Elegia alla signora Nodier
di Silvio d'Arzo
È stato detto che tutti noi, almeno per un certo periodo, viviamo una vita non propriamente nostra: finche ´, ad un tratto, arriva il «nostro giorno», qualcosa come una seconda nascita, e solo allora ciascuno di noi avrà la sua inconfondibile vita.
Io ho avuto modo di riscontrarlo in più d’uno. Ma, quanto alla signora Nodier, proprietaria dei campi confinanti coi nostri, mi sembra che essa abbia sempre vissuto la sua.
Caso abbastanza singolare, la signorina Nodier aveva raggiunto i venticinque, i trent’anni ed anche più, senza sposarsi: non solo, ma senza esser mai stata nemmeno richiesta. Eppure era distinta e quasi ricca, avendo terre, un po’ qua e un po’ la `, per quasi tutta la provincia. Inoltre, chi l’ha conosciuta ancor giovane ricorda ancora come la sua espressione tendesse continuamente alla bellezza, senza però mai raggiungerla: che è poi la sola maniera di esser belle sul serio e per sempre. La trovavano, insomma, sprezzante. Ma nessuno aveva abbastanza spirito da ammetterlo. Si trovava più comodo dire «che non c’era femminilità in lei », « che non aveva senso della vita» (la frase più usata era questa) ed altre tristi sciocchezze.
Verso i trenta, come accade in provincia, non si parlò più di lei. E cosı ` per cinque, sei anni. Ma, proprio sul punto che stava per raggiungere quell’età in cui delle signorine distinte, con relazioni, e di ricca famiglia si va vagamente dicendo che «fanno del bene», la città all’improvviso riseppe che si sposava col generale B.D.
La cosa lì per lì apparve strana (in provincia appaiono strane le cose anche più ovvie): benché veramente nessuno riuscisse a spiegarsene il perché. Ma quando qualche tempo più tardi, si ebbe modo di conoscere il generale B.D., di vederlo a pranzo o alla caccia, la cosa fu trovata sin troppo naturale. E, a parte l’assurdità, era perfino il caso di pensare che lei si fosse compor tata per anni ed anni a quel modo, sfidando con inalterabile calma, disprezzo, ironia e l’ombra di un malinconico avvenire, nella certezza di quell’avvenimento.
Sul momento il generale deluse. Poi, ad un tratto, si riconobbe che era elegante: leggermente convenzionale, ma elegante: e che la sua eleganza consisteva appunto nel fatto che la si era notata solo dopo qualche tempo e per caso. Poi, di lì a poco, si ammise, addirittura che era un uomo di spirito. «Ah, ma è un uomo di spirito... Però ha dello spirito, conveniamone...»si sorprendevano a dire come se qualcuno li avesse contraddetti e la cosa avesse particolare importanza.
Il generale, in realtà, non aveva in nessuna maniera l’aspetto e i modi di un militare: e lo stesso suo passato era il meno militare che si potesse ragionevolmente supporre. Era stato un po’ qua, un po’ là per il mondo, con incarichi fra burocratici e politici, e alle campagne aveva partecipato solo raramente e alla lontana; il suo nome non era mai stato legato a una giornata: in compenso, però, non aveva mai commesso errori o sciocchezze, e non era mai apparso ridicolo: quella noncurante ironia, con cui riguardava la sua carriera, ed in fondo ogni sua azione, glielo avevano sempre impedito. Con tutto questo, però, generali dei più conosciuti, dai nomi familiari ai giornali, gli chiedevano spesso consigli.
Egli giunse ai primi di ottobre. E per qualche giorno lo si vide girare un po’ dappertutto, come un turista discreto, con al fianco una cagna scozzese. Lei, spesso, non c’era. Ma nessuno notò come questa mancanza fosse, a suo modo, qualcosa di più della stessa presenza. Un pomeriggio, poi, qualcuno lo vide a caccia nella campagna vicina, in fustagno olio cotto e stivaloni rossicci: e la cagna era sempre al suo fianco. Alla fine del mese si celebrò il matrimonio e noi non lo ve demmo mai più.
Erano andati ad abitare, come seppi più tardi (confesso che feci di tutto per non perderli troppo a lungo di vista), in una sua vecchia villa di campagna, dove, nel periodo della caccia, egli era solito ritirarsi ogni anno. Ma noi non ne sapemmo più niente. E del resto nemmeno quelli del paese avrebbero potuto dire granché: sempre ammesso che un paese possa trovare particolare interesse per una coppia in fondo così ragionevole e composta, e senza la minima stravaganza. Solo un diario, mi sembra, avrebbe potuto dire qualcosa. Ma i diari, in cui le pause abbiano un significato maggiore anche delle stesse parole, si vanno facendo ogni giorno più rari e io giurerei che, a quei tempi, la signora Nodier non ci avesse ancora pensato.
