Moscabianca edizioni porta in libreria Nella verde gola delle lupe, di Lucrezia Pei e Ornella Soncini.
Nel cuore unità matriarcale ribelle. Ana è una delle Lupe sfuggite alla Grande Ingiustizia e non conosce il monddella selva, dove secoli prima una giovane santa-cacciatrice sconfisse un grande lupo nero, vive isolata una como fuori dal verde. Finché un giorno s’imbatte in una delle misteriose creature che ogni estate le sue compagne incontrano per diventare madri...
Lucrezia Pei e Ornella Soncini tessono una storia dagli echi distopici su identità, corpi e confini ambientata in un Cinquecento alternativo, tra bestie con voci umane e un’oscura piaga che rende le bambine più preziose dell’oro. L'accompagnano le tavole allegoriche di Marco Calvi, meravigliose come antichi arazzi, che dipanano le molte verità della Storia.
Cattedrale vi propone l’incipit della novella, per gentile concessione dell’editore
Verno
Ana
Nel profondo della grotta è sempre notte, e fuori dal cerchio della torcia le altre sembrano fatte di ombra. Ana si allunga verso l’altare: la Piccola Speranza somiglia a una lucertolina stecchita dai primi freddi di verno.
Sotto la luce, ava Orfemia lava il corpicino mormorando sdentata nella lingua del Cielo, accomoda braccia e gambe malcresciute nel sudario di lepre. Quando l’ha ben stretto nelle pelli, accende un fascio di erbe spargendo nell’aria un fumo che pizzica. Nella nebbia odorosa un’ombra si stacca dalle altre: Fede si avvicina all’altare e apre il libro ordinario per guidarle nei canti delle morte. Ana le guarda la faccia tutta bianca e pieghe come quelle delle ave. Le ha svegliate piangendo prima delle preghiere del mattino: «Mia sorella…»
«Tua nonna ti rimprovera se non preghi, Ana…» Il fiato di Mamma le solletica l’orecchio.
Nonna se ne sta discosta dall’altare, insieme ad ava Esaltazia. Le torce non la illuminano sotto il
cappuccio di lupo, ma anche nell’ombrosità i suoi occhi vedono tutto – specialmente le cose malfatte.
Ana apre la bocca, ma le parole faticano a uscire. Vicino a lei Luce canta chiara e sicura. La fa sempre arrabbiare quando le dice che si impratichirà col tempo.
Come fa a ricordarsi parole che non capisce?
Sua sorella tiene gli occhi su Fede che fa piovere lacrime sul libro ordinario. Sembra che il Cielo voglia punirla: prima Nostradonna le ha preso la madre, ora la sorella. Finiti i canti, quelle che hanno tenuto la Piccola Speranza al seno si asciugano le guance a vicenda, carezzano gentili la testa di Fede.
Il latte di una è il latte di tutte.
(Nonna, però, lo diceva che andava sprecato: «Dovevamo dare la bambina al bosco quando è morta Carità».)
Ana la guarda fare parole con le altre ave. Coi manti dei cappucci di lupo calati in testa, sembrano tre bestie spaventose, ritte sulle zampe di dietro. Si avvicina cauta mentre Mamma e Luce confortano Fede.
«La terra è troppo dura per seppellirla, Anna», fa ava Esaltazia.
«Non svernerà fino addentro febbraio. L’ho letto negli spicchi di cipolla», biascica ava Orfemia.
«La conserveremo qui», decide Nonna. «Finché non comincia a puzzare».
Si accorgono di lei, e basta uno sguardo duro per cacciarla via.
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La Piccola Speranza riposa tranquilla sull’altare. Nonna ha messo all’opera le acchiappatopi più abili, e vapori di erbe si levano tutt’attorno dai cocci per conservarla profumata più a lungo.
Fede però piange lo stesso. Ana la sente quando si sveglia di notte per spargere acqua.
«È perché aveva solo una sorella?» chiede a Luce una sera mentre riparano una rete, sedute sotto la stessa pelliccia in camera grande. Fede lavora a faccia bassa in un cantuccio, tutta da sola.
Nonna è in cucina che bada alla Vecchia Speranza, ava Esalzatia sta dietro alle bambine e ava Orfemia vigila in chiesa sulle lettrici. Finché la campanella non le chiama per l’ultima preghiera possono fare parole sotto il sussurro delle fiamme, tra i sospiri stanchi della fine del giorno. Sua sorella però non risponde niente.
