La mia bebisitter è un orco, di Paolo Di Orazio

D Editore porta in libreria Nuovi delitti di Paolo Di Orazio. I piccoli assassini di Primi delitti sono cresciuti, ed è arrivato, per loro e per noi, il tempo di assaporare il sanguinolento sapore di… Nuovi delitti. Con Nuovi Delitti, il maestro dell’horror Paolo di Orazio riporta alla luce i protagonisti che hanno infestato le pagine del primo libro, ormai adulti, ma non per questo meno pronti a sporcarsi le mani di sangue!

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nel libro per gentile concessione dell’editore.

La mia bebisitter è un orco,
di Paolo Di Orazio

Buio in sala. Stasera ho scelto i Polar Inertia col brano XLR8R Mix.
Sono completamente nuda e la mia pelle è bianca sotto le luci allo xeno. La pulsazione del ritmo, io appartengo all’acciaio. Ho freddo. Non mi piace tenere i capelli legati durante la sospensione. È un patto con la gravità, non posso truffare il Creato. Sigfrido è bravo con le luci. Lui sa come fare. La musica non è per le orecchie, ma per il rito. Il rito è per me. Io sento il respiro e il cuore del pubblico, le persone che stanno nel buio. Stanno lì, hanno pagato, ma devono scomparire perché io sono la loro dea. Qualcuno è già eccitato, perché pensa che io sia una puttana, perché pensa che io scoperei chiunque, lo sento il respiro diverso di quelli che vorrebbero scoparmi. Lo sento benissimo. Se mi concentro su quel respiro, io sarò pronta prima, pronta a staccarmi da terra. Più mi vogliono e più devo staccarmi da terra.
Io mi amo e non sono di nessuno.

Il ritmo è perfetto, la pelle affamata. La mia pelle è affamata.
Suoni siderali.
Sigfrido al mixer luci orienta il fascio dei faretti sul Ragno muovendoli rapidi. Li fa correre nel buio. Si inseguono. La struttura sopra di me si illumina in fulmini geometrici al passaggio degli spot bianchi. Sono completamente nuda e distesa sul pavimento di questa sala teatrale. Il pubblico per ora vede solo me, in un ovale di luce, io non vedo il pubblico. Ancora per poco sarò Klarissa.
E appena il Ragno mi solleverà coi suoi fili, io non sarò più Klarissa.
Libera di nuovo.
Ma solo per un po’.
Finché stanotte non torno a casa.

Mi chiamo Iodea. Klarissa è un nome d’arte. Ho trentasei anni. Da bambina ho ucciso la mia babysitter. Si chiamava Melania e, a quanto ne so, era psicopatica. Se la faceva con mio padre mentre mia madre viaggiava per lavoro. Melania mi perseguitava, quando era sola con me. Non ho mai capito se abbia fatto veramente qualcosa o se l’ho soltanto immaginato.
Comunque l’ho uccisa. Con un rasoio, mi pare. Sì. Nuda nella vasca da bagno.
Così mi hanno sempre detto.
Ventisette colpi di rasoio di cui uno fatale alla giugulare.
Ventisette.
Ma io non ci credo.

Me l’hanno detto tante di quelle volte che alla fine ho iniziato a sospettare di me stessa, ma poi sono cambiata quando ho scoperto la sospensione e me ne fotto delle stronzate.
Io non me la ricordo, quella roba, infatti. No.
Conosco solo la storia generale.
Chiacchiere. Poi, però, i racconti hanno trovato un riscontro.
E questo non va bene.

