L'uovo di Barbablù, intervista a Gaja Lombardi Cenciarelli

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di Debora Lambruschini


“Quando mia madre era molto piccola, a Pasqua qualcuno le regalò un cestino di pulcini.
Morirono tutti”.
(incipit di Momenti significativi nella vita di mia madre, p. 9)

 

Arrivata alla fine de L’uovo di Barbablù, torno indietro e l’incipit del racconto di apertura mi appare esemplificativo del tono e di una certa atmosfera che percorre questi dodici racconti di Margaret Atwood da poco pubblicati per Racconti edizioni. Una raccolta davvero ricca di spunti e chiavi di lettura, eppure, allo stesso tempo, organica, che comprende testi pubblicati più di vent’anni fa e altri mai tradotti in italiano. Uno spaccato dell’universo di Atwood, autrice prolifera e capace di confrontarsi ogni volta con forme espressive differenti, mantenendo saldi i punti centrali della propria sensibilità letteraria e intellettuale. L’uovo di Barbablù arriva in libreria nella puntuale traduzione di Gaja Lombardi Cenciarelli e confrontarsi con lei è stato il mezzo ideale per cercare di penetrare il mistero della scrittura di Atwood e tentare di comprendere alcuni meccanismi del lavoro di traduzione.

 

Di fronte a un autore prolifero e mai uguale a se stesso come Atwood, qual è il tuo approccio alla traduzione? Consideri il resto della sua produzione letteraria? In generale, come ci si addentra in un testo da tradurre?

L’approccio è sempre lo stesso: faccio silenzio dentro di me e mi metto in ascolto. Non si tratta di umiltà, è la conditio sine qua non di chiunque traduca. Nel momento in cui le si restituisce nella lingua d’arrivo, tuttavia, siamo noi traduttori a scegliere le parole, ma non riusciremmo mai a trovare quelle giuste (o, perlomeno, le più giuste possibili) se non avessimo prestato attenzione e accolto alla voce dell’autore. Mi permetto una precisazione, nel caso della Atwood: non è vero che non è mai uguale a se stessa. Anzi, nelle sue raccolte, tutte antecedenti al “Racconto dell’ancella”, c’è già il suo universo narrativo, quello che troveremo più avanti nei romanzi e nelle poesie. Chiaramente, conoscere l’autrice contribuisce a consolidare un’intimità lessicale, sintattica ed emotiva. È come camminare in una città conosciuta e amata. La ri-conosci e, proprio per questo, continua a stupirti.



Nel caso specifico di una raccolta di racconti come organizzi la traduzione? Per esempio, segui l’ordine di pubblicazione della raccolta originale? Ti confronti, laddove ci siano, con traduzioni precedenti?

Evito di confrontarmi con traduzioni precedenti. L’ho fatto in passato ed è stato disastroso. Preferisco affidarmi a me stessa, mi trovo bene con le mie scelte. Per quanto riguarda la traduzione di una raccolta, seguo l’ordine del testo che mi viene inviato. Sic et simpliciter.

Il testo in questione, si diceva, presenta davvero chiavi di lettura e spunti molteplici, tra cui tematiche ricorrenti nella produzione letteraria di Atwood, a partire dal discorso sul femminile: è, ancora una volta, la rappresentazione di una femminilità non stereotipata, spesso fuori dagli schemi, che si rivela in uno sguardo ampio sulla vita delle donne dalla pre adolescenza fino all’età matura. Sono giovani donne colte nel momento di passaggio all’adolescenza, che si confrontano con nuovi istinti, aspettative, e con il mondo degli adulti. Un mondo, quest’ultimo, di codici comportamentali ed equilibri che le protagoniste delle storie di Atwood mettono in discussione, a partire dal tema della maternità, forse l’ultimo tabù rimasto: 

“[…] è stato comunque scioccante e leggermente offensivo rendermi conto che mia madre potesse non essere totalmente soddisfatta dal solo adempimento al ruolo che il destino le aveva riservato:
essere mia madre”.
(Momenti significativi nella vita di mia madre, p.27)

 

Essere madre o, per contro, la mancanza di istinto materno, è un nodo centrale nella narrazione di Atwood, che ancora una volta sceglie di raccontare una delle innumerevoli espressioni del femminile, libera da schemi precostituiti. Non nega la maternità, l’istinto e l’affetto, come non nega il desiderio di famiglia, delle sue relazioni, anche nelle loro forme più tradizionali, ma dimostra che sono soltanto alcune delle innumerevoli possibilità e forme. L’idea stessa di famiglia assume contorni sempre diversi, i confini labili. Troviamo artiste che convivono più o meno pacificamente con ex compagni, amanti, amici e che almeno in apparenza sembrano adeguarsi a ciò che ci si aspetta da loro, al ruolo che le è stato assegnato; donne che si ritrovano a vivere quasi ai limiti della civiltà – per scelta personale o per aver seguito le necessità lavorative del compagno – assecondando i ritmi imposti dalla natura e un isolamento che ne rivela la profonda capacità di adattamento; ma anche famiglia nel senso più tradizionale del termine, di cui Atwood sottolinea le crepe, le imperfezioni, senza mai arrivare al punto di rottura, all’esplosione.
Ecco, la sensazione è proprio questa, di qualcosa che sta per finire o per cambiare in modo assolutamente radicale. C’è un certo grado di indefinitezza, Atwood quasi mai ci mostra l’esplosione, bensì ci spinge a interpretare gli spazi vuoti. Un’indefinitezza che è anche del tempo della narrazione, un tempo ampio, che va dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, e che appartiene anche ai luoghi – alle città, agli spazi aperti, alla natura, alle piccole comunità – , e alla forma stessa del racconto, il cui richiamo alla tradizione orale è fortissimo.



In un immaginario così ricco, non mancano considerazioni sul linguaggio, sulla capacità/incapacità di comprendere e farsi comprendere dagli altri, un argomento per sua natura molto legato al lavoro di traduzione, come non mancano, in generale, alcune riflessioni su scrittura e sull’arte che sono disseminate qui e là nella raccolta:

Sospetto che Atwood abbia letto Pirandello. Scherzi a parte, uno dei passi che più mi hanno segnato, da quando ho iniziato a scrivere (per tacere di quando ho cominciato a tradurre), è contenuto in “Sei personaggi in cerca d’autore”: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!
Chi scrive, chi traduce - e, in generale, chi si occupa di cultura e di editoria a vario titolo - lavora sempre con questa consapevolezza. 



Qual è stato il racconto più complesso da tradurre e per quale ragione?

La complessità della Atwood è l’uso della polisemia nel lessico per creare giochi di parole, allusioni, collegamenti intellettuali e, in generale, un mondo narrativo che trascende dalla parola scritta (grazie a uno stile molto potente ed evocativo). In questo senso, tutti i racconti sono stati complicati da interpretare, su vari livelli. Posso dire che, rispetto a Fantasie di stupro”(la prima raccolta di Atwood, pubblicata sempre da Racconti edizioni), L’uovo di Barbablù”ha presentato qualche nodo semantico più ostico, e di conseguenza, anche più gratificante da sciogliere.

Personalmente ho la sensazione che negli ultimi tempi il lavoro del traduttore trovi finalmente il riscontro, la rilevanza che merita: un ruolo fondamentale, che tuttavia non solo resta spesso nell’ombra ma anche scarsamente apprezzato. Che ne pensi a riguardo?

Forse se ne parla di più, ma sempre tra addetti ai lavori. I traduttori non sono ancora pagati adeguatamente per la mole di lavoro che sbrigano. I tempi di un traduttore sono lunghissimi e l’impegno e la fatica (mentale e fisica) non sono quantificabili. Per carità, ci sono piaghe lavorative ben più gravi in Italia (mi vengono in mente i crimini del caporalato), non voglio fare del vittimismo. Però ho l’impressione che la civiltà e l’eguaglianza passino anche dal giusto riconoscimento economico di chi lavora nella - e per la - cultura.

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Viscere, intervista ad Amelia Gray

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di Fabrizia Gagliardi

Quando le chiesero di scrivere un pezzo culinario per Lucky Peach Magazine, Amelia Gray andò in uno stripclub di Los Angeles per gustare specialità messicane. Quando un libraio avvertì Jeff Vandermeer perché stava acquistando un titolo troppo weird (Viscere), lo scrittore non esitò a rispondere che ad affascinarlo era proprio la capacità dell’autrice di avere i piedi ben piantati a terra e sconfinare, allo stesso tempo, nel surreale. Non è un caso che Amelia Gray sia entrata nel team di sceneggiatori di Maniac e di Mr. Robot, prodotti d’intrattenimento che hanno sorpreso per le capacità di mescolare generi e nuove formule narrative: la weirdness dell’essere umano s’intreccia con la casualità dell’universo fino a slegare le trame da quell’antropocentrismo che seguiva le regole canoniche di causa ed effetto.
Un approccio simile sviluppato fino alle estreme conseguenze lo si può rintracciare in Viscere, pubblicato da Pdgin Edizioni e tradotto da Stefano Pirone. Trentasette racconti brevi che alternano elementi insoliti, fantastici, alla realtà più dura e quotidiana, tutto inserito in un prisma dalla varietà stilistica non indifferente. Leggiamo la storia di una coppia che cerca di praticare la “connessione senza attaccamento” nel racconto Nel momento; in Cinquanta modi per mangiare il tuo amato, troviamo un vademecum per cannibalizzare la dolce metà; fino ad arrivare a racconti che diventano parabole dal risvolto decisamente ironico come Sparato alla pancia, in cui un uomo in punto di morte ha un dialogo surreale con Gesù, o L’anno del serpente, la storia di un villaggio occupato da un enorme serpente con cui gli abitanti vivranno in simbiosi. Ogni racconto ha una traccia d’ironia dal retrogusto amaro che allontana le vicende dalla classica storia borghese, così aderente al reale. La complessità della metafora diventa mito e la sua comprensione non può essere decifrata dalla risoluzione delle vicende umane.

Per capire l’origine del lavoro di Amelia Gray le abbiamo rivolto qualche domanda.

Sono interessata al modo di concepire i personaggi delle tue storie. Vizi, desideri impellenti che mettono a nudo debolezze, relazioni disfunzionali, mi sembrano una versione estrema di un modello relazionale contemporaneo: l’individuo è ritratto nella solitudine e nella devianza delle sue riflessioni, consapevole o meno che queste lo portino lontano dalla condivisione con l’altro. Da dove nascono i tuoi personaggi? Prendi ispirazione dalla realtà?

Tutto quello che scrivo è ossessionato dalla realtà, per me è inutile scrivere fiction solo per sperimentare la forma o provare una ragione teorica. Questo non vuol dire che i miei personaggi siano autobiografici, o che i loro pensieri siano pensieri che anch’io avrei. Ho notato che l’opinione dei critici americani è quella che le donne sono in grado di scrivere solo delle loro storie, che hanno accesso alla loro esperienza solo attraverso la finzione. I miei personaggi devono vedersela con i loro problemi, con le idee che sto esplorando.

La raccolta ha un aspetto sorprendente: è in grado di passare da un tipo di narrazione a un’altra, alternando stili e modi di raccontare molto diversi da una storia all’altra. Mi hanno colpito racconti come L’anno del serpente o Sparato alla pancia che sono costruiti come parabole, quasi sempre percorse da un’amara ironia. C’è un’efficacia diversa che affidi alle storie costruite in questo modo?

Sono cresciuta con parabole e favole, religiose e tramandate da secoli, e mi vengono in mente come un modo piacevole e diretto di leggere e scrivere. Nel lavoro di un romanzo la storia si espande in maniera differente per me, lungo le strade di trama, personaggio e riflessione, ma ho sempre apprezzato l’efficacia del racconto. In realtà, trovo che L’anno del serpente e Sparato alla pancia siano le mie storie più ottimistiche. In particolare, credo che vivere all’interno di un serpente vorrebbe dire vivere in un ambiente molto caldo.

Negli ultimi tempi molti degli autori americani tradotti in Italia, e anche molti dei prodotti d’intrattenimento seriale, hanno una caratteristica comune: il lato weird pervade la narrazione ma non prevale, amplifica il senso di straniamento della realtà insieme a una sorta di commento ironico. Per quanto riguarda i libri sto pensando a Lingua nera di Rita Bullwinkel (pubblicata in Italia da Edizioni Black Coffee), ai libri di Alexandra Kleeman, a Il suo corpo e altre feste di Carmen Maria Machado (pubblicata da Codice Edizioni): tutte autrici che stanno portando nuova linfa vitale a un modo di raccontare che avevo già letto con George Saunders, e più indietro con Robert Coover. Vi considero un po’ la nuova generazione di autori che inaugura un nuovo corso: il commento ironico, la versione mitica della vita umana viene riportata non ritraendo la realtà come i postmodernisti ma rielaborandola scrivendo fiabe, leggende.

Cosa credi che stia cambiando nella letteratura americana rispetto al passato? Ci sono autori che per te la stanno cambiando in maniera inedita?

Sulla scia del realismo mitico o distopico alla tua lista aggiungerei Kelly Link insieme al romanzo di Melissa Broder, The Pisces, Lo schiavista di Paul Beatty e Nothing to See Here di Kevin Wilson. Quando Saunders ha pubblicato Il declino delle guerre civili americane aveva avvertito e reagito al cambiamento distopico, al cambiamento di Internet, al mondo delle notizie, cose di cui gli altri scrittori che menzioniamo sono stati davvero intrisi. È interessante rifletterci, ma commentare le tendenze della letteratura è un po’ come provare a prevedere il tempo durante una grandinata.

Ti sei cimentata in romanzi e racconti, ma come fai ad avvertire se un’idea diventerà l’uno o l’altro?

