficcanaso aveva strillato: Ehi, agenti, io l’ho visto!, e i porci erano rimasti ad ascoltarla blaterare per un minuto e poi la poliziotta aveva estratto la pistola e si era avvicinata con tanta determinazione da convincersi che magari Blackwell avrebbe pensato che non aveva paura di lui, ma cazzo! lui non era nato ieri anche se il suo cuore continuava a bomb-bomb-bombargli nel petto perché Miss Piggy stava guardando dritto verso di lui come se lo vedesse (ma non era possibile) e poi aveva detto: Ehi tu vieni fuori di lì, e Blackwell era rimasto immobile sapendo che lei non poteva vederlo nonostante i suoi grandi occhioni blu stessero guardando proprio verso di lui da dietro gli occhiali di plastica e lui poteva vedere gli occhi che diventavano sempre più grandi e allora Blackwell si era accovacciato ed era rimasto perfettamente immobile dietro i cespugli di rovi pensando tra sé Mi piacerebbe farti grugnire brutta puttana poliziotta culona e il cuore che batteva sempre più forte; si sentiva così vivo, e allora pensò tra sé non mi vede ma poi Miss Ficcanaso urlò: È PROPRIO Lì L’HO VISTO, e lady sbirra mise il dito sul grilletto e intimò ancora una volta a Blackwell di venire fuori da lì e lui ora sapeva che lei lo stava vedendo e sentiva il suo fiato addosso da tanto era vicina: stava respirando alla svelta e lui disse: non sparare, e cominciò a uscire dal suo nascondiglio e la poliziotta cagna andò verso la macchina, senza mai distogliere lo sguardo da lui, e chiamò rinforzi via radio – oh, si era guardata bene dall’ammettere davanti a Blackwell di essere l’unico sbirro in zona, eh? Eh? Ma lui sapeva cosa stava succedendo e lo trovava perfino divertente; non aveva intenzione di tentare scherzi strani, però, perché la tipa teneva quella pistola puntata, e così si era accovacciato lì ed era rimasto mezzo fuori e mezzo dentro il suo nascondiglio, con la testa fuori come quella di una tartaruga e le mani sulla nuca e allora erano arrivati correndo anche gli altri sbirri e gli avevano detto di uscire lentamente e Blackwell aveva detto: Sto uscendo, e poi riconobbe lo sbirro che aveva seminato all’inizio sull’autostrada e quello era furioso perché Blackwell gli era sfuggito e a catturarlo era stata una stramaledetta vacca e non lui – pensate un po’! – e così con il gomito strinse Blackwell in una morsa che per poco non lo strangolò e lo stese per settimane e poi gli misero le manette e lo sbatterono in galera. E tutto quello che Blackwell riusciva a pensare era: è tutta colpa di mia moglie, maledizione a quella fottuta cagna.

Il rublo fatato, di Renato Fucini

Il rublo fatato
di Renato Fucini

Vi è in Russia una leggenda popolare, la quale insegna il modo di procurarsi, per mezzo della magia, un rublo fatato; e questo rublo, quando si spende, ha la virtù di ritornare da sé, intatto, nella tasca di chi lo ha speso. Per giungere a possedere questa magica moneta occorre sottoporsi a una quantità di prove paurose che io non ricordo bene quali e quante siano. Ne ricordo una sola: quella del gatto.

Per questa prova occorre prendere un gatto nero e far di tutto per venderlo nella notte di Natale, tenendo bene a mente che questa vendita deve aver luogo sul crocicchio di tre strade, una delle quali è assolutamente necessario che conduca ad un cimitero. Alla mezzanotte in punto apparirà un individuo il quale entrerà subito in trattative con voi per la compra del gatto. Costui offrirà per la povera bestiola molti denari; ma il venditore è in obbligo di accettare un solo rublo, né più né meno; se no, tutto è inutile. Quando il venditore avrà riscosso la moneta, è indispensabile che se la metta subito in tasca stringendola con la mano, e che si allontani più presto che può, senza voltarsi indietro. Il rublo riscosso sarà quello fatato, sarà cioè quel rublo meraviglioso che ha la virtù di tornare nella tasca del suo padrone subito appena egli lo abbia speso. È inutile dire che quest’affare del rublo e del gatto dev’essere una fiaba bella e buona; ma è certo che molte persone del volgo vi prestano fede a occhi chiusi, come ve la prestavo io quando ero bambino.

E appunto quando ero bambino, una sera di Natale (avrò avuto allora circa sette anni) la mia bambinaia, mettendomi a letto, mi parlò di tante belle cose che avrei potuto fare con quel rublo miracoloso e, prima di lasciarmi, si chinò sul mio capezzale e dolcemente mi sussurrò in un orecchio che questa volta le cose non sarebbero andate come il solito perché la mia nonna era in possesso del rublo fatato, e che si era decisa di regalarmelo. Meravigliato da questa ella notizia, chiesi impaziente alla bambinaia un monte di spiegazioni; ma essa, dandomi un bacio sulla fronte, mi rispose: – Ti spiegherà tutto la nonna; ora dormi tranquillo, e quando ti sveglierai essa ti porterà il rublo agognato e ti dirà come dovrai contenerti quando quella moneta sarà tua.
Allettato da questa cara promessa, mi addormentai più presto che mi fu possibile, col cuore gonfio di gioia, pensando che il giorno di poi sarei diventato finalmente padrone del magico rublo.
La bambinaia non mi aveva ingannato; la notte mi passò di volo, tanto che restai sorpreso di vedere il giorno chiaro quando mi destai e di sentirmi gli occhi fradici di lacrime. La nonna era già accanto al mio letto, con la sua cuffietta bianca ornata di nastri, e mi guardava sorridendo, tenendo fra le dita della sua mano sottile una moneta d’argento, nuova e luccicante.
– Tu hai pianto! – mi disse. – Perché?
Il perché non volli dirglielo, ed essa soggiunse: – Ecco; per consolarti, io t’ho portato, e te lo regalo, il rublo fatato. Prendilo, alzati e fa’ la tua preghiera. Più tardi, noi vecchi, andremo da padre Basilio a prendere il tè, e tu solo… ma intendi bene, perfettamente solo, potrai andare alla fiera di Kron a comprarti tutto quello che ti farà piacere. Là, dopo aver contrattato un oggetto qualunque, metterai la mano in tasca, caverai fuori il rublo e pagherai; ma potrai contrattar subito nuovi oggetti perché il rublo, appena toccate le mani del venditore, sarà di nuovo tornato nella tua tasca.
Io soggiunsi: – Lo so, nonna, lo so! – e strinsi la moneta meravigliosa nella palma della mano, con tutta la mia forza.
La nonna seguitò: – Il rublo ritorna, sì, è vero; e questa è la buona qualità che la natura gli ha dato, e, per di più, non si può smarrire; ma ha però un’altra proprietà che non è punto vantaggiosa: il famoso rublo non ritornerà nella tua tasca, se tu comprerai un oggetto che non sia utile e buono per te e per gli altri, perché se tu spenderai anche un soldo solo malamente, il rublo sparirà subito e sarà impossibile che tu lo ritrovi.
– Cara nonna – dissi – le sono riconoscentissimo per tutto ciò che mi ha detto, ma nonostante che io sia sempre piccino, non mi creda tanto semplice da non saper distinguere le cose utili e buone da quelle inutili e cattive.
– Va bene! Sono contenta delle tue buone intenzioni, ma soltanto mi sembra che tu sia un po’ troppo sicuro di te stesso. Stai in guardia, ragazzo mio, e persuaditi che l’impresa alla quale ti accingi non è tanto facile quanto te la figuri.
– In tal caso, non potrebbe lei accompagnarmi alla fiera?
La nonna acconsentì; ma mi prevenne che non avrei potuto avere da lei alcun consiglio, perché il possessore del rublo fatato deve far tutto da sé, ispirato dal proprio cuore e dalla propria intelligenza.
– Mia cara nonnina, lei stia sicura: basterà che io la guardi in viso, perché così potrò leggerle negli occhi tutto quello che mi occorrerà sapere da lei.
La nonna, vinta dalle mie calde preghiere, mandò ad avvisare il padre Basilio che da lui sarebbe andata più tardi; e ci incamminammo verso la fiera.
Laggiù incontrammo una gran quantità di gente tutta rivestita a festa; e fra questa gente, i ragazzi delle famiglie più ricche, i quali avevano avuto dai loro babbi i soldi occorrenti per le piccole spese, davano una nota gaia, avendo molti di essi già consumato il loro capitale in fischietti di coccio, in trombette e in tamburini, coi quali facevano un terribile frastuono. I bambini poveri che non avevano avuto dai loro genitori altro che pochi spiccioli, stavano indisparte a guardare con invidia, grattandosi il capo e leccandosi le labbra. Io capivo quanto sarebbero stati felici quei poveri piccini se avessero potuto possedere anche uno di quegli ammirabili strumenti musicali per unirsi con tutta la loro anima a quella rumorosa allegria. I fischietti, le trombette, i tamburi non mi sembravano, per dire il vero, oggetti indispensabili, e nemmeno utili; nonostante, il viso della nonna non espresse disapprovazione all’idea che m’era venuta nella mente, anzi il suo sguardo era raggiante di gioia. Questa gioia io la presi, naturalmente, come un segno di approvazione, e, tirato fuori il mio famoso rublo, acquistai una grande quantità di quei rumorosi strumenti, provando la doppia contentezza di veder subito allegri quei poveri piccini e di sentire che proprio, sul serio, nella mia tasca c’era sempre il famoso rublo dopo averne già spesi una diecina.

Fatta la distribuzione dei regali, la nonna, accarezzandomi dolcemente, mi disse: – Vedi, carino mio, tu hai agito benissimo perché anche i bambini poveri hanno diritto di divertirsi; e le persone che, avendone i mezzi, cercano di procurare a questi un poco di piacere, fanno cosa degna di un animo gentile e di un cuore generoso. E per provarti che ho veramente ragione, frugati in tasca e sentirai che il tuo rublo è sempre al posto.
E io pronto risposi: – Lo so, nonna; l’ho già sentito prima che lei me lo dicesse. Il rublo eccolo sempre qui.

Dopo aver comprato qualche dolce per me, mi avvicinai a una bottega di merciaio dove si vendevano stoffe divario genere, nastri, fazzoletti ed altre cose di comodità e d’eleganza, e ne comprai per tutte le persone di servizio alle quali, essendo molte di esse lì presenti, feci subito la distribuzione, guardando che ogni regalo fosse assegnato secondo l’età e il desiderio di ciascuna. Ed era per me una grande contentezza il sentire che, dopo ogni spesa fatta, quel famoso rublo era sempre lì ad aspettare che io l’adoperassi per altre compre. Più tardi acquistai per la figlia della fattoressa, la quale quel giorno s’era promessa sposa, un bel vezzo di corallo, un bel libro di salmi per la vecchia Marta portinaia, un orologio per il cuoco, una canna d’India col pomo d’argento per il padre Basilio e, forse eccedendo in spese che mi parvero alquanto di lusso, comprai anche una bella cintura di cuoio al cocchiere e un organino col mantice al nostro giovane giardiniere che è tanto allegro.

Nel fare tutte queste compre mi dette sempre coraggio il viso della nonna, la quale non prese mai atteggiamento di disapprovazione; e più me ne dette il sentire che in fondo alla tasca c’era sempre intatto il rublo miracoloso.
La mia condotta a questa fiera attirò su di me l’attenzione della moltitudine: tutti mi guardavano, tutti mi seguivano e da ogni parte si sentiva esclamare: – Ma guardate come è bravo e come è buono il nostro signorino Demetrio! – E qualcuno aggiungeva: – È vero che la sua famiglia è ricca; ma se egli ha il modo di fare tanta spesa, non v’è dubbio che deve essergli riuscito d’avere a sua disposizione il famoso rublo fatato!
Per dire il vero, gli elogi di tutta quella gente che mi seguiva guardandomi con affetto e con ammirazione, mi arrivavano dolcemente al cuore; ma nel fondo dell’anima io mi sentivo triste e agitato.

In questo mentre (e non so da qual parte venisse) si avvicinò a me un mercante, il più giovane e il più simpatico di quanti si trovavano a quella fiera, il quale facendomi una profonda riverenza, mi disse: – Io sono, è vero, qui a questa fiera, il più giovane e il più simpatico di tutti i mercanti, ma sono anche quello che ha più esperienza di tutti; e lei non riuscirà ad ingannarmi. So anche che ella può comprare tutto ciò che vi è su questo mercato perché possiede il celebre rublo fatato; ma vi è qualche cosa che anche col suo miracolosissimo rublo ella non potrà acquistare.
– Sì, lo so, lo so anch’io – risposi – sono le cose inutili le quali io, certamente, non comprerò mai.
– Ebbene, lo vedremo. Intanto faccia ben attenzione a quanti, dopo i benefizi da lei fatti, le stanno d’intorno.

Mi voltai di scatto a guardare, e fui dolorosamente sorpreso nel vedere che ero rimasto solo col mercante. La folla che prima mi attorniava si era riversata da un’altra parte della fiera e attorniava invece un certo uomo, lungo come una pertica e magro come una cavalletta, il quale, sopra la pelliccia, indossava una leggera sottoveste di tela, tutta sparsa di larghi bottoni di vetro che ad ogni movimento della sua persona gettavano lampi di luce vivissima.
– Io non trovo in quell’uomo nulla che meriti tanto entusiasmo – dissi al mio compagno.
– Sarà. Ma lei osservi come quest’uomo, invece, piace a tutti. Guardi quanta folla gli corre dietro! E fra quella folla non riconosce nessuno?… Osservi… Li vede? Quei bambini che fanno tanto schiamazzo davanti a lui, sono quei medesimi ai quali ella ha regalato poco fa fischi, tamburi e trombette; quella bella ragazza che si pavoneggia sotto quel ricco vezzo di corallo, è la figliola della fattoressa; la vecchia che si arranca dietro agli altri, tenendo in mano quel libro nuovo dei salmi, è Marta la portinaia; quel prete che si appoggia ad una magnifica canna d’India col pomo d’argento, è padre Basilio; quello che porta alla vita una superba cintola di cuoio e quell’altro che tiene sotto il braccio un delizioso organino col mantice, sono il suo cocchiere e il giovane allegro che guarda i suoi giardini.

Quella vista risvegliò in me un sentimento di dispetto; mi sembrò che tutto quell’entusiasmo sonasse offesa per me e, nello stesso tempo, sentii pungermi acutamente dalla smania di stornare da quel ciarlatano tanta ammirazione e di richiamarla intera, come sentivo di meritarmela, verso di me. E frettolosamente corsi incontro a quell’uomo, e, stringendo nella mano il mio rublo, gli domandai: – Vuoi vendermi la sua sottoveste?

L’uomo dai bottoni di vetro voltò la sua persona dalla parte del sole, i bottoni mandarono lampi da accecare, e risolutamente e con voce sonora mi rispose: – Sì, signore. Io gliela venderò con piacere: ma l’avverto che essa costa molto cara.
– E che me ne importa? Mi dica il prezzo che ne vuole e il nostro affare sarà subito concluso.
– Lei, caro signor bimbissimo, è senza esperienza; ed è naturale alla sua età! – E sorridendo furbescamente, soggiunse: – Ella non capisce di che si tratta. La mia sottoveste non ha alcun valore e, per quello che essa merita, gliela potrei dare anche gratis; ma i bottoni, sebbene di vetro, costano cari… molto cari. Quelli io non potrei darglieli per meno di dieci rubli l’uno. Essi, è vero, non tengono caldo e sono continuamente esposti al pericolo, per la loro fragilità, d’andare in bricioli; ma hanno, in compenso, la grande virtù, coi lampi di luce che mandano, di abbagliare la folla e di tirarsela dietro nel modo come lei vede accadere, qui intorno a me.
– Non c’è nessuna difficoltà – gli dissi. – Sono pronto a darle, per ogni bottone, i dieci rubli che chiede. Si levi da dosso la sottoveste e me la dia.
– Gliela darò; ma prima deve pagarmi.
– Sta bene.
Mi frugai in tasca, tirai fuori il primo rublo e glielo detti: mi frugai di nuovo… la tasca era vuota!… Cercai, raspai, sperando che per qualche sdrucio delle costure mi fosse andato fra la stoffa e la fodera del vestito… Nulla! Il mio rublo era scomparso!
Tutti mi guardavano ridendo; e io, dopo aver tentato inutilmente di trattenere le lacrime, detti in un pianto dirotto, di stizza e di vergogna… In quel momento mi svegliai.

Era spuntato il giorno, e accanto al mio letto vidi la nonna con la sua cuffietta bianca ornata di nastri, la quale, guardandomi sorridente, teneva fra le dita della sua mano sottile un rublo nuovo d’argento che essa, ogni anno, era solita portarmi in regalo la mattina del Natale.
Alla vista di quella vecchina a me tanto cara, capii che tutto ciò che avevo veduto non era altro che un sogno; e mi affrettai a raccontarle per quale causa, dormendo, avessi pianto. Quando le ebbi raccontato tutto, la nonna, così buona, mi disse: – Il tuo sogno è bello, adorabile bambino mio, e potrà esserti anche utile, se mi riuscirà fartene capire il significato. Secondo me, il rublo fatato rappresenta il dono dell’intelletto che la Provvidenza da all’uomo fino dalla nascita; e quel ritornare del rublo tutte le volte che lo avevi speso utilmente significa che la ricchezza dell’intelligenza e del cuore non diminuisce mai, anche se cuore e intelligenza spendono da prodighi tutto il bene che posseggono. L’uomo con la sottoveste sopra la pelliccia e coi bottoni di vetro lucente, rappresenta la stolta Vanità, la quale non è buona altro che ad offuscare la mente; e anche tu, senza accorgertene, ne sei rimasto offuscato, poiché, non contento del molto che avresti potuto fare in seguito col tuo rublo fatato, sei corso dietro al ciarlatano per voler comprare una sottoveste buona a nulla e dei bottoni di vetro, buoni soltanto per abbagliare gli sciocchi. E la punizione t’è venuta meritata e sollecita quando, frugandoti nella tasca, hai sentito che il famoso rublo non c’era più. Così doveva succedere; e sono contenta che dal tuo sogno tu abbia avuto una lezione la quale, spero, non ti uscirà né facilmente né presto dalla memoria. Ora vèstiti, bambino mio, fa’ la tua preghiera e disponi tutte le tue cosine per venire con me alla fiera dove potrai fare in realtà molti acquisti di quelli che avevi fatti in sogno. Vuoi venire?
– Si figuri, nonnina mia! E stia certa che, di tutte le cose che ho comprato sognando, una sola cosa non comprerò ora che sono desto, – io dissi.
– Lo so che cosa non comprerai. Non comprerai la sottoveste coi bottoni di vetro.
– No, non l’ha indovinato! Non comprerò i dolci per me!

La falsa filastrocca, un racconto di Mary Shelley

Nel Gennaio 2023 le edizioni Clichy portano in libreria La tomba senza nome, e altri racconti inediti di Mary Shelley tradotti da Francesca Rizzi. Un’appassionante raccolta di racconti dell’autrice di Frankenstein, la maggior parte dei quali inediti in Italia.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La falsa filastrocca
di Mary Shelley

Vieni, dimmi dove si trova la damigella il cui cuore può amare senza inganno,
e girerò il mondo intorno per sospirare un momento ai suoi piedi.
Thomas Moore

Un bel giorno di luglio, la bella Margaret, regina di Navarra, in visita presso il fratello reale, organizzò una festa in campagna per il mattino seguente, alla quale Francis rifiutò di partecipare. Era malinconico, si diceva a causa di un litigio fra amanti con una dama favorita. Giunse il mattino e una pioggia scura e cupe nuvole distrussero in colpo solo i piani della corte. Margaret era arrabbiata e si stava stancando: la sua unica speranza di svago era riposta in Francis, ma questi si era chiuso in sé stesso, un’ulteriore ottima ragione per volerlo vedere. Lei entrò nella sua stanza: lui era in piedi vicino alla finestra contro la quale batteva la pioggia rumorosa, scrivendo sul vetro con un diamante. La sua unica compagnia erano due bellissimi cani. Non appena Margaret entrò, questi chiuse velocemente le tende di seta della finestra, e sembrò un po’ confuso.
«Che tradimento è questo, mio signore» disse la regina, «che vi fa arrossire? Devo vederlo anche io».
«È un tradimento» replicò il re, «perciò, dolce sorella, non potete vederlo».
Ciò accrebbe ancora di più la curiosità di Margaret e ne seguì una divertente sfida; Francis alla fine cedette: si gettò su un enorme divano dallo schienale alto e quando la dama scostò le tende con un ampio sorriso, divenne serio e malinconico, mentre rifletteva sulla ragione che aveva ispirato il suo disprezzo contro tutto il genere femminile.
«Cosa abbiamo qui?» esclamò Margaret, «no, questa è lèse majesté [1]:
“Souvent femme varie, bien fou qui s’y fie!” [2]
Un piccolissimo cambiamento migliorerebbe enormemente le vostre rime… non funzionerebbero meglio così:
“Souvent homme varie, bien folle qui s’y fie!”? [3]
Potrei raccontarvi venti storie sull’incostanza degli uomini».
«Mi accontenterò di una storia vera sulla fedeltà di una donna» disse seccamente Francis, «ma non provocatemi. Mi piacerebbe non sentir parlare delle piccole mutevolezze, per amor vostro».
«Sfido Vostra Grazia» rispose Margaret, d’impeto, «a dimostrare la falsità di una nobile e ben nota dama». «Nemmeno Emilie de Lagny?» chiese il re.
Questo era un tasto dolente per la regina. Emilie era cresciuta nella sua stessa casa, era la più bella e la più virtuosa delle sue damigelle d’onore. Aveva amato molto il sire de Lagny, e le loro nozze erano state celebrate con gioia, ma senza il lieto fine. L’anno successivo de Lagny fu accusato di aver ceduto a tradimento all’imperatore una fortezza sotto il suo comando e fu condannato alla reclusione perpetua. Per qualche tempo Emilie sembrò inconsolabile, faceva spesso visita alla squallida prigione del marito, soffrendo al suo ritorno per aver assistito alla sua miseria, con parossismi di dolore che la mettevano in pericolo di vita. Improvvisamente, nel pieno della sofferenza, scomparve, e le indagini fecero trapelare solo il disonorevole fatto che era fuggita dalla Francia, portando con sé i suoi gioielli e in compagnia del suo paggio, Robinet Leroux. Si mormorava che, durante il loro viaggio, la dama e il giovane avessero spesso occupato una sola camera, e Margaret, infuriata per queste scoperte, ordinò che non si facessero ulteriori ricerche sulla sua prediletta smarrita. Così, schernita dal fratello, difese Emilie, dichiarando di ritenerla priva di colpe e arrivando persino a vantarsi che entro un mese avrebbe portato la prova della sua innocenza.
«Robinet era un bel ragazzo» disse Francis, sorridendo.
«Facciamo una scommessa» esclamò Margaret, «se perdo, porterò questa vostra vile filastrocca come epigrafe sulla mia tomba; se vinco…»
«Manderò in frantumi la finestra, e vi concederò qualsiasi cosa chiediate».
Le conseguenze di questa scommessa furono cantate a lungo da trovatori e menestrelli. La regina impiegò un centinaio di emissari, promise ricompense per qualsiasi informazione su Emilie: tutto invano. Il mese volgeva al termine e Margaret avrebbe dato molti brillanti gioielli per riscattare la sua parola. La vigilia del giorno fatidico, il carceriere della prigione in cui era rinchiuso il sire de Lagny chiese udienza alla regina; le portò un messaggio dal cavaliere per dirle che se Lady Margaret avesse chiesto la grazia per lui, e lo avesse fatto condurre davanti al fratello, avrebbe vinto la sua scommessa. La bella Margaret ne fu molto felice, e adempì volentieri alla richiesta. Francis non voleva vedere il suo falso servitore, ma era di ottimo umore, perché quel mattino un cavaliere aveva riportato la notizia di una vittoria sugli imperialisti. Lo stesso messaggero veniva lodato nei dispacci come il cavaliere più impavido e coraggioso di Francia. Il re lo riempì di doni, rimpiangendo solamente il fatto che un giuramento impediva al soldato di alzare la visiera o di dichiarare il suo nome.
Quella stessa sera, mentre il sole al tramonto splendeva sulla vetrata su cui era tracciata la filastrocca poco cortese, Francis stava riposando sullo stesso divano quando la bella regina di Navarra, con il trionfo nei suoi occhi luminosi, si sedette accanto a lui. Il prigioniero fu portato dentro, accompagnato dalle guardie: era indebolito dalle privazioni e barcollava. S’inginocchiò ai piedi di Francis e si scoprì il capo, così fuoriuscì una massa di meravigliosi capelli d’oro, che cadde sulle guance infossate e sulla fronte pallida del supplicante. «Abbiamo un inganno qui!» gridò il re, «signor carceriere, dov’è il vostro prigioniero?» «Sire, non incolpatelo» disse la voce dolce e tremante di Emilie, «uomini più assennati di lui sono stati ingannati dalla donna. Il mio caro signore non era colpevole del crimine per il quale ha sofferto. Non c’era che un modo per salvarlo: ho preso su di me le sue catene. Egli è scappato con il povero Robinet Leroux nei miei vestiti, e si è unito al vostro esercito: il giovane e valoroso cavaliere che ha consegnato i dispacci a Vostra Grazia, che avete sommerso di onori e doni, è il mio Enguerrard de Lagny. Ho solamente aspettato il suo arrivo con le testimonianze della sua innocenza, per annunciarmi alla mia signora, la regina. Non ha vinto la sua scommessa? E la sua richiesta è...»
«È il perdono di de Lagny» disse Margaret, inginocchiandosi anche lei davanti al re, «risparmiate il vostro fedele vassallo, sire, e premiate l’onestà di questa signora».
Francis per prima cosa ruppe la finestra menzognera, poi fece alzare le dame dalla loro posizione supplichevole.
Nel torneo indetto per celebrare questo «Trionfo delle dame», il sire de Lagny portò a casa ogni premio e sicuramente c’era più bellezza nella guancia infossata di Emilie - più bellezza nel suo corpo emaciato, marchi di vero affetto - che nel portamento più orgoglioso e nella carnagione più fresca della bellezza più sfolgorante che assisteva alla festa di corte.