Un giorno mi è capitato fra le mani un articolo di quotidiano.
Me lo fa vedere un tizio che avevo cominciato a frequentare quando avevo quindici anni, la prima scopata. Un tizio fissato coi ritagli di giornale, articoli su fatti di sangue del presente e del passato. Li prendeva, li tagliava e li appiccicava su un quadernone. Aveva uno scaffale di quadernoni gonfi di ritagli. I quadernoni erano intitolati a penna Squarci di cronaca 1, 2, 3 e via dicendo, con la data di inizio e fine raccolta. Era incredibile.
Avevo sei anni quando uscì l’articolo sul delitto di Melania. Tra la pubblicazione dell’articolo e il mio personale raffronto con quella striscia di carta stampata, io sono stata data in affidamento dal tribunale a una specie di scuola per bambini soli e poi spedita in una casa famiglia. Che è un carcere per canarini.
Il tizio dei ritagli aveva scoperto che quella storia mi riguardava. La località, le mie iniziali e le chiacchiere di paese completavano il quadro. Non gliel’ho confermato perché non avevo memoria di un cazzo di ciò che diceva l’articolo, mi sembrava una follia, una somma di coincidenze sfigate. Avevo riconosciuto la ragazza nella foto, sì, ma i miei ricordi si fermano a quel volto in bianco e nero e pochi altri elementi. Però il tizio mi piantò perché la famiglia non voleva che suo figlio fosse traviato da un’assassina. A lui piacevo perché era finalmente venuto a contatto con una protagonista dei suoi ritagli. Un mostro che esce da un pezzo di carta, da una notizia. Per lui ero una magia vivente. Ma chi passa per i servizi sociali è schedato, e io avevo pure il carico della condanna popolare sulle spalle. In una piccola provincia dove non esistono segreti è peggio che andare in giro col cartello «siete tutti stronzi» sulla testa. Così, a diciotto anni ho preso e me ne sono andata a Bologna. Mi sono nascosta al Dams. Ma non servì a nulla. Aver visto la foto di Melania sul trafiletto è stato come se il mondo avesse spento le luci. Almeno per me. Ovunque andassi, con chiunque fossi. Facevo finta di studiare, di divertirmi, di scopare. No, niente psicanalisi, né tantomeno ipnosi. Non ci penso. Eppure dovrei.
Perché, Cristo santo, da quando ho visto la foto di Melania, da quando ho visto la foto di Melania su quel cazzo di trafiletto, da quindici anni in qua sento qualcosa che si muove nella vasca da bagno quando la porta è chiusa.

Adesso il Ragno mi solleva di nuovo coi suoi fili. E così questa notte ho vinto io. Per un po’. Ho scelto stasera un beat sociopatico dei Vatican Shadows. Perfetti per coprire il rumore dell’argano che mi tira su e per creare il momento ipnotico.
Gli uncini tirano la pelle.
Sospensione di coma.
Il dolore mi abbraccia.
Iodea mi abbandona.
Sto volando. Klarissa è libera.
Ogni mio nervo urla nella tensione.
Sono completamente dolore, ora.
Sono pura.
Il dolore è Dio.
Grazie, Dio.

Da quando sento qualcuno muoversi nella vasca da bagno, ho iniziato a cercare conforto nel dolore. L’alcol non fa un cazzo e le droghe non le voglio. Pregare non se ne parla perché nemmeno mi gira di tenere a memoria come mi chiamo. Ma anche perché non ho proprio voglia di ricordare. Ciò che Iodea da bambina avrebbe fatto a quella ragazza non lo so e non voglio che, in caso, me lo ritrovi davanti per tutta la vita come un film della colpa.
Però mi insegue il dubbio. A loop. E a quello, cazzo, non sfuggi.
È come avere una fogna in casa: tiri su il tombino, fuori la merda.
Il trafiletto diceva che la vittima perseguitava la piccola assassina con storie macabre sugli orchi e che lo spavento abbia scatenato l’omicidio. Be’, mi sembrano tutte delle grandi cazzate. Le solite che servono ai giornali per ingrassare la notizia con un tocco morboso.
Ma poi è il dubbio, che mi frega. È quello che mi insegue quando sto al buio e da sola.
Lo sento anche adesso.
«Ehi, c’è qualcuno?»
Qualcosa che rotola dentro la vasca.
E non è Sigfrido che batte i gomiti a terra mentre lo calpesto sotto gli stivali se la pressione è insopportabile. Lui se ne sta buono a farsi schiacciare.
Lui, questi rumori, non li sente.

Infatti, non sono allucinazioni.
Infatti, non sono spiriti, ci mancherebbe.
Sono idee. Sono idee così forti che le sento muoversi in casa.
Le sento muoversi dentro l’armadio, o nell’altra stanza. O, appunto, in bagno, nella vasca. Un corpo che si rigira, che cerca una posizione. Mentre dormo, sento qualcuno che mi tocca, sento qualcosa passarmi fra le gambe nude. Se cammino al buio tra le stanze, sento bolle di calore, come se qualcuno fosse stato lì lasciando la sua impronta nell’aria. Ma sono solo minchiate che mi vengono in mente, lo so. Mi vengono in mente con una forza così intensa che le avverto col naso, le orecchie, la pelle. O le vedo fuggire con la coda dell’occhio.
Ma sono.
Solo.
Delle.
Idee.
Di merda.