Ho scritto più racconti che romanzi e ho imparato che è meglio avventurarsi in un racconto pensando che si tratti di un racconto, considerando la trama nel modo in cui la si considera nei racconti, una storia che a me sembra più densa. Non ho mai scritto una storia che poi si è trasformata in un romanzo, ma c’è una prima volta per tutto.

Oltre a scrivere libri, hai sceneggiato anche Maniac e Mr. Robot. Per te quali sono le differenze tra i due tipi di scrittura?

È una domanda interessante e, in parte, sto ancora cercando di capirlo. Scrivere nella stanza degli sceneggiatori è come partecipare a una corsa in cui tutti sono legati per le caviglie; se riesci a prendere il ritmo puoi davvero guadagnare terreno ma arrivarci è un percorso precario. Anche le effettive differenze tra le due arti sono interessanti e potrei impiegare ancora qualche anno per capirle. Le caratteristiche dei due mezzi tendono ad avere una certa struttura a causa di ciò che noi tutti desideriamo o meno vedere e percepire, e quando ci sentiamo soddisfatti è spesso perché è la creazione dello scrittore a funzionare in quel modo. I libri vengono creati con alcuni principi simili e ho dovuto fare molte riscritture per adattare le esigenze pratiche di un romanzo. Puoi rimuginare su pagine e pagine senza far muovere i tuoi personaggi, se stai dicendo qualcosa di buono e vero (e, sicuramente, bello), il lettore verrà sempre con te.

Hai altri lavori in cantiere che vedranno la luce prossimamente?

Un sacco! Niente con una scadenza precisa e niente di cui possa ancora parlare. Ma sto piantando radici serie da queste parti.

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Nessuno è come qualcun altro, intervista a Amy Hempel

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di Fabrizia Gagliardi

Nessuno è come qualcun altro è il titolo della nuova raccolta di racconti di Amy Hempel, appena pubblicata da SEM con la traduzione di Silvia Pareschi. Dopo tredici anni da The Dog of the Marriage (in italiano contenuto in Ragioni per vivere che raccoglie tutta la produzione dell’autrice), la nuova raccolta non stravolge lo stile della Hempel e conferma, ancora una volta, il fulcro della sua narrativa: l’esperienza umana, così comune, nella singolarità degli occhi di chi legge. In quest’ottica il primo racconto, Cantagli una canzone, s’impone come una dichiarazione d’intenti: niente metafore, nulla è come qualcos’altro. Nessuna storia è come qualche altra e lo stereotipo diventa un paradosso schrödingeriano per cui siamo a conoscenza della sua esistenza, ma sappiamo sopprimerlo con un raffinato processo empatico.
La voce narrante di una donna tradita ci racconta la storia tra il marito e l’amante in Greed; in Fort Bedd una coppia in crisi vive le ombre della relazione riflesse nel buio della casa; in Cloudland, il racconto più lungo della raccolta, seguiamo le vicende di una donna che ricorda continuamente il momento in cui, da giovane, ha partorito una figlia che ha dato subito in affidamento. Vicende umane che afferiscono a grandi temi (amore, morte, rimorso), quasi banali se riportate in trame così scarne. In tutte, però, notiamo che il rifiuto della metafora nella scrittura di Amy Hempel sembra un rituale più che un accorgimento estetico: negando il trasferimento di significato resta l’obbligo della realtà. Non è un caso che molte delle sue storie si riferiscano a esperienze autobiografiche, e la stessa carriera dell’autrice è stata segnata da una richiesta arrivata dal suo insegnante, nella prima lezione alla Columbia: Gordon Lish, lo storico editor di Raymond Carver, chiese ai suoi studenti di scrivere la cosa che avrebbe distrutto il senso di se stessi. L’insidia è l’ego: andare alla ricerca della materia narrativa nella propria vita potrebbe autorizzare il racconto autoreferenziale. A interessare Amy Hempel è, invece, una riflessività che non diventa mai davvero cosciente. La narrazione, propria e altrui, la trapassa fino a prendere la forma di un racconto che parla anche a chi non ha quella esperienza nel proprio bagaglio emozionale. La linearità delle frasi permette di sacrificare le parti descrittive e le digressioni in favore di sospensioni fatte di allusioni emblematiche.

In occasione dell’uscita di Nessuno è come qualcun altro abbiamo intervistato Amy Hempel per capire il suo rapporto con la scrittura.

 

 

Mi interessa la genesi dell’opera: cosa ti ha spinto a scrivere nuovi racconti dopo le raccolte precedenti?

Questa raccolta mi ha impegnato per circa dodici anni durante i quali mi sono spostata molto - tra Cambridge e New York, poi Connecticut, Florida e poi di nuovo New York. Stabilirmi in un nuovo luogo mi aiuta a vedere le cose in maniera differente, e il racconto più lungo di Nessuno è come qualcun altro è ambientato per la maggior parte in Florida proprio perché il paesaggio è molto diverso dal nord-est. Dieci delle quindici storie sono frammenti brevissimi e dimostrano il mio crescente interesse verso questa forma; volevo continuare a vedere quanto potevo guardare in uno spazio condensato. 

 

Hai affermato che il tuo modo di scrivere segue l’andamento del pensiero e della memoria. Questo è un modo per veicolare anche la verità? Che ruolo ha l’autore rispetto alla realtà e alla verità?

Credo di scrivere per associazioni di idee piuttosto che seguire una forma lineare. Le osservazioni si accumulano e arrivano a significare qualcosa in compagnia di altre osservazioni e memorie. Per “verità” intendo “la verità come la vedo io” nella pagina. Mi interessa la verità di un personaggio, non la mia. Se inizio una storia basata su qualcosa che è realmente accaduto, tutto si sposta inevitabilmente in un altro posto, lontano dalla mia esperienza.

 

Leggendo i racconti mi sono accorta che spesso lasciano al lettore la possibilità di costruire una sua visione e plasmarla sulla propria vita. Per esempio, nella nuova raccolta, Fort Bedd è la storia travagliata di una coppia, lo capiamo dalla tensione scenografica di una dimora fatta più di ombre che di luce; ma potrebbe anche essere intesa come il cammino della coppia verso la vecchiaia. Qual è in definitiva l’effetto che vuoi ottenere quando scrivi? E qual è l’obiettivo dei tuoi racconti?

Voglio provocare effetti diversi nei lettori a seconda della storia. Voglio che il lettore si commuova come me quando leggo ciò che qualcun altro ha scritto. Ad esempio: a volte spero che il lettore  si senta come me quando ho letto le ultime due righe del racconto di Denis Johnson, Casa di cura Beverly (racconto contenuto in Jesus’ Son ndr). O quando sono profondamente commossa da un’opera d’arte; voglio far sentire qualcuno in questo stesso modo. Sono brava a commuovermi con i gran finali, quindi un altro esempio potrebbero essere le ultime due righe di Middlemarch. Mi fanno sempre piangere, e cerco di provocare lo stesso effetto anche sui lettori. Oppure far ridere. Voglio far ridere il lettore.

  

Cosa è cambiato nel tuo modo di scrivere dopo i primi racconti? E quanto è stato fondamentale il lavoro con Gordon Lish?

Gordon Lish è stato un brillante insegnante di scrittura e un ottimo editor per le mie prime due raccolte di racconti. Molto di quello che ho imparato in quei seminari, circa quarant’anni fa, è ancora utile oggi ed è servito anche per le storie di Nessuno è come qualcun altro. Con la mia terza raccolta di racconti, Nan Graham è stato un editor altrettanto eccellente, quindi sono stata fortunata: ho lavorato con lettori attenti, in grado di proporre acute osservazioni. Penso che il mio lavoro sia cambiato negli anni, ma alcune delle preoccupazioni principali restano costanti, come il modo in cui le persone affrontano le cose più difficili. Gordon una volta disse: “Indossa il tuo cuore sulla pagina e il mondo leggerà per scoprire come hai risolto il tuo essere vivo”. Io gli credo.

 

Nelle prime raccolte di racconti l’ambiente era preponderante, sto pensando all’incertezza conferita dall’acqua californiana di Questa sera è un favore a Holly. In Cloudland la protagonista elenca le differenze tra New York e la Florida. In che modo i tuoi spostamenti americani hanno influenzato le tue narrazioni?

L’ambientazione è estremamente importante per me nella finzione. Penso sempre a quello che può succedere in un luogo particolare, che non potrebbe accadere altrove. Il luogo spesso determina cosa accadrà in una storia che scrivo. La Florida mi ha influenzata profondamente sulla pagina: non vivevo sulle sue spiagge, ma nella parte centro-settentrionale, dove qualsiasi specchio d'acqua, anche un piccolo fiume o uno stagno, può contenere alligatori. Ero abituata a nuotare negli stagni nel nord-est, quindi è stato un grande cambiamento. L'aria stessa sembra diversa. Le piante sono diverse. Adoro guidare a sud, da New York, per tornare a visitare la Florida, abbassare i finestrini della macchina mentre mi avvicino e sentire l'aria che si riscalda. Questo mondo è sicuramente entrato a far parte di Cloudland, un racconto che si svolge in Florida nel presente, mentre il narratore ricorda un periodo difficile della sua vita nel Maine. 

 

Nei tuoi racconti sono presenti anche dettagli e storie personali. Come hai evitato che diventasse un racconto egoriferito?

L’esperienza personale cambia sempre per assecondare la storia. Deve essere solo il punto di partenza. Uno scrittore deve sapere quando la storia smette di appartenergli e diventa il racconto vero e proprio, se questo ha senso. Ogni traccia dell’ego è lasciata indietro se si presta attenzione a cosa fa funzionare la storia, piuttosto che presentare la propria esperienza. Se la propria esperienza è più importante si può sempre scrivere un memoir.

  

Quali sono gli autori che hanno influenzato il tuo stile?

I primi autori a influenzarmi sono stati Grace Paley, Leonard Michaels, Mary Robinson e Barry Hannah. Li rileggo spesso. Ma non importa quanto io li rilegga, il loro lavoro resta sempre costante e stimolante. Non puoi confondere i loro racconti con quelli di qualcun altro, hanno tutti voci ben distinte. Tutti sono divertenti e oscuri e le emozioni sono vere. Grace Paley ha detto, riguardo alla revisione del proprio lavoro, di tornare indietro e assicurarsi che ogni parola sia vera. Intendeva, ovviamente, emotivamente vera. È un buon consiglio e provo a seguirlo.
L'entità dell'influenza di questi scrittori su di me è tale che i ritmi, le frasi sono impresse su di me. Sento i suoni che emettono in maniera viscerale. Questo è un effetto che qualsiasi scrittore vorrebbe produrre in un lettore, e gli sono grata per questo dono.

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La gente non esiste, intervista a Paolo Zardi

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di Alessandro Pinci


Paolo Zardi torna in libreria con un nuovo libro di racconti dopo aver pubblicato tre romanzi: “XXI secolo” (finalista Premio Strega 2015) e “La passione secondo Matteo” (2017) con la Neo Edizioni, e “Tutto male finché dura” (2018) con Feltrinelli.
Il nuovo libro si intitola “La gente non esiste”, è pubblicato sempre da Neo Edizioni e raccoglie ventisette racconti: storie che raccontano esseri umani pieni di speranze, paure e desideri circoscritti in un piccolo frammento della loro vita che sta per essere squarciato.
Sono racconti brevi con una sapiente cura nella lingua, efficace nel rendere l’intensità della vita emotiva dei personaggi narrati. Dopo “Antropometria” (2010) e “Il giorno che diventammo umani” (2013) Paolo Zardi si conferma, anche con questo libro, uno dei più talentuosi autori di racconti in Italia.
In occasione di questa uscita gli abbiamo fatto qualche domanda.

 

In questo nuovo libro, come nelle altre due raccolte, il titolo rimanda a questa tua “ricerca antropologica” sugli esseri umani e sulle loro relazioni, un tema cruciale nelle tue narrazioni. Possiamo dire che è uno degli aspetti più frequenti delle tue storie? Come mai?

Quando ero bambino, a uno dei miei compleanni (credo il nono, facendo due conti), mio padre mi regalò tre libri piuttosto voluminosi: uno parlava di archeologia, uno delle grandi spedizioni. Se, come pare, siamo in gran parte il frutto della nostra formazione, direi che quei tre libri, ciascuno a modo suo, hanno contribuito non solo a creare la mia idea di mondo ma anche a definire alcuni dei campi ai quali posso applicare il mio interesse e la mia passione. Non sono uno psicologo, e conosco poco i meccanismi con i quali si formano identità e gusti; però credo che la mia testa di bambino in rapida crescita sia stata stimolata a porsi domande su certi temi, piuttosto che su altri. Poco tempo fa ho trovato, nella ricca biblioteca di mio padre, un libro storico di Carlo Ginzburg, che fu, tra le altre cose, professore a Stanford; in questo volume di trecento pagine si raccontano le vicissitudini di un fornaio che a un certo punto della sua vita divenne un eretico; scampato alla condanna in un primo processo, finì impiccato al secondo. Vista qui, la sua è una storia folle. Ma in quegli anni – stiamo parlando del Cinquecento in Italia – la definizione di Dio, delle relazioni di parentela con Gesù, la natura dell’anima, e altri temi teologici erano al centro dei pensieri di tutti. Per certi versi, non mi sento molto diverso da quel fanatico: la ricerca antropologica sugli esseri umani e sulle loro relazioni occupa gran parte dei miei pensieri. Non è una scelta: sono io.

 

Nei tuoi racconti vengono affrontate molte questioni, ma, in generale, possiamo dire che si parla di vita nel suo lato più emozionante, di quegli ambiti emotivi che coinvolgono sia aspetti più virtuosi che  negativi, che orientano, di volta in volta, la vita dei tuoi personaggi. Per questo credo che tutti i lettori possano immedesimarsi in ciascun aspetto dei tuoi racconti. Qual è il tuo pensiero sulla questione relazionale in un tempo come questo, caratterizzato dalla solitudine e dalla individualità?