1 «Lesa maestà», in francese nel testo originale (N.d.T.).
2 «Spesso le donne cambiano idea, stolto chi si fida!». In francese nel testo originale (N.d.T.).
3 «Spesso gli uomini cambiano idea, stolta chi si fida!». In francese nel testo originale (N.d.T.)

Sogno di Natale, di Luigi Pirandello

Sogno di Natale
di Luigi Pirandello

"Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l'impressione d'una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l'anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors'anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.
Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:
- Buon Natale - e sparivo...Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l'immagine di lui m'attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m'arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d'una luce interiore, sorvolava su un'alta siepe di rovi, che s'allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant'egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall'irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d'una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell'immenso arco dell'orizzonte.
Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d'una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.
- Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d'odio e d'invidia pronunziate nell'interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l'impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto...
Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch'ero la sua ombra per terra, non mi disse:
- Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.
- E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.
Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:- Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.
- La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni?
- Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.
- Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l'impressione sul mio capo inchinato, m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

Il serpente d'acqua, di Lev Tolstoj

Ortica Editrice porta in libreria Racconti animali di Lev Tolstoj, tradotto da Angelo Treves.
Favole e brevi racconti dedicate agli animali e al nostro rapporto con loro rivolte anche ad un pubblico di giovani lettori. Osservazioni descrizioni e considerazioni reali o immaginarie che ci conducono nei territori del meraviglioso mondo animale. Alcune delle favole sono adattate da Esopo, altre da La Fontaine, altre provengono da fonti arabe o indiane. Tolstoj desiderava che i suoi scritti raggiungessero direttamente l'anima del popolo e dei semplici e che formassero le nuove generazioni ad un'etica della fiducia e della generosità. Commosso da tutte le manifestazioni della vita e della natura, in particolar modo degli animali, Tolstoj cerca di trasmettere ai suoi giovani discepoli il rispetto verso tutti gli esseri viventi.

Cattedrale propone uno dei racconti contenuti nel testo, per gentile concessione dell’editore.

Il serpente d’acqua
di Lev Tolstoj

Una donna aveva una figlia, chiamata Marietta. Un giorno, Marietta andò a bagnarsi nel fiume con le sue amiche. Le ragazze si tolsero le camicie, le lasciarono sulla riva e saltarono in acqua.
Una grossa lucertola strisciò fuori dall’acqua, si arrotolò in forma di palla e si coricò sulla camicia di Marietta. Le ragazze uscirono dall’acqua, rimisero le camicie e tornarono a casa di corsa. Quando Marietta andò per prendere la sua, vide sopra il serpente; prese un bastone e tentò di scacciarlo. Ma questo alzò la testa, fischiò dolcemente, e mormorò queste umane parole.
— Marietta, Marietta, prometti di sposarmi.
Marietta pianse e disse: — Prima rendimi la mia camicia, poi sarò pronta a tutto.
— Mi prenderai per marito?
Marietta disse: — Ti sposerò.
Il serpente, immediatamente, abbandonò la camicia e sparì nell’acqua.
Marietta rimise la camicia e corse a casa.
Come vi giunse, disse a sua madre: — Mamma, un enorme serpente era coricato sulla mia camicia, mi disse: Sposami, altrimenti non riavrai la tua camicia. Ed io ho dato la mia parola.
La madre rise dicendo: — Avrai sognato, figlia mia. Una settimana dopo, ecco che una banda di serpenti giunse strisciando fino alla casa di Marietta.
Quando Marietta li vide avvicinarsi, ebbe paura e disse: — Mamma, ecco i serpenti: vengono a prendermi. La madre dapprima non volle credere, ma quando ebbe visto, provò anche lei una gran paura; chiuse la porta d’entrata e quella della camera. I rettili si ritirarono. Formarono un grosso pacco avvinghiandosi fra loro, rotolarono in una sola massa verso la casa e, come un’enorme palla, con un solo balzo vennero ad urtare la finestra. L’urto ruppe i vetri: i serpenti caddero sul pavimento, strisciarono sul banco, sui tavoli, fin sulla stufa. Marietta s’era nascosta in un angolo dietro la stufa; ma i serpenti la scoprirono, la trassero fuori e la trascinarono fino al fiume. La madre, tutta in lacrime, gli corse dietro, ma non li poté raggiungere. I serpenti si gettarono in acqua, trascinando con loro Marietta.
La madre credette che Marietta fosse morta, e la pianse.
Un giorno, la madre di Marietta era seduta presso la finestra e guardava dalla strada, quando ad tratto vide Marietta che veniva verso di lei, tenendo per mano un bambino e fra le braccia una bambina. La madre si rallegrò molto e abbracciò sua figlia: — Dove vivi, le chiese, e di chi sono questi bambini?
Marietta rispose che erano suoi, che il serpente l’aveva sposata e che essi vivevano nel più profondo del regno delle acque. — Vi si vive bene?, domandò la madre.
E la figlia rispose che vi si viveva meglio che sulla terra.
La madre pregò la figlia di restare con lei, ma la figlia non acconsentì. Disse di aver promesso a suo marito di tornare.
Allora la madre le domandò: — E come farai a tornare a casa tua?
— Andrò al fiume, griderò: Jo! Jo! esci dall’acqua! vieni qui! vieni a prendermi!; egli striscierà sulla sponda e mi prenderà con sé.
La madre rispose: — Bene. Ma resta almeno stanotte con me.
Marietta andò a letto e s’addormentò. La madre prese una scure e andò al fiume.
Giunta in riva all’acqua gridò: «Jo! Jo! esci dall’acqua! vieni qui!».
Il serpente mise la testa fuori dall’acqua per arrampicarsi sulla sponda. La madre gli assestò un colpo con la scure e gli tagliò la testa. L’acqua divenne tutta rossa di sangue.
La madre tornò a casa. La figlia si svegliò e disse: — Voglio tornare a casa mia: comincio ad annoiarmi.
E Marietta partì, tenendo il bambino per la mano e la bambina fra le braccia.
Quando fu sulla sponda, gridò: «Jo! Jo!, esci, vieni da me!». Ma nulla uscì dall’acqua.
Guardò il fiume e vide che era rosso e che una testa di serpente galleggiava sull’acqua.
Allora Marietta baciò suo figlio, e baciò sua figlia dicendo: — Voi non avete più padre, voi non avrete più madre. Tu, piccina, diventa la rondinella che si libra sulle acque; e tu, mio piccino, diventa l’usignuolo che canta all’alba la sua canzone. Io, sarò il cuculo, il cui monotono lamento piange la perdita del suo compagno.
E si separarono. Ciascuno prese il volo, ciascuno partì nella propria direzione.

La mia bebisitter è un orco, di Paolo Di Orazio

D Editore porta in libreria Nuovi delitti di Paolo Di Orazio. I piccoli assassini di Primi delitti sono cresciuti, ed è arrivato, per loro e per noi, il tempo di assaporare il sanguinolento sapore di… Nuovi delitti. Con Nuovi Delitti, il maestro dell’horror Paolo di Orazio riporta alla luce i protagonisti che hanno infestato le pagine del primo libro, ormai adulti, ma non per questo meno pronti a sporcarsi le mani di sangue!

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nel libro per gentile concessione dell’editore.

La mia bebisitter è un orco,
di Paolo Di Orazio

Buio in sala. Stasera ho scelto i Polar Inertia col brano XLR8R Mix.
Sono completamente nuda e la mia pelle è bianca sotto le luci allo xeno. La pulsazione del ritmo, io appartengo all’acciaio. Ho freddo. Non mi piace tenere i capelli legati durante la sospensione. È un patto con la gravità, non posso truffare il Creato. Sigfrido è bravo con le luci. Lui sa come fare. La musica non è per le orecchie, ma per il rito. Il rito è per me. Io sento il respiro e il cuore del pubblico, le persone che stanno nel buio. Stanno lì, hanno pagato, ma devono scomparire perché io sono la loro dea. Qualcuno è già eccitato, perché pensa che io sia una puttana, perché pensa che io scoperei chiunque, lo sento il respiro diverso di quelli che vorrebbero scoparmi. Lo sento benissimo. Se mi concentro su quel respiro, io sarò pronta prima, pronta a staccarmi da terra. Più mi vogliono e più devo staccarmi da terra.
Io mi amo e non sono di nessuno.

Il ritmo è perfetto, la pelle affamata. La mia pelle è affamata.
Suoni siderali.
Sigfrido al mixer luci orienta il fascio dei faretti sul Ragno muovendoli rapidi. Li fa correre nel buio. Si inseguono. La struttura sopra di me si illumina in fulmini geometrici al passaggio degli spot bianchi. Sono completamente nuda e distesa sul pavimento di questa sala teatrale. Il pubblico per ora vede solo me, in un ovale di luce, io non vedo il pubblico. Ancora per poco sarò Klarissa.
E appena il Ragno mi solleverà coi suoi fili, io non sarò più Klarissa.
Libera di nuovo.
Ma solo per un po’.
Finché stanotte non torno a casa.

Mi chiamo Iodea. Klarissa è un nome d’arte. Ho trentasei anni. Da bambina ho ucciso la mia babysitter. Si chiamava Melania e, a quanto ne so, era psicopatica. Se la faceva con mio padre mentre mia madre viaggiava per lavoro. Melania mi perseguitava, quando era sola con me. Non ho mai capito se abbia fatto veramente qualcosa o se l’ho soltanto immaginato.
Comunque l’ho uccisa. Con un rasoio, mi pare. Sì. Nuda nella vasca da bagno.
Così mi hanno sempre detto.
Ventisette colpi di rasoio di cui uno fatale alla giugulare.
Ventisette.
Ma io non ci credo.

Me l’hanno detto tante di quelle volte che alla fine ho iniziato a sospettare di me stessa, ma poi sono cambiata quando ho scoperto la sospensione e me ne fotto delle stronzate.
Io non me la ricordo, quella roba, infatti. No.
Conosco solo la storia generale.
Chiacchiere. Poi, però, i racconti hanno trovato un riscontro.
E questo non va bene.

Un giorno mi è capitato fra le mani un articolo di quotidiano.
Me lo fa vedere un tizio che avevo cominciato a frequentare quando avevo quindici anni, la prima scopata. Un tizio fissato coi ritagli di giornale, articoli su fatti di sangue del presente e del passato. Li prendeva, li tagliava e li appiccicava su un quadernone. Aveva uno scaffale di quadernoni gonfi di ritagli. I quadernoni erano intitolati a penna Squarci di cronaca 1, 2, 3 e via dicendo, con la data di inizio e fine raccolta. Era incredibile.
Avevo sei anni quando uscì l’articolo sul delitto di Melania. Tra la pubblicazione dell’articolo e il mio personale raffronto con quella striscia di carta stampata, io sono stata data in affidamento dal tribunale a una specie di scuola per bambini soli e poi spedita in una casa famiglia. Che è un carcere per canarini.
Il tizio dei ritagli aveva scoperto che quella storia mi riguardava. La località, le mie iniziali e le chiacchiere di paese completavano il quadro. Non gliel’ho confermato perché non avevo memoria di un cazzo di ciò che diceva l’articolo, mi sembrava una follia, una somma di coincidenze sfigate. Avevo riconosciuto la ragazza nella foto, sì, ma i miei ricordi si fermano a quel volto in bianco e nero e pochi altri elementi. Però il tizio mi piantò perché la famiglia non voleva che suo figlio fosse traviato da un’assassina. A lui piacevo perché era finalmente venuto a contatto con una protagonista dei suoi ritagli. Un mostro che esce da un pezzo di carta, da una notizia. Per lui ero una magia vivente. Ma chi passa per i servizi sociali è schedato, e io avevo pure il carico della condanna popolare sulle spalle. In una piccola provincia dove non esistono segreti è peggio che andare in giro col cartello «siete tutti stronzi» sulla testa. Così, a diciotto anni ho preso e me ne sono andata a Bologna. Mi sono nascosta al Dams. Ma non servì a nulla. Aver visto la foto di Melania sul trafiletto è stato come se il mondo avesse spento le luci. Almeno per me. Ovunque andassi, con chiunque fossi. Facevo finta di studiare, di divertirmi, di scopare. No, niente psicanalisi, né tantomeno ipnosi. Non ci penso. Eppure dovrei.
Perché, Cristo santo, da quando ho visto la foto di Melania, da quando ho visto la foto di Melania su quel cazzo di trafiletto, da quindici anni in qua sento qualcosa che si muove nella vasca da bagno quando la porta è chiusa.

Adesso il Ragno mi solleva di nuovo coi suoi fili. E così questa notte ho vinto io. Per un po’. Ho scelto stasera un beat sociopatico dei Vatican Shadows. Perfetti per coprire il rumore dell’argano che mi tira su e per creare il momento ipnotico.
Gli uncini tirano la pelle.
Sospensione di coma.
Il dolore mi abbraccia.
Iodea mi abbandona.
Sto volando. Klarissa è libera.
Ogni mio nervo urla nella tensione.
Sono completamente dolore, ora.
Sono pura.
Il dolore è Dio.
Grazie, Dio.

Da quando sento qualcuno muoversi nella vasca da bagno, ho iniziato a cercare conforto nel dolore. L’alcol non fa un cazzo e le droghe non le voglio. Pregare non se ne parla perché nemmeno mi gira di tenere a memoria come mi chiamo. Ma anche perché non ho proprio voglia di ricordare. Ciò che Iodea da bambina avrebbe fatto a quella ragazza non lo so e non voglio che, in caso, me lo ritrovi davanti per tutta la vita come un film della colpa.
Però mi insegue il dubbio. A loop. E a quello, cazzo, non sfuggi.
È come avere una fogna in casa: tiri su il tombino, fuori la merda.
Il trafiletto diceva che la vittima perseguitava la piccola assassina con storie macabre sugli orchi e che lo spavento abbia scatenato l’omicidio. Be’, mi sembrano tutte delle grandi cazzate. Le solite che servono ai giornali per ingrassare la notizia con un tocco morboso.
Ma poi è il dubbio, che mi frega. È quello che mi insegue quando sto al buio e da sola.
Lo sento anche adesso.
«Ehi, c’è qualcuno?»
Qualcosa che rotola dentro la vasca.
E non è Sigfrido che batte i gomiti a terra mentre lo calpesto sotto gli stivali se la pressione è insopportabile. Lui se ne sta buono a farsi schiacciare.
Lui, questi rumori, non li sente.

Infatti, non sono allucinazioni.
Infatti, non sono spiriti, ci mancherebbe.
Sono idee. Sono idee così forti che le sento muoversi in casa.
Le sento muoversi dentro l’armadio, o nell’altra stanza. O, appunto, in bagno, nella vasca. Un corpo che si rigira, che cerca una posizione. Mentre dormo, sento qualcuno che mi tocca, sento qualcosa passarmi fra le gambe nude. Se cammino al buio tra le stanze, sento bolle di calore, come se qualcuno fosse stato lì lasciando la sua impronta nell’aria. Ma sono solo minchiate che mi vengono in mente, lo so. Mi vengono in mente con una forza così intensa che le avverto col naso, le orecchie, la pelle. O le vedo fuggire con la coda dell’occhio.
Ma sono.
Solo.
Delle.
Idee.
Di merda.

Certo, Sigfrido non sente nulla, non vede nulla. E non gliene parlo perché lui non è disturbato da questo mio percepire, non gli scarico addosso la mia frustrazione. Ma neanche mi vede parlare con presenze invisibili. Proprio perché non sono pazza. È un carnevale che va nel mio cervello, nel mio soltanto. Idee che penso perché c’è una parte della mia volontà a plasmarle. Sono scintille che arrivano e che devo completare affinché io le senta solide. Non mi posso fermare, quando cominciano.
E l’unico sollievo è il dolore. Controllare il dolore. L’elettroshock della sofferenza con la pratica della sospensione annulla questa folla di idee, mi porta anche a perdere conoscenza. Col risultato però di sgombrare la mente. Più dolore provo, più il cervello resta pulito e posso riposare.
Ma la folla delle idee si comporta come la polvere.
Dopo un po’, merda, quella torna, puoi pulire quanto vuoi, è una lotta contro l’infinito.

Durante i primi due anni bolognesi ho scoperto la body art. Mi ha iniziata un tatuatore col quale ho avuto una storia. Mi faceva paura con quella tuta zentai in ecopelle nera che lo copriva dalla testa ai piedi. Un umanoide senza volto, isolato dai sensi eppure vivo, abbozzo umano da schiacciare, colpire, stritolare nonostante il suo corpo immenso e scolpito. Grazie a lui mi sono innamorata della cultura apocalittica, delle videoinstallazioni, dei dj set, dei rituali pagani. Ho visitato le stanze senza finestre delle parafilie nei palazzi del bdsm alla ricerca della mia dimensione. Dormivo pochissimo e facevo di tutto pur di esplorare la realtà alternativa dove il corpo e la spiritualità si ritrovano nell’oscuro mondo dell’inconscio. La pratica della body suspension è arrivata dopo la scarificazione, con cui ho abbellito e potenziato il mio corpo. Quella era la mia strada. Non so se la mia trasformazione avrà mai uno stadio finale, ma finché non avrò fermato la formazione anarchica delle idee, io continuo a scavare il mio corpo.
Lo intaglio.
Scrivo cicatrici di formule per disattivare le colpe.

Il Ragno questa sera mi solleverà a testa in giù per le ginocchia.
Il dolore lombare e la pressione al cervello dovrebbero sgombrarmi la testa dalle idee per almeno una settimana.

Fallito miseramente.
Non me lo aspettavo, sono delusa da me stessa.
Mi sono svegliata piena di dolori alle gambe, ma con qualcuno che si rotola nella vasca da bagno, si lamenta.
Contavo che avrei avuto tregua. Non so.
Sigfrido non è ancora tornato e non abbiamo in programma una performance. Farò senza il Ragno, che la struttura di sollevamento è troppo grossa da aprire in casa. Mi appendo alle travi del tetto. Lo abbiamo già fatto. L’ho già fatto da sola.
Voglio una sospensione facciale.

Com’era quella storia degli orchi? Ora li vedo.
I ganci bucano la pelle del volto e inizio a vedere.
I ganci sono i loro denti, gli artigli.
Bucano e trapassano la pelle.
Un dolore mai sentito prima.
Non morirò.
So in quali punti del volto conficcare i ganci.
Qualcuno rotola nella vasca, in preda agli spasmi.
Melania è nuda nella vasca.
È una mia idea, una suggestione o un ricordo?
Gli orchi e Melania. Vaffanculo, cazzate.
Sono piccola, ho sei anni, ho i capelli lunghi e un rasoio in mano, di quelli da barbiere.
Stronzate.
Melania è seduta sul bordo della vasca e mi dice: «Tieni stretto il rasoio e passalo qui». È un ricordo o un’idea suggerita da quel cazzo di trafiletto di giornale? Dev’essere un’altra delle mie idee, perché quei rumori sono una mia idea, non c’è nessuno in casa, non c’è nessuno intorno a me. Le idee arrivano come il polline e ognuna sceglie la propria testa. Nulla è casuale.

Dodici ganci possono bastare, sono pronta.
I cavi sono predisposti. Il mio volto è un fiore di metallo, adesso, e tra poco diventerà un’esplosione di dolore. Perderò i sensi. Nonostante ventiquattro fori di entrata e uscita dei ganci attorno al viso e sulla fronte, le idee di quel delitto che non ricordo prendono luce fondendosi assieme come bolle di mercurio. Devo appendermi prima che io mi convinca di averlo fatto veramente. Non mi interessa cosa succederà. Spero di perdere i sensi, ma almeno voglio vedermi un momento. Voglio potermi guardare. Voglio vedere come sono.

Mi chiamo Iodea, ho sei anni e la mia babysitter mi perseguita. Mi spaventa, mi insegue per tutta casa. Non so se è un sogno o una suggestione dei racconti di paese, di quelle righe sulla carta stampata, ma nella testa mi ritrovo legata a dormire una notte da sola nel buio e tutta nuda dentro la vasca da bagno. Poi sento Melania che mi dice che sono stati gli orchi. E poi dice che l’orco è lei e mi vuole mangiare. Ma essendo un orco femmina, deve tagliarsi i peli dalla pelle. Un giorno si spoglia nuda e mi insegue. Mi prende per i capelli e mi trascina in bagno. Prende un rasoio, il rasoio di mio padre e mi insegna come si maneggia sulla pelle. Io stringo il pugno sul rasoio, stringo i denti e ho paura, tanta paura. Lei cade nella vasca urlando.
Chiudo gli occhi per la paura. E poi non vedo più nulla.

Apro gli occhi e mi vedo allo specchio.
Oggi.
Da quel giorno, è passato un battito di palpebre.
Il mio volto è un sole.
Il peso del corpo sui ganci fa tirare la pelle del mio volto in dodici raggi di dolore.
Mi vedo.
Mi guardo.
Svengo.

La ragazza dai capelli rossi è tornata.
La rivedo.
È Melania, la mia babysitter, ma non come la ricordavo.
È una bambina di sei anni. Ora sono io l’adulta.
Melania è scalza. Indossa un pigiama rosa con orsi e gatti. I capelli lunghi e le efelidi sparse sulla faccia come una costellazione sotto gli occhi verdi.
«Iodea, vieni a vedere», mi fa.
La piccola rossa mi fa battere il cuore.
Nessuno in casa. Sigfrido è fuori. Non mi piace stare da sola. Lo sono sempre stata.
«Devi venire di là», dice la ragazzina seduta in un angolo della stanza.
Sono inchiodata al letto. Le ferite del Ragno e dei ganci ancora non del tutto rimarginate. Il dolore e il peso del mio corpo sono un macigno, ma riesco a scendere dal letto perché sto sognando. Cammino piano sul pavimento sporco, passo oltre la bambina, lasciandomela alle spalle. Vado verso il bagno, dove sento qualcuno rotolarsi dentro la vasca. La porta è chiusa, ho paura, il rumore è presente, reale.
Devo aprire.
Spalanco la porta.
La luce mi acceca.
Mi sveglio urlando.
«Iodea, calma, stai calma», dice Sigfrido.
Lo prendo per la camicia.
Sto sul letto, lui cerca di tenermi giù.
Sono ferita. «Chi c’è, in bagno, Frido, vai a vedere», gli urlo.
Sigfrido diventa rosso. E come mai?
«Non c’è nessuno. Sei svenuta appesa ai ganci.
Cazzo, non devi farlo da sola».
Sta dicendo cazzate. Mi sta nascondendo qualcosa. Proprio come mio padre, quando proteggeva Melania.
«Non è vero che non c’è nessuno, stronzo. Lasciami, devo andare a vedere».
«Non c’è niente da vedere, stai calma. Stai delirando. Hai la febbre a quaranta. Guarda che cazzo ti sei fatta alla faccia, perdio».
«E lasciami, coglione. Che cazzo mi nascondi?»
«Chiamo un dottore».
«Cosa?»
«Stai giù, che ti sei sfigurata. Cazzo, ti sei rovinata la faccia».
No. Non devi chiamare l’ambulanza.
No. Non mi devi voltare le spalle per telefonare.
Ho un gancio in mano, coglione.

I rumori sono spariti, adesso.
Possibile?
Da quanto tempo sono in piedi a guardare Sigfrido a terra?
È stata la mia ultima idea. Il mio volto è segnato per sempre.
Alla fine, le idee sono svanite.

Eppure, avrei giurato che in bagno ci fosse qualcuno.
Devo andare a vedere.

