La cagna, di William T. Vollmann

Minimum fax porta in libreria Tredici storie e tredici epitaffi di William T. Vollmann, tradotto da Chiara Belliti e Simona Vinci. Tredici storie che sfumano irrimediabilmente il confine tra l’invenzione e il reportage, la finzione e l’autobiografia, i mostri immaginati e quelli reali, e costituiscono uno dei più coraggiosi, approfonditi e sovversivi ritratti dell’America di oggi, un mosaico ardente sempre sospeso tra brutalità e romanticismo, in cui ogni storia si conclude con una piccola riflessione sulla morte, intesa come perdita irrecuperabile: piccoli epitaffi.

Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.


La cagna
di William T. Vollmann

...come dire che solo gli uomini possono essere abbastanza stupidi, nella società che ci ritroviamo, da indulgere nelle rapsodie dello scatenato Femminino.
Robert Harrison, Pharaoh’s Dream: the Secret Life of Stories

Blackwell se ne stava seduto con una mano sul ginocchio, l’altro palmo appoggiato al mento mentre con le dita tamburellava lentamente sulla visiera del berretto da baseball, e fissava dritto davanti a sé attraverso le dita pensando, e come li rimedio i soldi? In quel momento, odiava sua moglie. La odiava come merda velenosa su un vetro rotto. Ciò che desiderava, e che Naomi non era di sicuro, era una Pollastrella Qualsiasi che gli facesse smettere di fare i soldi a quel modo, ovvero attraversando il muro. Naomi non diceva mai: Blackwell baby dev’esserci un’altra soluzione; Naomi non diceva mai: ascoltami bene figlio di puttana guarda che ti lascio se non la smetti con questa follia di merda, be’, Naomi era giovane, stava appena cominciando a scoprire che cos’è la vita; Blackwell sapeva di dover mettere la testa a posto, ma doveva trovare i soldi per farlo, e Naomi di sicuro sapeva come sprecarli, i soldi, con la droga e i pantaloni stretch firmati e qualsiasi altra cosa, e non che gli portasse mai soldi a casa perché tutto ciò di cui era capace era comunque quello, e lo faceva fregandosene bellamente: lo faceva sia che ci fossero di mezzo i soldi oppure no. Maledizione, una volta mentre passava in macchina per strada l’aveva vista in piedi con un abitino color argento a fissare le auto con le mani serrate – non che quella fosse una prova, ma era comunque qualcosa. E un’altra volta l’aveva vista con sua sorella Marietta, e tutte e due avevano dei vestiti lunghi fino alle caviglie con più strati di una torta nuziale! Naomi in giallo, Marietta in azzurro, e indossavano quella specie, sapete, quella specie di sandali egizi e avevano i capelli a treccine e poi erano piene di anelli e di braccialetti di oro-plastica; Marietta portava un braccialetto con un crocifisso come per sforzarsi di essere proba o qualche altra stronzata del genere; e Naomi aveva una corona dorata e Marietta aveva una bandana azzurro cielo da cui pendevano perline di plastica; e lui aveva visto i balordi che ronzavano loro intorno, come se facessero finta di non sapere che erano lì per succhiare i loro cazzi o che altro. Quando si ricordava di quella scena, cominciava a sentirsi dispiaciuto per se stesso e allora si sedeva a bere e a cazzeggiare nel parco, dove faceva caldo e i ragazzi delle bande passeggiavano con i loro sorrisi bianchi e splendenti. Odiava Naomi. La odiava come il fetore.
Due uomini cominciarono a litigare.
Farai meglio a lasciare in pace la mia piccolina, disse uno dei due combattenti, altrimenti avrai dei problemi.
Nel giro di un minuto arrivò uno sbirro grasso. Smettetela, smettetela!, gridò. Circolare! Si appoggiò a un bidone dei rifiuti a braccia incrociate, le gambe accavallate, ad aspettare che ogni cosa tornasse bella e pacifica. Un altro poliziotto lo raggiunse.
E adesso ne abbiamo due!, disse Blackwell. Se mi rompono i coglioni, finisce male! Il cuore gli pulsava infuriato nel torace e nelle spalle finché non cominciò ad aver voglia che qualcosa succedesse, succedesse davvero, ma poi il secondo sbirro se ne andò, finalmente, e il suo collega si mise a camminare avanti e indietro lungo la fila delle panchine, guardando intensamente tutti in faccia. I gentiluomini della strada accanto a Blackwell annuivano e poi se ne andavano al piccolo trotto prima che arrivasse il loro turno.
Blackwell guardò dritto negli occhi di Bianchiccio. Non stavo facendo niente, disse.
E chi ti ha chiesto qualcosa?, rispose lo sbirro. Ho detto forse qualcosa?
