Il demone della rima, di Filippo Cerri

Effequ porta in libreria Le malaveglie, storie di paura popolare, di Filippo Cerri. Tra crudeli divinità etrusche e banchetti blasfemi, tra sirene nascoste in un’ansa del Tirreno e demoni che possono donare la rima perfetta, le storie delle Malaveglie nascono dalla stessa esigenza oscura, e si agitano nelle ombre tracciando una cupa geografia del grottesco e del folklore. Le Malaveglie sono meraviglie nere, fiabe sporche raccontate intorno a quei fuochi dove la notte è infinita.

Cattedrale vi propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

IL DEMONE DELLA RIMA
di Filippo Cerri

La rima la devi cercare sulla punta della lingua, è lì che si genera.
La prendi dal vento, non so, dalla tua prima nostalgia, dalla volta che t’è sembrato che il mondo seguisse un segreto meccanismo, che ci fosse un ordine nascosto sotto la trama dei giorni da poter svelare cantando.
Devi comprendere di essere l’ultimo di una catena che costrinse al mestiere Orfeo, lui che sottomise i misteri dell’Ade, ammansì le bestie tenebrose, perse tutto per un’impazienza, per una debolezza troppo umana che fa strano al dio. Fu fatto a pezzi e la sua voce si incagliò nel barbaglio del fiume, nel sommesso rigurgito che l’acqua produce nell’ansa, dove la schiuma si forma. La sua testa, lanciata con rabbia dalle mani sanguinanti delle baccanti, terribilmente offese, custodiva in bocca la rima segreta, quella che apre le porte a una visione senza tempo. Tutta la vita ho cercato il mistero arcano nascosto e ripetuto nei suoni della natura che solo il primo uomo ascoltò, appena fatto il mondo, un segreto che solo alcuni poeti hanno circoscritto.
Si è detto poco delle origini della poesia in ottava e dei poeti a braccio, una tradizione mantenuta da contadini e pastori semianalfabeti che nel riposo dei campi e delle greggi hanno cercato di rievocare il sentimento di una terra vergine tramite quel momento unico d’ispirazione capace di far saltare il tempo. Il riposo offerto alle ombre degli alberi sotto le quali hanno letto i classici nel momento in cui le greggi pascolavano tranquille o il lavoro dei campi era sospeso, il contatto diretto ed estenuato con un mondo immobile, il ricordo delle transumanze, dei campi incolti degli immensi latifondi, hanno fatto sentire loro di essere parte di qualcosa che non ha epoca, un sentimento prorompente grazie al quale hanno trovato, là dove posavano lo sguardo, i segni di un’Arcadia dimenticata e l’hanno cantata, con la gioia nelle vene e nella voce.

La parola poetica ha capacità magiche, l’ottava rima è solo uno dei modi che l’uomo ha trovato di incanalarne la potenza. Assistere a un contrasto poetico in ottava rima è testimoniare la meraviglia di un duello dialettico. Non si conosce bene chi per primo ha imbrigliato la rima in otto versi e imposto le regole dei contrasti: il rispetto dell’endecasillabo, la concatenazione a cui si risponde riprendendo l’ultimo verso e via dicendo. Il duello verbale dei poeti è parente strettissimo di quello degli stregoni che si contendono la supremazia di un sapere esoterico e antico, pronti a usare ogni abracadabra a disposizione per sopraffare l’avversario, è la sfida di un sapere che si fa voce, che evoca visioni sorprendenti tramite la modulazione della voce e dalla melodia.
Non è raro il caso di poeti d’ottava che, nel pieno di una trance, abbiano testimoniato di essere stati preda di una potenza superiore, una metafisica del canto poetico, che li ha resi capaci di farsi tramite di una forza primigenia, come gli sciamani siberiani, come gli invasati sacri o gli oracoli di mezzo mondo.