Sto tremando. Sono attraversata da un freddo mai sentito prima. Dalla testa ai piedi. Come se tutti i fori per i ganci nel corpo fossero spalancati e il vento ne approfittasse per riempirmi d’aria. Non c’è più nessuna impronta di calore.
Vorrei urlare.
Vorrei vomitare.
Nella pancia qualcosa si muove, mi fa male. Che cazzo è?
Arrivo alla porta del bagno.
Poi sento l’odore.

Nella vasca, la bimba legata è nuda.
Mi vede.
«Signora, per favore, basta. La prego, voglio tornare a casa».

Il demone della rima, di Filippo Cerri

Effequ porta in libreria Le malaveglie, storie di paura popolare, di Filippo Cerri. Tra crudeli divinità etrusche e banchetti blasfemi, tra sirene nascoste in un’ansa del Tirreno e demoni che possono donare la rima perfetta, le storie delle Malaveglie nascono dalla stessa esigenza oscura, e si agitano nelle ombre tracciando una cupa geografia del grottesco e del folklore. Le Malaveglie sono meraviglie nere, fiabe sporche raccontate intorno a quei fuochi dove la notte è infinita.

Cattedrale vi propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

IL DEMONE DELLA RIMA
di Filippo Cerri

La rima la devi cercare sulla punta della lingua, è lì che si genera.
La prendi dal vento, non so, dalla tua prima nostalgia, dalla volta che t’è sembrato che il mondo seguisse un segreto meccanismo, che ci fosse un ordine nascosto sotto la trama dei giorni da poter svelare cantando.
Devi comprendere di essere l’ultimo di una catena che costrinse al mestiere Orfeo, lui che sottomise i misteri dell’Ade, ammansì le bestie tenebrose, perse tutto per un’impazienza, per una debolezza troppo umana che fa strano al dio. Fu fatto a pezzi e la sua voce si incagliò nel barbaglio del fiume, nel sommesso rigurgito che l’acqua produce nell’ansa, dove la schiuma si forma. La sua testa, lanciata con rabbia dalle mani sanguinanti delle baccanti, terribilmente offese, custodiva in bocca la rima segreta, quella che apre le porte a una visione senza tempo. Tutta la vita ho cercato il mistero arcano nascosto e ripetuto nei suoni della natura che solo il primo uomo ascoltò, appena fatto il mondo, un segreto che solo alcuni poeti hanno circoscritto.
Si è detto poco delle origini della poesia in ottava e dei poeti a braccio, una tradizione mantenuta da contadini e pastori semianalfabeti che nel riposo dei campi e delle greggi hanno cercato di rievocare il sentimento di una terra vergine tramite quel momento unico d’ispirazione capace di far saltare il tempo. Il riposo offerto alle ombre degli alberi sotto le quali hanno letto i classici nel momento in cui le greggi pascolavano tranquille o il lavoro dei campi era sospeso, il contatto diretto ed estenuato con un mondo immobile, il ricordo delle transumanze, dei campi incolti degli immensi latifondi, hanno fatto sentire loro di essere parte di qualcosa che non ha epoca, un sentimento prorompente grazie al quale hanno trovato, là dove posavano lo sguardo, i segni di un’Arcadia dimenticata e l’hanno cantata, con la gioia nelle vene e nella voce.

La parola poetica ha capacità magiche, l’ottava rima è solo uno dei modi che l’uomo ha trovato di incanalarne la potenza. Assistere a un contrasto poetico in ottava rima è testimoniare la meraviglia di un duello dialettico. Non si conosce bene chi per primo ha imbrigliato la rima in otto versi e imposto le regole dei contrasti: il rispetto dell’endecasillabo, la concatenazione a cui si risponde riprendendo l’ultimo verso e via dicendo. Il duello verbale dei poeti è parente strettissimo di quello degli stregoni che si contendono la supremazia di un sapere esoterico e antico, pronti a usare ogni abracadabra a disposizione per sopraffare l’avversario, è la sfida di un sapere che si fa voce, che evoca visioni sorprendenti tramite la modulazione della voce e dalla melodia.
Non è raro il caso di poeti d’ottava che, nel pieno di una trance, abbiano testimoniato di essere stati preda di una potenza superiore, una metafisica del canto poetico, che li ha resi capaci di farsi tramite di una forza primigenia, come gli sciamani siberiani, come gli invasati sacri o gli oracoli di mezzo mondo.

Mio nonno fu poeta e mi trasmise la tecnica. L’ho visto cantare ed evocare visioni di soverchiante incanto nelle piazze di borghi ora spopolati, nelle feste al tempo in cui si festeggia il raccolto, spalla a spalla con vecchi ossuti e sfiniti capaci di rianimarsi per l’attimo della rima. Fu lui a parlarmi di Menico Circi, il poeta di ottava capace di avvicinarsi più di tutti al genio, colui che evocò talmente bene i sogni di un paradiso anteriore da perdercisi dentro. Per anni contemplò gli scenari delle maremme, le valli e le piane del Centro Italia, dagli Abruzzi ai monti di Bacugno, fino a Montalto, alle valli del grossetano, sfidando i poeti ischiani, borbontini, casentini. Tutti li vinse, e cantò fino a che la pazzia non lo rese muto, un pupazzo senza più ventriloquo.
Menico Circi, il più grande e il più misero dei poeti, riuscì a intonare una melodia che solo lui sapeva e a cantare ottave di rara bellezza, ma della sua impresa si sono perse le tracce. Si diceva che, come Odino, Menico si fosse dato alla macchia, alla solitudine dei boschi e dei campi, vagabondando in cerca della conoscenza incisa nella voce delle cose e che, un giorno tra i tanti, il sipario del reale gli si fosse squarciato di fronte agli occhi e al di là dal velo della visione gli fosse apparso uno scenario primigenio. Ma la poesia orale, come la memoria, non lascia traccia, se non nel cuore degli uomini. E anche la vita di Menico Circi divenne qualcosa di più simile alla leggenda che alla cronaca. A lungo ho cercato gli indizi di quella melodia che precede i riti dell’uomo e la storia del poeta che riuscì a cantarla.
Ho molto viaggiato. Difficile chiudere in una frase così stretta il senso di un peregrinare indefesso, vasto, spesso inutile per mezza Italia. Trovai, al colmo di sforzi inenarrabili, un vecchio prossimo alla fine, in un paese che non posso riferire, in una di quelle terre in cui un tempo si veneravano gli dèi sabini. Tratteneva nel cuore il segreto, nell’occhio cieco l’importanza di ciò che aveva testimoniato. Era il figlio del figlio di Menico. Casa sua era un covo di cimici, sedie spagliate accatastate agli angoli, bucce di frutta annerite; fumava del tabacco umido arrotolato in foglie sporche e maleodoranti che gli avevano ingiallito le punte delle dita e reso i baffi un cespo di saggina. Si affrettò a dirmi che lui non cantava in ottava, non l’aveva mai fatto.
La melodia e la rima, disse, non ebbe bisogno d’altro suo nonno. Le due chiavi per la porta del paradiso. Menico, per quel che il nipote mi raccontò, sentì che se il tempo è uno solo, dentro il quale ci muoviamo tutti; esiste, tuttavia, un luogo che ne rimane fuori. Menico vide un paradiso intatto, rigoglioso, colpito da un sole gentile. Sentì il cuore colmarsi d’una gioia mai sentita, fino a che, al colmo dell’emozione, non vide qualcos’altro che lo spaventò senza riparo. Si mozzò la lingua coi denti, il dolore lo riportò al suo tempo, la visione svanì. Non ha più cantato, non è più uscito di casa. Ma la tempra era forte, e visse ancora. Vennero gli anni della demenza, quando la volontà si sottomise alla confusione dei ricordi, e il vecchio non riuscì più a trattenere le immagini che gli infestavano la mente.
Il nipote previde la domanda che covavo in silenzio, e indicò una tela grezza appesa al muro sulla quale, coi suoi mezzi, Menico aveva cercato di replicare l’esperienza di essere solo in un mondo appena fatto. Aveva dipinto il Giardino dell’Eden così come gli era saltato all’occhio. Il figlio del figlio mi indicò un dettaglio nel disegno: c’era un punto scuro, a cui Menico aveva aggiunto tempera nera su tempera nera fino a farlo diventare un grumo spesso e gibboso.
Il vecchio nipote non seppe dirmi cosa fosse, né era a sua detta in grado di rivelarmi il segreto del canto di Menico, la melodia su cui appoggiava la rima. Disse di conoscere solo una parola, e che era proprio quella a contenere la melodia. Me l’avrebbe rivelata, a condizione che giurassi di seppellirla nel mio cuore. Giurai, naturalmente. Un mugugno che non aveva niente a che fare con il canto gli scivolò a malapena sulle labbra secche, come se il respiro che lo evocava si portasse dietro una maledizione antica: Mharahammau. Risi, convinto dello scherzo: “Perché sei morto?”, canticchiai in risposta, ma il vecchio si offese, e fui invitato a lasciare la sua casa per sempre.

Con vergognoso ritardo capii che la parola magica portava davvero in sé una cadenza melodica su cui appoggiare la rima, e non me la tolsi più dalla bocca per anni. Mharahammau: vi ricavai una melodia e su quella presi a srotolare un tappeto di ottave che cantavo fino a che il fiato reggeva. Eremita tra i campi, perduto nelle selve, tra le valli del Vomano, del Fiora e del Velino, ricercai uno stato di completa adesione alla natura, intonando rime come se le strappassi ogni volta al vuoto dell’aria. Il settimo anno, un giorno tra i tanti, mentre cantavo vicino a un abbeveratoio nel mezzo della campagna desolata, arrivai lì dove il talento di Menico aveva posto la pietra miliare. E mi si spalancò la sua medesima visione.
Ho avuto soprattutto paura: c’era una bellezza terribile dietro il sipario, una bellezza che non avrei potuto contenere. C’era un profilo di monti a cui la mano del Creatore aveva appena fatto le punte, piante vigorose dagli alti fusti che si allungavano verso il più gentile dei soli, il cui calore si posava sulla pelle in un modo che mai avevo avvertito nella mia vita, e la luce dava fondo a colori la cui intensità faceva tremare il cuore. E i profumi, gli afrori densi come se l’aria fosse miele in cui tutto era immerso, un silenzio abitato da ronzii e fughe affannose di bestie docili e impaurite.
L’estasi durò il tempo di accorgermi di due occhi che erano spilli bianchi in un secchio di pece, mi scrutavano tra l’erba alta. Era il grumo disegnato da Menico. Comprendevo solo adesso cosa fosse. Era ancora là, era là da sempre, prigioniero fuori dal tempo, recluso nel Paradiso, impossibilitato a tuffarsi nel flusso dei secoli e dei millenni.
Mharahammau. Ripeteva il suo nome come un ebete, con il tono del neonato che tartaglia le sue prime esperienze di voce. Era una figura d’uomo a metà, con ali rattrappite su corpo e muso di scimmia. Capii con sgomento di avere davanti l’Avversario, il Serpente a cui una forza superiore impediva di partecipare alla Creazione. Nel momento stesso in cui l’avevo inteso avrei dovuto fuggire, come Menico fece. Ma io restai, contemplai quell’essere antico e decaduto come fosse un temporale lontano. Fui stupido, superbo. Nel gioco di un secondo mi si fece sopra, sentii la sua mano di gorilla artigliarmi la spalla, scivolare verso la gola. Nell’istante prima della fine mi tornò in mente la via d’uscita di Menico e i miei denti chiusero fuori dalle labbra la lingua, che strinsi in preda al terrore più antico. Sentivo il Male incarnato cercarmi addosso l’ultimo respiro, e chiusi gli occhi.
Mi ritrovai vicino all’abbeveratoio, lì dove il sogno era cominciato. Ero steso a terra, confuso e preda d’un dolore acuto, sentii sciogliermisi in cuore una paura che mi seccò la voce; in bocca avevo il sapore umido e ferroso del sangue e il vuoto che la lingua aveva lasciato. Senza più parole o voce o canto, dissipato come un fiume d’estate pensai di aver sognato, pregai di aver sognato. Poi mi accorsi di una fila di impronte né di bestia né di uomo: si allontanavano da me e si perdevano in direzione del bosco, facendosi sempre più vicine tra loro, come fossero il risultato di una corsa folle verso una libertà terribile.

Il bouquet di Janie, di Lucy Maud Montgomery

Mattioli 1885 porta in libreria Magia bianca, di Lucy Maud Montgomery, tradotto da Enrico De Luca. Queste sette short stories appartengono a quel genere letterario che Lucy Maud Montgomery, prolifica autrice di racconti, ha maggiormente praticato durante tutto l’arco della sua vita e nel quale ha dimostrato al meglio il suo talento. In questo libro sono presenti alcuni testi inediti e mai tradotti in Italia.

Cattedrale vi propone uno dei racconti per gentile concessione dell’editore.



Il bouquet di Janie
di Lucy Maud Montgomery

Janie era giù in giardino dietro il traliccio dei fiori rampicanti e del pisello odoroso (1) e stava piangendo! Non capitava di frequente che Janie piangesse, ma quando lo faceva – ed era estate – si nascondeva sempre dietro il traliccio di fiori e si sfogava. Nessuno poteva vederla lì finché tutto non fosse finito, e i fiori di solito erano splendidi consolatori. Erano sempre così luminosi e spensierati che, loro malgrado, semplicemente allietavano le ragazzine.
Ma quella volta neppure i fiori profumati riuscirono a confortare Janie: non voleva nemmeno vederli, parevano così provocatoriamente felici. Non erano mai stati delusi nel desiderio più caro del loro cuore. Accidenti, i fiori semplicemente non sapevano che guaio fosse! Solo il Cielo sa quanto tempo Janie sarebbe rimasta seduta lì a piangere se la zia Margaret non l’avesse scoperta. Forse la zia Margaret, da una finestra del piano superiore della casa accanto, aveva visto una piccola figura sconsolata dietro i piselli odorosi, ma non credeva fosse una cosa importante. Janie pensò che la zia Margaret fosse capitata lì per caso.
“Diamine, che succede, Janie?” chiese la zia Margaret.
“Oh, zia Magsie, sono così… così… d-d-delusa” singhiozzò Janie. “Oh, sono sicura che non riuscirò mai a farmela passare.”
“Raccontami tutto, tesoro” disse la zia Margaret con tono comprensivo.
“Papà doveva andare a Raleigh domani… con la zia Ethel, e mi avrebbero portato con loro. Non sono mai stata in città, zia Magsie, ma non è per questo che piango. È perché volevo così tanto incontrare Miss Edna. Non conoscete Miss Edna, zietta, perché non siete venuta a Hexham l’estate scorsa, ma lei insegna in città e l’estate scorsa è andata a pensione a Hexham durante le vacanze… proprio di fronte alla casa della vecchia Mrs Fraser. È stata semplicemente adorabile, zia Magsie; eravamo amiche molto intime. Doveva venire anche quest’estate, ma non può perché è ammalata ed è in ospedale. Ed è per questo che volevo andare a Raleigh, perché papà ha detto che mi avrebbe portato a farle visita. E adesso papà non può andare e ovviamente neanch’io posso, perché la zia Ethel non ci ritornerà. Oh, sono così delusa che non riesco proprio a rallegrarmi.”
La zia Margaret sorrise mentre accarezzava la testa riccia della nipotina di nove anni.
“È un peccato, dolcezza. Ma non preoccuparti. Ti dirò io cosa fare. Scegli un bel tenero bouquet dei tuoi fiori più graziosi e gentili e invialo a Miss Edna. Lo prenderà zia Ethel… deve trascorrere quattro ore a Raleigh. Forse potresti scrivere anche un bigliettino per accompagnarlo.”
Janie balzò in piedi sorridendo tra le lacrime.
“Oh, zia Magsie, siete davvero uno splendido aiuto quando bisogna pensare a come risolvere un qualche problema. Spero di diventare intelligente quanto voi quando sarò grande. Questo è proprio quello che farò. Manderò a Miss Edna il bouquet più incantevole che potrò scegliere e scriverò anche il biglietto. Non so scrivere molto bene e la mia ortografia non è molto buona, ma so che a Miss Edna non importerà. È brava a capire quanto voi, zia Magsie.”
Nel pomeriggio del giorno seguente, due medici dell’ospedale stavano discutendo ansiosamente il caso di una paziente del Reparto tre.
“Non sono soddisfatto” stava dicendo uno di loro. “Non sta facendo i progressi che dovrebbe. L’operazione è riuscita e non c’è motivo per cui non dovrebbe riprendersi rapidamente, ma sembra che manchi di vitalità. Mi viene da pensare che la ragazza non desideri vivere… non sembra avere alcun interesse per la vita, in effetti. Se non si riscuote in tempi brevi, non c’è speranza per lei. Un caso simile è il più difficile da gestire. Quando la natura si rifiuta di aiutarci possiamo fare ben poco. La ragazza sta morendo per il semplice fatto che non vuole più aggrapparsi alla vita.”
Nel frattempo, Edna Bruce era sdraiata sulla branda con gli occhi chiusi e l’apatico volto pallido. Si sentiva, oh, così stanca. Non le importava se sarebbe migliorata o no. Non c’era niente per cui migliorare – non c’era nessuno a cui importava se fosse sopravvissuta o meno. Era completamente sola nella grande città dove non aveva vissuto abbastanza a lungo per farsi degli amici. No, non le importava; era troppo stanca e sola per voler vivere. Non ne valeva la pena.
Poco dopo una delle infermiere venne da lei.
“Miss Bruce, ecco un bouquet per lei. È stato lasciato da una signora pochi istanti fa.”
Miss Bruce aprì gli occhi e vide un delizioso bouquet di piselli odorosi rosa e bianchi – un bouquet che all’improvviso le rammentò un grande giardino antico in cui aveva trascorso molte ore felici nell’estate dell’anno precedente, e una fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli ricci con la quale aveva avuto molte interessanti chiacchierate. Una nuova luce sostituì la languida malinconia dei suoi occhi mentre apriva e leggeva il bigliettino che l’accompagnava.
Con la grafia piuttosto incerta di Janie, il biglietto recitava:

Mia carissima Miss Edna,
desideravo tanto venire a farvi visita, ma non ho potuto perché papà ha così tanti affari. Sapete bene che gli affari sono una cosa molto importante e bisogna occuparsene. Sono uscita e mi sono messa a piangere dietro i piselli odorosi quando ho saputo di non poter venire. Ma la zia Magsie ha detto di mandarvi dei fiori, e ho pensato anch’io che poteva essere una cosa carina. Li ho raccolti tutti dai miei piselli odorosi. La mamma ne ha molti di più e i suoi sono più grandi, ma volevo darvene alcuni dei miei perché vi voglio così tanto bene, Miss Edna. Mi dispiace tanto che state male e desidero che guarite subito. Prego per voi ogni notte e molte volte durante il giorno quando ci penso. Avete promesso di venire a trovarmi quest’estate e che dovete guarire e mantenere la vostra promessa, perché mi avete detto che le persone dovrebbero sempre mantenere una promessa, e lo dice anche la zia Magsie. Addio con tanto affetto.
Distinti saluti, Miss Janie Miller

Miss Edna si asciugò le lacrime dagli occhi con le sottili dita bianche. Ma sorrideva. Qualcosa di lieto e felice si mosse nel suo cuore. A qualcuno importava – qualcuno le voleva bene – qualcuno aveva pensato a lei. Doveva guarire, voleva guarire, ritornare al lavoro e far visita di nuovo a quel caro antico giardino. Dopotutto, la vita valeva la pena di essere vissuta – valeva la pena lottare. L’espressione disperata e indifferente scomparve dal suo volto.
Pochi giorni dopo lo stesso medico stava parlando della stessa paziente.
“Sta migliorando. A breve starà meglio che mai. È stato come se si fosse risvegliata all’improvviso, interessandosi di nuovo alla vita. E questo era tutto ciò che serviva. Era uno di quei casi in cui tutto dipende dai pazienti stessi.”
Prima della fine dell’estate, Miss Edna aveva mantenuto la sua promessa trascorrendo due settimane a Hexham prima di ritornare al lavoro. Lei e Janie passarono momenti meravigliosi insieme, e Janie venne a sapere con gioia e stupore il ruolo che i suoi fiori avevano avuto nella guarigione di Miss Edna.
“Oh” disse allegramente, “sono così felice di avere una zia Magsie. L’ha suggerito lei, sapete. È una cosa splendida avere una zia Magsie in una famiglia.”
“Sì. Ed è una cosa splendida avere anche una bambina dal cuore cordiale e amorevole in una famiglia” disse Miss Edna baciandola.





Nella verde gola delle lupe, di Lucrezia Pei e Ornella Soncini

Moscabianca edizioni porta in libreria Nella verde gola delle lupe, di Lucrezia Pei e Ornella Soncini.
Nel cuore unità matriarcale ribelle. Ana è una delle Lupe sfuggite alla Grande Ingiustizia e non conosce il monddella selva, dove secoli prima una giovane santa-cacciatrice sconfisse un grande lupo nero, vive isolata una como fuori dal verde. Finché un giorno s’imbatte in una delle misteriose creature che ogni estate le sue compagne incontrano per diventare madri...
Lucrezia Pei e Ornella Soncini tessono una storia dagli echi distopici su identità, corpi e confini ambientata in un Cinquecento alternativo, tra bestie con voci umane e un’oscura piaga che rende le bambine più preziose dell’oro. L'accompagnano le tavole allegoriche di Marco Calvi, meravigliose come antichi arazzi, che dipanano le molte verità della Storia.

Cattedrale vi propone l’incipit della novella, per gentile concessione dell’editore

Verno

Ana

Nel profondo della grotta è sempre notte, e fuori dal cerchio della torcia le altre sembrano fatte di ombra. Ana si allunga verso l’altare: la Piccola Speranza somiglia a una lucertolina stecchita dai primi freddi di verno.
Sotto la luce, ava Orfemia lava il corpicino mormorando sdentata nella lingua del Cielo, accomoda braccia e gambe malcresciute nel sudario di lepre. Quando l’ha ben stretto nelle pelli, accende un fascio di erbe spargendo nell’aria un fumo che pizzica. Nella nebbia odorosa un’ombra si stacca dalle altre: Fede si avvicina all’altare e apre il libro ordinario per guidarle nei canti delle morte. Ana le guarda la faccia tutta bianca e pieghe come quelle delle ave. Le ha svegliate piangendo prima delle preghiere del mattino: «Mia sorella…»
«Tua nonna ti rimprovera se non preghi, Ana…» Il fiato di Mamma le solletica l’orecchio.
Nonna se ne sta discosta dall’altare, insieme ad ava Esaltazia. Le torce non la illuminano sotto il
cappuccio di lupo, ma anche nell’ombrosità i suoi occhi vedono tutto – specialmente le cose malfatte.
Ana apre la bocca, ma le parole faticano a uscire. Vicino a lei Luce canta chiara e sicura. La fa sempre arrabbiare quando le dice che si impratichirà col tempo.
Come fa a ricordarsi parole che non capisce?
Sua sorella tiene gli occhi su Fede che fa piovere lacrime sul libro ordinario. Sembra che il Cielo voglia punirla: prima Nostradonna le ha preso la madre, ora la sorella. Finiti i canti, quelle che hanno tenuto la Piccola Speranza al seno si asciugano le guance a vicenda, carezzano gentili la testa di Fede.
Il latte di una è il latte di tutte.
(Nonna, però, lo diceva che andava sprecato: «Dovevamo dare la bambina al bosco quando è morta Carità».)
Ana la guarda fare parole con le altre ave. Coi manti dei cappucci di lupo calati in testa, sembrano tre bestie spaventose, ritte sulle zampe di dietro. Si avvicina cauta mentre Mamma e Luce confortano Fede.
«La terra è troppo dura per seppellirla, Anna», fa ava Esaltazia.
«Non svernerà fino addentro febbraio. L’ho letto negli spicchi di cipolla», biascica ava Orfemia.
«La conserveremo qui», decide Nonna. «Finché non comincia a puzzare».
Si accorgono di lei, e basta uno sguardo duro per cacciarla via.