Egli partiva, ogni mattina, per la caccia; e lei lo guardava, ogni mattina, dai vetri della stanza allontanarsi fra i campi con al fianco la cagna scozzese. Qualche volta essa apriva ridendo la finestra per richiamarlo e ricordargli qualcosa. Qualche altra, che lui si era dimenticato, ad esempio, il coltello– cosa che accadeva abbastanza spesso– essa glielo mostrava di là, agitando il braccio, e la cagna, di colpo, accorreva a prenderlo in bocca. Non più di questo, a ogni modo: perchè tutto questo, e non più, poterono vedere ogni giorno servitù e giardiniere.
Più tardi seppi anche che essi non fecero mai il minimo progetto sull’avvenire, e ben di rado si chiesero che cosa il giorno dopo avrebbe loro portato. In autunno la nebbia saliva presto dal fiume. Per le strade di campagna, già dure del primo gelo, non si vedeva quasi nessuno. A volte, l’unico segno di vita era il volo di un’anitra selvatica: tal’altra, verso il crepuscolo, il bambino colla capra che ritornava pigramente alla casa. Naturale perciò che, nei tardi pomeriggi o verso sera, le conversazioni fossero lunghe e frequenti. Tutte rivolte al passato, però. Ed essa potè dirsi veramente sicura di lui, solo quando fu riuscita a conquistare tutto il suo passato.
Una volta, tra l’altro– era venuta a un tratto a mancare la luce per via di un temporale che si abbatteva sui prati e le serve correvano qua e là per gli anditi in cerca di candelieri–,essa gli chiese dei suoi vecchi amori. E la domanda fu così naturale, che egli non s’accorse nemmeno della sua naturalezza. Quella sera parlarono a lungo; e quando la serva bussò per portare la luce fu pregata di tornare più tardi.
Con tutto questo, però, ella non diventò mai un personaggio: né cadde mai nella leggenda, così facile soprattutto in paese. Fu sempre viva, e comprensiva, e di spirito. Così di spirito, anzi, che capiva perfettamente come in questo loro atteggiamento ci fosse anche egoismo, e che era ragionevole quindi l’ostilità e l’antipatia della gente.
Ma due giornate la rimisero, per qualche tempo almeno, nel mondo, benchè poi, di lì a poco, essa riuscisse a farle completamente «sue»: quando il generale, colla sua cagna, partì per la guerra in colonia, e quando, sette mesi più tardi, gliene fu comunicata la morte.
Fu, mi ricordo, in settembre, e i giornali ne diedero l’annunzio in due righe.
Ma noi lo sapemmo solo molto più tardi e per caso, per via di una vocale sbagliata.
Fu (qualche volta la banalità è inevitabile) una cosa terribile.
Tanto più che lei la trovava assolutamente ingiusta, mostruosa, come una cosa che esca dal suo ordine naturale. «Ah, Dio mio» le accadeva di dire torcendo il fazzoletto od i guanti, «perchè a me, proprio a me?Ma per gli altri è diverso... Ma sì, sì, è diverso, diverso. Senza nemmeno confronto» aggiungeva, poi, con impazienza, come in risposta ad un’interna obiezione. «Non dimenticano, forse? Non dimenticano ogni giorno di più?» E faceva nomi; e pensava perfino che in questo soprattutto s’assomigliassero gli uomini. Né mancarono momenti in cui fu convinta d’essere perseguitata da qualche cosa di più intelligente e personale dello stesso destino. Provò a far del male e poi del bene, ma l’uno e l’altro con soddisfazioni ben povere: e se alla fine decise di attenersi al bene soltanto, fu perché, dopotutto, la cosa le era molto più facile.
E, questo, per alcuni mesi di seguito. Fino, cioè, a mezzo marzo. Allora la si vide di nuovo, se pur raramente, uscire in paese: alle volte faceva delle piccole compere inutili, alle volte parlava brevemente con qualcuno. E fu proprio in quei tempi che prese a tenere il suo diario. «Ah, ma io non son più la stessa. Sono di ventata così buona» scriveva qualche giorno più tardi «che riesco a guardare di buon animo anche le felicità degli altri a due passi da me. E non me ne offendo più; è mai possibile? Non sento nemmeno più invidia...» E poi, quattro pagine dopo: «Comincio a preoccuparmi realmente. Ma non so proprio che farci: sarei disposta a dare metà di me stessa...» e via di seguito.
Essa era, sì, disposta a dare metà di se stessa: ma non certa mente ad accettare l’altra metà che la gente necessariamente le avrebbe voluto dare in cambio. E dovette accorgersi presto che il dono non sarebbe mai stato accettato, senza accettare, a sua volta, il compenso. Ora, questo era chiederle troppo. Era superiore, realmente, alle sue forze.
