Scarso a matita, di Daniela Gambaro

Nutrimenti porta in libreria Verdissime, di Daniela Gambaro, che – dopo la vittoria del Premio Campiello Opera Prima – con la sua voce intima, misurata e ironica, torna con una raccolta di racconti sull’infanzia e sull’adolescenza. Verdi, per età o per indole. Bambine, ragazze e donne raccontate nei loro desideri più naturali: trovare una madre dopo la morte di quella biologica e manifestarlo con un singhiozzo difficile da debellare; guadagnare qualche soldo per comprare una torta o un fermaglio pieno di perline; cercare una buona maestra o un buon maestro, confrontarsi con la perdita di un fratellino e fare in modo che il lutto non sotterri anche te; rincontrare da adolescente il mito di quando si era bambine; scoprire il sesso e la libertà che possono essere nascosti in un comunissimo cassetto dei calzini; raggiungere una vita migliore dopo un lungo viaggio attraversando paesi e frontiere impervie. Irrorate di linfa giovane, con le chiome perennemente spettinate, le protagoniste di questi racconti hanno subito qualche potatura indesiderata, e i loro tronchi sono attorcigliati e storti, ma trovano un proprio modo di crescere e farsi spazio tra alberi più forti e regolari, una maniera d’esistere, d’amare e di non darsi per vinte.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Scarso a matita
di Daniela Gambaro

Il professore di Educazione artistica è un pezzo di pane. Durante le sue ore gli allievi fanno un baccano del diavolo, ma lui è come se non sentisse, come se non vedesse le palle di carta che volano compatte da banco a banco, né le mani allungate dai maschi sulle ragazze o i ceffoni elargiti in risposta, che da vicino erompono come scoppi ma che alla cattedra arrivano smorzati, già inghiottiti dal caos generale; il professore spiega assorto come si abbozza un paesaggio, come si traccia un’ombra, o come si riproduce una prospettiva.
Paolo aspetta le ore di Educazione artistica tutta la settimana e la mattina del venerdì, quando prepara la valigetta con tutti i materiali dentro – pastelli, cere, album e pennelli – si sente euforico come se stesse andando in vacanza. Cammina verso scuola e ipotizza quale tecnica si studierà oggi: chiaroscuro, acquerello, tempera, graffito su cera o collage. Lucia, accanto a lui, lo guarda e dice: Dopo le medie, se non fai l’artistico, sei matto. I capelli le oscillano intorno al viso e i riflessi ramati brillano come piccole barche che prendono il largo.
Questa pratica di alzarsi dal banco mentre il professore è voltato, e di dare una strizzata a questo o a quel seno, per Paolo è una crudeltà senza senso ma non può sottrarsi perché gli altri maschi gli direbbero che è come Simone, che se ne sta immobile al banco, con lo sguardo perso, lo sbadiglio continuo, e che tutti chiamano scemo, o finocchio, o entrambe le cose (impossibile scordare quella volta in cui Simone fu preso per mani e piedi e lanciato di faccia tra le ortiche e del modo furibondo in cui si grattò per interminabili minuti).
Le ragazze della classe sono tutte più alte e forti dei maschi, e gli schiaffi che tirano sono potenti e ben assestati. Qualcuna gioca a pallavolo e quando parte il ceffone si sente l’aria scappare, ritrarsi ai lati, come risucchiata. È difficile sfuggire a quei colpi la cui precisione è dettata dalla rabbia e dall’indignazione, e Paolo nemmeno ci prova, sta ben fermo per essere sicuro che la mano gli centri la faccia. Gli sembra l’unico modo per chiedere scusa: la guancia che brucia un po’ consola.