 La Piccola Speranza riposa tranquilla sull’altare. Nonna ha messo all’opera le acchiappatopi più abili, e vapori di erbe si levano tutt’attorno dai cocci per conservarla profumata più a lungo.
Fede però piange lo stesso. Ana la sente quando si sveglia di notte per spargere acqua.
«È perché aveva solo una sorella?» chiede a Luce una sera mentre riparano una rete, sedute sotto la stessa pelliccia in camera grande. Fede lavora a faccia bassa in un cantuccio, tutta da sola.
Nonna è in cucina che bada alla Vecchia Speranza, ava Esalzatia sta dietro alle bambine e ava Orfemia vigila in chiesa sulle lettrici. Finché la campanella non le chiama per l’ultima preghiera possono fare parole sotto il sussurro delle fiamme, tra i sospiri stanchi della fine del giorno. Sua sorella però non risponde niente.
Mentre aspetta, Ana cerca le teste scure di Magdala e Maddalena tra le altre bambine attorno al fuoco. Hanno gli stessi capelli di Mamma e Luce, ma tutti disordinati per le gran corse di prima.
«Se ve lo meritate, vi racconto di santa Agilulfa che ammansì il lupo», quieta mielata ava Esaltazia.
Anche lei vorrebbe correre, uscire di grotta, fosse solo con zia Susanna e zia Giuditta a cogliere neve pulita dalla grande buca, non importa se tornano stanche e bruciate di freddo. Ma Nonna dice che bisogna farsi scoiattoli: raccogliere provviste col caldo e stare al sicuro col gelo. Però gli scoiattoli escono anche di verno e non fanno cestini, corde e reti, non cuciono le pelli e rassettano la cucina, non badano al
fuoco e alle malate tra il puzzo di sego per tutto il giorno…
Candida si avvicina agitando la coda e posa il muso sopra la pancia bella grossa di sua sorella.
«Luce?»
Lei gratta le orecchie della cagna. «Ha perduto anche sua madre. Tu non saresti triste?»
Ana pensa a madre Carità verso la fine, tutta ingrossata come una vescica gonfia di fiato, con le braccia e le gambe grandi come tronchi. Però a Mamma non può capitare. La sua pancia è toccata dal Cielo.
«Anche noi abbiamo perduto una sorella, e nessuna ci ha trattato così bene».
«Nonna l’ha data al bosco. Non è lo stesso». Luce sospira. «Si deve sempre essere tristi quando muore una creatura».
«Nonna dice che quest’anno siamo state benedette». Dopo tanto tempo di magra quelle dello scorso vere sono ancora tutte vive, tranne la Piccola Speranza, e le pance crescono bene sotto le tuniche.
«Le prossime possono nascere malfatte. O morire le madri».
Ana alza gli occhi sulla faccia piena di ombre di Luce. «Tu prometti che non muori». Subito si sente sciocca: nessuno decide da sé quando arriva il tempo, né il pullo caduto dal nido né la Vecchia Speranza che avrà più di cent’anni.
Luce si allunga a toglierle un ragnetto dai capelli.
«Sarà come vorrà Nostradonna».
Le sorride, ma appena finito il lavoro la lascia per sedersi con Fede.
Sembrano loro due quelle uscite dalla stessa pancia: magre, scure e tristi. Fanno parole, ma ora si sente solo la voce di ava Esaltazia che riempie tutta la camera grande: «Al tempo in cui si viveva fuori dal verde, Nostradonna visitò in sogno santa Agilulfa e le disse che in queste zone si aggirava un grave pericolo…» Si ferma un momento per fare effetto, come ogni volta. «Un grande lupo nero come il male, affamato di donne. Così la buona fanciulla venne nella nostra selva».
Ad Ana sembra di vederla, santa Agilulfa. Cammina tra gli alberi come chi vive da tutta la vita nel
bosco, è giovane e ha i capelli del colore del fuoco. Arriva al ciglio del loro fosso, dove la terra si cambia in gradoni, e sul fondo vede la loro grotta. Nello spiazzo davanti al portale mancano il pollaio e la meridiana. L’eremo è vuoto come una bocca spalancata, senza lingua e denti. Da buio e silenzio emerge un’oscurità pelosa con due file di zanne sul muso allungato e gli stessi occhi obliqui che la fissano ciechi dai cappucci delle ave.
«La bestia spaventosa si alzò sulle zampe di dietro…» – ed è davvero alta, più di madre Santina che
è la più alta tra tutte loro. Ana gli vede la pancia gonfia come prossima al parto – «… e spalancò le fauci: “Se te ne andrai senza farmi danno ti rivelerò un grande segreto”. Ma la fanciulla era retta e savia: “Non mi tenterai”».
(«Che segreto?» domandava Ana quando era più piccola delle gemine.
(«A noi non è dato sapere», la seccava ava Esaltazia.)
Agilulfa alza una mano benedicente. Il lupo perde la ferocia e si avvicina mansueto, le posa il capo sul grembo come un cane dopo le botte.
«La buona santa lo legò con la cintura. Poi chiamò la gente, che accorse con bastoni e coltelli: gli levarono la pelle per donarla alla Cacciatrice gentile e ne bruciarono le carni. Infine, nella grotta della bestia costruirono il nostro eremo…»
Nonna suona la campanella. È ora di compieta.
«Il resto la prossima volta. A pregare».

Scarso a matita, di Daniela Gambaro

Nutrimenti porta in libreria Verdissime, di Daniela Gambaro, che – dopo la vittoria del Premio Campiello Opera Prima – con la sua voce intima, misurata e ironica, torna con una raccolta di racconti sull’infanzia e sull’adolescenza. Verdi, per età o per indole. Bambine, ragazze e donne raccontate nei loro desideri più naturali: trovare una madre dopo la morte di quella biologica e manifestarlo con un singhiozzo difficile da debellare; guadagnare qualche soldo per comprare una torta o un fermaglio pieno di perline; cercare una buona maestra o un buon maestro, confrontarsi con la perdita di un fratellino e fare in modo che il lutto non sotterri anche te; rincontrare da adolescente il mito di quando si era bambine; scoprire il sesso e la libertà che possono essere nascosti in un comunissimo cassetto dei calzini; raggiungere una vita migliore dopo un lungo viaggio attraversando paesi e frontiere impervie. Irrorate di linfa giovane, con le chiome perennemente spettinate, le protagoniste di questi racconti hanno subito qualche potatura indesiderata, e i loro tronchi sono attorcigliati e storti, ma trovano un proprio modo di crescere e farsi spazio tra alberi più forti e regolari, una maniera d’esistere, d’amare e di non darsi per vinte.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Scarso a matita
di Daniela Gambaro

Il professore di Educazione artistica è un pezzo di pane. Durante le sue ore gli allievi fanno un baccano del diavolo, ma lui è come se non sentisse, come se non vedesse le palle di carta che volano compatte da banco a banco, né le mani allungate dai maschi sulle ragazze o i ceffoni elargiti in risposta, che da vicino erompono come scoppi ma che alla cattedra arrivano smorzati, già inghiottiti dal caos generale; il professore spiega assorto come si abbozza un paesaggio, come si traccia un’ombra, o come si riproduce una prospettiva.
Paolo aspetta le ore di Educazione artistica tutta la settimana e la mattina del venerdì, quando prepara la valigetta con tutti i materiali dentro – pastelli, cere, album e pennelli – si sente euforico come se stesse andando in vacanza. Cammina verso scuola e ipotizza quale tecnica si studierà oggi: chiaroscuro, acquerello, tempera, graffito su cera o collage. Lucia, accanto a lui, lo guarda e dice: Dopo le medie, se non fai l’artistico, sei matto. I capelli le oscillano intorno al viso e i riflessi ramati brillano come piccole barche che prendono il largo.
Questa pratica di alzarsi dal banco mentre il professore è voltato, e di dare una strizzata a questo o a quel seno, per Paolo è una crudeltà senza senso ma non può sottrarsi perché gli altri maschi gli direbbero che è come Simone, che se ne sta immobile al banco, con lo sguardo perso, lo sbadiglio continuo, e che tutti chiamano scemo, o finocchio, o entrambe le cose (impossibile scordare quella volta in cui Simone fu preso per mani e piedi e lanciato di faccia tra le ortiche e del modo furibondo in cui si grattò per interminabili minuti).
Le ragazze della classe sono tutte più alte e forti dei maschi, e gli schiaffi che tirano sono potenti e ben assestati. Qualcuna gioca a pallavolo e quando parte il ceffone si sente l’aria scappare, ritrarsi ai lati, come risucchiata. È difficile sfuggire a quei colpi la cui precisione è dettata dalla rabbia e dall’indignazione, e Paolo nemmeno ci prova, sta ben fermo per essere sicuro che la mano gli centri la faccia. Gli sembra l’unico modo per chiedere scusa: la guancia che brucia un po’ consola.
Oggi si studia il ritratto. Dopo la spiegazione teorica, interrotta di continuo da risate, battute e scherzi vari, il professore sistema sulla cattedra un poster della Gioconda e chiede agli alunni di riprodurla, solo a matita per il momento, massima concentrazione sul tratto. Quindi comincia a fare su e giù per la classe controllando i lavori: come vengono impostati, come devono essere corretti, dove vanno potenziati. Alle sue spalle succede di tutto: le mani dei maschi arrivano da dietro, toccano, soppesano, stringono; quelle delle femmine scattano, puniscono, si ritraggono. Il professore procede ignaro. La sua fiducia nei confronti degli studenti è incrollabile. Tale è l’amore che prova per la sua materia che non può proprio avvertire il disinteresse generale, l’approccio gigionesco, l’utilizzo becero di quelle ore, più libere delle altre, per fare chiasso e importunare. Al disegno di Paolo il professore dà un’occhiata pregna di aspettative, poi se ne allontana fiero, ricaricato. Paolo osserva Lucia al banco di fianco. Cos’è la Gioconda rispetto a lei?
Anche Lucia lo fissa: che peccato, sembra dicano i suoi occhi, che peccato che non si possa godere tranquilli di quello che quest’uomo ha da insegnare. E che peccato anche per te, Paolo, per quello che sei costretto a fare.
Tutti i venerdì va consegnato il compito assegnato la settimana precedente: il professore lo esamina, lo commenta davanti alla classe e dà un voto. Se qualcuno, per negligenza o dimenticanza, non porta il lavoro a scuola, riceve uno scarso, che viene scritto a matita sul registro e che potrà trasformarsi in un indelebile scarso a penna il venerdì successivo, se l’alunno non avrà rimediato consegnando l’arretrato. Visto il tempo a disposizione, lo scarso a penna non viene di solito mai assegnato. L’alunno moroso consegna il compito e il professore cancella con la gomma lo scarso a matita: usando il profilo della mano sposta dal registro i trucioli arricciati, e quasi con sollievo assegna il nuovo voto riparatorio.
Bravo, dice con soddisfazione, hai recuperato il tuo scarso a matita.
Il compito da fare per oggi era il ritratto di un compagno di classe e Paolo ha disegnato Lucia. Non è stato difficile: via via che il viso di lei si andava delineando sul foglio, ogni sfumatura si aggiungeva alla precedente da sola, come una carezza. Il professore, nel vederlo, si illumina come se avesse trovato la ragione del suo stesso esistere e mostra il lavoro alla classe: Guardate che bel ritratto ha fatto il vostro compagno! Lo fa senza considerare che gli animi dei suoi allievi ignoreranno completamente la finezza della fattura e la delicatezza del tratto e si concentreranno invece, maliziosamente, sulla stranezza della scelta di Paolo. Finora nessun maschio ha mai disegnato una femmina, né alcuna femmina ha mai raffigurato un maschio, in nessuna delle esercitazioni proposte nel corso di quei due anni di scuola media. Paolo si rende conto solo ora della propria avventatezza. Per il desiderio di compiacere Lucia ha sottovalutato il terremoto di ottusi pensieri che si poteva scatenare.
Amore, uccello, passerina, anello, matrimonio.
Queste le parole più ricorrenti nella presa in giro che lo aspetta durante l’intervallo. Un cerchio si stringe attorno a lui e dimenticando per qualche minuto le ragazze, i compagni si concentrano sul pittore innamorato, rendendolo l’oggetto primario dello scherno quotidiano. Nelle loro parole non c’è però soltanto la giocosità un po’ volgare della presa in giro, c’è il risentimento per quel segreto tenuto nascosto, il sospetto che lui si senta sopra e oltre il gruppo. Solo ora si spiegano perché Paolo in classe non abbia mai sfiorato Lucia, neanche per sbaglio. E come avrebbe potuto? Non sarebbero bastati tutti gli schiaffi del mondo per mettere a tacere il senso di colpa, né a calmare il cuore che già scalpita confuso ogni volta che la vede spuntare dal portone di casa sua. Si sarebbe fermato, il cuore, atterrito e pieno di vergogna.
E adesso una bella dichiarazione, mettiti in ginocchio e facci sentire! Lo incalzano. Paolo fa segno di no, che hanno capito male, e più fa così e più loro, sghignazzando, lo spingono in massa verso il banco di lei. I piedi puntati sul pavimento scolorito, avanza suo malgrado, ignobile zimbello tra gli echi del coretto: Matrimonio! Matrimonio! Paolo si divincola, trattenendo malamente l’insofferenza, che esalta ancor di più i compagni. Lucia, che stava parlando con le amiche, si volta e lo osserva avvicinarsi sotto i colpi ritmati di quelle spinte ostinate, di quelle mani che come al solito non vedono l’ora di toccare e umiliare. Gli offre i suoi occhi come appiglio. Paolo, grato, ci si aggrappa: Diglielo tu che ci conosciamo da una vita! Che i nostri genitori ci mettevano nella culla insieme! Che siamo cresciuti così!
Lucia fissa severa il gruppo che aspetta col fiato sospeso, sperando in una smentita.
Siamo amici da quando eravamo piccoli, conferma invece tra la delusione generale. Siamo come fratelli, ribadisce tra il chiassoso ritrarsi ai banchi dei ragazzi orfani di burle.
Paolo le lancia uno sguardo di gratitudine, che lei ricambia appena, tornando svelta ai discorsi con le amiche, qualcosa sui programmi per il pomeriggio. Paolo si chiede se quella fretta, quella specie di noncuranza, sia un modo per dirgli che è arrabbiata. Forse non voleva essere coinvolta, e forse l’ha delusa quella sua richiesta di aiuto, fatta per uscire da una situazione che avrebbe potuto districare da solo.
Il pensiero lo tormenta per tutta la settimana, anche se Lucia si comporta come sempre, come se avesse dimenticato; mentre vanno e tornano da scuola, lei parla dell’interrogazione di Geografia, o dell’incidente nell’ora di ginnastica in cui una compagna, per difendersi dai soliti palpeggiamenti maschili, ha schiaffeggiato un ragazzo e l’ha mandato in ospedale con la cornea graffiata. Paolo ascolta distratto, cercando il coraggio di indagare quel dubbio che non lo abbandona nemmeno di notte, quando le palpebre sono chiuse sugli occhi: ha sbagliato? cosa avrebbe dovuto fare?
Oggi è di nuovo venerdì, giorno di Educazione artistica. Paolo e Lucia camminano un po’ discosti, a ritmo sostenuto per rimediare al ritardo mattutino. Obbligati a sostare, mentre osservano il disco rosso del semaforo dall’altro lato della strada, Lucia confida che ieri non è riuscita a finire il suo paesaggio a tecnica libera. Paolo si offre di cederle il suo per evitarle uno scarso a matita. Ha fatto un graffito su cera che raffigura quello che si vede dalla finestra: l’argine del canale, la gente che passeggia, e intorno i campi rivoltati dal passaggio dell’aratro, con qualche passero in cerca di cibo. Ma Lucia scuote la testa, non vuole il suo disegno.
Ieri sono stata al parco del museo con Simone, dice. Voleva parlarmi.
Simone voleva parlarti? E di che?
Mi ha chiesto di mettermi con lui.
Paolo ride a quell’idea: E tu che gli hai detto?
Gli ho detto che si può fare.
Lui la fissa. Lei gli sorride. Forse è uno scherzo.
Non guardarmi così, spiega lei. Tutte in classe hanno baciato, resto solo io. E poi Simone è uno dei pochi gentili, a parte te…A parte te, cosa? A parte te che sei un amico? Che sarai sempre un amico? O forse – no, no, ti prego – che vuoi essere solo un amico.
Aprire la cartellina dei materiali, frugare e tirare fuori la lametta da barba, quella che in classe si usa per il graffito su cera. Ecco, guarda bene Lucia, adesso con questa io gratto la cera color rosa, quella della pelle, e continuo finché non arrivo alla cera bianca, l’osso. Ma non preoccuparti, quello rosso che vedi non è sangue, è solo un fiume di cera color carminio. Questo Paolo vorrebbe fare, invece di camminare muto, troppo veloce, con lei che ora lo rincorre a piccoli passi: Aspetta, ho la gonna stretta, non ti sto dietro!
Per tutta la mattina Paolo evita di guardare verso il banco di Simone, per paura di confrontarsi con quello che lui stesso avrebbe potuto essere e non è, ma alla fine lo fa. Si volta e lo studia: la fissità del suo sguardo è svanita (era reale?), la sua postura non è così femminea come tutti hanno sempre pensato (l’avranno immaginata?) e il suo starsene da solo, su un banchetto un po’ appartato rispetto a quelli dei maschi raccolti vicini, non gli pare più quel chiaro indice di stupidità che gli è finora sembrato.
Quando arriva l’ora di disegno e il professore lo chiama alla cattedra, Simone si alza e consegna il suo foglio. Ha disegnato a matita due figure appena abbozzate nel parco del museo, con i platani e gli abeti, ma nel disegno i due soggetti, maschio e femmina, sono indistinguibili, le panchine sembrano sassi e i sassi paiono fiori. Il professore sospira e gli dà un sufficiente motivato soprattutto dalla pietà verso la sua indiscutibile assenza di talento. Eppure Paolo pensa che Simone, con quelle due figurine, per il solo fatto di averle immaginate insieme e di averle fatte convergere al museo, di aver proposto quello che ha proposto ieri pomeriggio, avrebbe meritato un buono, anzi un ottimo, e che nessun altro voto, per quanto alto, varrà mai un centesimo di quel suo sufficiente. Vieni tu, Paolo? Lo chiama il professore, con occhi premurosi e bendisposti. Paolo spinge il suo paesaggio in fondo alla cartellina, e risponde: Non ce l’ho il compito. È la prima volta in due anni che manca una consegna e il professore sbatte le ciglia su e giù, incredulo, e spera fino all’ultimo in una scusa ineccepibile, in un inevitabile contrattempo. Ma Paolo non parla, non si giustifica. Come spiegherebbe che un voto lui non lo vuole, che non lo merita?
Devo metterti uno scarso a matita, lo sai? dice il professore, con il tono amareggiato di chi sta per infliggere una pena controvoglia. Paolo annuisce risoluto e Lucia lo guarda, incuriosita da quel comportamento, mentre il professore indugia combattuto: vorrebbe approfondire, ma la vista di un banco sollevato e fatto ricadere di schianto in fondo all’aula lo distoglie dal suo proposito. Cosa fate? Il banco viene rimesso al suo posto. Il professore sospira, cerca il rigo giusto sul registro e scrive lo scarso a matita, poi passa a esaminare i disegni degli altri studenti, ma lo fa con prostrazione, senza la minima speranza di trovare una scintilla, un incentivo, una ricompensa. E in quell’arrancare stanco, in quell’assenza di orizzonti, il suo udito è come se pian piano andasse perdendo l’impermeabilità al rumore che nasceva dalla sua predisposizione amorosa verso la materia e i ragazzi. Improvvisamente comincia a sentire i bisbigli, le risate, il clangore dei banchi sbattuti, l’esplosione degli schiaffi. Basta! Tuona al colmo della sopportazione, atterrito dalla scoperta di una realtà finora ignota. Cos’è oggi questa confusione? Non si può lavorare con questo rumore!
L’aula si fa silenziosa in modo inedito, sorpreso. Le mani abbandonano i seni delle compagne e tornano vicine ai corpi di appartenenza, gli schiaffi a mezz’aria fanno dietrofront. Il professore posa con gravità una formella per il chiaroscuro sulla cattedra, i ragazzi lo fissano per un attimo poi frugano negli zaini alla ricerca dei materiali e si mettono a disegnare. Si sentono i temperini che macinano e le punte delle matite che grattano sulla carta.
Paolo si guarda intorno incredulo: le teste chine sui fogli, i gomiti posati sui banchi, le dita allacciate alle matite. È miracolo o realtà? Durerà o scomparirà nel giro di una mattinata? I suoi occhi corrono verso quelli di Lucia, per commentare quello che sta succedendo, quello che loro, loro due insieme, hanno sempre sperato che sarebbe accaduto. Ma Lucia è intenta a tracciare una linea, assorta e quieta, e quando il suo viso si solleva dal foglio, increspandosi in un sorriso, lo sguardo che cerca non è il suo.

Il mondo di Novellare, di Maurizio Silvestri

ExÒrma Editore porta in libreria Viaggetti in Emilia, di Paolo Marlini e Maurizio Silvestri.
Si parte dalla Val Trebbia, da nord, con l’idea di oscillare tra l’appennino e il Po percorrendo strade periferiche. Ci si allontana dalla Via Emilia cercando un diverso baricentro: da una parte “sotto la strada”, il mondo che sale verso l’appennino, dall’altra “sopra la strada”, quello della pianura che dilaga verso il grande fiume.
La geografia dei corsi d’acqua e delle valli ci guida alla ricerca dell’osteria perduta, piacevolmente trascinati da un’onda anomala di luoghi, persone comuni e personaggi noti, scrittori, poeti, trattorie, cibi, libri, vini, film, canzoni, montagne, fiumi…

Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.