Per mia ignoranza, non so come si vivesse negli altri tempi – leggendo Kafka posso immaginare che nella Praga di un secolo fa ci fosse una solitudine immensa, ma è difficile distinguere il caso personale da quello individuale. Per quanto riguarda gli anni in cui viviamo, sono convinto che non si sia poi così soli; mi pare, piuttosto, che sia cambiata la qualità delle relazioni individuali, con una proliferazione di conoscenze superficiali, spesso veicolate dai social, alle quali si accompagnano amicizie più profonde, come è sempre avvenuto. Il punto è che il vero sconvolgimento nelle relazioni tra le persone è nato dopo la diffusione del televisore in tutte le case, e cioè a una sessantina di anni fa. Paradossalmente, Facebook e Twitter hanno rimediato, almeno in parte, a quel tipo di solitudine; i legami che si creano sui social si basano su affinità abbastanza profonde, e non sulla semplice prossimità geografica. Di contro, i social hanno introdotto una serie interminabile di nuovi problemi, come il degrado della politica, che, potendo misurare il consenso di ogni singolo atto, ha rinunciato alla strategia di lungo respiro per concentrarsi sulla massimizzazione dei like quotidiani, o il potere, ancora incontrollabile, della propaganda basata sull’acquisizione di informazioni personali, o ancora le filter bubble, le bolle virtuali nelle quali siamo immersi, e che ci convincono che il mondo assomigli a noi: in questo senso, allora, l’individualità di ciascuno viene esasperata, a scapito di una visione globale e articolata del mondo.

 

I racconti che ho amato di più sono “Botole” e “Urano” nei quali l’intensità nella narrazione è, secondo me, più viva e pulsante. In entrambi si parla del tempo, uno dei nemici peggiori che possiamo avere. Nel primo i ricordi di un passato ormai lontano scompaiono, mentre nel secondo i personaggi cercano di aggrapparsi con l’amore a un futuro incerto e pieno di ombre. Ci puoi svelare in che modo raggiungi questa intensità, raccontandoci come sono nati questi due racconti? E poi qual è il tuo rapporto con il tempo?

“Botole” nasce sotto l’impulso di una casa editrice, Zona 42, che, attraverso Alessandro Vietti (un autore tra i più bravi in Italia), mi ha chiesto un racconto per una raccolta. Zona 42 è nata da pochi anni con un’idea chiara in mente: proporre una fantascienza “contaminata”, priva del timore di uscire dal canone. Il punto di partenza di questo racconto è, come spesso accade, un fatto reale: avevo un’amica che abitava in un piccolo paesino sopra Trento, in una casetta vicino alla chiesa, con una madre piuttosto anziana. Un giorno si sono presentati i Carabinieri a casa sua, l’hanno presa da parte e le hanno detto più o meno così: “Sappiamo che sua madre è una persona onesta, ma ci è veramente impossibile accettare che nel suo orto crescano piante di marijuana”. L’ipotesi più probabile è che il vento avesse portato là i semini di qualche coltivazione abusiva non distante da là. La mamma della mia amica non aveva la minima idea di quale fosse la natura di quelle piante; però ne faceva buon uso, mettendo le sue foglioline nell’insalata o preparando delle ottime frittate. I viaggi, dunque, possono essere reali, oppure interiori, e, come insegnava Godel, e come si può intuire in Matrix, il più riuscito mix di intrattenimento e scienze cognitive, un sistema non ha i mezzi per confermare la propria verità: in altre parole, l’atto di vivere dentro un sogno è indistinguibile dall’atto di vivere nella realtà, ammesso che questa parola abbia un qualche significato.
Anche “Urano” nasce da una raccolta di racconti, questa volta messa in piedi da Mauro Maraschi e Rossano Astremo per Hacca. Il tema era la fine del mondo, quella prevista per dicembre del 2012 (ricordo la presentazione del libro fatta giusto qualche giorno prima a Roma, in un’atmosfera particolarmente apotropaica). Per la realizzazione di questo racconto c’è stato un bel confronto con Mauro Maraschi, che allora non conoscevo ma che, proprio grazie a questo incontro, è diventato una delle persone che contano nella mia vita di autore. La mia idea iniziale era quella di una madre sul punto di partorire proprio nei momenti concitati della fine del mondo, combattuta tra il desiderio di vedere il volto di suo figlio, e poi vederlo morire davanti ai suoi occhi, o di proteggerlo fino alla fine, nello scrigno sicuro del suo grembo. Il problema, molto pratico, è nato quando ho saputo che un altro degli autori della raccolta, che poi avrebbe preso il nome di “ESC – quando tutto finisce”, aveva scelto il tema della gravidanza: in accordo con Maraschi, ho deciso di rinunciare a questa idea e di passare al piano B, che allora poteva essere riassunto come un vago desiderio di raccontare un evento terrificante e struggente allo stesso tempo. Scrivere questo particolare racconto è stato importante, per me, perché mi ha consentito di esplorare un mondo, quello distopico, che fino a quel momento non avevo mai preso in considerazione: il romanzo “XXI Secolo” e quello in uscita per Chiarelettere, “L’invenzione degli animali”, non sarebbero mai esistiti se non avessi scritto “Urano”.
Venendo alla seconda domanda, sono sempre più convinto che i racconti (e i romanzi, le sinfonie, i balletti, le gare di atletica) non sono altro che “tempo allo stato solido”. La trama, i personaggi, le descrizioni, i paesaggi, il ritmo del tamburo, le coreografie, la corsa sfrenata formano lo schermo necessario per poter osservare l’ombra del tempo che scorre, che è l’unico ingrediente imprescindibile di qualsiasi narrazione. Ci si domanda, già dai tempi di Sant’Agostino, cosa sia, in concreto, il tempo: una dimensione? Un’illusione del nostro cervello? Una forza fisica? E se esiste come esistono i colori, gli odori, la consistenza dei corpi, con quale senso riusciamo a percepirlo? Poiché la scienza non è ancora riuscita a fornire una risposta univoca (è ancora in corso il dibattito tra gli eternalisti e i presentisti), la letteratura (e la musica, la danza, le gare) provano a seguire, con una matita, il profilo incerto che il tempo proietta su di noi.

 

La differenza più grande che noto con i racconti delle altre raccolte, è che negli ultimi i toni utilizzati per le tematiche narrate sono molto meno duri e cupi rispetto al passato; noto anche alcune immersioni nel grottesco, nonostante (o, a maggior ragione!) si parli di tradimenti, malattia e morte; e, poi, per la prima volta, a differenza del passato, nomini i tuoi personaggi. Sei d’accordo con questa analisi? E come mai questa scelta?

La sorgente di tutti i racconti è il corpo di un essere umano che vive in questo mondo; una persona – io –che cresce, invecchia, che viene sottoposto, suo malgrado, a esperienze talvolta terribili, che evolve o involve: che cambia. Ho iniziato a scrivere racconti nel 2007. Sono passati dodici anni, da allora, e credo che le cellule del mio corpo siano state tutte sostituite dalle figlie delle loro figlie, copie un po’ sbiadite delle originali. Ora, a un passo dai cinquant’anni, so di aver superato già da un pezzo la prima metà della mia vita; la morte, che per tanto tempo è stata uno stimolante argomento di conversazione, è diventata una presenza più prossima: non incombente, ma comunque tangibile. In “Cuore di tenebra”, Marlowe, alter ego di Conrad, racconta che da bambino, osservando le carte geografiche dell’Africa, subiva il fascino irresistibile del suo nucleo inesplorato: di quel mistero oscuro. Con gli anni, però, gli esploratori hanno tracciato, su quelle mappe, fiumi, catene montuose, strade, città: ma, come aveva capito Leopardi, la base della poesia, e in senso più generale della scrittura, è la vaghezza. Si scrive di ciò che non è ancora noto, chiaramente definito (sempre Leopardi diceva che la precisione del francese aveva ucciso qualsiasi possibilità di creare poesia in quella lingua).
Per quanto mi riguarda, il tempo ha contribuito a delineare meglio il profilo della morte. Quel mistero così esotico è diventato un oggetto quasi quotidiano. In The pornography of death, Geoffrey Goer spiega (siamo nel 1955) come la morte sia diventata il tabù del XX secolo, sostituendo quello del sesso: un tempo ai bambini si diceva che erano nati sotto un cavolo, ma li si lasciava assistere alla morte dei parenti nella loro camera da letto, che se ne andavano attorniati da parenti, vicini e semplici curiosi. Ora, quando un nonno sparisce nel silenzio più assoluto, si dice che è volato in cielo; e si continua a pensarlo, più o meno inconsciamente, fino a quando non senti che la morte è qualcosa che ti riguarda da vicino; allora si alza il velo, e la vaghezza finisce. È più o meno questo il motivo per cui i miei toni sono diventati meno cupi: poiché la morte ha perso parte del suo mistero, forse mi interessa un po’ meno parlarne.
E poi ci sono stati altri cambiamenti, dettati dalla semplice voglia di esplorare. Le storie, ora, hanno spesso più personaggi, e per distinguerli tra loro diventa necessario usare i nomi propri. Sto provando a usare la prima persona, che consente di ottenere risultati completamente diversi. C’è della fantascienza; e il grottesco, che è l’elemento centrale del mio romanzo “Tutto male finché dura”, trova spazio in diversi racconti. L’aspetto bello di scrivere racconti sta soprattutto nella possibilità di sperimentare, di provare nuove strade.

 

Viri con molta naturalezza e maestria dai racconti ai romanzi e viceversa. Ci puoi spiegare quali differenze ci sono per te tra queste due forme di narrazione e quale preferisci?

Mi piace scrivere, e questo è il punto di partenza. La lunghezza di una storia dipende dalle sue caratteristiche intrinseche, e non da una scelta personale: ci sono eventi che vanno risolti in poche pagine e altri che invece si espandono, che richiedono la costruzione di antefatti, di piccoli mondi inventati. Il racconto dà una soddisfazione più immediata: anche se la fase del concepimento può durare anni, la realizzazione non richiede quasi mai più di due o tre giorni; lo sforzo viene ripagato subito. Il racconto ha meno vincoli sentimentali: vivi con lui per poco tempo e poi lo abbandoni presto al suo destino. In un racconto è più semplice usare una voce scomoda, eccessiva, sopra le righe, perché il tempo per il quale deve essere sostenuta è breve. Il romanzo, invece, è una casa che devi costruire a mano: per mesi, vedi solo lo squallore delle sue fondamenta, mentre tutto il resto è solo nella tua testa. Il romanzo richiede perseveranza, lucidità, abnegazione, presunzione, forza di volontà. Assomiglia a una partita a scacchi: le prime mosse sono semplici, ma poi iniziano le coercizioni – la lingua adottata, i passaggi obbligati, le caratteristiche dei personaggi, i raccordi tra i nuclei narrativi: da un certo momento in poi, ogni mossa è vincolata allo stato in cui si trova la scacchiera. Il romanzo è un’avventura profonda, una sfida continua; richiede progettualità, organizzazione, un piano ben congegnato capace di prevedere in anticipo l’inevitabile scoramento che ti assale quando si incontra una secca, e la disperazione di non riuscire più a trovare la soluzione giusta per il problema che noi stessi ci siamo posti.
Ma la sostanza è la stessa. Si scrive una parola dopo l’altra, fino a che si arriva alla fine. Non c’è niente di più di questo.

 

Sei considerato da molti come uno dei più bravi scrittori di racconti in Italia. Da profondo conoscitore della narrativa breve, secondo te, come se la passa oggi il racconto in Italia?

Il racconto, anche in Italia, ha una lunga tradizione, che a mio parere non si è fermata. Il web è pieno di riviste on line che pubblicano racconti, spesso molto buoni. Le case editrici tendono a essere prudenti, per considerazioni forse non troppo irrealistiche: è più semplice vendere romanzi che raccolte di racconti. Facendo un passo indietro, però, credo che sia più semplice valutare un romanzo che una raccolta di racconti; che sia più semplice da editare, da sistemare, e poi da raccontare ai librai, quando gli agenti propongono le nuove uscite, e ai lettori che entrano in libreria per comprare qualcosa, o cercano su Amazon un libro da portarsi in vacanza; più facile da recensire, da riassumere in una fascetta, in un titolo di giornale, in un suggerimento a un amico. Non c’è un complotto nazionale contro il racconto: è semplicemente più difficile “veicolare questo prodotto”, come direbbe un rappresentante di colle epossidiche. Lo vedo nelle presentazioni: in un romanzo ci sono personaggi, una trama che si può accennare, facendo sempre la doverosa premessa che non si intende spoilerare il finale (facendo intendere che lascerà di stucco il lettore) e c’è quasi sempre un tema centrale, portante di cui si può discutere per una buona mezz’ora; ma quando qualcuno si trova a moderare la presentazione di una raccolta di racconti, be’, dovrà parlare di cose impalpabili come lo sguardo dello scrittore o la distanza, di scelte stilistiche, e anche dello stato del racconto in Italia e della differenza tra il racconto e il romanzo. 😊
Ma il racconto esiste, è forte e ha un seguito importante; è una forma imprescindibile di letteratura.

 

Puoi consigliare ai nostri lettori i tre libri di racconti che secondo te tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita?