Gli stessi contadini, inoltre, non avevano più l’antico rispetto, ma la guardavano con una certa espressione come se lei avesse oscure colpe. Quella, ad esempio, di sorridere di certe cose e problemi sui quali essi, invece, giuravano: di essere serena, lontana e di avere in fondo, per loro, non più che una materna ironia: quella, forse, della sua stessa presenza. «Il generale sì che ha capito» li sentiva quasi pensare. «Si è accorto che non ci saranno più tempi per lui... Se ne è andato in tempo... Ha capito... Ma lei, lei cosa aspetta? »
Fu allora che si ridusse a vivere quasi senza interruzione nella villa: e, poichè vi era nel parco una vecchia cappella che ebbe cura di far restaurare, non usciva nemmeno per andarsene in chiesa. Questa specie di isola fu, in definitiva, la sua salvezza: e, a poco a poco, la morte del generale si andò tramutando via via in una sopportabile infelicità: in una, neanch’io so, eterna sera. A una nuova scossa ella non avrebbe, forse, resistito: ma, certamente, non avrebbe resistito allo spegnersi di quella infelicità. Ella se l’era venuta costruendo giorno per giorno, come altri, giorno per giorno, si va costruendo la sua illusione: era, a modo suo, un’illusione, verso il passato anziché verso l’avvenire: le era assolutamente necessaria: era, insomma, se stessa. Nella villa, adesso, ogni cosa le parlava del generale e di tutto quello che, ai suoi giorni, egli aveva significato per lei: vecchi tempi e serenità e cortesie ed altro ancora. Ella aveva però un’inarrivabile cura nell’evitare ogni cosa od incontro che rendesse troppo recente e vivace quei ricordi: perchè allora il dolore avrebbe preso di nuovo il posto di quella sua dolce infelicità, e questo non lo voleva in nessun modo. Rifiutò, per esempio, di andare ad assistere a una cerimonia in memoria di lui, e non lesse nemmeno un discorso che ne ricordava la morte. Un giorno, sì, sarebbero diventati ricordi e lei sarebbe venuta di mano in mano riscoprendoli: ma ora erano soltanto vita, era il giorno appena passato: e la vita era troppo forte per lei.
Quando seppe, però, che in provincia era venuta per qualche giorno una signora di cui molti anni prima si era parlato come di un vecchio amore del generale, lei non mancò di invitarla. E dovette essere una singolarissima scena: molto fine, molto seria, e al tempo stesso con quel po’ di ridicolo che rende umana ogni cosa. Anche quel giorno parlarono a lungo: parlarono fino a quando, di là dalla vetrata, il giardino si tinse in certo senso di viola. Allora, quasi sorpresa, l’altra signora si alzò. Ora, dai vetri, ella poteva scorgere, oltre i campi arati e i vigneti, lo scorrere pigro del fiume.
«Ah, le sue vecchie anitre...» ricordò a un tratto guardando la campagna già squallida. E lo disse sorridendo, come alle volte, guardando un vecchio ritratto infantile si accenna ai piccoli difetti di una persona a cui si vuol bene.
«Perché, ci andava anche ‘allora’?» domandò la signora Nodier, lei pure accostandosi ai vetri. E la guardò sorridendo: essa era, in fondo, un po’ lui.
«Sì, ma un pessimo cacciatore, allora» disse l’altra, ridendo.
«Non tutti lo volevano in compagnia... Trovavano, perfino, delle scuse. Una volta gli diedero addirittura un appuntamento sbagliato... Fortuna che lui non è mai venuto a saperlo.»
«Non mel’ha mai confessato» pensò ad alta voce, dopo aver ricordato un poco, la signora Nodier. «Ma credo di averlo sempre sospettato ugualmente.» Ed aggiunse come a se stessa: «Lo faceva troppo seriamente per far bene».
«Era quasi solenne» completò l’altra.
«È vero, è vero» assentì la signora Nodier, quasi grata di quel termine che rendeva più viva l’immagine di lui. «Ma sì, è vero, solenne.»
E cominciarono, tutte e due, a parlare dei difetti di lui: ed, appunto per questo, sembrava che non di un morto si parlasse, e nemmeno di un vivo, ma di una mite, comprensiva presenza che avesse dell’uno e dell’altro. Nè si accorgevano nemmeno che c’erano di mezzo anni, la morte ed, inoltre, altre cose più tristi. La signora Nodier considerò quella giornata una delle più importanti e più «sue».
Ne conobbe una ancor più importante.