Il mondo di Novellare
di Maurizio Silvestri


Grandi risaie e filari di pioppi, e all’orizzonte montagne maestose, non si può dire che sia il paradiso ma è il paese dove son nato. La gente chiusa e un poco scontrosa ma quando ama sa amare davvero.
È l’attacco de Il paese, una delle canzoni immancabili a ogni concerto dei Nomadi, e il paese in questione naturalmente è Novellara, che ha dato i natali allo storico complesso (negli anni Sessanta si chiamavano così i gruppi musicali) e ad Augusto Daolio, suo leader e voce iconica. Le grandi risaie non ci sono più, Augusto è scomparso prematuramente trent’anni fa, ma a Novellara il suo ricordo è sempre vivissimo, anche tra coloro che, quando lui cantava, non erano ancora nati. Dall’anno successivo alla sua scomparsa, a Novellara si svolge annualmente il 18 febbraio, la sua data di nascita, il Nomadincontro, una due giorni di mostre e concerti in ricordo di Augusto che richiama in paese un grande pubblico da tutta Italia.
Quando ho detto all’autista che sarei sceso a Novellara, scherzando mi ha fatto una raccomandazione: “A Novellara puoi fare tutto, tranne parlar male dei Nomadi”. E non tanto perché attualmente la sindaca della città è Elena Carletti, figlia di Beppe, fondatore dei Nomadi insieme ad Augusto, quanto perché sono l’orgoglio cittadino, un simbolo di cui il paese va molto fiero. Se si trovasse in America, Novellara probabilmente sarebbe stata già ribattezzata “Nomadland”.
La fermata è di fronte alla stazione della ferrovia, di fianco c’è il più classico dei bar anonimi, dietro il bancone del quale un ragazzo cinese serve caffè e birrette a gente impegnata alle macchinette slot. Novellara è un municipio multietnico, considerato una capitale della solidarietà e dell’integrazione. Qui c’è la più grande comunità sikh d’Italia, che è la forza lavoro alla base del parmigiano reggiano ma anche di molte altre industrie. Mimetizzato nella zona artigianale c’è il Gurdwara, il tempio più importante della religione sikh in Italia, il secondo in Europa. Oltre cinquemila gli abituali frequentatori. A Novellara circa il quindici per cento dei residenti regolari sono stranieri extracomunitari. È come se in Italia ne abitassero regolarmente nove milioni, cioè il triplo di quanti sono attualmente registrati.
Sotto la pensilina c’è una ragazza seduta sulla panchina, indossa jeans chiari e occhiali scuri. Ha gli auricolari, forse non ascolta i Nomadi o forse sì, ma è certo che quando Augusto è morto lei non era ancora nata; però alla mia domanda risponde pronta, certo che lo sa dov’è il cimitero e mi indica la direzione dalla parte opposta del paese.
Novellara è una di quelle città assolutamente di fiume senza essere sul fiume, il Po si respira nell’aria, si intravede sui morbidi colori pastello delle sue case che si incendiano al sole del tramonto, si intuisce nella sinfonia dei suoi portici eleganti e austeri, te lo immagini scorrere lì in mezzo, tra la torre della Rocca gonzaghesca e il campanile della Collegiata.
Per scoprire dove si trova la tomba di Augusto Daolio è sufficiente domandare alla prima signora che esce dal cimitero. Lo chiedo timidamente con il timore di essere inopportuno, ma lei sfodera un sorriso materno e non ci pensa due volte a tornare indietro e accompagnarmi davanti a quello che tutto sembra meno che un sepolcro. “Eccolo qui il nostro Augusto”, mi dice salutandomi, perché Augusto Daolio è il figlio di tutte le mamme di Novellara, il fratello maggiore a cui chiedere consiglio o l’amico di ogni scorribanda.
In effetti non sarebbe stato difficile trovarla da solo. Intorno alla tomba, che si trova ai piedi di un biancospino dai rami ancora spogli, ci sono una quantità impressionante di ex voto e di omaggi lasciati dai fan provenienti da ogni parte d’Italia che frequentano assiduamente questo luogo. Sigarette, targhe, sciarpe, bandiere, fiori, biglietti, libri, quaderni, fotografie, quadretti, magliette, lumini, cappelli, taccuini, fogli sparsi, una chitarra, peluche, decine di poesie, versi e semplici pensieri incisi su targhe di ogni tipo sono il segno della perenne devozione e del massimo rispetto di cui gode Augusto Daolio.
Tra la selva di oggetti e l’edera che coprono la pietra tombale, si intravedono scolpiti due mani, un sole, un flauto, il serpente e la frase “Amico mio benedetta sia la pietra che testimonia la nostra breve amicizia”. Incise su una stele di fianco le date 18.2.1947 e 7.10.1992. Me la posso solo immaginare, quel giorno di ottobre, la folla immensa che era qui a salutarlo. Amo visitare i cimiteri in cui sono sepolti gli artisti e ne no visitati molti, ma questo è uno dei più incredibili e vitali sepolcri che abbia mai visto. Augusto Daolio è ricordato per la sua voce unica e caleidoscopica, ma è stato un artista completo oltre che libero, ha lasciato una grande quantità di poesie, disegni, pregevoli dipinti, alcuni dei quali sono conservati nella sala consiliare del comune, intitolata a lui.
Felice della visita non mi resta che tornare verso il centro passando davanti al gigantesco murale che il municipio gli ha dedicato di fronte alla sua abitazione. È ritratto in una posa pensosa con la sua folta barba grigia e gli occhiali tondi, tra le dita l’inseparabile sigaretta.
Ma più di piazza Unità, più dei portici, più della tomba di Augusto, il luogo magnetico di Novellara è la Rocca. La sua torre con le campane e l’orologio si staglia alta e rassicurante come un faro. È il retaggio del ducato dei Gonzaga che qui hanno governato più di due secoli, è una delle meraviglie delle piccole corti padane che hanno creato modelli culturali con un secolo di anticipo rispetto al Rinascimento.
Dentro la rocca di Novellara ci puoi passare un giorno intero, è uno spazio vivo. C’è la sede del comune, la biblioteca, il museo dei Gonzaga con una preziosa collezione di vasi farmaceutici, c’è un grande prato con un pozzo e tre enormi ippocastani su un lato, un set perfetto per concerti e spettacoli ma anche solo per stare seduti su una panchina e godersi il brusio della vita che scorre incurante di te. Infine a impreziosire il tutto c’è il teatro, dedicato a Franco Tagliavini, cantante lirico novellarese del secolo scorso. È nel foyer che incontro casualmente Maria Grazia, con la quale non ci siamo mai visti ma è come se fossimo vecchi amici. Occhiali tondi e capelli castani che le cadono sulle spalle, ha un’allegria contagiosa e sprigiona energia. Mi guida all’interno della bomboniera da duecentosettantacinque posti e tre ordini, inaugurata nel 1858 sulle rovine dell’antico teatro di corte gonzaghesco, progettato a immagine del teatro Valli di Reggio. Ora è deserto, ci accoglie solo il profumo avvolgente dei preziosi velluti.
Maria Grazia lavora per Etoile, centro teatrale di Reggio Emilia responsabile di Teatro Lab, il progetto di formazione teatrale organizzato in collaborazione con il comune di Novellara e scuole superiori di tutta Italia. Quest’anno le scuole partecipanti vengono dalla Puglia, da Trieste, da Cuneo e quattrocento studenti rimangono in paese per tre giorni. Mentre siamo lì entra un gruppo di ragazzi dai volti belli e radiosi. Vengono da Olanda, Portogallo e Italia, devono preparare l’allestimento per lo spettacolo che faranno domani. Maria Grazia è di origini pugliesi, è laureata in Storia dell’arte a Perugia, ha una passione coltivata da sempre per il teatro, vive in Emilia da quindici anni. Lavora molto nelle scuole e mi racconta che c’è una forte integrazione tra i ragazzi italiani e gli stranieri. “A Perugia mi sentivo forestiera, qui invece è stato subito diverso. La città di Reggio Emilia è molto aperta ma l’integrazione è il valore aggiunto anche in centri piccoli come Novellara”.
Per provare a capire qualcosa di più di questo singolare comune che ha fatto della multiculturalità una bandiera, mi faccio accompagnare al bar La Fenice, sulla provinciale tra Novellara e Bagnolo in Piano. È un bar come un altro, con i giornali sportivi e la radio locale in sottofondo che dispensa musica pop, frequentato per una pausa pranzo veloce o un aperitivo. Lo gestisce Youssef Salmi, originario di Rabat, in Marocco, arrivato a Novellara nel 1990 dove ha vissuto i primi anni da clandestino. Incollato sul bancone c’è un foglio con una piccola lista di “Parole belle”, tratte da un vecchio libro delle scuole elementari degli anni Sessanta: “Permesso? Grazie, Prego, Scusa, Buongiorno”. Di fianco una cassetta per le donazioni all’Associazione Augusto per la vita, che da decenni raccoglie fondi per la ricerca oncologica. Sulla bacheca alle mie spalle, un foglio che recita “Uno straniero per amico”, scritto dallo stesso Youssef.
“Quando sono arrivato ce l’ho messa tutta per inserirmi attraverso il lavoro e lo sport. Ho trovato subito un’occupazione come operaio e mi sono inserito in fretta, ma negli anni Novanta la società italiana era più ricca ed è stato più facile”. È riuscito a inserirsi così bene che in dieci anni è passato dalla condizione di clandestino a essere eletto nel consiglio comunale di Novellara con la carica di assessore alle politiche giovanili. Volto pulito, capelli neri, Youssef parla veloce un italiano molto corretto e ti guarda dritto negli occhi. Continua a lavorare mentre racconta la sua esperienza, ha una battuta sempre pronta per tutti ed è molto solerte nel servizio. Ha due figli, un maschio e una femmina, che oggi hanno più di vent’anni e sono i figli dell’integrazione ideale, ma non è stato facile.
“Mia figlia è fidanzata con un ragazzo italiano, ma ho dovuto scontrarmi con la mia famiglia d’origine per farle accettare questa unione. Secondo i miei connazionali avrei anche sbagliato l’educazione dei miei figli. Parte della mia famiglia non ha mai accettato nemmeno che io sposassi una donna cattolica”.
Sullo sfondo la vicenda di Saman, la ragazza pakistana di Novellara uccisa dai famigliari perché rifiutava un matrimonio combinato. Secondo Youssef fino al 2016 c’era un sistema di integrazione che poteva contare su un fiorente associazionismo, si organizzavano feste multietniche, eventi sportivi e culturali che stimolavano la conoscenza reciproca. Come assessore ha fatto anche realizzare un cortometraggio sul problema delle relazioni miste tra ragazzi di religione diversa. Sull’integrazione ha una sua teoria. “Non la pronuncio questa parola, perché riguarda due corpi estranei. Tolgo la “g” di ghetto e parlo invece di interazione, cioè convivenza senza spogliarsi della propria cultura. Vorrei scrivere un libro dal titolo Vocabolario di convivese”. Non abbiamo servizi sociali articolati per gli immigrati. Durante la crisi economica degli ultimi dieci anni non sono state create le condizioni per far restare tutti gli immigrati arrivati negli anni, costringendo molti stranieri che avevano già fatto un percorso di inserimento ad andarsene. Tutti quelli che non avevano una rete di protezione se ne sono andati con il semplice permesso di soggiorno e quelli che sono rimasti comunque non sono trattati come prima. Adesso si ricomincia da zero con i nuovi immigrati”.
Oggi è uscito dalla politica ma il suo impegno sociale continua attraverso il lavoro. “Non sono pessimista, ma realista, l’Italia oggi non è pronta ad assorbire un nuovo flusso migratorio, non ci sono le condizioni. Gli africani e gli asiatici ora dicono: come, bloccano le navi di immigrati di colore che vengono da guerre ma accolgono a braccia aperte gli ucraini che vengono ugualmente da una guerra? C’è un peso e due misure!”. La parola d’ordine deve essere apertura. Si deve lavorare dentro le scuole, è lì che c’è la dimensione internazionale: ragazzi da tutto il mondo e di ogni colore. E mi saluta con un proverbio africano: “Se vuoi arrivare subito vai da solo. Se vuoi andare lontano vai accompagnato”.

Elegia alla signora Nodier, di Silvio d'Arzo

Elegia alla signora Nodier
di Silvio d'Arzo

È stato detto che tutti noi, almeno per un certo periodo, viviamo una vita non propriamente nostra: finche ´, ad un tratto, arriva il «nostro giorno», qualcosa come una seconda nascita, e solo allora ciascuno di noi avrà la sua inconfondibile vita.
Io ho avuto modo di riscontrarlo in più d’uno. Ma, quanto alla signora Nodier, proprietaria dei campi confinanti coi nostri, mi sembra che essa abbia sempre vissuto la sua.
Caso abbastanza singolare, la signorina Nodier aveva raggiunto i venticinque, i trent’anni ed anche più, senza sposarsi: non solo, ma senza esser mai stata nemmeno richiesta. Eppure era distinta e quasi ricca, avendo terre, un po’ qua e un po’ la `, per quasi tutta la provincia. Inoltre, chi l’ha conosciuta ancor giovane ricorda ancora come la sua espressione tendesse continuamente alla bellezza, senza però mai raggiungerla: che è poi la sola maniera di esser belle sul serio e per sempre. La trovavano, insomma, sprezzante. Ma nessuno aveva abbastanza spirito da ammetterlo. Si trovava più comodo dire «che non c’era femminilità in lei », « che non aveva senso della vita» (la frase più usata era questa) ed altre tristi sciocchezze.
Verso i trenta, come accade in provincia, non si parlò più di lei. E cosı ` per cinque, sei anni. Ma, proprio sul punto che stava per raggiungere quell’età in cui delle signorine distinte, con relazioni, e di ricca famiglia si va vagamente dicendo che «fanno del bene», la città all’improvviso riseppe che si sposava col generale B.D.
La cosa lì per lì apparve strana (in provincia appaiono strane le cose anche più ovvie): benché veramente nessuno riuscisse a spiegarsene il perché. Ma quando qualche tempo più tardi, si ebbe modo di conoscere il generale B.D., di vederlo a pranzo o alla caccia, la cosa fu trovata sin troppo naturale. E, a parte l’assurdità, era perfino il caso di pensare che lei si fosse compor tata per anni ed anni a quel modo, sfidando con inalterabile calma, disprezzo, ironia e l’ombra di un malinconico avvenire, nella certezza di quell’avvenimento.
Sul momento il generale deluse. Poi, ad un tratto, si riconobbe che era elegante: leggermente convenzionale, ma elegante: e che la sua eleganza consisteva appunto nel fatto che la si era notata solo dopo qualche tempo e per caso. Poi, di lì a poco, si ammise, addirittura che era un uomo di spirito. «Ah, ma è un uomo di spirito... Però ha dello spirito, conveniamone...»si sorprendevano a dire come se qualcuno li avesse contraddetti e la cosa avesse particolare importanza.
Il generale, in realtà, non aveva in nessuna maniera l’aspetto e i modi di un militare: e lo stesso suo passato era il meno militare che si potesse ragionevolmente supporre. Era stato un po’ qua, un po’ là per il mondo, con incarichi fra burocratici e politici, e alle campagne aveva partecipato solo raramente e alla lontana; il suo nome non era mai stato legato a una giornata: in compenso, però, non aveva mai commesso errori o sciocchezze, e non era mai apparso ridicolo: quella noncurante ironia, con cui riguardava la sua carriera, ed in fondo ogni sua azione, glielo avevano sempre impedito. Con tutto questo, però, generali dei più conosciuti, dai nomi familiari ai giornali, gli chiedevano spesso consigli.
Egli giunse ai primi di ottobre. E per qualche giorno lo si vide girare un po’ dappertutto, come un turista discreto, con al fianco una cagna scozzese. Lei, spesso, non c’era. Ma nessuno notò come questa mancanza fosse, a suo modo, qualcosa di più della stessa presenza. Un pomeriggio, poi, qualcuno lo vide a caccia nella campagna vicina, in fustagno olio cotto e stivaloni rossicci: e la cagna era sempre al suo fianco. Alla fine del mese si celebrò il matrimonio e noi non lo ve demmo mai più.

Erano andati ad abitare, come seppi più tardi (confesso che feci di tutto per non perderli troppo a lungo di vista), in una sua vecchia villa di campagna, dove, nel periodo della caccia, egli era solito ritirarsi ogni anno. Ma noi non ne sapemmo più niente. E del resto nemmeno quelli del paese avrebbero potuto dire granché: sempre ammesso che un paese possa trovare particolare interesse per una coppia in fondo così ragionevole e composta, e senza la minima stravaganza. Solo un diario, mi sembra, avrebbe potuto dire qualcosa. Ma i diari, in cui le pause abbiano un significato maggiore anche delle stesse parole, si vanno facendo ogni giorno più rari e io giurerei che, a quei tempi, la signora Nodier non ci avesse ancora pensato.
Egli partiva, ogni mattina, per la caccia; e lei lo guardava, ogni mattina, dai vetri della stanza allontanarsi fra i campi con al fianco la cagna scozzese. Qualche volta essa apriva ridendo la finestra per richiamarlo e ricordargli qualcosa. Qualche altra, che lui si era dimenticato, ad esempio, il coltello– cosa che accadeva abbastanza spesso– essa glielo mostrava di là, agitando il braccio, e la cagna, di colpo, accorreva a prenderlo in bocca. Non più di questo, a ogni modo: perchè tutto questo, e non più, poterono vedere ogni giorno servitù e giardiniere.
Più tardi seppi anche che essi non fecero mai il minimo progetto sull’avvenire, e ben di rado si chiesero che cosa il giorno dopo avrebbe loro portato. In autunno la nebbia saliva presto dal fiume. Per le strade di campagna, già dure del primo gelo, non si vedeva quasi nessuno. A volte, l’unico segno di vita era il volo di un’anitra selvatica: tal’altra, verso il crepuscolo, il bambino colla capra che ritornava pigramente alla casa. Naturale perciò che, nei tardi pomeriggi o verso sera, le conversazioni fossero lunghe e frequenti. Tutte rivolte al passato, però. Ed essa potè dirsi veramente sicura di lui, solo quando fu riuscita a conquistare tutto il suo passato.
Una volta, tra l’altro– era venuta a un tratto a mancare la luce per via di un temporale che si abbatteva sui prati e le serve correvano qua e là per gli anditi in cerca di candelieri–,essa gli chiese dei suoi vecchi amori. E la domanda fu così naturale, che egli non s’accorse nemmeno della sua naturalezza. Quella sera parlarono a lungo; e quando la serva bussò per portare la luce fu pregata di tornare più tardi.
Con tutto questo, però, ella non diventò mai un personaggio: né cadde mai nella leggenda, così facile soprattutto in paese. Fu sempre viva, e comprensiva, e di spirito. Così di spirito, anzi, che capiva perfettamente come in questo loro atteggiamento ci fosse anche egoismo, e che era ragionevole quindi l’ostilità e l’antipatia della gente.
Ma due giornate la rimisero, per qualche tempo almeno, nel mondo, benchè poi, di lì a poco, essa riuscisse a farle completamente «sue»: quando il generale, colla sua cagna, partì per la guerra in colonia, e quando, sette mesi più tardi, gliene fu comunicata la morte.
Fu, mi ricordo, in settembre, e i giornali ne diedero l’annunzio in due righe.
Ma noi lo sapemmo solo molto più tardi e per caso, per via di una vocale sbagliata.

Fu (qualche volta la banalità è inevitabile) una cosa terribile.
Tanto più che lei la trovava assolutamente ingiusta, mostruosa, come una cosa che esca dal suo ordine naturale. «Ah, Dio mio» le accadeva di dire torcendo il fazzoletto od i guanti, «perchè a me, proprio a me?Ma per gli altri è diverso... Ma sì, sì, è diverso, diverso. Senza nemmeno confronto» aggiungeva, poi, con impazienza, come in risposta ad un’interna obiezione. «Non dimenticano, forse? Non dimenticano ogni giorno di più?» E faceva nomi; e pensava perfino che in questo soprattutto s’assomigliassero gli uomini. Né mancarono momenti in cui fu convinta d’essere perseguitata da qualche cosa di più intelligente e personale dello stesso destino. Provò a far del male e poi del bene, ma l’uno e l’altro con soddisfazioni ben povere: e se alla fine decise di attenersi al bene soltanto, fu perché, dopotutto, la cosa le era molto più facile.
E, questo, per alcuni mesi di seguito. Fino, cioè, a mezzo marzo. Allora la si vide di nuovo, se pur raramente, uscire in paese: alle volte faceva delle piccole compere inutili, alle volte parlava brevemente con qualcuno. E fu proprio in quei tempi che prese a tenere il suo diario. «Ah, ma io non son più la stessa. Sono di ventata così buona» scriveva qualche giorno più tardi «che riesco a guardare di buon animo anche le felicità degli altri a due passi da me. E non me ne offendo più; è mai possibile? Non sento nemmeno più invidia...» E poi, quattro pagine dopo: «Comincio a preoccuparmi realmente. Ma non so proprio che farci: sarei disposta a dare metà di me stessa...» e via di seguito.
Essa era, sì, disposta a dare metà di se stessa: ma non certa mente ad accettare l’altra metà che la gente necessariamente le avrebbe voluto dare in cambio. E dovette accorgersi presto che il dono non sarebbe mai stato accettato, senza accettare, a sua volta, il compenso. Ora, questo era chiederle troppo. Era superiore, realmente, alle sue forze.
Gli stessi contadini, inoltre, non avevano più l’antico rispetto, ma la guardavano con una certa espressione come se lei avesse oscure colpe. Quella, ad esempio, di sorridere di certe cose e problemi sui quali essi, invece, giuravano: di essere serena, lontana e di avere in fondo, per loro, non più che una materna ironia: quella, forse, della sua stessa presenza. «Il generale sì che ha capito» li sentiva quasi pensare. «Si è accorto che non ci saranno più tempi per lui... Se ne è andato in tempo... Ha capito... Ma lei, lei cosa aspetta? »
Fu allora che si ridusse a vivere quasi senza interruzione nella villa: e, poichè vi era nel parco una vecchia cappella che ebbe cura di far restaurare, non usciva nemmeno per andarsene in chiesa. Questa specie di isola fu, in definitiva, la sua salvezza: e, a poco a poco, la morte del generale si andò tramutando via via in una sopportabile infelicità: in una, neanch’io so, eterna sera. A una nuova scossa ella non avrebbe, forse, resistito: ma, certamente, non avrebbe resistito allo spegnersi di quella infelicità. Ella se l’era venuta costruendo giorno per giorno, come altri, giorno per giorno, si va costruendo la sua illusione: era, a modo suo, un’illusione, verso il passato anziché verso l’avvenire: le era assolutamente necessaria: era, insomma, se stessa. Nella villa, adesso, ogni cosa le parlava del generale e di tutto quello che, ai suoi giorni, egli aveva significato per lei: vecchi tempi e serenità e cortesie ed altro ancora. Ella aveva però un’inarrivabile cura nell’evitare ogni cosa od incontro che rendesse troppo recente e vivace quei ricordi: perchè allora il dolore avrebbe preso di nuovo il posto di quella sua dolce infelicità, e questo non lo voleva in nessun modo. Rifiutò, per esempio, di andare ad assistere a una cerimonia in memoria di lui, e non lesse nemmeno un discorso che ne ricordava la morte. Un giorno, sì, sarebbero diventati ricordi e lei sarebbe venuta di mano in mano riscoprendoli: ma ora erano soltanto vita, era il giorno appena passato: e la vita era troppo forte per lei.
Quando seppe, però, che in provincia era venuta per qualche giorno una signora di cui molti anni prima si era parlato come di un vecchio amore del generale, lei non mancò di invitarla. E dovette essere una singolarissima scena: molto fine, molto seria, e al tempo stesso con quel po’ di ridicolo che rende umana ogni cosa. Anche quel giorno parlarono a lungo: parlarono fino a quando, di là dalla vetrata, il giardino si tinse in certo senso di viola. Allora, quasi sorpresa, l’altra signora si alzò. Ora, dai vetri, ella poteva scorgere, oltre i campi arati e i vigneti, lo scorrere pigro del fiume.
«Ah, le sue vecchie anitre...» ricordò a un tratto guardando la campagna già squallida. E lo disse sorridendo, come alle volte, guardando un vecchio ritratto infantile si accenna ai piccoli difetti di una persona a cui si vuol bene.
«Perché, ci andava anche ‘allora’?» domandò la signora Nodier, lei pure accostandosi ai vetri. E la guardò sorridendo: essa era, in fondo, un po’ lui.
«Sì, ma un pessimo cacciatore, allora» disse l’altra, ridendo.
«Non tutti lo volevano in compagnia... Trovavano, perfino, delle scuse. Una volta gli diedero addirittura un appuntamento sbagliato... Fortuna che lui non è mai venuto a saperlo.»
«Non mel’ha mai confessato» pensò ad alta voce, dopo aver ricordato un poco, la signora Nodier. «Ma credo di averlo sempre sospettato ugualmente.» Ed aggiunse come a se stessa: «Lo faceva troppo seriamente per far bene».
«Era quasi solenne» completò l’altra.
«È vero, è vero» assentì la signora Nodier, quasi grata di quel termine che rendeva più viva l’immagine di lui. «Ma sì, è vero, solenne.»
E cominciarono, tutte e due, a parlare dei difetti di lui: ed, appunto per questo, sembrava che non di un morto si parlasse, e nemmeno di un vivo, ma di una mite, comprensiva presenza che avesse dell’uno e dell’altro. Nè si accorgevano nemmeno che c’erano di mezzo anni, la morte ed, inoltre, altre cose più tristi. La signora Nodier considerò quella giornata una delle più importanti e più «sue».
Ne conobbe una ancor più importante.
Due anni dopo, una sera, mentre la serva più vecchia stava stirando, si sentì a un tratto suonare al cancello. Dai vetri, contro il fanale del giardino, si vedevano fiocchi di neve, e, a tratti, anche pioggia. Era inverno avanzato. «Vacci tu, Agata» si rivolse allora alla giovane, dopo aver dato un’occhiata alla finestra e riabbassando gli occhi sul lavoro.
Dovette alzarli, però, un momento più tardi. Sebbene ansimante per la corsa attraverso il giardino fino al cancello, e avesse i piedi bagnati e qualche fiocco di neve sui capelli, Agata apparve tutta sorridente, concitata, e parlava con qualcuno che era ancora fuori dell’uscio. Poi entrò un militare. Poi un cane. La vecchia s’accorse subito che era la vecchia cagna di lui.
Il militare, dal canto suo, si guardava intorno impacciato. Lui non sapeva niente di niente. Sapeva soltanto che, per quella vecchia cagna che non aveva mai visto, affidatagli da un altro soldato, era stato costretto a fare un lunghissimo giro: che era stanco: pioveva: e aveva i panni bagnati. Trovava tutto ben strano.
Lo trovò, ancora più strano quando la donna, dopo più di mezz’ora, scese a dirgli che la signora lo ringraziava moltissimo e che il suo era stato certo un gran gesto, ma che quella sera non poteva riceverlo: «non poteva in nessun modo riceverlo», e lo accompagnò di nuovo fino al cancello.
«Giovanna» disse poi, quando fu di ritorno, «vado a portare la cagna nella casa dei contadini.» «Con questo tempo?» alzò il capo l’altra stupita.
«Non può dormir qui vicino al fuoco? E ‘lei’, per vederla, dovrà an dare fin là?»
«No... non in casa. Non qui» disse brevemente la giovane accostandosi colla cagna alla porta. Fuori si vedevano ancora neve e pioggia, e un lembo di siepe bagnata. Cercò qualcosa da mettersi in testa per ripararsi dall’acqua, ma non trovò che un vecchio giornale. Prese quello ed uscì. Dal primo gradino si volse ancora alla vecchia. «Sta’ attenta che lei ti chiamerà per darti un biglietto.»
Ma per tutto il giorno dopo la signora Nodier non le consegnò alcun biglietto. E nemmeno il giorno seguente. Essa se ne stette quasi sempre in camera sua, e l’unica volta che scese fu per domandare qualcosa al giardiniere. Ma il terzo giorno il biglietto era sul tavolo: indirizzato a Quintilio, suo vecchio contadino, al paese di lei.
Io potei leggerlo solo molti anni più tardi.

Caro Quintilio, non vorrete, dopo tanto tempo che non ci vediamo, farmi un ultimo favore? Senza dubbio è un po’ grande, ma l’ultimo.
Di questo potete esser certo. Vi prego soprattutto di non chiedermi nulla, se vorrete venire: di non domandarmi due volte di spiegarmi, come se non aveste capito bene la prima. Più strana vi sembrerà la cosa, e meglio avrete capito. Ma che stupida so no! Voi mi fate il favore (me lo farete, Quintilio?) e sono io che pongo delle condizioni. Davvero che non mi riconosco più. Tanti saluti amichevoli, e tanti saluti alla vecchia Maria, ai vecchi Tromp e alla vecchia Felicita. Tutti vecchi, ormai: co m’è triste!