Blackwell lo squadrò da capo a piedi. Stavolta non accadde nulla, così si avvicinò a un gruppo di ragazzini e cominciò a giocare a football. Non così lontano, capo, non così lontano, disse quando uno dei ragazzini scappò via. È troppo per me! Ma era ancora in grado di fare un bel lancio anche a quella distanza: era un uomo forte. Forse lancio più forte di quanto pensavo, disse in tono modesto, e il ragazzino aveva gli occhi spalancati per l’adorazione. Avanti, boss, rise Blackwell. Devi sviluppare il passaggio! Alla fine della storia, il punto era, pensò tra sé Blackwell, che lei non lo fermava, e allora perché doveva fermarsi lui, se a lei non gliene fregava un cazzo? In ogni modo, i suoi erano lavoretti di serie B. Non faceva male a nessuno. A volte, nelle notti giuste, rubava una camionata di vestiti di lusso da donna da un magazzino e poi li portava nei Projects, dove li passava in rassegna con mani rapide ed esperte, scegliendo quelli che voleva, arraffando tutti quelli che riusciva a caricare sul furgone preso a prestito, e per Blackwell era un po’come Natale e allora rideva e fumava un po’di crack e la vita era bella e lui gridava a se stesso oh, baby! E, quando aveva finito, la gente del Project calava sul camion con tutto il rispetto tipico degli avvoltoi e artigliava le rimanenze, mentre Blackwell stava a guardarli dallo specchietto retrovisore allontanandosi lentamente nell’oscurità, con i vestiti che gli tenevano caldo durante la notte, e rideva perché sapeva che, quando gli sbirri fossero arrivati – sempre che accadesse – ci sarebbe stato un fuggi fuggi tale in ogni direzione che non sarebbero mai riusciti a riconoscere chi c’era e chi no. Quando arrivava a casa, trovava Naomi in lacrime a singhiozzare cose tipo oh mio Dio e che cosa faremo se ti sbattono in galera, ma Blackwell aveva notato che un vestito nuovo di zecca, magari rosso e nero lucido e della taglia perfetta per coprire il suo piccolo culo sodo era più che sufficiente a farla stare zitta. Certo che se ne era accorto. In ogni caso, lui non faceva male a nessuno. Ehi, se rubava una camionata di soprabiti di lusso che poi si rivendevano bene come merda di cane fritta, dopotutto si trattava di pubblicità; per quei soprabiti del cazzo: avrebbero venduto alla grandissima nei negozi, di lì a qualche mese, aspettate e vedrete. – Ma Naomi quello non lo capiva mai, non l’aveva mai capito. Pensava che Blackwell fosse un poco di buono o qualcosa del genere. Be’, e lui che cosa doveva fare? Non era colpa sua, se aveva dovuto passare il confine. Non era colpa sua se era successo quello che era successo. Una volta aveva scassinato una cassaforte aspettandosi di trovare un paio di centinaia di bigliettoni, invece là dentro ce n’erano ottomila, tutti in biglietti da venti e da cento, e allora li aveva buttati in macchina e aveva cominciato a guidare verso i Projects e la polizia l’aveva inseguito e lui era andato sempre più veloce e ne era venuto fuori lasciando qualche porco a imprecare nella sua cazzo di autopattuglia, incazzato nero proprio come Naomi quando le aveva dato quello schiaffo, ma poi aveva sentito altre sirene della polizia arrivare, erano tante, erano sempre di più, e allora si era nascosto tra due torri dei Projects e aveva parcheggiato la macchina dietro le altre auto abbandonate ed era saltato fuori e aveva strisciato sotto, accovacciato, tra i vetri rotti e le lattine di birra, ed era rimasto nascosto lì tutta la notte. All’alba gli sbirri pattugliavano in lungo e in largo per la strada, gli davano la caccia, perché sapevano che lui era lì, ma non erano riusciti a beccarlo e lui aveva pensato di potercela fare davvero e si era immaginato lei che lo aspettava piangendo e a quel punto un sogghigno enorme gli aveva allargato la faccia; così avrebbe recitato quella cagna! E poi aveva pensato a quanto sarebbe stato bello quando sarebbe arrivato a casa girando silenziosamente la chiave nella serratura per non svegliarla ed eccola lì, addormentata con ancora i vestiti addosso, la testa appoggiata sul tavolo della cucina e le palpebre rosse e gonfie di pianto, e allora lui avrebbe strillato: BU!, e lei si sarebbe svegliata con un gridolino di paura e l’avrebbe fissato e lui avrebbe visto la rabbia che saliva a colorarle la faccia e poi, quando lei avrebbe aperto la bocca per mettersi a imprecare contro di lui, lui avrebbe cominciato a riempirgliela di dollari, ficcandoglieli bene dentro! Biglietti da dieci, biglietti da venti, da cento, avrebbe ficcato tutti