Mal di testa, di Antonio Francesco Perozzi

Pidgin porta in libreria Tranquillità assoluta, di Antonio Francesco Perozzi che, con una capacità unica di rappresentare la marginalità e di integrare il grottesco nel quotidiano, dipinge personaggi vividi e immersi in realtà stranianti che riflettono al meglio il nostro mondo proprio nei dettagli che le differenziano.

Cattedrale vi propone un estratto di uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.

Pidgin porta in libreria Tranquillità assoluta, di Antonio Francesco Perozzi che, con una capacità unica di rappresentare la marginalità e di integrare il grottesco nel quotidiano, dipinge personaggi vividi e immersi in realtà stranianti che riflettono al meglio il nostro mondo proprio nei dettagli che le differenziano.

Cattedrale vi propone uno dei testi del libro, per gentile concessione dell’editore.


Mal di testa
di
Antonio Francesco Perozzi


Praticamente Coman aveva scoperto dove tenevano gli I-Phone. Me l’aveva detto una sera sul Cotral, col braccio sinistro appeso e il bicipite che oscillava per le buche della Tiburtina. Si copriva le labbra col dorso della mano e ricordo bene quanto fossero infuocate le sue lucciole, quella notte: la fronte arancione, la luce che batteva sulla scritta fermata prenotata.
Forse gli era arrivata voce di quando mi ero infilato una micro-sd da 256 gb sotto la lingua: una storia così era impossibile che non si diffondesse. Ogni tanto mi capitava ancora di incrociare qualcuno, in magazzino, che mi diceva «Grande» o «Come cazzo t’è venuto in mente?» Ma quella di Coman sembrava roba seria, e a parte la sd io mi ero limitato a qualche Blu-Ray nelle mutande, o a pacchi di Fonzies aperti tra uno scan e l’altro.
Gli dissi di sì, comunque. Ci beccammo la prima volta da Cesare, a Guidonia, nella saletta sul retro. Coman beveva Peroni da 66 come acqua e quando lo raggiunsi, alle sette, se n’era già sparate due. Non avevo mai avuto a che fare chissà quanto con lui, capitavamo spesso in reparti diversi. Mi spiegò che era dentro da tre anni. Non facevo fatica a capire come uno della sua stazza fosse in grado più di altri di sopportare certi ritmi. Era dentro da tre anni e qualcosa ogni tanto se lo portava a casa: dischi, cavetti, roba così. Ma si era rotto il cazzo – diceva, usando una sola zeta – voleva di più.
Il coglione rideva mentre mimava l’azione di infilarsi cose sotto la lingua, batteva il palmo sul tavolino di metallo e spingeva il collo della Peroni nell’esofago. Con la birra che calava, io vedevo le sue lucciole agitarsi e micro-masse di luce picchiettargli la fronte dall’interno. Pure Cesare aveva un bel colorito arancione quel giorno. Lasciò la mia Peroni sul tavolo con quattro ditate sul vetro.
«Spiegami ’sta cosa».
Coman non aveva un piano vero e proprio, di fatto tutto il suo entusiasmo si basava sulla scoperta del “posto degli I-Phone”. Si fermò dopo avermi fatto capire dov’era, mischiando il suo italiano sputato con frasi in rumeno. Poi si appoggiò alla sedia, una mano ancorata alla bottiglia, l’altra a grattarsi la guancia ispida. Portava sempre quella felpa Givova coi lacci tagliati.
Il problema ovviamente era il metal detector. Quando cominciai a spiegare il mio punto di vista capii definitivamente che Coman il piano se l’aspettava da me, che la storia della lingua doveva avergli dato l’impressione che fossi un genio del crimine, o non so che. Appoggiai anch’io la schiena e iniziai a inghiottire lunghi sorsi di birra tra una frase e l’altra. Coman si mosse solo per ordinare ancora, con un cenno del mento e dell’indice che Cesare coglieva senza neanche rispondere.
Il cd non suona. Questo è il fatto. È di plastica e se lo togli dalla custodia, solo il dischetto, puoi tranquillamente infilartelo sotto le palle, spiegai: quando la guardia ti gira intorno con quel coso rettangolare non si accorge di niente. E al massimo può chiederti di aprire la felpa, rivoltare le tasche; di certo non si mette a smucinare in mezzo alle palle. Sollevai la birra e sentii le lucciole ammassarsi nella parte superiore del cervello: il silenzio di Coman mi diede la sensazione che non avesse capito una mazza. Allora aggiunsi che la sd è piccola, invece, e te la puoi mettere in bocca: non importa se suona, perché la guardia in faccia non ti controlla, a meno che non becchi quella pignola. Ma per un I-Phone come fai? Per dieci I-Phone, anzi. Poggiai la bottiglia sul tavolino, senza staccare la mano. Trasformai un rutto in un soffio.
«Troviamo un modo», Coman si piegò in avanti, i lacci monchi si tesero appena sopra il tavolo. Mi raccontò che aveva sentito di un tizio che durante il turno ammucchiava i telefoni in un angolo, un po’ alla volta, poi prima di staccare se li metteva dentro le scarpe.
«Sì, ma quanto tempo fa?» agitai la mano davanti al petto. Non lo sapeva, ma ero sicuro al 100% che fosse prima delle lucciole. O al limite che fosse una cazzata. «Ci vedono», picchiettai l’indice sulla tempia e avvertii un piccolo grumo di lucciole spostarsi verso il centro della fronte, poi ridistendersi di lato. «Le spegniamo», incrociò le braccia.