E c’era anche un poscritto: «Non negatemi questo favore, Quintilio. Se, per una qualsiasi ragione, credete di non poterlo più fare a me, fatelo almeno alla ragazza a cui una volta avete in segnato a pescare...»
Il contadino rispose puntualmente all’invito.
Una settimana dopo mi trovai a passare di lì e non mancai di farle una visita.
Come sempre, essa mi accolse nel migliore dei modi ed io ebbi perfino l’impressione che le mie parole potessero anche non annoiarla. Mi ricordo che a un certo punto ella si alzò e mi lasciò, per qualche attimo, solo: ed io ebbi modo di guardarmi attorno per la stanza. Prima, in sua presenza, mi sarebbe sembrato offensivo. Potei vedere, così, quadri, ritratti, e qualche strano mobile e qualche vecchia rivista, e infinite altre cose di buon gusto: e tutto aveva un’aria come di chi a un tratto, di propria volontà, si sia, senza morire, arrestato. Da ultimo, poiché in parte nascosta dal l’ombra di una tenda, vidi una cagna scozzese imbalsamata. E anche questo, ricordo, con un’aria di mite, comprensiva presenza: qualcosa assai più di un ricordo, e quasi una pallida vita. Poi ella rientrò di nuovo, scusandosi, e riprendemmo a parlare. Di tanto in tanto prestavo orecchio ai rumori della strada e tenevo gli occhi su lei: per strano che sembri, ella sembrava qua si felice.
È una storia vera.

Fino all'ultima donnola, di Hiroko Oyamada

Neri Pozza porta in libreria Donnole in soffitta, di Hiroko Oyamada, tradotto dal giapponese da Gianluca Coci.
Con affilata perspicacia emotiva e ironia grottesca, l’autrice si dedica a una riflessione sorprendente su fertilità, maternità e paternità, mascolinità e vita coniugale nel Giappone contemporaneo. Accompagnandosi ad autrici come Sayaka Murata e Mieko Kawakami, Oyamada porta avanti, con la sua lingua «surreale e ipnotica» (The New York Times), l’indagine sull’animo umano astraendosi dalla realtà palpabile. E la verità diventa una vasca piena di pesci tropicali, che inghiottono dubbi, emozioni, certezze.

Cattedrale vi propone l’estratto di uno dei racconti contenuti nel libro, per gentile concessione dell’editore.

Fino all’ultima donnola
di Hiroko Oyamada

Quest’anno non abbiamo trascorso le festività di Capodanno dai genitori di mia moglie. «Non ti preoccupare, va bene così» mi aveva detto lei facendo spallucce. «Ci andrò da sola non appena ne avrò il tempo. Dopotutto non è così lontano». È abituata di tanto in tanto a far visita ai suoi senza di me. E io, da parte mia, non vedo la necessità di incontrare a tutti i costi i miei suoceri e la famiglia di mia cognata. «Ricorderò a mia madre di regalare qualche soldino ai ragazzi anche da parte nostra, come ogni anno» aveva aggiunto. «Sì, certo» le avevo risposto io. Dopo le feste, quando ero già rientrato al lavoro, ho ricevuto una cartolina di auguri dal mio amico Saiki, con l’immagine dell’animale del segno zodiacale cinese di quest’anno stampata sul davanti. Conteneva un breve messaggio, scritto a penna con grafia approssimativa:

Ho traslocato e cambiato indirizzo. Questi ultimi giorni sono stati a dir poco frenetici. A proposito, mi sono sposato… Lei ha trentadue anni.

Era nello stile di Saiki menzionare un dettaglio come l’età. Trentadue: significava che la moglie aveva una decina d’anni meno di lui. A guardare l’indirizzo, si era trasferito a circa un’ora di auto dalla città, ai piedi delle alture del Chūgoku, in un’area rurale dove molti si dedicavano almeno in parte all’agricoltura e all’allevamento. Per lui, sposarsi e andare a stare in un luogo del genere deve essere stato un cambiamento epocale.
Mi è venuto subito spontaneo pensare che meritasse una telefonata.
«Ehi, come va? Che piacere sentirti!» ha risposto quasi urlando, non appena ha riconosciuto la mia voce. «Mi è arrivata da poco la tua cartolina e ho pensato di chiamarti… Congratulazioni, sei un uomo sposato adesso!»
«Sì, è incredibile, ora è tutto diverso. E qui, la casa… non ti dico che casino, abbiamo dovuto fare una ristrutturazione completa, aveva più di cinquant’anni».
Saiki si esprimeva in modo strano, sembrava un po’ alticcio. «Scusa se non mi sono fatto sentire per un bel pezzo e ti ho scritto la notizia in due parole, su quella cartolina. Ti giuro che ero presissimo, non ho avuto un attimo… Ai colleghi di lavoro sono riuscito a dirlo, ma non ho avuto modo di farlo sapere né a te né agli altri amici più stretti… Scusa, scusa». Saiki svolgeva una professione che lo teneva impegnato soprattutto in casa. Parlava come se avesse la lingua impastata, e alle sue spalle si sentiva un gran baccano.
«Ehi, c’è per caso una festa da quelle parti?»
«No, no, è solo che qui siamo in campagna…
La gente ama riunirsi, scambiare due chiacchiere in allegria… Per chi è nato e cresciuto in città è tutto molto strano, io non ci ho ancora fatto l’abitudine. I vicini si fanno vivi quasi tutte le sere e ti invitano a bere insieme… Sembra che non abbiano nient’altro da fare, come se avessero tutti una marea di tempo libero a disposizione. È incredibile, non ci capisco più niente, mi sento perso».
Non ci capisco più niente, mi sento perso… Eppure Saiki pareva decisamente su di giri. Doveva aver bevuto un bel po’.
«Eh, però adesso sei un uomo sposato, tutti vorranno festeggiarti… Sei contento, no? Il matrimonio è un evento lieto».
«Be’, sì. Sposarsi per la prima volta, dopo i quaranta… Non lo so, mi sento anche un po’ strano. In modo positivo, per carità. È tutto così nuovo e diverso… E tu, come te la passi? Tua moglie sta bene?»
«Sì, tutto bene, grazie». In realtà, mia moglie non stava passando un bel periodo: il lavoro era stancante e, soprattutto, si sentiva depressa per via della gravidanza che tardava ad arrivare. «Comunque, festa o non festa, non ti trattengo oltre. Volevo solo salutarti e farti le mie congratulazioni. Ciao, un abbraccio».
Alcune settimane prima, di ritorno a casa dal lavoro, mia moglie mi era venuta incontro sull’uscio quasi di corsa, portando con sé una dolce fragranza di riso appena cotto.
«Ehi, ciao!»
«Ciao…» mi aveva salutato lei, con uno sguardo stranamente serio.
«Tutto bene?» Di riflesso avevo corrugato le sopracciglia, non avendo idea di cosa fosse successo. «Uhm…»
Che aveva? Di solito mia moglie non ama tergiversare, va subito dritta al sodo. Indossava ancora il tailleur da lavoro, perciò doveva essere rientrata anche lei da poco. A ben vedere, stringeva in mano un oggetto tondeggiante, un piccolo recipiente in plastica bianca semitrasparente, forse di quattro o cinque centimetri di diametro. Sembrava uno di quei contenitori muniti di coperchio per creme o unguenti dermatologici.
«Senti, tu… ultimamente… lo stai facendo da solo?»
«Lo sto facendo da solo? Ma di che parli?» avevo ribattuto, fissando mia moglie perplesso.
«Come dire? Quella cosa…» aveva risposto lei senza chiarire nulla, abbassando lo sguardo verso il contenitore di plastica che aveva in mano. Dopodiché aveva disteso le labbra in un vago sorriso e aggiunto: «Insomma… tu ogni tanto, con la mano…» Ero scioccato, mi fissava con un’espressione assurda.
«Con la mano? Ah… mi stai chiedendo se mi tocco da solo?»
«Sì…» aveva annuito lei, finalmente meno tesa.
Ero confuso, non sapevo cosa rispondere. Di colpo avevo sentito le guance avvampare, dovevano essere diventate paonazze.
«No… Da quando ci siamo sposati non l’ho mai fatto».
Era la pura verità. Non sono mica un teenager o un ventenne… A quarant’anni e passa, con una moglie coetanea che tiene sotto stretto controllo calendari, temperatura basale e periodo di ovulazione, masturbarmi è l’ultimo dei miei pensieri. A questa età, credo che neanche Saiki lo faccia più, e parliamo di uno che ha avuto coraggio ed energia sufficienti per sposare una donna di circa dieci anni più giovane. «Ma perché me lo stai chiedendo?»
«No, scusa, non fraintendermi, non ti sto accusando di niente…»
Tutt’a un tratto dal suo volto era svanita ogni traccia di sorriso. Aveva la fronte unta, ma le guance erano ancora bene incipriate. Poi avevo diretto lo sguardo in basso e mi ero accorto che aveva una gamba nuda e l’altra ancora infilata nei collant. Doveva essere davvero impaziente di parlarmi.
«Si può sapere che sta succedendo?»
«Scusa se te lo chiedo, ma…» Ora si esprimeva con maggiore scioltezza, come se avesse messo da parte la timidezza. «Vorrei che tu eiaculassi qui dentro». Intanto aveva sollevato il contenitore di plastica, mostrandomelo.
«Dici sul serio?» avevo replicato, restando a bocca aperta. «Vuoi che faccia un test? Per vedere se…»
«Uhm» aveva risposto mia moglie annuendo, un nuovo accenno di sorriso sulle labbra. «Se riesco a portare il campione alla ginecologa entro le prossime ventiquattr’ore, faranno subito il test. Ci sono passata tornando dall’ufficio…»
Avevo preso in consegna il contenitore, intiepidito dal calore della sua mano, e avevo chiesto: «Vuoi che lo faccia stasera stessa?»
«No, forse è meglio domani mattina, così gli spermatozoi saranno più freschi… Ma se preferisci farlo adesso, va bene».
Ecco perché era così in fervente attesa del mio ritorno. Conservo una discreta virilità, ma non sono più giovane come una volta e non mi si drizza a comando. Forse mia moglie desiderava accertarsi che fossi efficiente e ben disposto. Non potevo darle torto, visto che avevamo sprecato diversi giorni di piena fertilità a causa di mie evidenti défaillance, con somma delusione per entrambi.
«So che ti sto chiedendo molto… Stanotte dormirò di là, va bene? Così per te sarà meno complicato». «Guarda che per me fa lo stesso, non c’è niente di così complicato… Ah-ah-ah!»
Ero scoppiato a ridere da un momento all’altro, con assoluta naturalezza. Non avevo potuto farne a meno, si trattava di una risata vera, genuina. La situazione appariva decisamente bizzarra, e difatti anche mia moglie si era messa a ridere a più non posso. Era passato un secolo dall’ultima volta che avevamo riso così, insieme. Quella sera, prima di rientrare a casa, non avrei mai immaginato che potessimo lasciarci prendere da una tale ilarità.
Poi avevamo cenato e fatto il bagno. E quando mia moglie era pronta per andare a letto, mi aveva detto con un sorriso complice: «Mi raccomando, assicurati di centrare bene il contenitore…» Aveva atteso che annuissi e aveva aggiunto: «Fino all’ultima goccia!»
«Certo, non ti deluderò» avevo risposto scattando sull’attenti.

© 2024 Neri Pozza Editore, Vicenza

Novelle per un anno, di Dario De Marco

Wojtek porta in libreria Novelle per un anno, di Dario De Marco. Novelle per un anno è l'ambizioso progetto che Pirandello non riuscì a portare a termine: scrivere un racconto per ogni giorno dell'anno. Dove il maestro della short story italiana ha fallito, De Marco con faccia tosta pari solo alla superbia tenta l'impresa: un libro di 365 racconti (più uno per i bisestili). 9Lx1(365,25), appunto. Solo che da Pirandello è passato un secolo, in cui è successo di tutto: neoavanguardie e postmodernismo, serie TV e social network. Perciò le novelle sono diventate 9L: in una società liquida sono diventate gassose, si sono polverizzate, si sono rimpicciolite a livello subatomico, si sono disperse in mille forme, sono esplose nel nonsense.

Cattedrale vi propone alcuni dei testi contenuti nel libro con i commenti a margine dell’autore, per gentile concessione dell’editore.

Novelle per una settimana. Una breve antologia.
Con i commenti dell’autore
Dario De Marco

 Dario De Marco: I debiti principali con le figure pioniere del microracconto vengono pagati subito, e in maniera esplicita. Con il sudamericano Augusto Monterroso, autore del notissimo racconto del dinosauro («Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí») addirittura fin dalla quarta di copertina:

9 giugno. Il racconto più breve del mondo - remix

 Quando si addormentò, il dinosauro se n’era già andato.

 

(Anche se poi, con un ulteriore remix, il racconto che davvero compare il 9 giugno ha un finale leggermente diverso). Lydia Davis, meno famosa ma strabiliante scrittrice americana, i suoi libri sono composti quasi esclusivamente da racconti di poche righe, è omaggiata esplicitamente in una dedica; ma soprattutto a più riprese viene usato lo stilema del racconto che dialoga col titolo, che ne costituisce la prosecuzione o la risposta.

31 gennaio. La punta dell’iceberg

 prima o poi si stuferà, di essere trattata come cosa di poca importanza.

 (Aristide Maselli, da Afuorismi, inedito)

 

La sfida, la ‘contrainte’ dei 365 racconti brevi subisce varie parziali deroghe. Innanzitutto non sempre di racconti in senso stretto si tratta, perché a volte compaiono anche quelli che potrebbero essere definiti micro-saggi, o short nonfiction. Nella maggior parte dei casi sono riflessioni letterarie, o meta letterarie, attribuite a tal Aristide Maselli, scrittore immaginario (o forse no?) di opere bizzarre. Lo stesso Maselli è poi protagonista di una serie di episodi, ora misteriosi ora surreali.

 

26 marzo. Metafora

 

Una sera si fece offrire – o meglio lasciò che gli offrissimo – rectius evitò di opporsi quando provammo a pagare – il bere. Cosa insolita per lui, prodigo com'era, non meno che squattrinato. Non dicemmo niente, ma non ci sembrava vero. Ci guardavamo increduli, di sottecchi, tacitamente d'accordo nel non rompere la magia.

Un'oretta dopo, ci chiese di soprassalto: Cogliete la metafora? Afferrate il sottotesto? Intuite il valore intrinsecamente letterario del gesto? Non era distrazione, dunque. Noi rispondemmo che no, no; anche volendo (la generosità di dare spazio alla generosità altrui?, il maestro che si fa superare dagli allievi?, chi preferisce che abbiano ragione gli altri1?), non avremmo potuto fare altrimenti.

Non disse niente, continuò a camminare con un sorriso. Maselli odiava la metafora sopra ogni cosa.

 

Questa è un’altra caratteristica del libro. Che non è, per niente, un cosiddetto romanzo-di-racconti, né una raccolta di storie che hanno tutte lo stesso protagonista (Olive Kitteridge di Elizabeth Strout), o tutte la stessa ambientazione (Kalpa Imperial di Angelica Gorodischer). E però, ci sono situazioni, sfondi e personaggi che ritornano, come tirati da fili invisibili di storie parallele, di romanzi mancati che ogni tanto si riaffacciano in superficie. È più come se fossero delle rubriche, e qui viene evidentemente in rilievo la natura dell’autore, che faceva il giornalista. La più evidente tra queste “rubriche”, un appuntamento mensile nel calendario, addirittura numerata, è quella delle Facebook Stories: questo era il titolo che avevano in origine, il libro è stato scritto nel corso del 2016 (un racconto al giorno), quando il più anziano dei social network ancora poteva essere citato in maniera non ironica. Pubblicate nel 2024, hanno cambiato titolo.

 

26 novembre. C’era una volta Facebook / 16

 

Stanotte ho sognato che la polizia postale i chiudeva l’account, perché non avevo espresso la mia opinione sul referendum costituzionale e sullo scandaloso Nobel per la letteratura, sull’ultima controversia alimentare e sul santo Natale.

          Carina questa modalità che ha lei, di riportare tutto a una dimensione onirica, come se fosse dall’analista. Cmq non si preoccupi, era solo la realtà.

 

Il brano precedente è esemplificativo anche di un’altra forma ricorrente, quella del dialogo. Sono dialoghi senza virgolette né nomi, le voci sono differenziate solo con i diversi rientri, nella maggior parte dei casi non si capisce bene chi è che parla, a volte non lo capiscono neanche loro.

 

25 ottobre – Santa Daria

 

Infatti, i momenti in cui sono stato più male, non erano quelli in cui soffrivo di più, ma quelli in cui soffrivo di meno; in cui avevo quasi dimenticato. Ti senti quasi bene; ti senti quasi leggero; ti senti, quasi. Perché no? Poi ti torna in mente, riaffiora alla coscienza la mancanza, quel peso sullo stomaco che ti affonda; quel velo davanti agli occhi che non ti impedisce nulla, ma ti rende inutile tutto. E allora arriva la mazzata, il senso di colpa ti torce, finché esplodi in un pianto liberatorio: no, non sei un mostro, non l'hai dimenticata, puoi continuare a soffrire.

          Capisco. Quindi tu non volevi dimenticarla.

Per carità! Vede, il dolore... quel dolore, era tutto ciò che mi restava di lei, di mamma.

          Okay. E poi? Cos'è successo?

E poi, niente, è tornata a casa, come tutte le sere, mi ha dato il latte e io mi sono addormentato.

 

Qui emerge quella che è una delle caratteristiche principali della forma breve, una delle più cercate, almeno in questo libro: il colpo di scena finale. Diceva il famoso boxeur belga Julio Cortázar che il romanzo può permettersi di vincere ai punti, il racconto deve vincere per kappaò. E quale migliore modo di sferrare il gancio stordente, che il coup de theatre, il plot twist, il rovesciamento di prospettiva finale? Naturalmente, la forma breve si presta particolarmente bene a questo gioco, perché in poche pagine o righe non si può, non si deve spiegare molto, e quindi il lettore dà per scontati una serie di elementi: ad es., che il protagonista sia un essere umano, e invece alla fine si scopre che è un alieno, un animale, una macchina, Dio - o tutte queste cose insieme.

Altra caratteristica delle 9L, rispetto alle Novelle, sono i racconti a tema. Diversamente da Pirandello, il quale praticava l’indifferenza al calendario, rivendicava di non aver scritto manco un “racconto d’occasione”, qui i giorni contano, e le storie vengono influenzate dalle date; che siano festività, ricorrenze e altri momenti particolari dell’anno.

 

27 gennaio. Il giorno della memoria (Appunti per un film noioso)

 

- autunno 1941. Non siamo ad Auschwitz ma a Ferramonti, Calabria. Il campo di internamento è per professionisti e intellettuali ebrei; tra questi il berlinese Ernst Bernhard, junghiano eterodosso (costui si era improvvidamente rifugiato in Italia anni prima, dopo che l'Inghilterra gli aveva rifiutato il visto perché alla voce “professione” aveva scritto: “chirologo e astrologo”)

- Più che un lager sembra un kibbutz, scrive Bernhard alla moglie Dora: il comandante del campo è un militare colto e illuminato, poco incline alle idee e ai metodi del fascismo. (Fin qui la storia con la maiuscola, quella documentata, quella “tra virgolette” reale.)

- tra un torneo di scacchi, un orto sperimentale e un gruppo di lettura su psicanalisi e Euripide, Bernhard conquista il comandante e altri prigionieri all'arte divinatoria dell'I-Ching, il libro cinese dei mutamenti.

- mentre molti internati vanno via, verso i campi di sterminio della mitteleuropa, tra i nuovi arrivi c'è un poeta, Giovanni Fiorenza, molto giovane e quasi sconosciuto. Brillante e carismatico, costui organizza una serie di attività ancora più audaci (orchestrina klezmer, laboratorio teatrale), entrando nelle grazie di tutti, diventando amico e confidente di Bernhard. Solo il comandante del campo non gli dimostra l'usuale benevolenza, anzi inizia ad avere un atteggiamento ambiguo; fino a rimangiarsi delle promesse, fino a togliere ai prigionieri libertà ormai date per scontate.

- una memorabile notte infine, Fiorenza è selvaggiamente picchiato dalle guardie del campo. Si viene a sapere che il poeta era una spia, mandata dal regime a verificare, se non a provocare, il lassismo del comandante. Lo scopo: accusare il militare – sgradito al Duce – di favorire il dissenso, per poterlo rimuovere e punire. Ma il comandante aveva intuito tutto – grazie a un informatore personale, o alla predizione dell'I-Ching? – e aveva stretto la morsa della repressione, facendo finta di niente. Con lo stesso atto violento, infine, aveva smentito i sospetti di debolezza, e si era tolto la soddisfazione di punire l'infame – in quanto ebreo, non in quanto spia, e garantendosi perciò una posizione inattaccabile, anzi encomiabile.

- nell'ultima scena, Bernhard e il comandante giocano a scacchi; tutti e due fingono: stanno provando a far vincere l'avversario, ma senza fare errori evidenti, dando l'impressione di impegnarsi al meglio; e ridono.

- nell'ultima scena Bernhard, ormai anziano, sfogliando una vecchia copia dell'I-Ching trova una lettera con il timbro dell'Ovra e la data 27 gennaio 1941. Prima che possiamo leggerne il contenuto, la camera vira verso la finestra, che incornicia i tetti di Roma, e il Cupolone.

 - (così però è noioso. Inserire un altro elemento – una storia d'amore? Che noia)

 

Come si vede, appare qui un artificio formale, un artificio ricorrente, mutuato da Borges: quello della finta recensione, o in modo più largo del racconto di secondo livello. Nel libro compaiono descrizioni di opere d’arte, riassunti di documentari, soggetti di drammaturgie, schede libro, sinossi promozionali.

Infine - anche perché Novelle per una settimana deve constare di sette racconti - tocca dare conto di un’ultima peculiarità, dell’ennesima scappatoia: tra questi racconti brevi non tutti sono racconti, come si è detto, e non tutti sono brevi.

Chiudiamo con questo, che è una sorta di rovesciamento (sin dal titolo) di un leggendario pezzo di Kafka, e prende ispirazione da certe atmosfere di George Saunders (il fantastico e la fantascienza sono uno dei leitmotiv del libro, ma non si può mica dire tutto, oh).

 

 

14 maggio. Nella colonia civile

 

È a un certo punto del Luna Parco, tra la Galleria del Troppo Amore e il Tirassegno al Presepe Vivente, che ti trovi davanti alla Gamblet Machine, popolarmente detta il 'risica-rosica'. Forse è per noia, o forse è per dimostrare che non hai paura, non lo sai neanche tu, fatto sta che entri e ti siedi sulla sedia di legno.

Lo sai come funziona: inserisci l'indice in un buco, e a quel punto la macchina, in maniera assolutamente casuale, emette una piccola somma di denaro, oppure ti fa un po' male. Non è richiesta alcuna abilità specifica per questo gioco; il responso è del tutto random – sembra più un esperimento su topi da laboratorio, e forse lo è, pensi ridacchiando fra te e te.

D'altra parte la posta in palio è veramente nulla di che: i soldi che puoi vincere non sono certo quelli che ti svoltano la vita, e neanche la giornata; il danno che puoi ricevere consiste in una piccola puntura di spillo sul polpastrello, o in una lieve scossa elettrica, questo non te lo ricordi bene, o forse cambia di volta in volta.

A destra della sedia c'è un asse, sempre di legno scuro, stretto e lungo con due scanalature ai bordi; serve per poggiarci il braccio, e tu lo poggi. Tutta la macchina dà un'impressione complessiva di negozio d'antiquariato, o di bottega del sarto: legno, legno e qualche parte metallica, tipo la scatoletta quadrata che somiglia a una serratura, e che al centro ha il foro circolare per il dito. Appena lo introduci, accorgendoti che non entra per più di metà, qualcosa all'interno del buco gli si serra leggermente attorno. Non tanto da farti male, ma abbastanza da immobilizzarti l'indice (e di conseguenza bloccarti la mano sull'asse, e tutto il corpo sulla sedia). È giusto, pensi tu: se il pizzicotto, o quello che è, deve arrivarti nella parte morbida del dito, la macchina è fatta in modo da non fartelo girare liberamente, per non nuocerti più di quel che deve; è normale.

Poi, per qualche minuto, non succede proprio niente. I soldi sono un'eventualità che neppure prendi in considerazione; sei solo lì ad aspettare la scarica, insomma non doveva durare tanto, ti sembra di ricordare; c'è gente dietro di te in coda.

Il movimento della macchina parte come uno sferragliare nella parte posteriore, quella che non puoi vedere. Poi finalmente dei piccoli pannelli di legno, come delle mensolette, mosse da bracci in ferro battuto, avanzano dai lati e dal di sopra della serratura, fino a circondarti il braccio da tre lati (il quarto, quello inferiore, sta sempre poggiato sull'assicella con le scanalature ai lati, come delle fughe per far scorrere un liquido). Resta comunque un po' di spazio, puoi ancora vederti il braccio nudo. È giusto, pensi di nuovo tu, è normale: la parte in cui può arrivare la puntura è un po' più ampia, la macchinetta sta giocando con un banale effetto di suspense, senza dirti il dove, né il quando. Così il dolore, che è piccolo, si sa, s'ingigantisce un poco nell'attesa, nel dubbio. Solo, non capisci da che parte e in che modo può arrivarti l'offesa, dato che non ci sono punte o altri strumenti in vista.

