ExÒrma Editore porta in libreria Viaggetti in Emilia, di Paolo Marlini e Maurizio Silvestri.
Si parte dalla Val Trebbia, da nord, con l’idea di oscillare tra l’appennino e il Po percorrendo strade periferiche. Ci si allontana dalla Via Emilia cercando un diverso baricentro: da una parte “sotto la strada”, il mondo che sale verso l’appennino, dall’altra “sopra la strada”, quello della pianura che dilaga verso il grande fiume.
La geografia dei corsi d’acqua e delle valli ci guida alla ricerca dell’osteria perduta, piacevolmente trascinati da un’onda anomala di luoghi, persone comuni e personaggi noti, scrittori, poeti, trattorie, cibi, libri, vini, film, canzoni, montagne, fiumi…
Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.
Il mondo di Novellare
di Maurizio Silvestri
Grandi risaie e filari di pioppi, e all’orizzonte montagne maestose, non si può dire che sia il paradiso ma è il paese dove son nato. La gente chiusa e un poco scontrosa ma quando ama sa amare davvero.
È l’attacco de Il paese, una delle canzoni immancabili a ogni concerto dei Nomadi, e il paese in questione naturalmente è Novellara, che ha dato i natali allo storico complesso (negli anni Sessanta si chiamavano così i gruppi musicali) e ad Augusto Daolio, suo leader e voce iconica. Le grandi risaie non ci sono più, Augusto è scomparso prematuramente trent’anni fa, ma a Novellara il suo ricordo è sempre vivissimo, anche tra coloro che, quando lui cantava, non erano ancora nati. Dall’anno successivo alla sua scomparsa, a Novellara si svolge annualmente il 18 febbraio, la sua data di nascita, il Nomadincontro, una due giorni di mostre e concerti in ricordo di Augusto che richiama in paese un grande pubblico da tutta Italia.
Quando ho detto all’autista che sarei sceso a Novellara, scherzando mi ha fatto una raccomandazione: “A Novellara puoi fare tutto, tranne parlar male dei Nomadi”. E non tanto perché attualmente la sindaca della città è Elena Carletti, figlia di Beppe, fondatore dei Nomadi insieme ad Augusto, quanto perché sono l’orgoglio cittadino, un simbolo di cui il paese va molto fiero. Se si trovasse in America, Novellara probabilmente sarebbe stata già ribattezzata “Nomadland”.
La fermata è di fronte alla stazione della ferrovia, di fianco c’è il più classico dei bar anonimi, dietro il bancone del quale un ragazzo cinese serve caffè e birrette a gente impegnata alle macchinette slot. Novellara è un municipio multietnico, considerato una capitale della solidarietà e dell’integrazione. Qui c’è la più grande comunità sikh d’Italia, che è la forza lavoro alla base del parmigiano reggiano ma anche di molte altre industrie. Mimetizzato nella zona artigianale c’è il Gurdwara, il tempio più importante della religione sikh in Italia, il secondo in Europa. Oltre cinquemila gli abituali frequentatori. A Novellara circa il quindici per cento dei residenti regolari sono stranieri extracomunitari. È come se in Italia ne abitassero regolarmente nove milioni, cioè il triplo di quanti sono attualmente registrati.
Sotto la pensilina c’è una ragazza seduta sulla panchina, indossa jeans chiari e occhiali scuri. Ha gli auricolari, forse non ascolta i Nomadi o forse sì, ma è certo che quando Augusto è morto lei non era ancora nata; però alla mia domanda risponde pronta, certo che lo sa dov’è il cimitero e mi indica la direzione dalla parte opposta del paese.
Novellara è una di quelle città assolutamente di fiume senza essere sul fiume, il Po si respira nell’aria, si intravede sui morbidi colori pastello delle sue case che si incendiano al sole del tramonto, si intuisce nella sinfonia dei suoi portici eleganti e austeri, te lo immagini scorrere lì in mezzo, tra la torre della Rocca gonzaghesca e il campanile della Collegiata.
Per scoprire dove si trova la tomba di Augusto Daolio è sufficiente domandare alla prima signora che esce dal cimitero. Lo chiedo timidamente con il timore di essere inopportuno, ma lei sfodera un sorriso materno e non ci pensa due volte a tornare indietro e accompagnarmi davanti a quello che tutto sembra meno che un sepolcro. “Eccolo qui il nostro Augusto”, mi dice salutandomi, perché Augusto Daolio è il figlio di tutte le mamme di Novellara, il fratello maggiore a cui chiedere consiglio o l’amico di ogni scorribanda.