Opzione tradizionalista: tutti i racconti di Čechov, tutti i racconti di Flannery O’Connor, e una robusta antologia di racconti di fantascienza.
Opzione alternativa: i 49 racconti di Hemingway (anche solo per imparare come non conviene scrivere), una raccolta a caso di Carver (tenendo sempre in mente che il suo minimalismo nasce per sottrazione, e non per stitichezza), e un’antologia di racconti di Buzzati.
Oppure, ancora: la raccolta di tutti i racconti della Berlin (con spirito critico: dentro ci sono anche cose di scarso valore), tutti i racconti di Kafka (respingendo con forza la voglia di imitare il suo genio inarrivabile) e l’introvabile “Fiale” di Elena Rui, autrice italofrancese di indubbio talento.
Scegliendo tra gli autori non ancora pubblicati: la raccolta in lavorazione di Rina Camporese, quella già completa di Sara Gambolati, quella che prima o poi vedrà la luce di Carmelo Vetrano.
O infine, per andare sul sicuro: tre libri a caso pubblicati dall’ottima Racconti Edizioni.

 

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Lingua nera, intervista a Rita Bullwinkel

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di Fabrizia Gagliardi


È difficile indovinare il nuovo indirizzo della letteratura americana. Sembra di essere entrati in un periodo di assestamento e ridefinizione di stili e temi dopo l’ondata di ironia anticapitalista del postmodernismo. Potremmo parlare della letteratura dei non americani in America come quella di Chimamanda Ngozi Adichie, Valeria Luiselli, Akwaeke Emezi, Camille Bordas; si alternano all’autofiction e alla metanarrativa come Rachel Cusk, Lisa Halliday, Leslie Jamison; e al racconto della provincia americana di Chris Offutt, Jesmyn Ward, Kent haruf, Marilynne Robinson.
È altrettanto arduo scandagliare il mercato editoriale americano eliminando l’obiettivo del Grande Romanzo: un’etichetta per fascette che verranno subito dimenticate.
Edizioni Black Coffee ha affrontato la sfida sin dall’inizio riuscendo a creare un catalogo ben equilibrato tra il recupero di alcune pietre miliari e le nuove rivelazioni del panorama americano. Tra queste, Rita Bullwinkel ha tutta l’intraprendenza di un esordiente: nei suoi racconti in Lingua nera (tradotti da Leonardo Taiuti), la sperimentazione sta nella volontà di cimentarsi in generi letterari diversi cercando di illuminarli attraverso registri linguistici atipici. Non si assiste a un vero e proprio stravolgimento del genere, ma a una maniera inedita di rivisitarlo: spesso l’impalcatura della narrazione è sorretta solamente dall'universo, dall’ambientazione, tralasciando, per esempio, la creazione di personaggi memorabili. In un racconto come Arpa, per esempio, una donna assiste a un incidente stradale e da lì inizierà a chiedersi come scindere la propria personalità in un crescendo in cui l’impianto realistico lascia il posto a quello metafisico; in Impasto fritto, la narrazione si farà mano a mano corale pur mantenendo lo sguardo eterodiegetico su una coppia di adolescenti in una tavola calda; mentre in racconti come Phylum e Umani preoccupati si avverte un tono che fa pensare a una parabola.
Per capire come nasce il rapporto di Rita Bullwinkel con il racconto l’ho incontrata in occasione della sua prima presentazione a Milano, alla libreria Gogol & Company.


La tua raccolta alterna racconti surreali, grotteschi, altri sono vicini al reali e altri ancora sembrano parabole o fiabe. Qual è il tuo processo compositivo? Come nascono le tue storie?
 

Leggo molti libri di fiction, ma anche fantasy e science fiction e credo che sia proprio questo a rendere la raccolta così variegata.
Le storie più brevi nascono da un mondo costruito su un’idea molto specifica come in Ingobbirsi. Uno dei motivi per cui la storia è così corta è perché coincide con l’idea di questo mondo capitalista in cui l’unica occupazione rimasta è quella di sorreggere il seno alle ragazzine che iniziano lo sviluppo. Nel racconto non ci sono veri e propri personaggi, nessuno con cui tu possa sederti e conoscere oltre il tempo della lettura. Quando ho concepito il racconto non ho dato peso ai personaggi ma solo all’idea di quello specifico mondo.
Spesso quando penso a una storia gli elementi del racconto stesso sono quelli che influenzano l'ambientazione e il genere.

 

Quindi non scegli a priori il genere, ma ti lasci trasportare…

Non ci penso. Anche perché generalmente non leggo libri avendo in mente il genere a cui appartengono. Ursula K. Le Guin ha scritto La mano sinistra delle tenebre in cui ci sono astronauti su un pianeta sconosciuto, alieni mutaforma... in questo caso non mi concentro sul genere del libro ma sulla sua critica politica. Mi sbilancerei col dire che di solito se ci sono cose di cui ho intenzione di scrivere provo a prendere appunti, o faccio un paio di tentativi, ma di solito non riesco subito a trovare una chiara collocazione all’interno di un genere.

 

In Arpa una donna assiste a un tragico incidente stradale e inizia a interrogarsi sulla possibilità di dividere il suo corpo e la sua personalità, in Lingua nera una bambina mette volutamente la lingua in una presa elettrica, ne I veri zombi di Dio una non-morta dà alla luce un bambino vivo. In un modo o nell’altro l’incontro e lo scontro con il corpo genera cambiamenti. Puoi dirci di più sul significato del rapporto tra mente e corpo nei tuoi racconti?

Spesso sento di essere un alieno che abita nel mio corpo. Penso che per chiunque sia strano avere un corpo, questa sorta di veicolo impacciato che opera in maniera separata rispetto alla propria mente. Ci sono un paio ragioni per cui mi ritrovo a pensarci.
Penso che persone con corpi che subiscono discriminazioni come le donne - dove il mondo esterno guarda il corpo in modo diverso rispetto a chi lo stai vivendo - siano più preoccupate della stranezza del proprio corpo. Ma credo che sia una sorta di esperienza femminile universale, condivisa anche con chi in generale subisce discriminazioni che riguardano il corpo a prescindere dal sesso.
Il secondo motivo è che ho un passato da atleta competitiva: dall'età di sei anni ho gareggiato a livello nazionale in pallanuoto. Per anni ho avuto questa strana sensazione: che il mio corpo fosse uno strumento che dovevo usare per uno scopo specifico. Qualcosa da allenare, mantenere, come fossi un animale che doveva ottenere quello che voleva. Guardo a questo strano periodo, che poi avrebbe influenzato la mia vita negli anni successivi, e sento di aver sviluppato la capacità di far fare qualcosa al mio corpo ma anche di abbandonarlo per guardarlo dall’esterno. Le storie che scrivo derivano da un profondo inconscio, ma ho l’impressione che il mio passato da atleta abbia influenzato il rapporto tra mente e corpo che si avverte nei racconti. Ho chiesto anche ad altri autori che hanno un passato da atleti: tutti hanno confermato di avere queste stesse sensazioni che hanno determinato, in qualche modo, anche la loro vita artistica.

 

In un’intervista su Paris Review hai affermato che il racconto più difficile da scrivere è stato Arredamento perché la protagonista è così particolare da impedirti di calarti a lungo nei suoi panni. Come mai? Credi che uno scrittore debba sperimentare anche personaggi lontani dal suo essere?

Il motivo è stato il personaggio più difficile da scrivere, tanto da farmi sentire a disagio, è che la protagonista, Ursula, è molto arrabbiata, vuole uccidere qualcuno fino a giustificare la pena di morte. È molto pericoloso narrare in prima persona un personaggio che ha una visione problematica del mondo e penso che sia davvero difficile sapere quando il disagio è produttivo o no. In generale direi di essere meno a mio agio nello scrivere di un mondo che si avvicina al mio, anche se spesso fuggo da storie con le quali potrei essere fraintesa. Una cosa che amo della finzione è che indosso maschere che mi permettono di interpretare molti personaggi.

 

In alcuni racconti si avverte un’ironia vicina a Lorrie Moore, l’intimità delle esperienze di Amy Hempel senza il suo minimalismo, lo sguardo distopico di George Saunders, ma quali sono gli scrittori che ti hanno influenzata? E da dove nasce il tuo rapporto col racconto?

Adoro tutti gli autori che hai nominato! Sono una lettrice compulsiva ed è difficile scegliere degli autori di cui parlare nello specifico. A scuola c’erano corsi in cui assegnavano gli stessi libri più volte negli anni. Ho letto più volte Macbeth, Il giovane Holden, Orgoglio e pregiudizio. I miei genitori non erano grandi lettori, ma leggendo questi libri a ripetizione ho iniziato a pensare di non amare la letteratura. Fu così fino a quando al college frequentai un corso di scrittura creativa. Il programma conteneva letture come The way through doors di Jesse Ball, Inventario dei desideri di Lydia Davis, The Anchor Book of New American Short Stories, la prima versione della splendida raccolta curata da Ben Marcus, Magic for Beginners di Kelly Link, Gita al faro di Virginia Woolf. Ho trascorso quell’anno a leggere le cose scritte da ogni autore presente nel programma. Molti di loro sono i miei preferiti. Ben Marcus, per esempio, ha curato la raccolta di racconti in cui ho scoperto Diane Williams, autrice con cui ho lavorato al magazine Noon e che è stata molto importante per la mia formazione.
La letteratura riesce a smuovermi. Il cambiamento emozionale che ha luogo quando leggo libri e letteratura è così drammatico da influenzarmi profondamente rispetto ad altre forme artistiche.

 

Hai scritto per diverse riviste e sei editor di McSweeney’s. Qual è stato il tuo percorso?

 Credo che non ci sia niente di più istruttivo che lavorare nelle riviste letterarie. Ho lavorato a Noon, Vice, sono stata una lettrice per la sezione fiction di BOMB. Ho imparato da tutte queste collaborazioni. La situazione tipica è quella in cui ricevi, diciamo, 600 proposte di racconti e hai un mese per selezionarne un paio da sottoporre agli editor. Da qui comprendi l’importanza dell’incipit, della costruzione stessa della frase e della tua capacità di risconoscerne le potenzialità. Spesso penso che sia molto differente dal teatro: il pubblico è catturato dallo spettacolo, mentre con la lettura c’è il rischio costante di mollare il libro.
Lavorare per le riviste mi ha insegnato molte cose del mio essere lettrice e ho imparato a riconoscere lo slancio della narrazione sin dall’inizio. Una delle esperienze fondamentali, come ho detto, è stata quando ho lavorato a New York per Noon, dove ho avuto occasione di collaborare con Diane Williams. Pochi scrittori lavorano come lei: per scegliere il racconto da pubblicare lo fa leggere ad alta voce creando questa corrispondenza tra la risonanza delle parole ad alta voce e il modo di concepirle al momento della scrittura.

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Nasce Cartaceo, una nuova rivista tutta su carta

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di Andrea Cafarella


Il 23 febbraio è stato presentato il numero Ø di una nuova rivista. Si chiama «Cartaceo». A cura dell'associazione Artnoise. Si tratta di uno spazio ibrido ed esclusivamente di carta (per questo motivo non troverete altre notizie sul web: una pagina Facebook o instagram dedicate). Ibrido perché prova a mettere insieme, in un singolo pieghevole d'arte, illustrazioni e testi di artisti molto diversi, che dialogano su un tema, un argomento specifico. Per il numero Ø è stato scelto «Mediterraneo» e vi hanno partecipato Giulia Caminito, Alvise Masto, Sandro Mele, Andrea Orlandi e Luana Perilli. Noi di Cattedrale abbiamo deciso di presentarvi questa rivista atipica attraverso una breve intervista a una delle redattrici (Giulia Priore) e, a seguire, il racconto di Giulia Caminito pubblicato su questo numero pilota. Inizierei chiedendo a Giulia come nasce Cartaceo.


In che modo e in quale occasione avete deciso di iniziare a lavorare a questo progetto? Quale è la genesi di Cartaceo?

 

Giulia Priore: Cartaceo nasce da Artnoise, associazione che si è occupata d’arte e cultura online. Dopo aver scritto, tra le altre cose, di cinema, danza, letteratura, abbiamo deciso di dare uno spazio nuovo agli artisti, dedicato solo a loro, in cui potessero esprimersi ognuno a proprio modo su un unico tema, senza il nostro intervento diretto. Abbiamo scelto la carta perché la stessa rivista doveva essere, nella nostra visione, un manufatto, un oggetto artistico con cui sperimentare. Oltre a essere una sfida e una piccola provocazione nei confronti dell’online (di cui tutti noi ci siamo serviti senza problemi con Artnoise), è stato anche un modo per dare uno spazio chiuso e delimitato, una gabbia formale, oltre che tematica, agli artisti che hanno partecipato per stimolare la loro creatività.

Volevo chiederti io stesso qualche ragguaglio sull'idea di incentrare tutto sul supporto di carta (fino a farlo diventare il nome stesso della rivista) in un mondo, quello delle riviste, che sta sempre di più migrando verso la dimensione web. Mi piacerebbe sapere un po' quali sono le conseguenze e le difficoltà dell'utilizzo esclusivo della forma fisica della rivista, anche se è un po' presto per dirlo.

 GP: Per il momento noi abbiamo vissuto solamente la parte positiva di questo esperimento. Nel senso che abbiamo ragionato insieme sulle opportunità che il supporto cartaceo ci poteva dare ed è stato stimolante proporre agli artisti una forma diversa (non nuova però) su cui potersi esprimere. Detto ciò, la carta non è per noi un territorio sconosciuto, noi tutti leggiamo ancora soprattutto libri nel formato tradizionale, quindi è stato un pensiero abbastanza naturale voler creare una rivista su carta. È stato nel momento in cui ci siamo resi conto che stavamo escludendo l'online che abbiamo capito che stavamo lanciando una sfida a noi stessi soprattutto. Oltretutto la scelta del tipo di carta, l'attenzione che abbiamo avuto per la resa dei colori e anche il sistema della piegatura (di cui è ideatore Paolo Girella) hanno aggiunto valore all'oggetto artistico in sé della rivista. Le conseguenze di questa scelta si vedranno nel tempo e sono legate soprattutto alla distribuzione. Ogni tema proposto da Cartaceo, secondo la nostra idea di partenza, deve essere occasione per creare momenti di discussione che vanno oltre i confini della rivista. Per ora chi vuole avere Cartaceo deve rivolgersi a noi e seguirci sulla pagina facebook di Artnoise per eventuali iniziative.