Scattano rapidamente altri pannelli, più grossi, come schiene di librerie antiche; scorrono ai lati della sedia, sono intorno a te; sei come dentro uno sgabuzzino di legno, chiuso. È giusto, pensi ancora, è normale: così sai che il colpo può venirti inferto in qualsiasi punto; un po' ti scoccia, si era parlato di dito, ma dove se n'era parlato, questo è quello che sai, o meglio che ricordi, ma tu non sei mai stato famoso per la buona memoria. Un po' ti scoccia, un altro po' ti tranquillizza, che ti sia concessa questa forma di preavviso. Continui ad aspettare, la botta può arrivare da un momento all'altro, le monete non sono uscite, d'altra parte non hai notato alcuna fessura da cui potessero uscire, l'importante è che il dolore sia breve, questo almeno è assicurato.

Sennonché, cigolando e sferragliando in maniera sorda e pigra come quando sono spuntati fuori, i congegni si ritirano: prima le grosse dorsali esterne; poi le mensole attorno al braccio. Infine, quasi impercettibilmente, si allenta la presa sul dito. Puoi alzarti, quindi ti alzi. Ma, rifletti un attimo, denaro non ne vedi da nessuna parte, quindi non hai vinto, hai perso. È giusto, pensi sempre, è normale: come in quegli indovinelli col trucco, tipo quello della vasca e della goccia di sangue, dove la prima risposta che ti viene in mente, la più intuitiva, è quella sbagliata; anche qui, è apparecchiato tutto il teatrino della macchina, del dito e del braccio, così tu pensi che sia finito, che non succeda più niente, e la mazzata ti coglie quando meno te lo aspetti, mentre sei in piedi, mentre sei quasi uscito. Solo che, proprio come in uno di quegli indovinelli, anche se lo hai sentito decine di volte, quando te lo rifanno per l'ennesima, il trucco ti è passato di mente, e quindi devi cercare di fare il ragionamento da capo; così ora non hai idea, ti sembra vagamente di ricordare qualcosa, mentre avanzi lento sulla pedana di macadam, ma non sapresti dire se è qualcosa che è successo a te, o che ti hanno raccontato, e così cammini con prudenza, quasi barcollando, mentre aspetti di essere folgorato dalla sofferenza,
mentre continui a pensare è giusto, è normale.

Fine d'Agosto, di cesare Pavese

Il racconto è tratto da ‘Feria d’Agosto’, composto da tre parti: ‘Il mare’, ‘La città’, ‘La vigna’.
Fine d’Agosto fa parte della prima sessione della raccolta, in cui i racconti, pur essendo autonomi, in qualche modo compongono dei capitoli che si intersecano tra loro.

Fine d’Agosto
di Cesare Pavese

Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m'impresse su guance e labbra un'ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai. Clara attese, semivoltata, che riprendessi a cammina re. Quando alla svolta c'investí un'altra folata, Clara fece per soffermarsi, senza levare gli occhi, un'altra volta in attesa. Davanti al portone, mi chiese se volevo far luce o passeggiare ancora. Restai un poco fermo sul marciapiede – ascoltai il fruscío d'una foglia secca trascinata sull'asfalto – e dissi a Clara che salisse, l'avrei subito seguita.
Quando, dopo un quarto d'ora, giunsi di sopra, mi sedetti a fumare alla finestra fiutando il vento, e Clara mi chiese attraverso la porta della stanza se mi ero calmato. Le dissi che l'aspettavo e, un istante dopo, mi fu accanto nella stanza buia, si appoggiò contro la mia sedia e si godeva il tepore del vento senza parlare. In quell'estate eravamo quasi felici, non ricordo che avessimo mai litigato e passavamo lunghe ore accanto prima di addormentarci. Clara capisce tutto, e a quei tempi mi voleva bene; io ne volevo a lei e non c'era bisogno di dircelo. Eppure so adesso che le nostre disgrazie cominciarono quella notte.
Se Clara si fosse almeno irritata per la mia agitazione, e non mi avesse atteso con tanta docilità. Poteva chiedermi che cosa mi fosse preso, poteva tentare lei stessa d'indovinarlo, tanto piú che l'aveva intuito – ma non tacere, come fece, piena di comprensione. Io detesto la gente sicura di sé, e per la prima volta detestai Clara.
Quel turbine di vento notturno mi aveva, come succede, inaspettatamente riportato sotto la pelle e le narici una gioia remota, uno di quei nudi ricordi segreti come il nostro corpo, che gli sono si direbbe connaturati fin dall'infanzia. La spiaggia dove sono nato si popolava nell'estate di bagnanti e cuoceva sotto il sole. Erano tre, quattro mesi di una vita sempre inaspettata e diversa, agitata, scabrosa, come un viaggio o un trasloco. Le casette e le viuzze formicolavano di ragazzi, di famiglie, di donne seminude al punto che non mi parevano donne e si chiamavano le bagnanti. I ragazzi in vece avevano dei nomi come il mio. Facevo amicizia e li portavo in barca, o scappavo con loro nelle vigne. I ragazzi delle bagnanti volevano stare alla marina dal mattino alla sera: faticavo per condurli a giocare dietro i muriccioli, sui poggi, su per la montagna. Tra la montagna e il paese c'erano molte ville e giardini, e nei temporali di fine stagione le burrasche s'impregnavano di sentori vegetali e torridi che sapevano di fiori spiaccicati sui sassi.
Ora, Clara lo sa che le folate notturne mi ricordano quei giorni. E mi ammira – o mi ammirava – tanto, che sorride e tace quando vede questo ricordo sorprender mi. Se gliene parlo e faccio parte, quasi mi salta al collo. È per questo che non sa che quella notte mi accorsi di detestarla.
C'è qualcosa nei miei ricordi d'infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna – sia pure Clara. In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l'incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento non quello marino consueto, ma un'improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. Ma un uomo suppone una donna, la donna; un uomo conosce il corpo di una donna, un uomo deve stringere, carezza re, schiacciare una donna, una di quelle donne che hanno ballato, nere di sole, sotto i lampioni dei caffè davanti al mare. L'uomo e il ragazzo s'ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.
Clara, poveretta, mi volle bene quella notte come sempre. Forse me ne volle di piú, perché anche lei ha le sue malizie. Noi giochiamo qualche volta a rialzare fra noi il mistero, a intuire che ciascuno è per l'altro un estraneo, e cosí sfuggire alla monotonia. Ma ormai io non potevo piú perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne.

Indubbiamente, ferocemente, orribilmente, di Alberto Laiseca

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Wojtek Editore l’irriverente racconto ‘Indubbiamente, ferocemente, orribilmente’ di Alberto Laiseca, tratto dalla raccolta Grazie Chanchúbelo del 2022 tradotta da Loris Tassi.

Buone letture!


Indubbiamente, ferocemente, orribilmente
di Alberto Laiseca


Essendo venuto a sapere dell’arrogante commento di un
tale, che ha detto del libro di un amico (Violentando Girls
Scouts nella foresta): «Cosa ci possiamo aspettare da uno che
inizia il titolo della sua opera con un gerundio?», e volendo di
conseguenza dedicare, per puro dispotismo, questo mio rac-
conto ai nemici di sempre, ecco a voi non solo, inutile dirlo,
gerundi, ma anche avverbi, frasi germanizzate, virgole prima
del verbo, rime, iati e dissonanze nel più puro e classico stile
roman atonale, aggettivazione eccessiva, ecc. Aggettivando
eccessivamente.

L’autore


Essendo Parruccone iv Benefattore di Bavonia e, giungendo questa alla fine della sua quinta dinastia, decise despota lui di, dar una festicciola da urlo per, rendere omaggio agli ultimi fedeli del suo vacillante regno. Cominciando dalla posizione geografica e politica, un’opera classica molto, questa, essendo. Vivevano sulla cima di una cima. Mi spiego: c’eramente in quelle regioni un’enorme montagna formatasi durante l’Era Azoica, con una crepa sul cocuzzolo. Non era la suddetta, prodotto di attività vulcanica né di altra roba simile. Insomma, una cosa completamente insolita. Ma torniamo al Benefattore Parruccone iv, Padre della Patria Nuova e despota. Nel suo glorioso passato si atteggiava a armigero (aaa) affidandosi per la difesa e l’attacco a uno sparuto manipolo di macchine di ferro arrugginito. E allora furono 3-1-26-26- 91 amari, perché gli altri erano moltissimimente. Dopo aver perso 42 guerre mentesuccessive, spinto alla periferia dell’orgasmo e tuttavia ancora con l’21-3-3-5-12-12-15 4-18-9-20-20-15, il re Ancor di Tuttavia (o di Bavonia) decise di ignorare le, batoste orrisonanti e, proseguire per la sua strada, anche se più povero. Il nemico, vedendolo rimpicciolito una volta e pe’ sempre, decise di concedergli il certificato di cittadinanza dei definitivamente sconfitti: lo perdonarono, insomma, e non lo infastidirono più (loglilolo, naronodirono). In fede mia avean ragione: ormai solo potendo egli muovere animaletti corazzati di carta; ormai solamente spazzini lunghi e secchi obbedendogli incondizionatamente. «Non ammazzando!», andavano dicendo quegli atroci e altri satanassi. «Perché altrimenti giardino zoologico, finendo».
Dunque, Parruccone, iv Benefattore della quinta dinastia e la sua gente, cacciati a calci nel 3-21-12-15 da tutte le parti, trinceraronsi sulla cima della cima della montagna Senza Nome che dopo essere stata consacrata si trasformò in una specie di Lhasa Monte Fuji. Trassero profitto dalla loro disgrazia approfittando dell’incidente naturale del vulcano apocrifo, scavando, scolpendo i suoi pendii di porfido, aprendo sentieri, ecc. C’erano torri di sorveglianza fatte con casse di vino; barbacani di fango; un dongione addobbato con lattine; scale false, di cartone, belle da vedere, ma tali che se uno distratto ci metteva sopra un piede rischiava di sprofondarci dentro fino all’9-14-7-21-9-14-5; arazzi confezionati con giornali vecchi, ecc. Eccetera. Per non parlare dei buchi scavati sulla cresta stessa del monticello che servivano da feritoie; dei cammini di ronda per i quali nessuno circolava, neppure il Benefattore, poiché erano fatti con listelli di legno e pezzi di corteccia di pino; e altro. La porta del recinto, invece, pesava tre tonnellate ed era di bronzo, fusa in un solo pezzo; era una cosa completamente inutile, dal momento che non esisteva una palizzata perché la scorta di legname era finita; al punto che anche un nano avrebbe potuto abbatterla con una spinta; e non era nemmeno necessario, si poteva semplicemente passare di lato. Gli schiavi nubiani del faraone Cheope non sfacchinarono così tanto, per trasportare l’ultima pietra della Grande Piramide, come quelli che avevano trasportato fin lassù quell’oggetto impossibile. Avevano sofferto orribilmente.
Da quando stabiliti si erano, le esigue truppe dell’accerchiato monarca di Bavonia, sfilavano durante le Feste Patrie (ce n’erano 465 all’anno e 466 in quelli bisestili, essendo questi ultimi gli unici che annoveravano 24 ore di buona sorte; in altre parole: vivevano una giornata fausta per ogni tetrarcanno) con i loro portastendardi in prima linea, impugnando asciugacapelli e stracci per pulire per terra sui quali si posavano tanti stravaganti parrocchetti delle tane, appositamente forniti dal dittatore. Poi glieli restituivano. Servivano a rimpiazzare i falconi egiziani e gli altri uccelli araldici; e utilizzando altresì, come gagliardetti e pennoni, cartoni della pizza usati (con molta salsa di pomodoro) e peperoncini e spighe di grano incollati con puntine a pali di scopa. Un bisanziano gotico espressionismo ottenevano così. Parruccone iv, Benefattore della quinta (sinfonia di Beethoven, avrebbe detto un mio amico; non avrebbe mai sciupato un’occasione del genere). Nemici tantissimi, erano quelli che la sua morte indubbiamente desideravano. Caparbiamente ciò, nonostante lì, resisteva circondato da macchine ciarliere, donne, lacchè e soldati coperti con squamose armature di ferro, complete, poderose. Romotose, le chiamavano. Queste truppe dormivano in certi gusci di bronzo, ognuna nel rispettivo suo. Romotose: con questo nome, erano temute un dì; presentemente facevano pena. «Attaccando, Resistendo, Uccidendo». Questo il motto che leggevasi sui loro stendardi in rovina. «In formazione, mie Romotose!», andava ruggendo il gerarca supremo. «Cotone il gonfalone di, ma innalzate sulla pietra miliare. Romotose: creatura bellica mia!».
Superati i prolegomeni passiamo alla festa. Ingiungendo ai suoi sbirri che quel che (chequelche) era buono per lui era buono per tutti, ordinò di distillare nei suoi alambicchi filosofali i seguenti miasmi da servire durante il banchetto: succo di ragno giallo (alloragnogi ottenne e, fu squisito); linfa di occhio di chiocciola rossa (occchhiioocciola); rima omofonica di procellaria cacoomofonica (cacoo) e altri. Chiocciava il pollaio di gerundi cacofonici (attenzione! Ce n’erano anche di commestibili). Essendo questo il risultato.
Nella sala ventosa e a cratere aperto dove si svolgevano i festini c’era un cartello su cui era scritto:

il gerundio libera


Un altro diceva:

qui si impara a aggettivavverbigerundiare lo stato (qui si impara aa).

Prima dell’arrivo delle vivande, e come era costume tra le orde della Bestia Castana (Parruccone iv), una macchina da musica cantò (musicaca)ntò o fece qualcosa di diverso. Non ricordando più ormai che cantòo o che fece. Cantòoo? Eh… cantoodoo. Dopo l’antipasto (lo avrebbe invidiato perfino Filippo, Granduca di Borgogna), un’altra macchina pallosa, cameriera (o serva) muta, uscì dai vapori mefitici della cucina, portando un piatto di quasi tre iarde quadrate in una delle sue manacce metalliche. Che cosa non era, essendo quel che era: vivande di fumo gustose; ciambelle cinesi (ciamcin) cosparse di burro e miele; ebanisteria di tenere canne di bambù del Bengala (e-ban bámbu-ben: pronunciare alla vietnamita); cosce di uccelli tuffatori del Tigri; grasse trote e perche preparate alla giavanese, su fornelli Krakatoa (ogni tanto, nel culinario processo, andavano a 6-1-18-19-9 6-15-20- 20-5-18-5 le emisferiche storte). Oltre a tutto quello che già è stato elencato. Ricchissimo lo trovaronomente.
Per non ripetere la parola “tutto” che ho già messo qui sopra, userò la parola “brutto”. Brutti, uomini e macchine, banchettarono come sposi della morte e come se quello fosse il loro ultimo giorno. Soprattutto quella gran bestia del Benefattore. Inappetente il rimpinzato dopo essersi abbuffato. Soddisfatto e satollo (pieno) dopo quella scorpacciata. Senza più fame conseguentemente sua vorace polifagia. Nessun desiderio. Nessuna voglia. Nessun piacere. Nessun piacendo. Tale degenerazione del normale desinare causogli atonia, per non dire debolezza e intontimento. La sua spaventosa pancia, era come un pulcino figliastro. Un figlio, nel lessico comune (el-le, lettera bifronte), è una “persona o animale considerata dal punto di vista dei genitori”. Tal primoge sul punto fu di, essere il beniamino e l’unigenito (tutto in uno) poiché per poco non morì sul colpo. Ci andò assai vicino data la quantità inconcepibile che, mangiò il molto affamato. Fatto sta che tutti saporitissimo giudicarono tutto.
Ogni volta che il iv Benefattore della quinta dinastia alzava il calice per ingollare un paio di pinte, scoppiava nella sala un terribile baccano; così i musicisti dell’orchestra, coperta di stracci, svolgevano il proprio compito; suonando rumorosamente e orribilmente ogni volta che l’altro levava alta la coppa (per non ripetere la parola calice). Interpretavano inni bellici assolutamente collerici, e intorno tutti si inchinavano, e tale bizzarra manifestazione durava finché il succitato non abbassava il cristallino oggetto. E ognuno alzcopingollabbassava. Credo di dover usare “andova”, per evitare la rima. Per i giorni in cui il sovrano andova in autentica collera, riservavano l’Ingoma: il canto di guerra degli Zulù. E ora meglio fermarsi qui perché altrimenti il caos esploscoppia.
Come dessert, o meglio sostituendolo, la pornocrazia illuminata in pieno sfociò nella buona vecchia telemachia fornicatrice. Fine fecero venire a tal macchine odalische della Yap isola. E corruppero le di Yap macchine. Le ma ultime riserve, erano. E se nell’intrallazzo disgraziatamente si rompevano, la loro vita non valeva un 3-1-26-26-15, poiché non c’era nemmeno un pezzo di ricambio. Tre “zo”. Essendo una specie di saturnale fraternizzavano la carne (subordinata e superiore) e la robotica.
Dopo cena, gli occhi socchiusi per l’intensa gravità (quasi fossero due stelle di neutroni) del cibo e dell’alcol (dideldell), per non parlare del centro gravitazionale più importante di tutti, il Benefattore si rivolse a un insieme di armi complete che da lì vicino formavano un sistema: «Ma che ti succede, armatura parlante e dissonante? Totalmente muta, ti si vede. O vedetisi. L’unico dodecafonismo che da te sento da un po’ di tempo a questa parte, è quello del silenzio. Guarda che qui l’oblio, viene da raffiche in settime e ottave alternate. Ha un costo altissimo. Per parlare, c’è tutto il tempo. Un vortice, un mulinello gigantesco di acqua, vento o tempo ed Eureka! Il turbine ti travolge e ti tracanna una volta e pe’ sempre. Turtitratitra». Strappata alle sue terribili elucubrazioni, si apprestò a replicare quella armatura (aa) parlante e dissonante del signore del paese-castello. Anteparladisson, dunque, si avvicinò e proferse:
«Coff, coff. Mio signore: sapere deve che obbligata sono alla pudicizia del ferro, ché se mi avessero congegnato in un’altra guisa i miei forgiatori, allora mi vedreste rifocillandomi nelle vostre festicciole più di tutti. Vedendo come vi divertite e non potendo farlo io, sono precipitata in uno stato d’animo funereo».
Benefattore importanza questione alla come togliendo: «Non si dica che qui, nel mio castello, qualcuno patisce tali infauste privazioni. Trascorrerà mezza clessidra e i miei nibelunghi nanizzati, ti offriranno ciocche, no, ciò che ti manca. D’argento diamantifero il superno intrepido; d’oro puro le ellissoidali basi». «Piacemi», rispose istantanea Anteparladisson, la ninfa arrugginita e proteiforme, molto contentissimamente Ma covando stava il dramma, ma bussando e ribussando lugubremente le semicrome di Wagner: “Così bussa il Destino wagneriano alla tua porta”, Nietzsche dixit, probabilmente. Orribilmente spaventoso e polimefitico, non c’è dubbio. E perché, perché mai, vado dicendo tutto questo? Be’ perché essendoci lì una straordinaria macchina parolista, icosaedrista (adoratrice di un solo Icosaedro con venti Unici Dei, la cui totalità si distribuiva in ventesimi sulle diverse facce), che, si era assunta il compito di lanciare le sue perle profetiche a quella accozzaglia (aacco) di maiali consumista (e sono tre ista; ma con questo, quattro); essendo lì, dico, la macchina si infuriò moltissimo e spaventosamente quando vide che, con cinque colpi di martello ed eccellente metallurgia, i picari gnomi aggiunsero ciò che mancava ad Anteparladisson. Rimase menteinfinita sconcertata. Ma il dramma finale del quale dicevamo si spiega con il fatto che, sconfitti e perdonati dal nemico dopo innumerevoli guerre – e ridotti alla rocca –, anche così i Figli delle Nebbie del Dittatore (orchi di vento forte e ciarpame), sono ugualmente vittime delle congiure palatine e dei tradimenti architettati dalla macchina icosaedrista con i suoi sinistri piani, manovre sotterranee e altri atti di alta negromanzia. La suddetta ha intenzione di approfittare della stanchezza del Benefattore e Padre della Patria Nuova; di sfruttare a tal fine la sua pericolosa mania per i gerundi (lui intende imporli per decreto, tanto nell’idioma scritto quanto nel parlato) e divorarlo servendosi dei suoi campi gravitateologici menzogneri. Ma il Benefattore, che non è nato ieri, la scopre e quella fa irrimediabilmente una fine di 13-5-18-4-1. Anticipo l’azione per non svelare la trama. Non è uno scherzo anche se lo può sembrare. Ma poi, come se non bastasse la sfiducia istintiva e silvestre del nostro zar slavo e despota, poi c’è anche accanto a lui mein herr Doktor und Professor Johannes Dravrinsky, eminenza castana del regno, a dargli buoni consigli; avverte il dittatore dei piani maligni della macchina icosaedrista: «Non confidi in quella 16-21-20-20-1-14-1. La conosco bene: dai tempi della schule senza campanella».
Istericamente, la icosa diabolica, interpellò la povera e indifesa armatura gettandole tutta la sua schifosa 13-5-18-4-1.«Che grave peccato commesso hai. In fede mia non prospereranno le tue profanazioni (prospprof) e aberranti lussurie. E poi non venire a cercare in me, da brava piagnona aiuto (naa), appoggio (naaa) o difesa. Puttana come Patricia Naaa. Proprio così: d’ora in avanti tu (titu) non sarai più l’armatura parlante e dissonante Eleonora, adesso (eeaa) sarai la disonestà in persona con la tua impudicizia. Anteparladisson Patricia. E se per caso dovessi lamentarti perché ti fustigo con i miei anatemi, pensa, nella tua misera capoccia laccata, che avrei potuto chiamarti benissimo Cecilia, che era la più puttana di tutte, una di quelle che si accoppiano nei granai con il primo che capita, una di quelle fornicatrici prostitutizie che…».
Ma non poté, proseguire poiché proprio in quel momento la intercettò il benefattore della Patria Nuova assolutamente esasperato (vaaee).
«Chi si azzarda a attaccare Cecilia? Chi si azzarda aaa?
Ogni donna che si chiami Cecilia ha almeno una possibilità con me. Allora in campanuccia e non lanciare strali contro Cecilia, macchina frocia, altrimenti ti metto un catalizzatore e poi vedi dove ti faccio volare…». Terrorizzandola, il despota. La storia del catalizzatore non piacendole, la macchina impallidì e non tornò a aprire (ornòaa) la boccaccia fino a quando l’orologio gnomone, non ebbe allungato di un metro la sua traccia sul suolo. «Polverizzandomi», tal cosa pensò la maligna icosa.
Buffone iv, il Magnifico, di cui finora non abbiamo parlato, chiese la parola solo per dare fastidio e proferse: «Mi viene in mente una cosa assolutamente straordinaria». Benefattore: «Gerundiando, per favore».
Buffone iv, lo Splendido, persona alla quale non abbiamo fatto riferimento se non in un’occasione:
«Venendomi in mente una cosa assolutamente straordinaria: se prendendo due parole: “barbarie” e “scorie”, per esempio, ed estraendo da queste il salvabile, ottenendo: “barbasco”. Eh… e ci evitiamo due omofonie».
Ma qui grugnisce il dittatore:
«A me le omofonie non mi disturbano. Al contrario: voglio che ce ne siano di più. Ordinerò che emmediatamente encidiate un long play con le mie dissonanze di protesta. E dico “emmediatamente” ed “encidiate” per avere uno iato quadruplo: eeee. Altrimenti non ci sarei riuscito. Licenza poetica. Pertanto, carissimo Buffone iv, ti suggerisco di cambiare rotta all’istante». Dopo una pausa, senza motivo, il despotocratico continuò, mettendo insieme parole immotivatamente: «Uccidendo altri superbi bacchettoni, ho detto i. Ben osservando che l’adesso muta icosa pretendeva da Anteparladisson un’abissale, folle abiura. Che la povera armatura era sofferente, in un angolo, vedendo gli altri 19-3-15-16-1-18-5 e lei non potendo e inalberandosi, in altre parole, ho detto ii. E ci metto i numeri romani perché perfino le mie frasi sono dinastiche».
Ma il nostro benavventurato maiale regnante, era quanto mai mutevole. Almeno, in apparenza. Non avendo penuria di unità tematica: semplificando il “non” con la “penuria”, resta, sì, che aveva unità tematica. Aveva unità, in effetti, solo che invisibile (avevasoloche). Socchiuse sognantemente gli occhi e con accanto il dizionario diede la seguente definizione:
«Gerundio: “Verbo in astratto e come esprimendosi al presente”. Adesso io dico però: “Verbó in ástratto comé esprimendósi al presenté”, obbedendo alla francogermanizzazione che impongo. Pertanto correggete questo dizionario subito senza perdere altro tempo. Abbiamo bisogno di manuali che corrispondano all’ontologia dello Stato e alla mia sapienza».
Nella sala scoppiò un 7-18-1-14 3-1-19-9-14-15. Le frasi tradizionali: «E quello che è?», gemerono le frasi. Ma subito ricevettero la replica aggressiva delle progovernamentali, con la baionetta calata, l’elmo d’acciaio e l’uniforme d’inverno: «E cos’è questo quello che è? Questo, èquelloche e va tutto attaccato: e lo diciamo così per evitare confusioni».
Buffone iv, il Bello, di cui abbiamo già parlato:
«Ma Mio Signore: pensa forse di motorizzare religioni dissolventi e anticlassiche? Non dico le rune; perfino il cigno di Tuonela fuggirebbe impaurito».
Il Benefattore diventò più ragionevole:
«Negando. In fede mia le castigliane leggi esistono per qualche motivo. Lo giuro per i denti di Dio, come diceva Giovanni Senza Terra: chissà a quale Dio si riferiva, quel grande blasfemo. Per qualche motivo furono fatte le castigliane norme, lo ripeto. Opponendomi, al contrario, alla loro applicazione imbecille e a qualsiasi prezzo. Ricordatevi cosa hanno detto di Violentando Girls Scouts nella foresta, la facetissima opera del professor Eusebio Filigranati, il mio scrittore preferito. Letterati che non sembrano tali – poiché ignorano dell’eccezione i principi – e così pedanti, quelli che curano l’idioma con estrema attenzione per jacksquartarlo meglio. Questi tali i quali non hanno ancora compreso che il delirio realista è la costituzione delle parole, e nessun regolamento può essere superiore alla legge, così come questa non può signoreggiare su quella. Fuck off, you little dolt. Così vi impongo di scrivere di nuovo tutti i dizionari. Per puro dispotismo, brutti 3-1-26-26-15-14- 9. Vi ho parlato già dei miei gerundi avverbiati? Sono una scoperta: venendomente, andandomente, formandomente. Dicono le cattive enciclopedie che l’avverbio è privo di mutamenti grammaticali che, è invariabile. Questa qui è una cosa falsissima. I miei astrologhi e geometri arabi mi, hanno assicurato che ieri, do un esempio, si coniuga almeno nelle seguenti maniere: iari, iori, iuri e iiri. Ce ne sono altre: oiri, uiri, ecc. Cosicché che (cosicchéche) mi venite a insultare a fare con queste idiozie. Cosicchéche. Potrei fare lo stesso con mai, di fretta, qualcosa, poco, forse e lontanuccio. “Ignorantissimi in quelle che considerano le cose più sicure”, come dice Huxley. Di tal maniera se il gerundio è il verbo in astratto, quando gli attacchiamo un pezzettino di avver, che cosa succede? Succede che l’astrazione invece di-dissiparsi aumenta, proprio come si espande il deserto in Libia: un chilometro cubo all’anno. Sorprendente. Ha acquisito una nuova dimensione, senza per questo rinunciare al mistero. In altre parole: con il mio sistema sapremo tanto quanto prima ma la nostra ignoranza sarà più clamorosa. Il gerundio, deduco io nella mia infinita sapienza, è il verbo della geometria non euclidea, un campo vettoriale di forze che si compensano, una tensione elettromagneti…».
«Certo che ne dice di stronzate, Sire», interruppe Buffone iv, il Prudente, personaggio al quale abbiamo fatto riferimento tante di quelle volte che il suo ingresso non risulterà forzato e improvviso.
Lo zotico e incolto anche se illuminato despota, iv Benefattore della quinta dinastia di Bavonia: «Silenziomente. Mi piace molto l’astrazione concreta, dettagliata e che si espande. Adoro il concreto ma indeterminato e impreciso». Buffone iv:
«Sire, da ventotto anni ho un’enorme fortuna: son suo suddito (sonsuosu); credo di avere il grado gerarchico sufficiente per sapere che non crede a una parola di tutto quello che espone (llochee)».
Il Benefattore si scrollò di spalle:
«E altrimenti che razza di despota sarei? Cherazdides. Sono un sostenitore dell’autodeterminazione dei dittatori. Ma hai ragione: in fondo odio le desertiche immaterie e cerco di trasformarle per portarle nel mondo terreno. Sto preparando un intruglio di gerundi con crema e fragole. Vuoi assaggiarlo? Vieni, prendilo: ingurgitati un puledrino di queste uberrime». E il monarca assoluto allungò al simpaticone la fumante sbobba.
Ci fu una spaventosa e orribile pausa.
Il dittatore, accigliandosi, con una faccia da indio timbù che ha pochi amici, ordinò soavemente.
«Gerundio piacendo al dittatore. Bevendo».
Nonostante la pressione sociale, Buffone iv continuava a guardare la sbobba con sfiducia. La annusò pensando a Hop-Frog, il nano del racconto di Poe; comprendendo che ogni forma di resistenza sarebbe stata inutile procedette a laingoiarse dopo siesser tappato il naso.
Ma cos’era quella roba, Dio mi è testimone: era la Fossa Nera di Calcutta in un solo bicchiere. Di sicuro il balsamo di Fierabrás che bevve Don Chisciotte, sarebbe stato al confronto come la panna montata per un felino. Buffone iv, accecato, vedeva unicamente una rossa foschia. Dopo un istante di tensione dinamica, alla Charles Atlas, buttò fuori una cascata: un’autostrada di acque procellose, come lo tsunami dei giapponesi; una tromba marina di cavallette liquide, come quelle che distruggono il raccolto degli agricoltori. Solo la schiuma, produsse un’eclissi precoce. Inondò la sala del trono e quasi affogò il Benefattore. Quando le acque si ritirarono, Anteparladisson (armatura parlante e dissonante), senza pensarci due volte iniziò a oliarsi le articolazioni e, prima di tutto, quelle della parte nuova la quale, pur essendo d’argento, aveva molle e giroscopi ossidabili.
«Sono lieto che ti sia piaciuto al contrario, Buffone iv», mormorò l’Onto Autoreferente approvando il pastrocchio.
A quel punto commentò il iv Buffone della quinta dinastia, più che altro per dire qualcosa:
«Eccellenza: il suo vino spumante è un po’ brut, per il mio palato. Però non posso fare a meno di riconoscere che è incorreggibile, immigliorabile, meritevolissimo, degnissimo, perfetto. Forse non è molto caritatevole, ma in ogni caso, quale forza della natura lo è? Non possiamo chiedere ai tifoni o agli uragani di sistemare candele sui tavoli, o di comportarsi in modo civile all’ora del tè».
A questo punto la macchina icosaedrista – rafforzata dal disordine – non potendone più delle sue felicità teologali, scese in campo, gozzovigliatrice, impugnando un bastone cristallino, prisma esaedrico, e con quello minacciandomente tutti:
«Mi piace questa cosa del mentegerundiale. Alla macchina icosaedrista piacendo. Sono favorevole al deserto che si espande. Non contraddicendo Icosaedro, Unico Santo. Di armatura Anteparladisson mano falloscopica, buttando acido nitrico sulla. Benefattore il viva viva!».
Ma, stranamente, l’inaspettato appoggio non gradì il despota. Irritatissimo capendomente che lo usavano (capendomenteche) per fini contorti e teologie dubbie, che non capiva del tutto, verbò in particolare: «Mettete un catalizzatore a questa macchina di 13-5-18- 4-1 che gioca a fare la patriota! Deve uscirle solforoso fuoco dalle 12-21-18-9-4-5 3-8-9-1-16-16-5 in questo preciso istante. E che vadano a fare in 3-21-12-15 lei e la madre (13-5-18-4-1) che l’ha partorita».
Sconvolta l’icosaedrista:
«Noooo! Pietà Benefattore! Io sono una sua sostenitrice, non mi grofff!».
Non rimase neanche una rotella. 19-3-8-9-1-20-20-15 e basta.
Il despota, terribile, guardandosi intorno:
«D’ora in poi, chiunque desideri offrirmi il suo appoggio dovrà farne richiesta per iscritto. Capirete che anche se ho il cervello di una gallina cretina perfino paragonato all’ultima delle SS, sicuramente un 3-15-7-12-9-15-14-5 non sono. Né testadicà né testadidodo. Molto diverso da un dodo, voglio dire. Sapete cos’è un dodo, no? O meglio cos’era. Erano uccelli e si sono estinti perché erano 20-5- 19-20-5 4-9 3-1-26-26-15. Li uccidevano colpendoli con dei pali e loro non muovevano un’ala per difendersi». Il finale non deve essere mai violento, immotivato, exabrupto. E così concludo questo, il mio racconto, dicendo che dopo aver riunito nella Dieta il consiglio monodeliberante – con alla testa il Benefattore, essendo lui stesso anche i piedi e il moderato centro – alla fine decisero di tornare al classicismo e inaugurare una Nuova Era. Inaugurando. Paralelepipedinsky – il musicista preferito del regno – contraddicendo in parte i propositi della suddetta Dieta, decise di offrire una grande Cantata Funebre con contrappunto di Cicale. Queste erano dei contrabbassi enormi, alti mille metri, azionati da un telecomando; per ragioni economiche di solo 50 centimetri cad., usando. Titangermanizzazione delle frasi (titanfrancogermanizzando). Sarebbemente male terminando questa mini saga ultima frase una senza: i falsi amici sono autentici figli di immense 2-1-7-1-19-3-5. Ma cambiando non più; calderone pieno è. Prima del verbo perfida virgola, è.