Oggi si studia il ritratto. Dopo la spiegazione teorica, interrotta di continuo da risate, battute e scherzi vari, il professore sistema sulla cattedra un poster della Gioconda e chiede agli alunni di riprodurla, solo a matita per il momento, massima concentrazione sul tratto. Quindi comincia a fare su e giù per la classe controllando i lavori: come vengono impostati, come devono essere corretti, dove vanno potenziati. Alle sue spalle succede di tutto: le mani dei maschi arrivano da dietro, toccano, soppesano, stringono; quelle delle femmine scattano, puniscono, si ritraggono. Il professore procede ignaro. La sua fiducia nei confronti degli studenti è incrollabile. Tale è l’amore che prova per la sua materia che non può proprio avvertire il disinteresse generale, l’approccio gigionesco, l’utilizzo becero di quelle ore, più libere delle altre, per fare chiasso e importunare. Al disegno di Paolo il professore dà un’occhiata pregna di aspettative, poi se ne allontana fiero, ricaricato. Paolo osserva Lucia al banco di fianco. Cos’è la Gioconda rispetto a lei?
Anche Lucia lo fissa: che peccato, sembra dicano i suoi occhi, che peccato che non si possa godere tranquilli di quello che quest’uomo ha da insegnare. E che peccato anche per te, Paolo, per quello che sei costretto a fare.
Tutti i venerdì va consegnato il compito assegnato la settimana precedente: il professore lo esamina, lo commenta davanti alla classe e dà un voto. Se qualcuno, per negligenza o dimenticanza, non porta il lavoro a scuola, riceve uno scarso, che viene scritto a matita sul registro e che potrà trasformarsi in un indelebile scarso a penna il venerdì successivo, se l’alunno non avrà rimediato consegnando l’arretrato. Visto il tempo a disposizione, lo scarso a penna non viene di solito mai assegnato. L’alunno moroso consegna il compito e il professore cancella con la gomma lo scarso a matita: usando il profilo della mano sposta dal registro i trucioli arricciati, e quasi con sollievo assegna il nuovo voto riparatorio.
Bravo, dice con soddisfazione, hai recuperato il tuo scarso a matita.
Il compito da fare per oggi era il ritratto di un compagno di classe e Paolo ha disegnato Lucia. Non è stato difficile: via via che il viso di lei si andava delineando sul foglio, ogni sfumatura si aggiungeva alla precedente da sola, come una carezza. Il professore, nel vederlo, si illumina come se avesse trovato la ragione del suo stesso esistere e mostra il lavoro alla classe: Guardate che bel ritratto ha fatto il vostro compagno! Lo fa senza considerare che gli animi dei suoi allievi ignoreranno completamente la finezza della fattura e la delicatezza del tratto e si concentreranno invece, maliziosamente, sulla stranezza della scelta di Paolo. Finora nessun maschio ha mai disegnato una femmina, né alcuna femmina ha mai raffigurato un maschio, in nessuna delle esercitazioni proposte nel corso di quei due anni di scuola media. Paolo si rende conto solo ora della propria avventatezza. Per il desiderio di compiacere Lucia ha sottovalutato il terremoto di ottusi pensieri che si poteva scatenare.
Amore, uccello, passerina, anello, matrimonio.
Queste le parole più ricorrenti nella presa in giro che lo aspetta durante l’intervallo. Un cerchio si stringe attorno a lui e dimenticando per qualche minuto le ragazze, i compagni si concentrano sul pittore innamorato, rendendolo l’oggetto primario dello scherno quotidiano. Nelle loro parole non c’è però soltanto la giocosità un po’ volgare della presa in giro, c’è il risentimento per quel segreto tenuto nascosto, il sospetto che lui si senta sopra e oltre il gruppo. Solo ora si spiegano perché Paolo in classe non abbia mai sfiorato Lucia, neanche per sbaglio. E come avrebbe potuto? Non sarebbero bastati tutti gli schiaffi del mondo per mettere a tacere il senso di colpa, né a calmare il cuore che già scalpita confuso ogni volta che la vede spuntare dal portone di casa sua. Si sarebbe fermato, il cuore, atterrito e pieno di vergogna.