 

Cartacea è la forma. Ma parliamo invece, adesso, del contenuto. Come nasce questo numero Ø? Perché il tema «mediterraneo» e come è stato declinato dai vari artisti e perché proprio loro per dialogare su questo tema? Raccontaci un po' di questo numero pilota, il suo concepimento, la gestazione e infine il parto.

GP: Il tema «mediterraneo» è arrivato abbastanza facilmente. Si tratta di un territorio a cui apparteniamo, intanto, e che ognuno vive a suo modo. Il nostro obiettivo era quello di disegnare una mappa di tutti i punti di vista possibili e in parte speriamo di esserci riusciti. Infatti, ogni artista ha raccontato una storia differente: c’è chi ha parlato di un rapporto più intimo con il mare, chi di denuncia, chi di disperazione, chi di fuga e di salvezza. È un tema inestinguibile su cui si può costruire un dialogo stimolante e costruttivo. La fase di gestazione è stata lunga anche perché ci tenevamo a far interagire le opere e dare avvio a un ragionamento che andasse al di là dei confini della rivista.

 

So che ti sei occupata personalmente dei testi contenuti in questo numero della rivista, ti chiedo allora di presentarci brevemente il racconto che segue questa conversazione e lasciare ai nostri lettori qualche coordinata in più su come e dove acquistare Cartaceo e su dove e come contattarvi per eventuali proposte, informazioni, richieste. Sia in quanto lettori e librai che come autori o eventuali aspiranti tali, desiderosi di potervi mandare i loro contributi (ammesso che questa sia una possibilità da voi contemplata).

 GP: Io e Paolo Girella ci siamo occupati del testo e dei rapporti con Giulia Caminito. Posso dire che lei ha scritto il testo su nostra commissione e ha proposto una storia del mediterraneo dal punto di vista dell’Italia, di chi vuole fuggire da una vita difficile. È stato interessante mettere a confronto il punto di vista di questo racconto con quello delle altre opere, perché va in direzione inversa, propone una visione in cui l’Italia non è il paese a cui arrivare bensì quello da cui scappare, raccontando una storia molto personale con lo stile senza respiro e pieno di immagini di Giulia Caminito.

Continueremo il nostro percorso scegliendo per i prossimi numeri scegliendo temi urgenti, contingenti e controversi, perché il nostro obiettivo è di porre una domanda e di creare una discussione che oltrepassi i confini di Cartaceo con presentazioni, dibattiti, tavole rotonde, per usare l’arte come punto di stimolo e motore per comprendere.

Per contattare la redazione della rivista basta andare sul sito di Artnoise oppure contattare noi personalmente. Inoltre a breve è prevista probabilmente un’altra occasione per comprare Cartaceo, nella cornice di un festival dedicato alla musica del mediterraneo come l’Errichetta festival (il 4 maggio all’Angelo Mai) e anche un incontro-dibattito sulla natura e il futuro delle riviste cartacee da Tomo Libreria a metà primavera (data da definirsi).

 

Ringraziamo Giulia per il suo tempo e le sue parole e vi lasciamo alla lettura di «Mareggiata» di Giulia Caminito, invitandovi a cercare Cartaceo e acquistarlo, per il vostro bene.

 

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MAREGGIATA
di Giulia Caminito

 

Le braccia le dolevano, scintillavano, luci al tramonto, il sudore le rendeva lucciole e comete. 

Bianca aveva remato onda su onda, nella lontananza. Era sdraiata, guardava un cielo pesto, preso a pugni dal mondo, il suo fiato era polvere, fumo di comignoli, fuoco quasi spento. Non si era mai fermata. 

Il molo di Ostia era lontano anni luce, come le estati al Kursaal, le grattachecche e il secchiello con sopra disegnati cavallucci e soli raggianti. Il gelato verde pistacchio schiacciato sul marciapiede, lo struscio della domenica dopo pranzo. 

Mentre navigava pensava e ripensava alle mani di suo padre alle cinque del mattino, con quelle impastava farina e uova, gli strati di burro. Lei e Antonio, suo fratello, dovevano mettere i croissant in fila nelle teglie, fino a mille brioche ogni mattina, tutti i bar dei ricchi di Campo dei fiori si rifornivano da loro. 

L’acqua fuori dalla barca era una lastra di vetro, Bianca non sperava più in qualche guizzo, un banco di acciughe, un pesce chitarra, gli occhi tondi di una murena, il mare era cocciuto nel suo silenzio, mentre lei voleva naufragare verso le colonne d’Ercole, dove il mondo doveva finire a tutti i costi, cambiare, diventare altro, morire e tornare giovane.

Se chiudeva gli occhi immaginava lo zucchero semolato e la vanillina, la marmellata di fragole, il bianco della panna, le scatole rettangolari con il marchio inciso sopra “Remo e figli”, e Antonio che partiva in Vespa per le consegne.

Erano passati trent’anni, la loro bottega di pasticcieri era diventata una tana dove lo zucchero aveva l’odore del bitume. Avevano deciso di non vendere l’attività solo per permettere a suo padre di svagarsi, da quando la madre non c’era più, incastrati in quella casa da collezionisti di cattive abitudini, senza di lei erano spogli, presi sotto da un rullo compressore. 

“Papà ha bisogno di qualcosa da fare” aveva detto Antonio, accasciato sul divano, il dolore al fianco, il fegato andato a male, non poteva più stare in piedi per ore, non poteva più fare le consegne, non poteva più preparare le brioche alla mattina. “Lasciamogli la bottega, resistiamo un altro po’”.

Così il vecchio padre, ogni giorno alle cinque, faceva cento cornetti da vendere ai dirimpettai, quelli che non avevano dato le attività in gestione ai cinesi, ai russi, ai giovani italiani che amavano tanto le apericene e i cocktail bar, le tapas, i drink, i cornetti Algida surgelati, i forni elettrici.

Si erano detti chi resta deve capire, i figli devono piangere i padri, le madri devono lasciare bomboniere chiuse in soffitta. 

La loro attività stava cadendo a pezzi, stucco dopo stucco, muro a muro e piastrella su piastrella. Si sgretolavano. Il prezzo basso che Don Gregorio, il prete che gestiva gli affitti della zona, gli aveva fatto per anni ora non bastava più, i nuovi preti volevano gli interessi, i nuovi preti volevano farci aprire un centro estetico, le lampade ultraviolette, le unghie di plastica, l’abbronzatura perfetta.

Quando era bambina sua madre le diceva che il loro mare non era come l’oceano, il loro mare era sicuro, piccolo, navigabile a vista, una scodella piena d’acqua appoggiata sul mondo. Roma, Olbia, Algeri, Gibilterra. La Grecia, il Libano, Creta, la Turchia. Tutto era a portata di navigatore. Il mare dava consigli. Il mare le diceva di scappare, di non desiderare altro che un porto nuovo. Lei era in guerra con se stessa, a volte pensava di volersi far sommergere, perché sotto l’acqua arrivano attutite anche le grida peggiori.

In realtà la sua vita era già stata una lunga apnea. Anni prima, mentre la madre era ancora viva, Bianca aveva scoperto che Gaetano, suo marito, andava a letto con la cognata e gli aveva fatto presente la cosa, lui s’era adirato, “Stai sempre a pulire, non si scopa mai e manco resti incinta”, se n’era andato di casa, aveva chiamato un avvocato. Lei che faceva la massaia o aiutava il padre in pasticceria, d’improvviso non aveva avuto di che pagare mille euro d’affitto, il suo letto comprato usato, la cucina di Ikea, il tappeto multicolore, le poltrone vibranti davanti alla tv. Aveva riempito valigie per le vacanze con i resti della moglie che era stata.

Bianca si affacciò dalla barca, le stelle di mille universi, di galassie a frotte, di moltitudini e disastri, di spegnimenti e risurrezioni, si specchiavano nel Mediterraneo, la culla dove lasciarsi oscillare, da un continente all’altro, come una pallina da flipper. Bianca voleva venire lanciata, scagliata da costa a costa, aveva smesso di remare, aspettava le onde, voleva incagliarsi su fondali bassi e sassosi. 

Quando era tornata dai genitori, dopo il divorzio, aveva trovato la sua vecchia camera piena di gingilli, nastrini, scatoline, regali incartati, fogli d’avanzo, fotografie infilate in contenitori di metallo, vecchie confezioni di cioccolatini, e aveva chiesto a sua madre “Perché?” che ci faceva quella marea di cianfrusaglie a infestare ogni stanza, ogni angolo della loro passata dimora, della famiglia che erano stati e non sarebbero stati mai più. 

“Voglio conservare tutto” aveva risposto lei, come se ciò bastasse a porla dalla parte del giusto, in quella geometria di corpi sbagliati, in quella vecchiaia senza pensione, in quei solai dove abitavano mostri e vampiri. Voleva tenerli lì, immobili come gli angeli sui ponti, in corridoi umidi e carte da parati ingiallite, sarebbero sempre stati bambini. 

Non si buttava via niente non si spostava nulla, Bianca entrava in camera in punta di piedi, il padre le ripeteva “Quando tua madre morirà puliremo” e ora che era morta le anticaglie erano diventate le offerte al suo mausoleo, “Non riesco a liberarmi di nulla, tutto mi ricorda di lei”. 

In molti avevano detto a Bianca che i viaggi fanno trovare la propria meta, anche lei avrebbe chiesto asilo all’infinito, profuga di patria cattiva, un barcone sugli scogli. Il mare si portava via il tempo, da quanto era partita? Ore, giorni, mesi. La tempesta, la pioggia, il sole, la massa salina: si sentiva sconfitta. Non vedeva all’orizzonte altre imbarcazioni. Non vedeva l’orizzonte, in verità.

Dopo il divorzio e la morte della madre, c’era stata la notte della fuga. Stanca di vivere tra i fantasmi, era scappata di casa, via da quel padre antico, lontano da quelle mura tombali, quasi avesse sedici anni e non quaranta, e aveva dormito in macchina, la sua unica proprietà. Non aveva i soldi per la revisione o per l’assicurazione, l’aveva parcheggiata vicino al parco, ci passò quella notte. Soffrì il freddo e il silenzio di quell’abitacolo, che non era nave o porto, ma l’ultimo punto d’attracco prima della disperazione.

Il giorno successivo si era alzata, dolorante, era andata alla bottega con un’ora di sonno. I nuovi preti erano entrati forzando la serratura e avevano murato la porta. Lei, suo padre e suo fratello erano rimasti fuori. Remo piangeva sull’uscio, nei suoi novant’anni di capelli caduti e calzoni di fustagno, chiedeva “E ora?” senza fare i conti con la fine.

“E ora niente, papà.” 

Lo aveva riportato a casa, si era decisa a trovarsi un altro lavoro, puliva le case delle signore, degli studenti sfaticati, delle madri in carriera, spolverava miniature di vetro, libri dalle coste colorate, sotto letti di calzini spaiati, buttava e differenziava, le bucce nell’umido, la carta solo pulita, la plastica va sciacquata, sturava lavandini dai resti delle cene altrui, raccoglieva assorbenti dal fondo dei cestini, cambiava asciugamani e saponette. 

Tutto quello che conta è andarsene, lo fanno in tanti nel mondo, doveva farlo anche lei, si ripeteva, con lo spazzolone da water in mano, trovare il proprio posto nelle cartoline da costiera, mappare le insenature e le foci dei fiumi, arrivare ai confini, per farsi travolgere dalle brezze salmastre, essere marinaio e conchiglia.

Per questo era partita, barca senza vela, braccia senza motore, aveva rubato una bagnarola, proprietà di amici di amici, in quell’Ostia infantile, remota e dimenticata. Si era messa a remare nel Mediterraneo, il mare che non è oceano, voleva trovare la salvezza tra la spuma e le alghe, le telline e le meduse, essere mareggiata.

Le avevano detto che il mare porta speranza, e lei ci aveva creduto.

Una libellula di città, intervista a Tiziano Scarpa

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L’ultima opera di Tiziano Scarpa è Una libellula di città, e altre storie in rima, edito da minimum fax.
Trenta racconti in rima. Storie strane, fantasiose, impossibili, i cui protagonisti sono uomini e donne, ma anche alberi e animali che non sopportano il modo in cui è organizzata la vita e cercano di reinventarla con mille esperienze avventurose. Un albero di sradica da sé per rotolare giù dal bosco in collina dove è costretto a vivere; una giocoliera assassina fa numeri da circo con i globi oculari delle sue vittime; un elefante con un sassofono al posto della proboscide cerca l'anima gemella; una libellula conosce in poche ore la pienezza dell'esistenza; un misantropo vive su un faro che si stacca dalla costa e naviga nell'oceano; un regista di film horror muore e diventa uno zombie di successo; una falena dissidente è attratta dal buio. Ciascuno di loro cerca l'amore e la verità, e trova sempre quello che si merita.
Tiziano Scarpa dà vita a una galleria di personaggi indimenticabili, scolpiti dalla metrica e dalle rime baciate, abbracciate, accarezzate, qualche volta accoltellate e strangolate.

Alfredo Zucchi ha intervistato l’autore per Cattedrale.


*

di Alfredo Zucchi


Mi ha sorpreso molto la leggerezza canzonatoria – forse proprio per questo efficace – con cui tratti temi difficili (la morte, le illusioni, l’entropia). Come se questa forma (i versi, la rima baciata), paradossalmente, ti permettesse di andare dritto al punto.