Certo, Sigfrido non sente nulla, non vede nulla. E non gliene parlo perché lui non è disturbato da questo mio percepire, non gli scarico addosso la mia frustrazione. Ma neanche mi vede parlare con presenze invisibili. Proprio perché non sono pazza. È un carnevale che va nel mio cervello, nel mio soltanto. Idee che penso perché c’è una parte della mia volontà a plasmarle. Sono scintille che arrivano e che devo completare affinché io le senta solide. Non mi posso fermare, quando cominciano.
E l’unico sollievo è il dolore. Controllare il dolore. L’elettroshock della sofferenza con la pratica della sospensione annulla questa folla di idee, mi porta anche a perdere conoscenza. Col risultato però di sgombrare la mente. Più dolore provo, più il cervello resta pulito e posso riposare.
Ma la folla delle idee si comporta come la polvere.
Dopo un po’, merda, quella torna, puoi pulire quanto vuoi, è una lotta contro l’infinito.

Durante i primi due anni bolognesi ho scoperto la body art. Mi ha iniziata un tatuatore col quale ho avuto una storia. Mi faceva paura con quella tuta zentai in ecopelle nera che lo copriva dalla testa ai piedi. Un umanoide senza volto, isolato dai sensi eppure vivo, abbozzo umano da schiacciare, colpire, stritolare nonostante il suo corpo immenso e scolpito. Grazie a lui mi sono innamorata della cultura apocalittica, delle videoinstallazioni, dei dj set, dei rituali pagani. Ho visitato le stanze senza finestre delle parafilie nei palazzi del bdsm alla ricerca della mia dimensione. Dormivo pochissimo e facevo di tutto pur di esplorare la realtà alternativa dove il corpo e la spiritualità si ritrovano nell’oscuro mondo dell’inconscio. La pratica della body suspension è arrivata dopo la scarificazione, con cui ho abbellito e potenziato il mio corpo. Quella era la mia strada. Non so se la mia trasformazione avrà mai uno stadio finale, ma finché non avrò fermato la formazione anarchica delle idee, io continuo a scavare il mio corpo.
Lo intaglio.
Scrivo cicatrici di formule per disattivare le colpe.

Il Ragno questa sera mi solleverà a testa in giù per le ginocchia.
Il dolore lombare e la pressione al cervello dovrebbero sgombrarmi la testa dalle idee per almeno una settimana.

Fallito miseramente.
Non me lo aspettavo, sono delusa da me stessa.
Mi sono svegliata piena di dolori alle gambe, ma con qualcuno che si rotola nella vasca da bagno, si lamenta.
Contavo che avrei avuto tregua. Non so.
Sigfrido non è ancora tornato e non abbiamo in programma una performance. Farò senza il Ragno, che la struttura di sollevamento è troppo grossa da aprire in casa. Mi appendo alle travi del tetto. Lo abbiamo già fatto. L’ho già fatto da sola.
Voglio una sospensione facciale.

Com’era quella storia degli orchi? Ora li vedo.
I ganci bucano la pelle del volto e inizio a vedere.
I ganci sono i loro denti, gli artigli.
Bucano e trapassano la pelle.
Un dolore mai sentito prima.
Non morirò.
So in quali punti del volto conficcare i ganci.
Qualcuno rotola nella vasca, in preda agli spasmi.
Melania è nuda nella vasca.
È una mia idea, una suggestione o un ricordo?
Gli orchi e Melania. Vaffanculo, cazzate.
Sono piccola, ho sei anni, ho i capelli lunghi e un rasoio in mano, di quelli da barbiere.
Stronzate.
Melania è seduta sul bordo della vasca e mi dice: «Tieni stretto il rasoio e passalo qui». È un ricordo o un’idea suggerita da quel cazzo di trafiletto di giornale? Dev’essere un’altra delle mie idee, perché quei rumori sono una mia idea, non c’è nessuno in casa, non c’è nessuno intorno a me. Le idee arrivano come il polline e ognuna sceglie la propria testa. Nulla è casuale.

Dodici ganci possono bastare, sono pronta.
I cavi sono predisposti. Il mio volto è un fiore di metallo, adesso, e tra poco diventerà un’esplosione di dolore. Perderò i sensi. Nonostante ventiquattro fori di entrata e uscita dei ganci attorno al viso e sulla fronte, le idee di quel delitto che non ricordo prendono luce fondendosi assieme come bolle di mercurio. Devo appendermi prima che io mi convinca di averlo fatto veramente. Non mi interessa cosa succederà. Spero di perdere i sensi, ma almeno voglio vedermi un momento. Voglio potermi guardare. Voglio vedere come sono.