E adesso una bella dichiarazione, mettiti in ginocchio e facci sentire! Lo incalzano. Paolo fa segno di no, che hanno capito male, e più fa così e più loro, sghignazzando, lo spingono in massa verso il banco di lei. I piedi puntati sul pavimento scolorito, avanza suo malgrado, ignobile zimbello tra gli echi del coretto: Matrimonio! Matrimonio! Paolo si divincola, trattenendo malamente l’insofferenza, che esalta ancor di più i compagni. Lucia, che stava parlando con le amiche, si volta e lo osserva avvicinarsi sotto i colpi ritmati di quelle spinte ostinate, di quelle mani che come al solito non vedono l’ora di toccare e umiliare. Gli offre i suoi occhi come appiglio. Paolo, grato, ci si aggrappa: Diglielo tu che ci conosciamo da una vita! Che i nostri genitori ci mettevano nella culla insieme! Che siamo cresciuti così!
Lucia fissa severa il gruppo che aspetta col fiato sospeso, sperando in una smentita.
Siamo amici da quando eravamo piccoli, conferma invece tra la delusione generale. Siamo come fratelli, ribadisce tra il chiassoso ritrarsi ai banchi dei ragazzi orfani di burle.
Paolo le lancia uno sguardo di gratitudine, che lei ricambia appena, tornando svelta ai discorsi con le amiche, qualcosa sui programmi per il pomeriggio. Paolo si chiede se quella fretta, quella specie di noncuranza, sia un modo per dirgli che è arrabbiata. Forse non voleva essere coinvolta, e forse l’ha delusa quella sua richiesta di aiuto, fatta per uscire da una situazione che avrebbe potuto districare da solo.
Il pensiero lo tormenta per tutta la settimana, anche se Lucia si comporta come sempre, come se avesse dimenticato; mentre vanno e tornano da scuola, lei parla dell’interrogazione di Geografia, o dell’incidente nell’ora di ginnastica in cui una compagna, per difendersi dai soliti palpeggiamenti maschili, ha schiaffeggiato un ragazzo e l’ha mandato in ospedale con la cornea graffiata. Paolo ascolta distratto, cercando il coraggio di indagare quel dubbio che non lo abbandona nemmeno di notte, quando le palpebre sono chiuse sugli occhi: ha sbagliato? cosa avrebbe dovuto fare?
Oggi è di nuovo venerdì, giorno di Educazione artistica. Paolo e Lucia camminano un po’ discosti, a ritmo sostenuto per rimediare al ritardo mattutino. Obbligati a sostare, mentre osservano il disco rosso del semaforo dall’altro lato della strada, Lucia confida che ieri non è riuscita a finire il suo paesaggio a tecnica libera. Paolo si offre di cederle il suo per evitarle uno scarso a matita. Ha fatto un graffito su cera che raffigura quello che si vede dalla finestra: l’argine del canale, la gente che passeggia, e intorno i campi rivoltati dal passaggio dell’aratro, con qualche passero in cerca di cibo. Ma Lucia scuote la testa, non vuole il suo disegno.
Ieri sono stata al parco del museo con Simone, dice. Voleva parlarmi.
Simone voleva parlarti? E di che?
Mi ha chiesto di mettermi con lui.
Paolo ride a quell’idea: E tu che gli hai detto?
Gli ho detto che si può fare.
Lui la fissa. Lei gli sorride. Forse è uno scherzo.
Non guardarmi così, spiega lei. Tutte in classe hanno baciato, resto solo io. E poi Simone è uno dei pochi gentili, a parte te…A parte te, cosa? A parte te che sei un amico? Che sarai sempre un amico? O forse – no, no, ti prego – che vuoi essere solo un amico.
Aprire la cartellina dei materiali, frugare e tirare fuori la lametta da barba, quella che in classe si usa per il graffito su cera. Ecco, guarda bene Lucia, adesso con questa io gratto la cera color rosa, quella della pelle, e continuo finché non arrivo alla cera bianca, l’osso. Ma non preoccuparti, quello rosso che vedi non è sangue, è solo un fiume di cera color carminio. Questo Paolo vorrebbe fare, invece di camminare muto, troppo veloce, con lei che ora lo rincorre a piccoli passi: Aspetta, ho la gonna stretta, non ti sto dietro!