Quella sera tornai a casa con otto Peroni in corpo e l’idea assurda di volersi battere una decina di I-Phone. Poi la stronzata delle lucciole: trascinai la testa lungo le scale, mi ripetevo in mezzo ai denti che una roba del genere non avrebbe mai funzionato. Quel coglione di Coman. Dietro la porta apparve il secchio marrone: la busta dell’umido aveva iniziato a bucarsi sui lati, ma mi rifiutai. In quattro passi ero già a letto. Socchiusi gli occhi, provai a spingere all’indietro con le orbite, però l’immagine del metal detector continuava a venire a galla, la scena delle guardie che ci sgamano e ci fanno buttare fuori dall’azienda. Mi addormentai con la felpa ancora su, il collo rossastro di Coman stampato dentro le palpebre.
Un sonno solido, scuro, ma allo stesso tempo leggero, che sentivo scorrere e potevo quasi misurare, e che poi si squarciava di colpo non appena – cazzo – un boato non mi sollevò sul letto. I denti impastati di saliva amarognola. Portai le dita sulle lucciole, corpi minuscoli e agitati che deformavano la pelle dall’interno. Cercai sul comodino: le quattro. Il freddo delle mattonelle sui talloni mi diede una piccola scossa, solo al terzo tentativo acquistai un passo decente: bordo del materasso, finestra, tapparella. In strada un’Audi a3 fischiava e illuminava a intervalli le auto vicine.
Era quel fallito di Brunetto: ogni tanto cercava di incularsi la macchina dell’avvocato. Gonfiai il palmo con uno sbadiglio. Mi dissi che ormai non aveva senso riaddormentarsi e che avrei aspettato la sveglia guardando la tv. Mi appoggiai al davanzale. Su Rai 4 la notte capita che mandano qualche film mezzo porno, a volte ne ho beccato qualcuno rientrando dal turno. Ma l’avvocato non si decideva a uscire e così cominciai a focalizzarmi sul fischio. Le Audi hanno questi allarmi abbastanza soft, che però sono ipnotici, regolari, e alla lunga si infilano nei neuroni. A un certo punto si apre la porta e l’avvocato scende uno scalino in vestaglia bordeaux e occhiali tondi. Tende il braccio verso la macchina, schiaccia il telecomandino, chiude la porta. È in quel preciso istante che mi viene in mente – quando le luci della macchina si sono oscurate ma l’ipnosi continua a suonarmi nel cranio. Rientro, afferro il telefono e scrivo a Coman.