In effetti non sarebbe stato difficile trovarla da solo. Intorno alla tomba, che si trova ai piedi di un biancospino dai rami ancora spogli, ci sono una quantità impressionante di ex voto e di omaggi lasciati dai fan provenienti da ogni parte d’Italia che frequentano assiduamente questo luogo. Sigarette, targhe, sciarpe, bandiere, fiori, biglietti, libri, quaderni, fotografie, quadretti, magliette, lumini, cappelli, taccuini, fogli sparsi, una chitarra, peluche, decine di poesie, versi e semplici pensieri incisi su targhe di ogni tipo sono il segno della perenne devozione e del massimo rispetto di cui gode Augusto Daolio.
Tra la selva di oggetti e l’edera che coprono la pietra tombale, si intravedono scolpiti due mani, un sole, un flauto, il serpente e la frase “Amico mio benedetta sia la pietra che testimonia la nostra breve amicizia”. Incise su una stele di fianco le date 18.2.1947 e 7.10.1992. Me la posso solo immaginare, quel giorno di ottobre, la folla immensa che era qui a salutarlo. Amo visitare i cimiteri in cui sono sepolti gli artisti e ne no visitati molti, ma questo è uno dei più incredibili e vitali sepolcri che abbia mai visto. Augusto Daolio è ricordato per la sua voce unica e caleidoscopica, ma è stato un artista completo oltre che libero, ha lasciato una grande quantità di poesie, disegni, pregevoli dipinti, alcuni dei quali sono conservati nella sala consiliare del comune, intitolata a lui.
Felice della visita non mi resta che tornare verso il centro passando davanti al gigantesco murale che il municipio gli ha dedicato di fronte alla sua abitazione. È ritratto in una posa pensosa con la sua folta barba grigia e gli occhiali tondi, tra le dita l’inseparabile sigaretta.
Ma più di piazza Unità, più dei portici, più della tomba di Augusto, il luogo magnetico di Novellara è la Rocca. La sua torre con le campane e l’orologio si staglia alta e rassicurante come un faro. È il retaggio del ducato dei Gonzaga che qui hanno governato più di due secoli, è una delle meraviglie delle piccole corti padane che hanno creato modelli culturali con un secolo di anticipo rispetto al Rinascimento.
Dentro la rocca di Novellara ci puoi passare un giorno intero, è uno spazio vivo. C’è la sede del comune, la biblioteca, il museo dei Gonzaga con una preziosa collezione di vasi farmaceutici, c’è un grande prato con un pozzo e tre enormi ippocastani su un lato, un set perfetto per concerti e spettacoli ma anche solo per stare seduti su una panchina e godersi il brusio della vita che scorre incurante di te. Infine a impreziosire il tutto c’è il teatro, dedicato a Franco Tagliavini, cantante lirico novellarese del secolo scorso. È nel foyer che incontro casualmente Maria Grazia, con la quale non ci siamo mai visti ma è come se fossimo vecchi amici. Occhiali tondi e capelli castani che le cadono sulle spalle, ha un’allegria contagiosa e sprigiona energia. Mi guida all’interno della bomboniera da duecentosettantacinque posti e tre ordini, inaugurata nel 1858 sulle rovine dell’antico teatro di corte gonzaghesco, progettato a immagine del teatro Valli di Reggio. Ora è deserto, ci accoglie solo il profumo avvolgente dei preziosi velluti.
Maria Grazia lavora per Etoile, centro teatrale di Reggio Emilia responsabile di Teatro Lab, il progetto di formazione teatrale organizzato in collaborazione con il comune di Novellara e scuole superiori di tutta Italia. Quest’anno le scuole partecipanti vengono dalla Puglia, da Trieste, da Cuneo e quattrocento studenti rimangono in paese per tre giorni. Mentre siamo lì entra un gruppo di ragazzi dai volti belli e radiosi. Vengono da Olanda, Portogallo e Italia, devono preparare l’allestimento per lo spettacolo che faranno domani. Maria Grazia è di origini pugliesi, è laureata in Storia dell’arte a Perugia, ha una passione coltivata da sempre per il teatro, vive in Emilia da quindici anni. Lavora molto nelle scuole e mi racconta che c’è una forte integrazione tra i ragazzi italiani e gli stranieri. “A Perugia mi sentivo forestiera, qui invece è stato subito diverso. La città di Reggio Emilia è molto aperta ma l’integrazione è il valore aggiunto anche in centri piccoli come Novellara”.