Mentre aspetta, Ana cerca le teste scure di Magdala e Maddalena tra le altre bambine attorno al fuoco. Hanno gli stessi capelli di Mamma e Luce, ma tutti disordinati per le gran corse di prima.
«Se ve lo meritate, vi racconto di santa Agilulfa che ammansì il lupo», quieta mielata ava Esaltazia.
Anche lei vorrebbe correre, uscire di grotta, fosse solo con zia Susanna e zia Giuditta a cogliere neve pulita dalla grande buca, non importa se tornano stanche e bruciate di freddo. Ma Nonna dice che bisogna farsi scoiattoli: raccogliere provviste col caldo e stare al sicuro col gelo. Però gli scoiattoli escono anche di verno e non fanno cestini, corde e reti, non cuciono le pelli e rassettano la cucina, non badano al
fuoco e alle malate tra il puzzo di sego per tutto il giorno…
Candida si avvicina agitando la coda e posa il muso sopra la pancia bella grossa di sua sorella.
«Luce?»
Lei gratta le orecchie della cagna. «Ha perduto anche sua madre. Tu non saresti triste?»
Ana pensa a madre Carità verso la fine, tutta ingrossata come una vescica gonfia di fiato, con le braccia e le gambe grandi come tronchi. Però a Mamma non può capitare. La sua pancia è toccata dal Cielo.
«Anche noi abbiamo perduto una sorella, e nessuna ci ha trattato così bene».
«Nonna l’ha data al bosco. Non è lo stesso». Luce sospira. «Si deve sempre essere tristi quando muore una creatura».
«Nonna dice che quest’anno siamo state benedette». Dopo tanto tempo di magra quelle dello scorso vere sono ancora tutte vive, tranne la Piccola Speranza, e le pance crescono bene sotto le tuniche.
«Le prossime possono nascere malfatte. O morire le madri».
Ana alza gli occhi sulla faccia piena di ombre di Luce. «Tu prometti che non muori». Subito si sente sciocca: nessuno decide da sé quando arriva il tempo, né il pullo caduto dal nido né la Vecchia Speranza che avrà più di cent’anni.
Luce si allunga a toglierle un ragnetto dai capelli.
«Sarà come vorrà Nostradonna».
Le sorride, ma appena finito il lavoro la lascia per sedersi con Fede.
Sembrano loro due quelle uscite dalla stessa pancia: magre, scure e tristi. Fanno parole, ma ora si sente solo la voce di ava Esaltazia che riempie tutta la camera grande: «Al tempo in cui si viveva fuori dal verde, Nostradonna visitò in sogno santa Agilulfa e le disse che in queste zone si aggirava un grave pericolo…» Si ferma un momento per fare effetto, come ogni volta. «Un grande lupo nero come il male, affamato di donne. Così la buona fanciulla venne nella nostra selva».
Ad Ana sembra di vederla, santa Agilulfa. Cammina tra gli alberi come chi vive da tutta la vita nel
bosco, è giovane e ha i capelli del colore del fuoco. Arriva al ciglio del loro fosso, dove la terra si cambia in gradoni, e sul fondo vede la loro grotta. Nello spiazzo davanti al portale mancano il pollaio e la meridiana. L’eremo è vuoto come una bocca spalancata, senza lingua e denti. Da buio e silenzio emerge un’oscurità pelosa con due file di zanne sul muso allungato e gli stessi occhi obliqui che la fissano ciechi dai cappucci delle ave.
«La bestia spaventosa si alzò sulle zampe di dietro…» – ed è davvero alta, più di madre Santina che
è la più alta tra tutte loro. Ana gli vede la pancia gonfia come prossima al parto – «… e spalancò le fauci: “Se te ne andrai senza farmi danno ti rivelerò un grande segreto”. Ma la fanciulla era retta e savia: “Non mi tenterai”».
(«Che segreto?» domandava Ana quando era più piccola delle gemine.
(«A noi non è dato sapere», la seccava ava Esaltazia.)
Agilulfa alza una mano benedicente. Il lupo perde la ferocia e si avvicina mansueto, le posa il capo sul grembo come un cane dopo le botte.
«La buona santa lo legò con la cintura. Poi chiamò la gente, che accorse con bastoni e coltelli: gli levarono la pelle per donarla alla Cacciatrice gentile e ne bruciarono le carni. Infine, nella grotta della bestia costruirono il nostro eremo…»
Nonna suona la campanella. È ora di compieta.
«Il resto la prossima volta. A pregare».