1. In questo racconto il lettore troverà spesso delle sequenze di numeri. Per decifrarle dovrà far ricorso alle 26 lettere dell’alfabeto internazionale. [NdT]

Pastore, di Joy Williams

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Black Coffee il racconto ‘Pastore’ di Joy Williams, tratto dalla raccolta L’ospite d’onore del 2017 tradotta da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.

Buone letture!



PASTORE
di Joy Williams


Il pastore tedesco era morto da tre settimane. Annegato. E la ragazza non riusciva a farsene una ragione. Sedeva in veranda, nella casa sulla spiaggia del fidanzato, e guardava l’acqua.
Non era la stessa acqua. La casa si affacciava sul Golfo del Messico, mentre il pastore era affogato nella baia.
Il fidanzato della ragazza aveva acquistato quella casa da appena una settimana, completa di piatti e bicchieri che non c’entravano nulla fra loro, numerosi e massicci letti di quercia, e un assortimento di mobili di bambù.
La ragazza possedeva a sua volta una casa vicino all’argine della baia, una casa con grandi finestre che davano su ispidi cespugli di buganvillea. La struttura non era rinforzata e tremava tutta quando il cane correva. Il fidanzato della ragazza di cognome faceva Chester, e lo chiamavano tutti così. Portava occhiali da sole color bottiglia di champagne. Chester aveva spalle larghe e mani enormi, e veniva da un matrimonio fallito, che però non gli era costato un centesimo.
«Hai beccato la gallina dalle uova d’oro» le dicevano le sue amiche.
Tre giorni prima che il pastore annegasse, Chester le aveva chiesto di sposarlo. Si conoscevano da quasi un anno. «Sposiamoci» aveva detto. Si erano calati un metaqualone ed erano andati a letto. Era successo da tre settimane e tre giorni, e ora mancavano quattro giorni al matrimonio. Il tempo passa in un soffio, pensò la ragazza.
Il pastore era marrone e nero con un bellissimo muso affusolato. Era famoso per un giochetto che faceva: quando la ragazza gli diceva, «Mi vuoi bene?», lui le saltava tra le braccia. Ed era leggero, leggerissimo, teneva tutto il peso racchiuso dentro di sé, come se sognasse soltanto di pesare. La ragazza l’aveva preso che aveva due mesi. L’aveva comprato da un allevatore di Miami, un tale che in passato era stato prete. Il pastore della ragazza faceva parte di una cucciolata di cinque cagnolini, tutti con un eccellente pedigree. La madre era aggraziata e amichevole, il padre più serio e sempre allerta. L’allevatore ex prete aveva permesso alla ragazza di restare qualche minuto da sola con ciascun cucciolo e le aveva rivolto un gran numero di domande personali. Lei si era resa conto di non aver mai riflettuto molto su se stessa. Alla fine, quando aveva scelto il cucciolo, era andata a bere una Pepsi nella cucina dell’allevatore. Il cagnolino le girava intorno ai piedi, inciampando e mordicchiandole i lacci delle scarpe. L’allevatore fumava e le faceva discorsi rassicuranti.
La ragazza era rimasta in silenzio, in adorazione.
Le aveva detto: «Tutti noi dormiamo e sogniamo, sai? Se davvero capissimo in che situazione ci troviamo, non riusciremmo a sopportarlo. Cercheremmo una via d’uscita».
La ragazza aveva annuito. Era in imbarazzo. A volte le parlavano in quel modo confidenziale e un po’ inquietante, come se fosse una persona comprensiva, coscienziosa o acculturata. Il cucciolo aveva un profumo fantastico. L’aveva preso e stretto tra le braccia.
«Ci prendiamo in giro. Non facciamo che sognare. Bei sogni, brutti sogni…»
«La nostra vita non è altro che il modo in cui gli altri ci vedono» aveva detto la ragazza.
«Esatto!» aveva esclamato l’allevatore.

La ragazza oscillava pigramente sulla sedia a dondolo in veranda.
Si immaginò in piedi, sorridente, più giovane e molto più carina, con il pastore che le balzava in braccio. Sentiva la testa ronzare e crepitare. Il bourbon si muoveva piano nel vistoso bicchiere, intorno a un bastoncino da cocktail a forma di fenicottero con la testa china. Sentire tra le braccia il peso del pastore annegato era stata una cosa orribile. Orribile. Lei e Chester erano vestiti di tutto punto perché erano appena tornati da una cena con una coppia di amici, un agente di cambio e la sua ragazza, che faceva la commerciante d’arte ed era magrissima e biondissima. Sul viso aveva minuscoli peli biondi. Il ristorantino dove erano andati a mangiare sembrava molto più grande di quanto non fosse perché le pareti erano coperte di specchi. La ragazza aveva osservato il loro gruppo riflesso mangiare e bere. L’agente di cambio parlava di soldi, di come poteva usarli per fare favori agli amici. «Amo il mio lavoro» diceva.
«L’arte di cui mi occupo» aveva detto la sua fidanzata «è concepita come stimolo alla discussione. Non deve essere mai considerata un prodotto estetico».
La ragazza le aveva chiesto di lasciarle i controfiletti di manzo. Non li avevano toccati e il cameriere glieli aveva avvolti nella carta stagnola a cui aveva dato la forma di un cigno. La ragazza ricordava perfettamente il momento in cui era entrata in casa con la carne per il pastore e aveva trovato la zanzariera dilaniata. Ricordava di aver percepito con chiarezza l’immobilità della casa mentre le invadeva gli occhi, come un fiume.

La ragazza guardava il golfo. Era una giornata splendida, nessuno surfava. La spiaggia era deserta. I patiti dell’abbronzatura erano chiusi nei solarium ad arrostirsi uniformemente sotto le lampade, per guadagnare tempo.
La ragazza avrebbe tanto voluto che quel momento arrivasse di nuovo, aspettare lì con le braccia spalancate, dicendo «Mi vuoi bene?». I cani percepiscono suoni che noi non percepiamo, pensò.
I cani sentono i richiami.
Chester aveva scavato una profonda buca quadrata sotto la buganvillea più grande, e la ragazza vi aveva deposto il cane. I suoi abiti chiari si erano sporcati a contatto col pelo bagnato. Dopo li aveva gettati. Chester aveva portato il suo completo in lavanderia.
A Chester il cane piaceva, ma era il cane della ragazza. Un cane può appartenere a una sola persona. Quando Chester e la ragazza facevano l’amore in casa di lei, o quando lei usciva la sera, teneva il pastore dentro, chiuso in una verandina con alte portefinestre a zanzariera. Il cane aveva preso l’abitudine di saltare fuori dal suo recinto, uno spiazzo costellato di vecchi pneumatici. Doveva essere il suo parco giochi, un luogo in cui potesse mantenersi in esercizio e dimenticare la noia e la solitudine quando lei non c’era. Ma evadeva in continuazione, così la ragazza aveva cominciato a chiuderlo nella verandina. Non l’aveva mai visto uscire, né da lì né dal recinto, ma se lo immaginava mentre spiccava il balzo: si preparava rannicchiandosi tutto e si slanciava verso l’alto. Faceva dei balzi altissimi. In lui c’era un’indicibile leggerezza, una fede incrollabile nell’atto stesso di saltare.
Sulla spiaggia, a casa di Chester, le onde scintillavano a tal punto che la ragazza non riusciva a guardarle. Finì il bourbon, portò in cucina il bicchiere vuoto e lo posò nel lavello.
Al principio della loro vita insieme, il pastore e la ragazza abitavano nella zona del Mile 47, sulle Florida Keys. La ragazza lavorava in un piccolo centro oceanografico. La sua vita apparteneva solo a lei, e al cane. Era un’esistenza placida e gioiosa, e nel ricordare quel periodo la ragazza aveva sempre la sensazione di essere stata sul punto di assistere a qualcosa di straordinario. Ricordava l’esuberanza del pastore, la sua energia, la sua dignità. Ricordava questo e di essere stata una brava persona, consapevole della propria felicità.
La ragazza si passò le dita fra i capelli. Si sentiva come se il golfo le si appiccicasse in gola.
A quei tempi molte cose le sembravano sacre. Il mondo era un luogo promettente. Poi, però, le cose sacre erano scomparse.
Un amico di Chester le aveva consigliato di provare l’ipnosi. Ne parlava con grande entusiasmo. Dopo qualche seduta con un suo amico ipnotista si sarebbe dimenticata del cane. No, non proprio dimenticata. Avrebbe più che altro smesso di fare determinati collegamenti. Non avrebbe più associato il cane a un contesto di sofferenza. L’ipnotista vantava numerosi successi con i fumatori.
Quella sera avrebbero cenato con quel tale e sua moglie. Al solo pensiero la ragazza si sentiva mancare. Avrebbero parlato e parlato… di case, di ipnotismo, di cocaina. Sarebbero andati in un ristorante che di recente si era fatto una reputazione poco invidiabile: a quanto pareva una signora aveva ordinato delle Ciliegie Giubileo e mentre gliele servivano il suo vestito aveva preso fuoco. La donna era morta a causa delle ustioni riportate. L’avrebbero ordinato tutti, quel dessert flambè. E poi sarebbero andati a ballare.
Gli animali sono più vicini a Dio di noi, pensò la ragazza, ma Lui non se ne cura. Sentiva le braccia pesanti. Il sole era immenso, si trascinava a fatica verso l’orizzonte. Sulla spiaggia si era radunato un gruppetto di persone per ammirarlo. Ascoltavano la radio. Quando il sole toccò la linea dell’orizzonte, impiegò tre minuti a scomparire. Un animale è in grado di sopravvivere tre minuti senz’aria. Il suo pastore aveva impiegato tre minuti a morire dopo la nuotata che si era fatto nelle acque profonde oltre l’argine. La ragazza si ricordò di quando era entrata in casa con la carne avvolta nella stagnola a forma di cigno e aveva visto la zanzariera rotta. La casa era piena di zanzare. Chester aveva riempito un bicchiere di ghiaccio semidisciolto e si era versato un goccetto. Sembrava sempre fuori posto, lì a casa della ragazza. L’abitazione in sé non valeva molto, era il terreno a essere prezioso. La ragazza era uscita a chiamare il cane, oltrepassando il recinto vuoto, sempre chiamando, giù fino alla baia, dove vedeva le luci delle case più costose costruite lungo l’argine. Un vicino aveva chiamato l’ufficio dello sceriffo e i fari dell’auto del vice avevano illuminato il cane scuro, a terra.
Suonò un cicalino nella casa sulla spiaggia. Chester aveva fatto cablare ogni stanza. Nella settimana in cui vi aveva abitato da solo aveva fatto installare l’aria condizionata, i vetri unidirezionali alle finestre e un elaborato sistema d’allarme a raggi infrarossi. Il cicalino, però, era soltanto un segnale, e adesso taceva. Indicava l’apertura della porta quando Chester rientrava. Chester attivava l’allarme generale solo quando erano fuori, o quando dormivano. La ragazza pensò a quelle frequenze invisibili che tenevano sotto controllo l’aria impassibile. Trovava umiliante l’idea che delle microonde potessero risparmiarle dolore, umiliazione o perdita. Per un attimo valutò la possibilità di accontentare Chester e far installare un sistema di sicurezza domestico completo. In casa non c’era nulla che valesse la pena rubare. Chester voleva soltanto proteggere il suo spazio. E, per un istante, la ragazza trovò offensivo il tocco della mano di Chester sui suoi capelli.
«Perché non sei vestita?» chiese.
La ragazza lo guardò, poi abbassò lo sguardo su di sé, sulla maglietta sottile e i fiori di ibisco dei suoi pantaloncini. Sono troppo vecchia per mettermi questa robaccia, pensò la ragazza. Col tramonto la veranda si era rinfrescata in fretta. Rabbrividì e si strofinò le braccia.
«Perché?» disse la ragazza.
Chester sospirò. «Non dobbiamo uscire a cena con i Tynan?»
«Non voglio andare a cena con i Tynan» disse la ragazza.
Chester infilò le mani in tasca. «Devi farla finita con questa storia» disse.
«Sto volando» disse la ragazza. «Ho volato». Pensò ai balzi del pastore, alla sua leggerezza. Era fuggito via. Lei invece non era andata da nessuna parte.
Chester disse: «Ti ho consolato meglio che potevo».
«Non puoi consolarmi» disse la ragazza. «Non mi riprenderò mai. Non c’è un lieto fine».
«Siamo noi il lieto fine» disse Chester.
«Abbi pietà».
Il cielo era rosso, l’acqua di un argento opaco. «Non ce la faccio a rivedere i Tynan» disse la ragazza.
«Non ce la faccio a entrare nell’ennesimo ristorante e vedere un altro vetro anti-starnuto a protezione del buffet».
«Non urlare, amore. La roba che prendi non ti calma neanche un po’? Guarda che io non sono mica un cane, non puoi gridarmi contro».
«Come?» disse la ragazza.
Chester si sedette sull’altalena. Le mise una mano sul ginocchio.
«Sei una persona fantastica, ma non ti farebbe male un briciolo di autoconsapevolezza, di realismo. Tu a quel cane gli urlavi, amore».
La ragazza guardò la mano con cui le carezzava il ginocchio. Le sembrò inverosimilmente grande e rossa. «Non è vero» disse. Il cane sapeva fare un giochetto.
La ragazza gli diceva, «Mi vuoi bene?», e lui le saltava tra le braccia. Restavano tutti affascinati.
«La sera che è successo, mentre guardavi la zanzariera, hai detto che quando fosse tornato l’avresti ammazzato».
La ragazza guardò la mano che le accarezzava e strofinava il ginocchio. Non sentiva nulla, era insensibile. «Non ho mai detto niente del genere».
«Era un fastidio comprensibile, amore. L’avrai riparata una mezza dozzina di volte, quella zanzariera. Stava diventando un problema di disciplina. Gli ospiti si sentivano a disagio».
«A disagio?» fece la ragazza. Si alzò. La mano le cadde dal ginocchio.
«Non possiamo cambiare le cose» disse Chester. «Se potessi farlo, lo farei. Farei qualsiasi cosa per te». «Non sei rimasto con me quella sera, non sei venuto a letto con me!» La ragazza camminava qua e là per la stanza, descrivendo piccoli cerchi nervosi.
«Sono rimasto per ore, amore. Ma su quel letto è impossibile dormire. Le lenzuola sono sempre coperte di sabbia e di peli di cane. È per questo che ho comprato un’altra casa. Per i letti». Chester sorrise e fece per abbracciarla. Lei si voltò e attraversò il soggiorno, aprì la porta e scaraventò a terra il cicalino. «Oh, falla finita!» esclamò Chester.
Quando raggiunse casa sua, la ragazza andò in camera da letto e si sdraiò. Intorno a lei il silenzio sembrava quasi sbadigliare, un buco nero che la circondava. Il silenzio è stato dato in dono agli animali, pensò la ragazza. Le parole dell’uomo causano disgrazie, ma spesso è il silenzio degli animali a risanare tutto.
Si girò su un fianco, poi sulla schiena. Pensò alla buganvillea, alle foglie che diventavano fiori sopra la tomba del pastore. Pensò al pastore accanto al letto, che dormiva sereno contro il muro, pieno di fiducia in lei.
Udì uno schiocco nella testa, una piccola esplosione che la svegliò. Si tirò su a fatica, annaspando, destandosi da un sogno in cui il pastore era morto. E per un attimo rimase sospesa tra due sogni, ingannata due volte. Si vide spiccare un balzo e poi ricadere giù. La luce della luna inondava il recinto.
«Ti volevo bene, vero?» disse la ragazza. Si vide spiccare il balzo all’infinito, e all’infinito ricadere giù. «E tu me ne volevi?».