Per tutta la mattina Paolo evita di guardare verso il banco di Simone, per paura di confrontarsi con quello che lui stesso avrebbe potuto essere e non è, ma alla fine lo fa. Si volta e lo studia: la fissità del suo sguardo è svanita (era reale?), la sua postura non è così femminea come tutti hanno sempre pensato (l’avranno immaginata?) e il suo starsene da solo, su un banchetto un po’ appartato rispetto a quelli dei maschi raccolti vicini, non gli pare più quel chiaro indice di stupidità che gli è finora sembrato.
Quando arriva l’ora di disegno e il professore lo chiama alla cattedra, Simone si alza e consegna il suo foglio. Ha disegnato a matita due figure appena abbozzate nel parco del museo, con i platani e gli abeti, ma nel disegno i due soggetti, maschio e femmina, sono indistinguibili, le panchine sembrano sassi e i sassi paiono fiori. Il professore sospira e gli dà un sufficiente motivato soprattutto dalla pietà verso la sua indiscutibile assenza di talento. Eppure Paolo pensa che Simone, con quelle due figurine, per il solo fatto di averle immaginate insieme e di averle fatte convergere al museo, di aver proposto quello che ha proposto ieri pomeriggio, avrebbe meritato un buono, anzi un ottimo, e che nessun altro voto, per quanto alto, varrà mai un centesimo di quel suo sufficiente. Vieni tu, Paolo? Lo chiama il professore, con occhi premurosi e bendisposti. Paolo spinge il suo paesaggio in fondo alla cartellina, e risponde: Non ce l’ho il compito. È la prima volta in due anni che manca una consegna e il professore sbatte le ciglia su e giù, incredulo, e spera fino all’ultimo in una scusa ineccepibile, in un inevitabile contrattempo. Ma Paolo non parla, non si giustifica. Come spiegherebbe che un voto lui non lo vuole, che non lo merita?
Devo metterti uno scarso a matita, lo sai? dice il professore, con il tono amareggiato di chi sta per infliggere una pena controvoglia. Paolo annuisce risoluto e Lucia lo guarda, incuriosita da quel comportamento, mentre il professore indugia combattuto: vorrebbe approfondire, ma la vista di un banco sollevato e fatto ricadere di schianto in fondo all’aula lo distoglie dal suo proposito. Cosa fate? Il banco viene rimesso al suo posto. Il professore sospira, cerca il rigo giusto sul registro e scrive lo scarso a matita, poi passa a esaminare i disegni degli altri studenti, ma lo fa con prostrazione, senza la minima speranza di trovare una scintilla, un incentivo, una ricompensa. E in quell’arrancare stanco, in quell’assenza di orizzonti, il suo udito è come se pian piano andasse perdendo l’impermeabilità al rumore che nasceva dalla sua predisposizione amorosa verso la materia e i ragazzi. Improvvisamente comincia a sentire i bisbigli, le risate, il clangore dei banchi sbattuti, l’esplosione degli schiaffi. Basta! Tuona al colmo della sopportazione, atterrito dalla scoperta di una realtà finora ignota. Cos’è oggi questa confusione? Non si può lavorare con questo rumore!
L’aula si fa silenziosa in modo inedito, sorpreso. Le mani abbandonano i seni delle compagne e tornano vicine ai corpi di appartenenza, gli schiaffi a mezz’aria fanno dietrofront. Il professore posa con gravità una formella per il chiaroscuro sulla cattedra, i ragazzi lo fissano per un attimo poi frugano negli zaini alla ricerca dei materiali e si mettono a disegnare. Si sentono i temperini che macinano e le punte delle matite che grattano sulla carta.
Paolo si guarda intorno incredulo: le teste chine sui fogli, i gomiti posati sui banchi, le dita allacciate alle matite. È miracolo o realtà? Durerà o scomparirà nel giro di una mattinata? I suoi occhi corrono verso quelli di Lucia, per commentare quello che sta succedendo, quello che loro, loro due insieme, hanno sempre sperato che sarebbe accaduto. Ma Lucia è intenta a tracciare una linea, assorta e quieta, e quando il suo viso si solleva dal foglio, increspandosi in un sorriso, lo sguardo che cerca non è il suo.