i soldi nella sua boccaccia per imbavagliarla e farla star zitta e stupirla così tanto che lei l’avrebbe amato davvero. Oh, quanto la amava – la verità era che non trovava una sola ruga in più, sulla sua faccia, rispetto al giorno in cui l’aveva vista per la prima volta, la sua pelle così morbida e fine, le labbra piene color cremisi e scintillanti tanto che, quando aveva cominciato a baciarlo, tutta la sua faccia e il suo corpo erano rimasti macchiati di rossetto, un po’come se lei spalmasse il suo sapore un po’dappertutto su di lui, e le sue ciglia erano graziosamente letali come carta moschicida (ma negli ultimi tempi gli occhi erano diventati più grandi nella maschera sottile del volto e il modo in cui lo guardava non era né amichevole né ostile). Insomma, Blackwell aveva le sue speranze, e non sarebbe nemmeno andata così, oltretutto, se non ci fosse stata una signora che nella notte l’aveva visto andare a nascondersi sotto da quella parte! Aveva guardato il muretto e aveva visto gli occhi liquidi di Blackwell che la guardavano e lei l’aveva fissato ancora con una sorta di faccia impietosa e determinata e spaventata e aveva fatto un passo indietro e Blackwell aveva pregato Oh Signore fa’ che muoia d’infarto proprio in questo preciso momento oh Signore fa’ che non apra la sua bocca grassa e lurida, Amen. Ma Miss Ficcanaso stava già correndo verso l’autopattuglia strillando: Agente! Ehi Agente!, e uno sbirro era uscito e le aveva detto di sloggiare subito, che quella era una zona pericolosa adesso, e Blackwell aveva pregato che un jet le precipitasse nel cuore, ma la puttana continuava a non volersi fare i cazzi suoi ed era corsa dall’altra parte della strada dove c’era un gruppo di sbirri che se ne stavano in crocchio con le radio che friggevano come pancetta la mattina, ma in quel momento c’era soltanto una poliziotta rimasta a perlustrare la zona quando Miss Ficcanaso aveva strillato: Ehi, agenti, io l’ho visto!, e i porci erano rimasti ad ascoltarla blaterare per un minuto e poi la poliziotta aveva estratto la pistola e si era avvicinata con tanta determinazione da convincersi che magari Blackwell avrebbe pensato che non aveva paura di lui, ma cazzo! lui non era nato ieri anche se il suo cuore continuava a bomb-bomb-bombargli nel petto perché Miss Piggy stava guardando dritto verso di lui come se lo vedesse (ma non era possibile) e poi aveva detto: Ehi tu vieni fuori di lì, e Blackwell era rimasto immobile sapendo che lei non poteva vederlo nonostante i suoi grandi occhioni blu stessero guardando proprio verso di lui da dietro gli occhiali di plastica e lui poteva vedere gli occhi che diventavano sempre più grandi e allora Blackwell si era accovacciato ed era rimasto perfettamente immobile dietro i cespugli di rovi pensando tra sé Mi piacerebbe farti grugnire brutta puttana poliziotta culona e il cuore che batteva sempre più forte; si sentiva così vivo, e allora pensò tra sé non mi vede ma poi Miss Ficcanaso urlò: È PROPRIO Lì L’HO VISTO, e lady sbirra mise il dito sul grilletto e intimò ancora una volta a Blackwell di venire fuori da lì e lui ora sapeva che lei lo stava vedendo e sentiva il suo fiato addosso da tanto era vicina: stava respirando alla svelta e lui disse: non sparare, e cominciò a uscire dal suo nascondiglio e la poliziotta cagna andò verso la macchina, senza mai distogliere lo sguardo da lui, e chiamò rinforzi via radio – oh, si era guardata bene dall’ammettere davanti a Blackwell di essere l’unico sbirro in zona, eh? Eh? Ma lui sapeva cosa stava succedendo e lo trovava perfino divertente; non aveva intenzione di tentare scherzi strani, però, perché la tipa teneva quella pistola puntata, e così si era accovacciato lì ed era rimasto mezzo fuori e mezzo dentro il suo nascondiglio, con la testa fuori come quella di una tartaruga e le mani sulla nuca e allora erano arrivati correndo anche gli altri sbirri e gli avevano detto di uscire lentamente e Blackwell aveva detto: Sto uscendo, e poi riconobbe lo sbirro che aveva seminato all’inizio sull’autostrada e quello era furioso perché Blackwell gli era sfuggito e a catturarlo era stata una stramaledetta vacca e non lui – pensate un po’! – e così con il gomito strinse Blackwell in una morsa che per poco non lo strangolò e lo stese per settimane e poi gli misero le manette e lo sbatterono in galera. E tutto quello che Blackwell riusciva a pensare era: è tutta colpa di mia moglie, maledizione a quella fottuta cagna.