Per provare a capire qualcosa di più di questo singolare comune che ha fatto della multiculturalità una bandiera, mi faccio accompagnare al bar La Fenice, sulla provinciale tra Novellara e Bagnolo in Piano. È un bar come un altro, con i giornali sportivi e la radio locale in sottofondo che dispensa musica pop, frequentato per una pausa pranzo veloce o un aperitivo. Lo gestisce Youssef Salmi, originario di Rabat, in Marocco, arrivato a Novellara nel 1990 dove ha vissuto i primi anni da clandestino. Incollato sul bancone c’è un foglio con una piccola lista di “Parole belle”, tratte da un vecchio libro delle scuole elementari degli anni Sessanta: “Permesso? Grazie, Prego, Scusa, Buongiorno”. Di fianco una cassetta per le donazioni all’Associazione Augusto per la vita, che da decenni raccoglie fondi per la ricerca oncologica. Sulla bacheca alle mie spalle, un foglio che recita “Uno straniero per amico”, scritto dallo stesso Youssef.
“Quando sono arrivato ce l’ho messa tutta per inserirmi attraverso il lavoro e lo sport. Ho trovato subito un’occupazione come operaio e mi sono inserito in fretta, ma negli anni Novanta la società italiana era più ricca ed è stato più facile”. È riuscito a inserirsi così bene che in dieci anni è passato dalla condizione di clandestino a essere eletto nel consiglio comunale di Novellara con la carica di assessore alle politiche giovanili. Volto pulito, capelli neri, Youssef parla veloce un italiano molto corretto e ti guarda dritto negli occhi. Continua a lavorare mentre racconta la sua esperienza, ha una battuta sempre pronta per tutti ed è molto solerte nel servizio. Ha due figli, un maschio e una femmina, che oggi hanno più di vent’anni e sono i figli dell’integrazione ideale, ma non è stato facile.
“Mia figlia è fidanzata con un ragazzo italiano, ma ho dovuto scontrarmi con la mia famiglia d’origine per farle accettare questa unione. Secondo i miei connazionali avrei anche sbagliato l’educazione dei miei figli. Parte della mia famiglia non ha mai accettato nemmeno che io sposassi una donna cattolica”.
Sullo sfondo la vicenda di Saman, la ragazza pakistana di Novellara uccisa dai famigliari perché rifiutava un matrimonio combinato. Secondo Youssef fino al 2016 c’era un sistema di integrazione che poteva contare su un fiorente associazionismo, si organizzavano feste multietniche, eventi sportivi e culturali che stimolavano la conoscenza reciproca. Come assessore ha fatto anche realizzare un cortometraggio sul problema delle relazioni miste tra ragazzi di religione diversa. Sull’integrazione ha una sua teoria. “Non la pronuncio questa parola, perché riguarda due corpi estranei. Tolgo la “g” di ghetto e parlo invece di interazione, cioè convivenza senza spogliarsi della propria cultura. Vorrei scrivere un libro dal titolo Vocabolario di convivese”. Non abbiamo servizi sociali articolati per gli immigrati. Durante la crisi economica degli ultimi dieci anni non sono state create le condizioni per far restare tutti gli immigrati arrivati negli anni, costringendo molti stranieri che avevano già fatto un percorso di inserimento ad andarsene. Tutti quelli che non avevano una rete di protezione se ne sono andati con il semplice permesso di soggiorno e quelli che sono rimasti comunque non sono trattati come prima. Adesso si ricomincia da zero con i nuovi immigrati”.
Oggi è uscito dalla politica ma il suo impegno sociale continua attraverso il lavoro. “Non sono pessimista, ma realista, l’Italia oggi non è pronta ad assorbire un nuovo flusso migratorio, non ci sono le condizioni. Gli africani e gli asiatici ora dicono: come, bloccano le navi di immigrati di colore che vengono da guerre ma accolgono a braccia aperte gli ucraini che vengono ugualmente da una guerra? C’è un peso e due misure!”. La parola d’ordine deve essere apertura. Si deve lavorare dentro le scuole, è lì che c’è la dimensione internazionale: ragazzi da tutto il mondo e di ogni colore. E mi saluta con un proverbio africano: “Se vuoi arrivare subito vai da solo. Se vuoi andare lontano vai accompagnato”.