Mio nonno fu poeta e mi trasmise la tecnica. L’ho visto cantare ed evocare visioni di soverchiante incanto nelle piazze di borghi ora spopolati, nelle feste al tempo in cui si festeggia il raccolto, spalla a spalla con vecchi ossuti e sfiniti capaci di rianimarsi per l’attimo della rima. Fu lui a parlarmi di Menico Circi, il poeta di ottava capace di avvicinarsi più di tutti al genio, colui che evocò talmente bene i sogni di un paradiso anteriore da perdercisi dentro. Per anni contemplò gli scenari delle maremme, le valli e le piane del Centro Italia, dagli Abruzzi ai monti di Bacugno, fino a Montalto, alle valli del grossetano, sfidando i poeti ischiani, borbontini, casentini. Tutti li vinse, e cantò fino a che la pazzia non lo rese muto, un pupazzo senza più ventriloquo.
Menico Circi, il più grande e il più misero dei poeti, riuscì a intonare una melodia che solo lui sapeva e a cantare ottave di rara bellezza, ma della sua impresa si sono perse le tracce. Si diceva che, come Odino, Menico si fosse dato alla macchia, alla solitudine dei boschi e dei campi, vagabondando in cerca della conoscenza incisa nella voce delle cose e che, un giorno tra i tanti, il sipario del reale gli si fosse squarciato di fronte agli occhi e al di là dal velo della visione gli fosse apparso uno scenario primigenio. Ma la poesia orale, come la memoria, non lascia traccia, se non nel cuore degli uomini. E anche la vita di Menico Circi divenne qualcosa di più simile alla leggenda che alla cronaca. A lungo ho cercato gli indizi di quella melodia che precede i riti dell’uomo e la storia del poeta che riuscì a cantarla.
Ho molto viaggiato. Difficile chiudere in una frase così stretta il senso di un peregrinare indefesso, vasto, spesso inutile per mezza Italia. Trovai, al colmo di sforzi inenarrabili, un vecchio prossimo alla fine, in un paese che non posso riferire, in una di quelle terre in cui un tempo si veneravano gli dèi sabini. Tratteneva nel cuore il segreto, nell’occhio cieco l’importanza di ciò che aveva testimoniato. Era il figlio del figlio di Menico. Casa sua era un covo di cimici, sedie spagliate accatastate agli angoli, bucce di frutta annerite; fumava del tabacco umido arrotolato in foglie sporche e maleodoranti che gli avevano ingiallito le punte delle dita e reso i baffi un cespo di saggina. Si affrettò a dirmi che lui non cantava in ottava, non l’aveva mai fatto.
La melodia e la rima, disse, non ebbe bisogno d’altro suo nonno. Le due chiavi per la porta del paradiso. Menico, per quel che il nipote mi raccontò, sentì che se il tempo è uno solo, dentro il quale ci muoviamo tutti; esiste, tuttavia, un luogo che ne rimane fuori. Menico vide un paradiso intatto, rigoglioso, colpito da un sole gentile. Sentì il cuore colmarsi d’una gioia mai sentita, fino a che, al colmo dell’emozione, non vide qualcos’altro che lo spaventò senza riparo. Si mozzò la lingua coi denti, il dolore lo riportò al suo tempo, la visione svanì. Non ha più cantato, non è più uscito di casa. Ma la tempra era forte, e visse ancora. Vennero gli anni della demenza, quando la volontà si sottomise alla confusione dei ricordi, e il vecchio non riuscì più a trattenere le immagini che gli infestavano la mente.
Il nipote previde la domanda che covavo in silenzio, e indicò una tela grezza appesa al muro sulla quale, coi suoi mezzi, Menico aveva cercato di replicare l’esperienza di essere solo in un mondo appena fatto. Aveva dipinto il Giardino dell’Eden così come gli era saltato all’occhio. Il figlio del figlio mi indicò un dettaglio nel disegno: c’era un punto scuro, a cui Menico aveva aggiunto tempera nera su tempera nera fino a farlo diventare un grumo spesso e gibboso.
Il vecchio nipote non seppe dirmi cosa fosse, né era a sua detta in grado di rivelarmi il segreto del canto di Menico, la melodia su cui appoggiava la rima. Disse di conoscere solo una parola, e che era proprio quella a contenere la melodia. Me l’avrebbe rivelata, a condizione che giurassi di seppellirla nel mio cuore. Giurai, naturalmente. Un mugugno che non aveva niente a che fare con il canto gli scivolò a malapena sulle labbra secche, come se il respiro che lo evocava si portasse dietro una maledizione antica: Mharahammau. Risi, convinto dello scherzo: “Perché sei morto?”, canticchiai in risposta, ma il vecchio si offese, e fui invitato a lasciare la sua casa per sempre.