Guarda, io cerco di evitare il Kitsch, sempre. Ogni opera d’arte, alla fine, è un tentativo di tenersi alla larga dal Kitsch, cioè dalla falsità nell’affrontare la bellezza e il male. Se parli di cose belle da un punto di vista bello, produci Kitsch. E se parli di cose brutte da un punto di vista brutto, produci un equivalente del Kitsch, il suo opposto simmetrico: un nichilismo manieristico. Parlare di morte, angoscia, disperazione, suicidio con una metrica fissa e rime baciate è guardare alle cose brutte da un punto di vista bello, è far sprigionare una differenza di potenziale fra il gelo e il fervore, fra l’amaro e il dolce, fra l’abrasivo e il morbido.

 

Da dove viene l’idea di scrivere Una libellula di città?

È il mio “libro segreto”, me lo porto dietro da tanto. Queste storie in rima ho cominciato a scriverle nel 2000: quasi vent’anni fa! All’inizio non pensavo che potessero diventare un libro, le scrivevo e basta, mi inebriava l’esperienza fortissima di inventare una storia in cui le immagini si impastano ai suoni e al ritmo delle parole. A differenza di un racconto in prosa, narrare in metrica e in rima ti avvinghia profondamente alla lingua Madre, che ti detta i suoi accenti e i suoi echi: la lingua Matrigna, la lingua Materia dell’immaginazione. Ho continuato a scriverne altre, di tanto in tanto, mi piaceva moltissimo farlo, ma solo quando ero veramente ispirato. Poi, una decina di anni fa, man mano che le accumulavo, ho capito che erano molto di più di un passatempo saltuario, e che senza essermene reso conto stavo dando forma a uno dei miei libri più importanti.

 

Ho pensato alle Favole di Esopo, in particolare alla loro versione originaria, quella senza il “la storia insegna che” – l’assenza della chiusa didascalica e moralistica rende ai testi di Esopo una grande ricchezza e ambiguità interpretativa.

Fai bene a richiamare le favole: la libertà di abbandonarsi alla fantasia raccontando avvenimenti inverosimili, animali che parlano, eccetera, c’è anche in queste mie storie. E certe volte una specie di “morale” viene enunciata a chiare lettere; ma in generale è come dici tu: sono racconti e basta. E finiscono quasi sempre male.

 Quali sono i modelli a cui hai guardato?

Lo si vede da come cominciano queste storie. Nel primo verso è nominato un protagonista e il luogo da cui proviene: il richiamo evidente è ai limerick di Edward Lear. Ma quelli erano componimenti brevissimi, e si fondavano su invenzioni surreali, assurde. Queste storie invece non sono dei nonsense: sono racconti pieni di ribaltoni e colpi di scena, sì, ma hanno uno sviluppo narrativo coerente. Qualcuno ha anche chiamato in causa Rodari: con tutto il rispetto, le sue filastrocche erano metricamente sciatte. E poi le mie non sono filastrocche, non sono giochetti iterativi: sono storie in rima per adulti che affrontano questioni capitali dell’esistenza con una forma leggiadra.

 

Il mio testo preferito: “Un quindicenne di Poggio Bustone”. In questo, il ribaltamento finale della prospettiva è duplice e ancora più spiazzante. Qual è, tra i testi che compongono Una libellula di città, quello a cui sei più legato?

Be’, mi sembra chiaro, no? Gli ho dedicato il titolo del libro… La storia della libellula è l’unica che, per ora, so perfettamente a memoria: è diventata un mio talismano portatile; ogni tanto me la ripeto in testa, camminando per la strada, come una preghiera o un rosario personale. Forse la poesia è questo: una portatile liturgia della Parola, da imparare a memoria e recitare fra sé e sé, un’eresia individuale, un’orazione privata per supplicare e smuovere il proprio dio.

 

Dietro le scelte formali (decasillabi e endecasillabi, distici in rima baciata) c’è un’esigenza stilistica precisa?

L’endecasillabo è molto elastico, sa diventare solenne o frivolo a seconda della distribuzione degli accenti. Il decasillabo invece è più difficile da comporre e da gestire artisticamente: tutti i ritmi pari, infatti (i decasillabi, gli ottonari…), se non stai attento suonano come marcette o cantilene. E quindi il decasillabo risulta perfetto per ottenere quello che ti dicevo prima: parlare di cose belle da un punto di vista brutto, o viceversa. In questo caso, parlare di cose adulte e tragiche da un punto di vista formale che può apparire puerile e scanzonato.

 

In un’epoca in cui la letteratura ha quasi del tutto abbandonato la poesia, l’uso del verso – e della rima – produce un forte effetto straniante. Com’è stato scrivere Una libellula di città?

È stata un’esperienza fortissima, un’immersione integrale nella visione-indissolubilmente-legata-alla-lingua. Tutte queste storie in rima le ho scritte in uno stato di concentrazione intensissima, dimenticandomi del mondo intorno, proprio perché mi hanno fatto vivere un’immersione totale nella lingua, che coinvolge non solo il significato ma anche il ritmo e il suono delle parole, il loro corpo-anima indivisibile.

 

Quali le differenze rispetto agli altri tuoi testi in versi?

Sarò post-romantico, ma quelle della Libellula io non le considero poesie, o non del tutto: perché non sono testi lirici. Sono storie in rima, lo ripeto. E, per le caratteristiche che ti ho descritto prima, credo che questo libro, bello o brutto che sia, non abbia precedenti nella nostra letteratura (o almeno, a me non ne vengono in mente).

 

Infine, due distici che mi hanno colpito per chiarezza, profondità e misura:

 

“Compito immane, grave e leggero,

felicità, pensare il pensiero”.

“Fu così che le uccise: conoscendole.

Perse la sua visione illuminandola”.

 

Come si trasporta (si trasforma) l’attitudine al verso nella prosa?

Forse intendi chiedermi come mi sento quando, invece di scrivere in versi, scrivo romanzi? Sono due esperienze veramente incommensurabili. In prosa cerco di far sognare a occhi aperti chi legge, facendogli dimenticare che sta leggendo delle parole, delle sequenze di lettere alfabetiche: è come se stessi dando istruzioni alla sua immaginazione, perché si figuri la storia e la viva nei dettagli, nelle sensazioni, negli stati d’animo. La prosa è una postina che ti consegna una lettera. La poesia è una postina che ti parla, e mentre la ascolti fai caso anche alla sua voce, alla sua faccia.

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Come fallire e fiorire negli Usa di Trump, Jeffrey Eugenides

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Questa intervista è uscita su Robinson, inserto de La Repubblica, in data 2/09/2018. Ringraziamo la testata e l’autrice.


di Caterina Bonvicini

Jeffrey Eugenides è diventato famoso per i suoi romanzi, come Le vergini suicide da cui è stato tratto il film di Sofia Coppola, e Middlesex, con il quale nel 2003 ha vinto il Pulitzer. Ma è anche un grande scrittore di racconti, come dimostra il magnifico Una cosa sull'amore, che esce ora in Italia e raccoglie testi scritti negli ultimi trent'anni.

Ho l'impressione che il tema dominante del libro sia il fallimento umano. I suoi personaggi hanno grandi aspettative, ma niente va secondo i piani…

Il giovane che ha scritto Giardini volubili nel 1989 aveva grandi aspettative. Così come l'uomo di mezza età che ha scritto Denuncia tempestiva nel 2017. Tutto è andato secondo i piani? Non esattamente. Ci sono state in mezzo delle tragedie. Sono stati fatti degli errori. L'esperienza della paternità, il divorzio, la perdita dei miei genitori, hanno reso la vita una questione più delicata di quel che credevo. Meno comica, più profonda. Mentre alcune delle prime storie finiscono con un fallimento, le ultime vanno oltre il fallimento e la tragedia, in un luogo dove queste formule appaiono troppo semplicistiche per descrivere la vita. Tutte le vite contengono fallimenti e tragedie. Anche la mia. Solo nella caduta, perdendo praticamente tutto, cominci a vedere chi sei davvero, e ti puoi collocare in quel piccolo posto dell'universo riservato, per fortuna, solo a te. Io penso ai personaggi di questo libro come a gente in viaggio verso quella condizione. Alcuni sono più avanti di altri.

I finali spesso portano alla rovina di un uomo. Ma il racconto si interrompe un attimo prima, la lascia solo immaginare.

Non penso che tutti i racconti entrino in questa categoria ma molti sì, perché era lo stato d'animo che avevo quando li scrivevo, quello di un padre e di un marito che deve gestire la vita familiare, preoccupandosi per i soldi. Ho visto i soldi arrivare e andarsene, nella mia vita. Mia madre è cresciuta nella miseria. Mio padre, cresciuto in una famiglia di immigrati che disponeva di scarsi mezzi, ha fatto una piccola fortuna da solo e poi ha perso tutto. E questo mi ha segnato. So cosa significa andare in bancarotta, le emozioni che si provano e le conseguenze psicologiche che ne conseguono, specialmente dopo aver vissuto nel benessere. Una consapevolezza che incombe su questa raccolta, senza dubbio.

In Posta aerea il protagonista è lo stesso di La trama del matrimonio e in La vulva oracolare si trovano gli stessi temi di Middlesex. Che rapporto c'è fra i suoi racconti e i suoi romanzi?

Ho scritto Posta aerea molto prima di avere anche solo l'intenzione di scrivere La trama del matrimonio. Il nome del protagonista era Mitchell Carambelis. Il racconto era stato pubblicato nel '99 e mentre scrivevo il romanzo me l'ero dimenticato. Sapevo che mi stavo avventurando in un territorio simile, mentre raccontavo la storia di un giovane occidentale che va in India e in Tailandia in cerca di un'esperienza mistica, ma non mi sono reso conto che il nome era lo stesso finché non ho raccolto i racconti. Così ho sistemato la discrepanza cambiando "Carambelis" in "Grammaticus". Mitchell Grammaticus è una specie di mio alter ego. Non sarei sorpreso se un giorno tornasse fuori in un altro libro. La vulva oracolare, invece, è un fuori onda di Middlesex. A un certo punto avevo due versioni del libro, entrambe di cento pagine. Questa storia è la parte non sopravvissuta del manoscritto. È l'unico pezzo di questo libro che non è nato come racconto.

In Great Experiment riserva parole molto dure agli Stati Uniti sotto la presidenza di George W. Bush. Vorrei chiederle di Trump, ma ho letto sul " Guardian" che non vuole entrare in competizione con le sue "vergognose assurdità"…

Vorrei parlare di Trump attraverso Great Experiment. Durante il boom del mercato azionario del 2003- 2006 abitavo a Chicago. Andavo in studio a scrivere tutti i giorni e prestavo poca attenzione all'economia. Eppure, durante quella camminata quotidiana, sentivo nell'aria che qualcosa stava succedendo. La gente stava diventando ricca senza fare granché. Degli stupidi ragazzi che conoscevo facevano fortuna in Borsa. Quello che presagivo era l'esistenza di una bolla, anche se non la pensavo in quei termini. Trasferendo questa sensazione nella scrittura, ho iniziato a chiedermi cosa poteva provare chi era tagliato fuori e non stava godendo i frutti di quell'irrazionale esuberanza. Qualcuno di intelligente. Poteva il rancore portarlo, in una certa circostanza, a una vita criminale? Pensavo di sì, e così ho scritto la storia di un poeta fallito che diventa un criminale. La prima frase del racconto imposta il discorso sul rancore: "Se sei così intelligente, perché non sei ricco?".

In quel racconto cita in modo polemico La democrazia in America di Tocqueville, che diventa il perno della sua riflessione…

Mi chiedevo come si collocava l'esperienza americana in relazione ai suoi ideali iniziali. Io sono cresciuto negli anni in cui gli Stati Uniti erano la maggiore potenza economica del mondo. Gli americani vivevano in larga misura meglio dei loro genitori. E si aspettavano che i loro figli vivessero ancora meglio. In quel periodo, per mantenere una famiglia, bastava che una sola persona portasse a casa la pagnotta. La classe media si espandeva. Oggi non succede più. La disuguaglianza dei redditi è aumentata rispetto agli anni 60. Quello che sorprende Alexis de Tocqueville riguardo all'America, che la rende un paese diverso dall'Europa è "l'uguaglianza delle condizioni" fra i suoi cittadini. Una democrazia che funziona dipende da questa uguaglianza e oggi in America non c'è. Assomigliamo di più a una plutocrazia. Questo è quello che collega i racconti, credo. Sono stati scritti da una persona che è cresciuta in un'America equa e oggi si trova a vivere in un paese meno equo. Qualcosa deve succedere ma è difficile dire cosa e quanta distruzione dobbiamo attraversare per arrivarci. Storicamente, l'America ha avuto tre "risvegli". Ci vorrebbe qualcosa in grande scala per tirarci fuori dall'abisso. E non è nemmeno sicuro che possa esserci un altro risveglio. Ci sono spiragli qua e là, e bisogna avere fiducia nelle nuove generazioni.

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Spifferi, intervista a Letizia Muratori

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di Marina Bisogno
 

È in libreria, edito da La Nave di Teseo, Spifferi, il nuovo libro della scrittrice Letizia Muratori. Dopo aver pubblicato con Einaudi ed Adelphi, l’autrice si affida ad una casa editrice giovane ma audace sul fronte racconti. Spifferi, infatti, è una raccolta di sei racconti. Senza esitazioni, la Muratori delinea situazioni non ordinarie, conducendoci, tra l’Italia e l’America, verso la conoscenza di personaggi sopra le righe, sofferenti per certi versi, affetti da un male di vivere che un’ironia soffusa e necessaria stempera ad arte. La maestria linguistica della Muratori è imbarazzante: leggendola (specie se si è a digiuno dei lavori precedenti) si ha chiara la percezione di avere a che fare con una fuoriclasse della scrittura. Una constatazione che risana le aspettative dei lettori scafati, pretenziosi e che ritrovano in questi scritti l’arte della parola, della rifinitura narrativa, del raccontare senza tralasciare lo stile. Sono pagine di ossessioni umane, di scelte, di perdite: episodi a prima vista sconnessi, legati dalla ratio. Per scoprire qualche particolare in più abbiamo intervistato l’autrice.