Mi chiamo Iodea, ho sei anni e la mia babysitter mi perseguita. Mi spaventa, mi insegue per tutta casa. Non so se è un sogno o una suggestione dei racconti di paese, di quelle righe sulla carta stampata, ma nella testa mi ritrovo legata a dormire una notte da sola nel buio e tutta nuda dentro la vasca da bagno. Poi sento Melania che mi dice che sono stati gli orchi. E poi dice che l’orco è lei e mi vuole mangiare. Ma essendo un orco femmina, deve tagliarsi i peli dalla pelle. Un giorno si spoglia nuda e mi insegue. Mi prende per i capelli e mi trascina in bagno. Prende un rasoio, il rasoio di mio padre e mi insegna come si maneggia sulla pelle. Io stringo il pugno sul rasoio, stringo i denti e ho paura, tanta paura. Lei cade nella vasca urlando.
Chiudo gli occhi per la paura. E poi non vedo più nulla.

Apro gli occhi e mi vedo allo specchio.
Oggi.
Da quel giorno, è passato un battito di palpebre.
Il mio volto è un sole.
Il peso del corpo sui ganci fa tirare la pelle del mio volto in dodici raggi di dolore.
Mi vedo.
Mi guardo.
Svengo.

La ragazza dai capelli rossi è tornata.
La rivedo.
È Melania, la mia babysitter, ma non come la ricordavo.
È una bambina di sei anni. Ora sono io l’adulta.
Melania è scalza. Indossa un pigiama rosa con orsi e gatti. I capelli lunghi e le efelidi sparse sulla faccia come una costellazione sotto gli occhi verdi.
«Iodea, vieni a vedere», mi fa.
La piccola rossa mi fa battere il cuore.
Nessuno in casa. Sigfrido è fuori. Non mi piace stare da sola. Lo sono sempre stata.
«Devi venire di là», dice la ragazzina seduta in un angolo della stanza.
Sono inchiodata al letto. Le ferite del Ragno e dei ganci ancora non del tutto rimarginate. Il dolore e il peso del mio corpo sono un macigno, ma riesco a scendere dal letto perché sto sognando. Cammino piano sul pavimento sporco, passo oltre la bambina, lasciandomela alle spalle. Vado verso il bagno, dove sento qualcuno rotolarsi dentro la vasca. La porta è chiusa, ho paura, il rumore è presente, reale.
Devo aprire.
Spalanco la porta.
La luce mi acceca.
Mi sveglio urlando.
«Iodea, calma, stai calma», dice Sigfrido.
Lo prendo per la camicia.
Sto sul letto, lui cerca di tenermi giù.
Sono ferita. «Chi c’è, in bagno, Frido, vai a vedere», gli urlo.
Sigfrido diventa rosso. E come mai?
«Non c’è nessuno. Sei svenuta appesa ai ganci.
Cazzo, non devi farlo da sola».
Sta dicendo cazzate. Mi sta nascondendo qualcosa. Proprio come mio padre, quando proteggeva Melania.
«Non è vero che non c’è nessuno, stronzo. Lasciami, devo andare a vedere».
«Non c’è niente da vedere, stai calma. Stai delirando. Hai la febbre a quaranta. Guarda che cazzo ti sei fatta alla faccia, perdio».
«E lasciami, coglione. Che cazzo mi nascondi?»
«Chiamo un dottore».
«Cosa?»
«Stai giù, che ti sei sfigurata. Cazzo, ti sei rovinata la faccia».
No. Non devi chiamare l’ambulanza.
No. Non mi devi voltare le spalle per telefonare.
Ho un gancio in mano, coglione.

I rumori sono spariti, adesso.
Possibile?
Da quanto tempo sono in piedi a guardare Sigfrido a terra?
È stata la mia ultima idea. Il mio volto è segnato per sempre.
Alla fine, le idee sono svanite.

Eppure, avrei giurato che in bagno ci fosse qualcuno.
Devo andare a vedere.

Sto tremando. Sono attraversata da un freddo mai sentito prima. Dalla testa ai piedi. Come se tutti i fori per i ganci nel corpo fossero spalancati e il vento ne approfittasse per riempirmi d’aria. Non c’è più nessuna impronta di calore.
Vorrei urlare.
Vorrei vomitare.
Nella pancia qualcosa si muove, mi fa male. Che cazzo è?
Arrivo alla porta del bagno.
Poi sento l’odore.

Nella vasca, la bimba legata è nuda.
Mi vede.
«Signora, per favore, basta. La prego, voglio tornare a casa».