Due anni dopo, una sera, mentre la serva più vecchia stava stirando, si sentì a un tratto suonare al cancello. Dai vetri, contro il fanale del giardino, si vedevano fiocchi di neve, e, a tratti, anche pioggia. Era inverno avanzato. «Vacci tu, Agata» si rivolse allora alla giovane, dopo aver dato un’occhiata alla finestra e riabbassando gli occhi sul lavoro.
Dovette alzarli, però, un momento più tardi. Sebbene ansimante per la corsa attraverso il giardino fino al cancello, e avesse i piedi bagnati e qualche fiocco di neve sui capelli, Agata apparve tutta sorridente, concitata, e parlava con qualcuno che era ancora fuori dell’uscio. Poi entrò un militare. Poi un cane. La vecchia s’accorse subito che era la vecchia cagna di lui.
Il militare, dal canto suo, si guardava intorno impacciato. Lui non sapeva niente di niente. Sapeva soltanto che, per quella vecchia cagna che non aveva mai visto, affidatagli da un altro soldato, era stato costretto a fare un lunghissimo giro: che era stanco: pioveva: e aveva i panni bagnati. Trovava tutto ben strano.
Lo trovò, ancora più strano quando la donna, dopo più di mezz’ora, scese a dirgli che la signora lo ringraziava moltissimo e che il suo era stato certo un gran gesto, ma che quella sera non poteva riceverlo: «non poteva in nessun modo riceverlo», e lo accompagnò di nuovo fino al cancello.
«Giovanna» disse poi, quando fu di ritorno, «vado a portare la cagna nella casa dei contadini.» «Con questo tempo?» alzò il capo l’altra stupita.
«Non può dormir qui vicino al fuoco? E ‘lei’, per vederla, dovrà an dare fin là?»
«No... non in casa. Non qui» disse brevemente la giovane accostandosi colla cagna alla porta. Fuori si vedevano ancora neve e pioggia, e un lembo di siepe bagnata. Cercò qualcosa da mettersi in testa per ripararsi dall’acqua, ma non trovò che un vecchio giornale. Prese quello ed uscì. Dal primo gradino si volse ancora alla vecchia. «Sta’ attenta che lei ti chiamerà per darti un biglietto.»
Ma per tutto il giorno dopo la signora Nodier non le consegnò alcun biglietto. E nemmeno il giorno seguente. Essa se ne stette quasi sempre in camera sua, e l’unica volta che scese fu per domandare qualcosa al giardiniere. Ma il terzo giorno il biglietto era sul tavolo: indirizzato a Quintilio, suo vecchio contadino, al paese di lei.
Io potei leggerlo solo molti anni più tardi.
Caro Quintilio, non vorrete, dopo tanto tempo che non ci vediamo, farmi un ultimo favore? Senza dubbio è un po’ grande, ma l’ultimo.
Di questo potete esser certo. Vi prego soprattutto di non chiedermi nulla, se vorrete venire: di non domandarmi due volte di spiegarmi, come se non aveste capito bene la prima. Più strana vi sembrerà la cosa, e meglio avrete capito. Ma che stupida so no! Voi mi fate il favore (me lo farete, Quintilio?) e sono io che pongo delle condizioni. Davvero che non mi riconosco più. Tanti saluti amichevoli, e tanti saluti alla vecchia Maria, ai vecchi Tromp e alla vecchia Felicita. Tutti vecchi, ormai: co m’è triste!
E c’era anche un poscritto: «Non negatemi questo favore, Quintilio. Se, per una qualsiasi ragione, credete di non poterlo più fare a me, fatelo almeno alla ragazza a cui una volta avete in segnato a pescare...»
Il contadino rispose puntualmente all’invito.
Una settimana dopo mi trovai a passare di lì e non mancai di farle una visita.
Come sempre, essa mi accolse nel migliore dei modi ed io ebbi perfino l’impressione che le mie parole potessero anche non annoiarla. Mi ricordo che a un certo punto ella si alzò e mi lasciò, per qualche attimo, solo: ed io ebbi modo di guardarmi attorno per la stanza. Prima, in sua presenza, mi sarebbe sembrato offensivo. Potei vedere, così, quadri, ritratti, e qualche strano mobile e qualche vecchia rivista, e infinite altre cose di buon gusto: e tutto aveva un’aria come di chi a un tratto, di propria volontà, si sia, senza morire, arrestato. Da ultimo, poiché in parte nascosta dal l’ombra di una tenda, vidi una cagna scozzese imbalsamata. E anche questo, ricordo, con un’aria di mite, comprensiva presenza: qualcosa assai più di un ricordo, e quasi una pallida vita. Poi ella rientrò di nuovo, scusandosi, e riprendemmo a parlare. Di tanto in tanto prestavo orecchio ai rumori della strada e tenevo gli occhi su lei: per strano che sembri, ella sembrava qua si felice.
È una storia vera.