 

Letizia, iniziamo dal titolo. Perché Spifferi?

Ce ne sono molti in queste pagine, direi che la dimensione aerea del fantasma difficilmente fa a meno degli spifferi: sono sostanza, mezzo di trasporto e annuncio. Ma il titolo può anche essere letto in chiave umoristica, come qualcosa di leggero e freddo che ti frega. La mia è una pagina sempre aperta agli spifferi, ai rischi quotidiani, alle intrusioni sottili. Però il titolo non lo ho trovato io, mi è stato suggerito da Livia Signorini cui feci leggere i racconti. Forse solo un'altra persona - in questo caso una lettrice attenta che mi segue da anni - può stanare quel titolo speciale che non vale solo per un libro, ma è il marchio di uno stile. 

Dagli umori dei suoi personaggi traspaiono tenacia, una certa vivacità, ma pure nostalgia, alienazione, umorismo. Lo sguardo del narratore, spettatore mai giudicante, attraversa questo caleidoscopio di sentimenti, al di là della diversità delle situazioni narrate. Possiamo dire che il fil rouge di questi racconti è una dimensione soprattutto emotiva?

I miei personaggi sono spesso umorali, è che mi piace esplorare i momenti spiazzanti in cui, reagendo in modo inatteso, come in preda a un riflesso, sorprendiamo noi stessi e chi ci sta accanto.

Da Rispondi a Dimitri e Miss Mucca, passando per Alla deriva in Antartide: è interessante osservare come in questi racconti mixa tragicità e paradosso, delicatezza ed esagerazione. Cosa le interessava raccontare scrivendo di Stefano, di Magda e di Pietro?

Sono figure a loro modo estreme, io non so raccontare l’equilibrio. I fantasmi del libro sono di due categorie: quelli, diciamo, tradizionali, nel senso che sono morti, e quelli vivi: uomini e donne, ragazzi e adulti, che si percepiscono, o vengono percepiti, come inconsistenti. In ognuna delle sei storie che compongono il libro si ripresenta il confronto tra il fantasma vivente e quello defunto: il rischio di non essere riconosciuti del resto si corre in eterno.

L’accoglienza dei migranti, la maternità surrogata, la malattia mentale: tra i temi dei racconti nella raccolta ci sono spunti sociali, di forte attualità. Come è arrivata a scriverne? Ci racconta l’assemblaggio dei pensieri nel momento creativo?

Contro tutti i dettami programmaticamente antisociologici e inattuali, che fanno tanto Letteratura con la elle maiuscola e spesso approdano a un cumulo di spazzatura presuntuosa, io parto spesso da uno spunto di cronaca, da ciò che si orecchia e circola nell’aria, mi interessa rivoltare la notizia, o la battuta del momento, dandogli un taglio diverso. L’accoglienza dei migranti o la maternità surrogata sono argomenti che hanno un tratto fantasmatico evidente e non potevo perdere l’occasione. Perché lasciare solo all’inchiesta il compito di svelare qualcosa di ciò che ci circonda?

In questi racconti domina Roma, anche se non è sempre presente. Riecheggia, anche quando scrive di Sondrio. Secondo lei, siamo anche i luoghi che raccontiamo?

Se Roma riecheggia anche a Sondrio allora vuol dire che qui abbiamo un problema…Battute a parte, sì: il luogo non è mai neutrale.

Secondo lei qual è la soluzione per un racconto stilisticamente perfetto?

Il finale, sintetico e rovesciato. Mi spiego: sintetico perché vi si concentra tutta la materia del racconto, speculare all’incipit, e rovesciato perché ti porta a rileggerlo in senso contrario. Il bello del racconto classico è che non ne esci, è un circuito chiuso. 

Ci indica tre, quattro racconti, non suoi, che ama o ha amato?

Uno dei miei racconti preferiti è Anniversario di matrimonio di Inoue Yasushi, splendido da tutti i punti di vista, è la storia d’amore più toccante del mondo, tra due spilorci patologici. Poi c’è Mavis Gallant, una maestra. Le pagine che lei stessa scrisse, introduttive alla raccolta Al di là del ponte e altri racconti, sono così incisive e nitide, rare nella loro capacità di restituire la macchina del processo creativo. Sul racconto non credo si possa dire molto di più, o di meglio. Infine, visto che qui si parla di fantasmi, vorrei citare “l’altro James”, Montague Rhodes James e il suo insuperabile Oh, whistle, and I’ll come to you, my lad (Fischia e io verrò da te). Chiunque si sia imbattuto in quel volto di lino gualcito non credo lo dimentichi più. Il suo è fantasma per eccellenza, fatto perfino di stoffa, una creatura di spaventosa e geniale ovvietà.

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Bestiario sentimentale, intervista a Guadalupe Nettel

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di Rossella Milone
Traduzione di Giulia Zavagna

 

Da pochi giorni è in libreria Bestiario sentimentale, l’ultimo libro di Guadalupe Nettel pubblicato da La Nuova Frontiera e tradotto da Federica Niola.

La raccolta rientra nella migliore tradizione dei Bestiari: cinque racconti che danno forma a una grossa metafora tra animali e esseri umani, così simili in certi comportamenti, ma, anche, così diversi nelle loro conseguenze. Un universo zoologico in cui le persone, e le loro relazioni, vengono raccontate dalla lente lucida e ingrandita di una narrazione tagliante, di estrema eleganza.

Nel racconto «La vita matrimoniale dei pesci rossi», a un certo punto scrivi: Mentre leggevo, avvertii qualcosa di simile al rossore. La sensazione che dà scoprire i lati oscuri di un conoscente senza il suo permesso. Questa immagine, credo sia il modo migliore per iniziare a parlare dei racconti di questo libro, perché è esattamente la sensazione che si prova mentre lo leggiamo. Siamo noi a leggere, e siamo noi, anche, ad arrossire: e non solo perché diventiamo i testimoni dei lati oscuri dei personaggi di cui racconti, ma, a un tratto, ci rendiamo conto che arrossiamo per noi stessi, che quei lati oscuri, ci appartengono. È questo che fa la scrittura, secondo te: è un autentico specchio che permette al lettore di guardare se stesso?

Sì. Sono convinta che scrittura e lettura siano due strategie di autoconoscenza molto potenti. Pensare all’intimità degli altri ci spinge a riflettere anche sulla nostra. Per me, gli esseri umani sono come strumenti musicali. Un flauto e un contrabbasso sono molto diversi tra loro, ma producono le stesse note: do re mi fa sol, ecc. Le nostre emozioni equivalgono a quelle note. Per questo quando leggiamo un autore giapponese del XII secolo riusciamo a identificarci con lui. I costumi e le culture cambiano, le emozioni no. A volte, arriviamo a conoscere i personaggi di un libro meglio di quanto conosciamo i nostri stessi amici o familiari.

I pesci combattenti, gli scarafaggi invasori, i parassiti, le vipere e le gatte sono i co-protagonisti dei cinque racconti, che fanno quasi da spalla a quelli umani. Ciascuno di loro mette in luce aspetti nascosti e subdoli dei propri padroni: una metafora fortissima che ritorna in tutti i racconti. Cosa ci dicono gli animali, che noi non capiamo?

Credo che gli animali siano il miglior specchio che ci offre la natura. Ogni volta che vedo un documentario sul regno animale, capisco qualcosa di nuovo sui membri della mia stessa specie. Gli animali ci mettono a disposizione una prospettiva che non abbiamo quando giudichiamo noi stessi. Ci permettono di vedere in che termini i nostri istinti, le nostre paure, le reazioni chimiche, i ritmi biologici o le reazioni fisiologiche decidano il nostro comportamento. Osservarci attraverso gli animali ci aiuta a renderci conto che non siamo razionali come crediamo.

Il Bestiario è un’occasione narrativa che ha precedenti illustrissimi, da Salinger, Carroll, Borges, Plinio il Vecchio (che, infatti, citi in esergo) e, ovviamente, Julio Cortázar – verso il quale il tuo libro pare fare un bellissimo omaggio. Ci hai pensato consapevolmente, alla scrittura di un Bestiario, o, a un certo punto, ti sei accorta che avevi materiale, e necessità di farlo?

Ho sempre amato i bestiari, sia sugli animali che sulle chimere. Quando mi sono decisa a scrivere questo libro, avevo già in mente quasi tutte le storie. Alcune, come «La vipera di Pechino», sono nate quando il progetto era già avviato. E ora che l’ho concluso, continuano a venirmi in mente nuovi spunti. Da poco ho pubblicato sulla rivista Granta un racconto recente intitolato «The Wanderers» (I girovaghi), che ho scritto alla fine dell’anno scorso. La mia passione per l’osservazione della vita animale viene dall’infanzia e credo che mi accompagnerà sempre.

Con il senso della vista hai un rapporto molto particolare, messo in luce nel magistrale romanzo Il corpo in cui sono nata (Einaudi, 2014). Per uno scrittore cosa significa, guardare?

Per me, che ho vissuto in una condizione di semicecità durante una parte dell’infanzia, vedere rappresenta un enorme privilegio. Mi permette di leggere una grande quantità di libri ai quali altrimenti non avrei accesso. Si parla sempre dello sguardo dello scrittore come del suo modo particolare di osservare il mondo. Jorge Ibargüengoitia, autore messicano che adoro, diceva che a lui interessavano solo scrittori con qualche difetto alla retina. Intendeva coloro che cercano il lato originale della vita, i dettagli che cambiano l’interpretazione di una storia o le versioni e i rivolgimenti che un racconto può avere. È però vero che ci sono molti modi di osservare che non passano attraverso la vista. Si dice che l’udito ci permetta di essere più percettivi rispetto alla vista. In Lessico famigliare, per esempio, Natalia Ginzburg fa un meraviglioso resoconto uditivo del modo in cui parlava la sua famiglia.

Nei racconti si avverte moltissimo - così come in tutta la tua cifra stilistica – un patrimonio di carnalità, corporeità e sensualità pieno di fascino. Quanto ha influito, e influisce, sulla tua scrittura il contesto sudamericano?

Molto. Prima che iniziassi a viaggiare, nel quartiere in cui vivevo da bambina si trasferirono molte famiglie uruguayane, argentine, cilene, esiliate dalle dittature sudamericane. Sono cresciuta ascoltando molte varianti dello spagnolo, lessici diversi, e mi sono impregnata delle differenti culture. Ben presto ho cominciato a leggere autori di quei paesi. I racconti fantastici di Borges e soprattutto quelli di Julio Cortázar hanno marcato il mio immaginario fin dall’adolescenza.

La tua è una scrittura perfetta per il racconto breve, simultanea eppure dotata di grande empatia, viscerale ma apparentemente semplice. E sei autrice di quattro raccolte di racconti. Ci racconti il tuo rapporto con la forma breve?

Il racconto è un genere che mi fa sentire a mio agio, come autrice e come lettrice. È molto più facile da afferrare rispetto a un romanzo. Sono d’accordo con chi dice che «le cose belle se brevi sono doppiamente belle». Non è facile scrivere un buon racconto, ma è più facile farlo diventare un’ossessione finché il risultato non è perfetto. È un genere per perfezionisti. Ed è importante resistere e difenderlo, perché gli editori sono soliti discriminarlo. Ho visto libri di racconti bellissimi rifiutati a causa di quell’allergia editoriale secondo cui il racconto non è abbastanza commerciale. Credo però che la sua marginalità gli doni un’aura di particolarità e bellezza.

Una domanda di rito, per noi di Cattedrale. Ci vuoi citare tre racconti che ami?

Perché solo tre?
«Il cuore rivelatore», di Edgar Allan Poe
«Axolotl», di Julio Cortázar
«Morte per saudade», di Enrique Vila-Matas

 

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Davide Bregola, vincitore del Premio Chiara 2018

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di Marina Bisogno

Ci sono racconti evocativi, altri più descrittivi e visivi. Sono fotografie i racconti de La vita segreta dei mammut in Pianura Padana (Avagliano editore), di Davide Bregola, scrittore che con questa raccolta si è aggiudicato il Premio Chiara 2017.  La lingua, stringata e tagliente, delinea paesaggi di campagna, sui quali si alternano estati umide ed inverni talvolta estenuanti. Tra il crepitare del motore di una vecchia auto e il gorgogliare di un fiume, si muovono uomini e donne alle prese col quotidiano, con emozioni che credevano sopite, imbarazzati dalla frenesia di un mondo che li sfiora ma non li ingoia. Bregola possiede la franchezza e la lucidità di un verista. Racconta la lentezza, la malinconia, la noia, persino un certo appagamento. Fissa con la penna luoghi, rumori, echi, l’andare delle stagioni. Per conoscere meglio Bregola e saperne di più sulla sua ultima pubblicazione gli abbiamo fatto qualche domanda.

Bregola, partiamo dal titolo: chi sono i mammut della Pianura Padana e perché conducono una vita segreta?