Con vergognoso ritardo capii che la parola magica portava davvero in sé una cadenza melodica su cui appoggiare la rima, e non me la tolsi più dalla bocca per anni. Mharahammau: vi ricavai una melodia e su quella presi a srotolare un tappeto di ottave che cantavo fino a che il fiato reggeva. Eremita tra i campi, perduto nelle selve, tra le valli del Vomano, del Fiora e del Velino, ricercai uno stato di completa adesione alla natura, intonando rime come se le strappassi ogni volta al vuoto dell’aria. Il settimo anno, un giorno tra i tanti, mentre cantavo vicino a un abbeveratoio nel mezzo della campagna desolata, arrivai lì dove il talento di Menico aveva posto la pietra miliare. E mi si spalancò la sua medesima visione.
Ho avuto soprattutto paura: c’era una bellezza terribile dietro il sipario, una bellezza che non avrei potuto contenere. C’era un profilo di monti a cui la mano del Creatore aveva appena fatto le punte, piante vigorose dagli alti fusti che si allungavano verso il più gentile dei soli, il cui calore si posava sulla pelle in un modo che mai avevo avvertito nella mia vita, e la luce dava fondo a colori la cui intensità faceva tremare il cuore. E i profumi, gli afrori densi come se l’aria fosse miele in cui tutto era immerso, un silenzio abitato da ronzii e fughe affannose di bestie docili e impaurite.
L’estasi durò il tempo di accorgermi di due occhi che erano spilli bianchi in un secchio di pece, mi scrutavano tra l’erba alta. Era il grumo disegnato da Menico. Comprendevo solo adesso cosa fosse. Era ancora là, era là da sempre, prigioniero fuori dal tempo, recluso nel Paradiso, impossibilitato a tuffarsi nel flusso dei secoli e dei millenni.
Mharahammau. Ripeteva il suo nome come un ebete, con il tono del neonato che tartaglia le sue prime esperienze di voce. Era una figura d’uomo a metà, con ali rattrappite su corpo e muso di scimmia. Capii con sgomento di avere davanti l’Avversario, il Serpente a cui una forza superiore impediva di partecipare alla Creazione. Nel momento stesso in cui l’avevo inteso avrei dovuto fuggire, come Menico fece. Ma io restai, contemplai quell’essere antico e decaduto come fosse un temporale lontano. Fui stupido, superbo. Nel gioco di un secondo mi si fece sopra, sentii la sua mano di gorilla artigliarmi la spalla, scivolare verso la gola. Nell’istante prima della fine mi tornò in mente la via d’uscita di Menico e i miei denti chiusero fuori dalle labbra la lingua, che strinsi in preda al terrore più antico. Sentivo il Male incarnato cercarmi addosso l’ultimo respiro, e chiusi gli occhi.
Mi ritrovai vicino all’abbeveratoio, lì dove il sogno era cominciato. Ero steso a terra, confuso e preda d’un dolore acuto, sentii sciogliermisi in cuore una paura che mi seccò la voce; in bocca avevo il sapore umido e ferroso del sangue e il vuoto che la lingua aveva lasciato. Senza più parole o voce o canto, dissipato come un fiume d’estate pensai di aver sognato, pregai di aver sognato. Poi mi accorsi di una fila di impronte né di bestia né di uomo: si allontanavano da me e si perdevano in direzione del bosco, facendosi sempre più vicine tra loro, come fossero il risultato di una corsa folle verso una libertà terribile.