I mammut di cui parlo sono delle figure in via di estinzione, ossia l’uomo del 20° secolo, siamo tutti noi. I mammut, inoltre, sono quei pachidermi cui fanno spesso riferimento i miei personaggi amanti dell’archeologia e del mondo primitivo. Questi personaggi vanno alla ricerca di ossa e reperti per capire da dove viene l’uomo e la natura. C’è molto antico in tutti i racconti che ho scritto, e questo antico non è “il vecchio” mondo, ma è proprio l’antico, ovvero quel che è avvenuto prima, ma anche quello che avverrà poi. Il termine “antico” ha un’etimologia strana, perché ante, da cui deriva, significa prima, ma significa anche poi. Se dico “antefatto”, voglio dire qualcosa che è avvenuto prima, ma se dico “anteriore” parlo di qualcosa che sta davanti. I latini avevano parole molto astute, e se sappiamo usarle possono darci letture del mondo suggestive e complete. Se dico antico, quindi, come possono essere antichi i mammut, o i reperti di vasi romani, parlo di qualcosa che c’è stato prima, ma se parlo di antico pensando al futuro, anche i lettori possono capire che creo un cortocircuito. Spesso i miei personaggi sono in procinto di compiere un viaggio iniziatico. A volte lo completano e rinascono con più consapevolezza, altre volte non se ne accorgono e sono destinati a rimanere dove si trovano, senza realmente evolversi. Sono segreti, proprio perché le persone non si accorgono di loro e spesso essi stessi non si accorgono di loro. Sovente non ti accorgi che l’antico non è mai vecchio, e soprattutto può essere molto più nuovo del presente la cui caratteristica è di passare in fretta e d’invecchiare.

I suoi racconti da un lato sono intimisti: scandagliano l’emotività dei personaggi e ce li fanno sentire vicini o lontani. Dall’altro sono estremamente descrittivi, con zoomate sui luoghi che si materializzano davanti agli occhi di chi legge. Come sono nati questi scritti? Come hanno preso forma?

Alcuni di questi racconti sono nati molti anni fa nel tentativo di trovare un genius loci che potesse descrivere un territorio, un momento, un luogo. Mi interessavano le “geografie letterarie” di Dionisotti e mi interessavano anche luoghi precisi dove erano accadute cose rilevanti nel passato come ad esempio paesi o territori dove avevano vissuto altri scrittori, o dove altri scrittori avevano ambientato narrazioni. Per essere più chiaro se parlo di Ferrara, la nomino perché lì vi ha vissuto e lavorato Ariosto e vi ha vissuto Giorgio Bassani. È solo un esempio, ma dal libro si potrebbero fare liste e atlanti con riferimenti e citazioni esoteriche. I racconti hanno preso forma con l’idea di produrre un romanzo corale formato da episodi. Qualcuno ha detto che sono racconti, e infatti mi hanno dato il Premio Chiara che è un premio dedicato ai racconti italiani, ma io li considero episodi come se fossero epifanie e situazioni il cui sipario si apre ed è la pianura.

Dove sta, secondo lei, la Bellezza nei luoghi che descrive?

In questi racconti non c’è bellezza, non ho pensato di scriverli per questioni legate ad essa e a un territorio, ma mi interessava provare a raccontare cose che di solito non interessano a nessuno, e non sono inflazionate dai media o dalla doxa. Sono territori che di Bello non hanno nulla, soprattutto perché Bellezza non è una categoria filosofica che caratterizza luoghi pieni di afa, calore insopportabile, gente spesso gretta o comunque naif, chiese e piazze e bar inutili e tempi dilatati e crisi economica e lavori manuali poco seducenti. Insomma, non sono certo i luoghi per andarci in vacanza per allontanarsi dalla routine. Eppure a saperli vedere, ci sono momenti e vuoti, più che i pieni i vuoti, su cui si può lavorare perché stimolano l’immaginazione. Direi quindi che sono luoghi immaginari, che inducono all’ascetismo, alla solitudine, al dialogo interiore, all’atarassia, allo stoicismo e quindi, per chi cerca qualcosa dentro di sé, sono luoghi pieni di poesia. Luoghi vuoti, basilari, formalmente puliti, semplici. Ci si può stare solo se si è esploratori.

In un passaggio scrive: “è dove non succede mai nulla che la gente sogna di più, in mancanza d’altro, e finisce per costruire le cose che ha sognato”. È un modo molto bello per dire che la provincia, la campagna sono anche scintille per la mente e per l’anima?

La provincia, la campagna, i luoghi con pochi abitanti, i paesi lontani dalle città, sono mondi inesauribili e tremendi. Possono nascere racconti dal registro nero, oppure racconti d’avventura o racconti surreali, proprio perché il territorio contribuisce spesso a creare uno stato d’animo cangiante. Si sogna, e quindi si usa qualcosa di introspettivo, che viene da dentro ma che si forma nella vita quotidiana e per come la si vive. A me interessano molto le costruzioni mitologiche create dagli umani, e proprio per questo ho approfondito le figure degli Oneiroi, gli dèi del sogno. Morfeo è il modellatore dei sogni; era accompagnato da figure che creavano l’immaginazione. Suo fratello Fobetore crea gli incubi trasformandosi in esseri mostruosi, mentre Fantaso fa comparire gli oggetti inanimati nei sogni dei mortali. Secondo Esiodo invece i sogni erano figli di Nyx, una delle dee primordiali. Nel mondo antico si usavano i miti per interpretare i sogni. Naturalmente ci sono i sogni premonitori, che narrativamente sono sogni banali, funzionali, ma i sogni veri sono autentici enigmi: sono figurazioni fantastiche. Un esempio grande di sogno enigmatico è quello di Penelope, la buona, la saggia, la moglie fedele – almeno così si dice nell’Odissea - la quale aspetta Ulisse che non torna mai da Itaca. Marito e moglie parlano del sogno che ha preso nome “il sogno delle oche” perché Penelope ha sognato oche e aquile.  È un sogno enigmatico nel quale Omero parla dei proci, ma lo fa per metafore oniriche. A volte ho inteso “sogni” per dire “ambizioni”. Allora proprio dove non succede nulla si ambisce a costruire qualcosa, a volte.

Che cos’è il rimpianto per alcuni dei suoi personaggi?

Ricordo nostalgico e dolente, a volte. Ricordo di persone perdute, di cose perdute, di occasioni mancate. Mi sono sbizzarrito nel raccontare il rimpianto perché una delle atmosfere di spicco in quei luoghi è la nostalgia. Il nostos algos è il ritorno al paese, è un desiderio malinconico e violento, è un dolore. Mi piaceva approfondirlo perché il dolore creato dalla lontananza segna un conflitto narrativo a mio avviso interessante.

E la noia?

La noia nel libro è molto presente, direi che per i lettori di un certo tipo il libro stesso risulta essere noioso. Mi viene da dire che una delle parole chiave assieme ad antico e sogno sia proprio la noia anche nella sua variante di spleen padano, pigrizia. In alcuni racconti la noia provata sprona a sognare un riscatto.

C’è un personaggio al quale è legato più che ad altri?

Sono legato a Fiore, quello del racconto in cui il ragazzo compie a piedi un viaggio per andare a incontrare la donna amata nel giorno del suo matrimonio con un altro. Fiore è anche il nome del protagonista di Il ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise. Un personaggio che ho amato molto nell’esordio degli anni ’50 dell’autore veneto. È un personaggio totalmente inventato, però alcune analessi riprendono vicende conosciute da me in prima persona o per interposta persona. Poi sono legato al territorio. L’ho spesso evocato come se esso stesso fosse un personaggio del libro.

Cinque raccolte di racconti che ha amato?

Mi piace ancora molto Le botteghe color cannella di Bruno Schulz, sono racconti suggestivi e complessi, scritti con un immaginario irraggiungibile. Mi piacciono molto i racconti di Giorgio Bassani intitolati Cinque storie ferraresi. Li apprezzo per la precisione lessicale e sintattica e per lo stato d’animo che creano nel lettore. Ho amato molto i racconti di Arturo Loria, un autore poco conosciuto e pubblicato da Giunti. Apparteneva al gruppo delle Giubbe Rosse e Solaria. Il suo Il cieco e la bellona è un libro di racconti che potrebbe essere una sorpresa per chi ancora non lo conosce. Ho letto molte volte i racconti di Beppe Fenoglio. Consiglio Diciotto racconti pubblicato da Einaudi. Mi piacciono le prose di Rimbaud che si possono trovare presso Guanda.

Secondo lei qual è lo stato di salute del racconto in Italia?

Il racconto in Italia, se arriva dall’estero è apprezzato. Mi riferisco a David Foster Wallace e a Breece D'J Pancake. Se pubblicato in Italia da autori italiani penso sia trattato come un libro minore di un autore che deve ritornare presto al romanzo. È anche vero però che siti come il vostro concentrano la propria attenzione sulla narrativa breve e case editrici recenti come Racconti edizioni scommettono fin dal nome sulla narrazione breve. Avagliano editore poi ha una sua lunga tradizione nell'ambito del racconto. Obiettivamente vedo che in generale la narrazione scritta, sia essa breve o lunga, sta passando un momento di trasformazione. Coloro che erano lettori sono diventati consumatori di narrazioni social, immagini fotografiche, brevi video su youtube. Per questo penso ci sia una grande possibilità in futuro: gli scrittori possono scrivere racconti complessi, letterari, perché i lettori, essendo pochi, saranno all’altezza di trovare capolavori e accorgersi della loro importanza. Per cui penso che potremmo ambire a scrivere racconti capolavoro, racconti nei quali usare tutta la nostra sensibilità, la nostra intelligenza, la nostra intuizione, per fare qualcosa di realmente grande.

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Isabella Zani ci parla dei racconti di Anthony Doerr

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di Rossella Milone

 

Il collezionista di conchiglie, pubblicato da Rizzoli, raccoglie otto lunghi racconti di Anthony Doerr; il libro precede di qualche anno il romanzo Tutta la luce che non vediamo (sempre per Rizzoli) del 2014, che si aggiudicò il Premio Pulitzer per la narrativa e il Goodreads Choice Award per la Fiction storica. Doerr ha vinto anche quattro premi O.Henry, riconoscimento assegnato ogni anno ai migliori racconti statunitensi.

Questi otto racconti appaiono come delle profonde, carsiche voragini che sprofondano in certi particolari momenti della vita dei personaggi, e in certi specifici anfratti della condizione umana più in generale. Un collezionista di conchiglie cieco ci racconta la sorpresa della metamorfosi, il marito di una sensitiva affronta l’illuminante scoperta dell’amore e, nello stesso tempo, la letargica sensazione della perdita; e poi c’è un ragazzo liberiano che per sfuggire alla guerra scopre l’ombra dura del lutto; e poi c’è l’adolescenza incantata che sa guardare il fascino dell’infinità del mare senza averne paura e, nell’ultimo racconto, c’è la questione centrale, quella che da sempre accompagna l’umanità nel suo crescere: il rapporto con la natura e di come l’uomo si senta sedotto, eppure sconfitto, dalla selvaticità del mondo che, in un soffio (Mkondo), ci ha generato.

Storie di poca trama, come i migliori racconti sono, costruite principalmente attraverso un’architettura linguistica sentita e partecipata, eppure misurata fino all’osso nonostante l’abbondanza luminosa di immagini e metafore. Un linguaggio che ha bisogno di sapienza creativa e controllo, magistralmente rispettata e ri-creata dai traduttori Daniele A. Gewurz e Isabella Zani. In questa intervista scopriamo con Isabella Zani i segreti di questo libro.

Essendo un libro che si trova a stretto contatto con la natura – il mare è quasi ovunque, ma anche il vento della savana, certi paesaggi limacciosi e ampi – l’autore costruisce la narrazione con un linguaggio molto sensoriale e percettivo. Osserva, ma l’osservazione si fa subito oggetto concreto, referente di un senso mai astratto:

Si rendeva conto che parlare sarebbe stato come mandare in pezzi un legame fragilissimo, come calciare un dente di leone ormai pappo; il tenue ciuffo sferico del suo corpo si sarebbe disperso nel vento.
(La moglie del cacciatore)

 Come è stato entrare in questo linguaggio così sensuale e poi uscirne per darlo agli altri?

Se, parlando del linguaggio di Doerr, sensuale significa appunto sensoriale—dunque teso a evocare e addirittura costruire un’esperienza fatta con uno o più dei cinque sensi, direi che per me come traduttrice al piacere intellettivo di una scrittura che non tira mai via, in cui la ricerca e la scelta di ogni elemento denuncia la volontà di tenersi lontano da automatismi, convenzioni, metafore e immagini già viste, si somma quello di una specie di ritorno all’infanzia, che è anche la strada da cui “uscire” e provare a restituire un’esperienza simile al lettore. Ritorno all’infanzia come tempo in cui eravamo abituati a chiederci “Cosa succede se faccio così?”; in cui l’abito mentale è l’esperienza anziché la riflessione, e quindi è impossibile trattenersi dal saltare sui gradini anziché scenderli soltanto, dal toccare le cose con le mani per vedere se sono calde o fredde, dure o cedevoli, dal trafficare con la fiamma e l’acqua, dal bagnarsi nel mare e poi rotolarsi nella sabbia per vedere che effetto fa... Ecco, nel caso di questi racconti tornare a questo modo di sentire il mondo (invece di leggerlo), per poi trovare “le parole per dirlo”, sembra inevitabile, seppure non lo si noti mentre sta accadendo ma solo a posteriori. Da questo punto di vista non credo sia un caso che molti protagonisti di Anthony Doerr siano scienziati, o appassionati assai competenti della natura, se è vero che lo scienziato è colui che anche da adulto non smette mai di chiedersi “Cosa succede se faccio così?” e consacra la propria esistenza a trovare una risposta o molte.

Nel racconto Certi treni, a un certo punto, dal narratore viene scritto: “Sua madre parla inglese come se sputasse sassi”. Questo è il racconto più paratattico di tutto il libro, in cui le frasi brevi, per lo più principali, danno un ritmo a tutto il racconto molto specifico: crudo, pietroso appunto, quasi spietato. È molto interessante questa costruzione: la spietatezza del linguaggio si contrappone alla delicatissima dolcezza del contenuto raccontato, e a quella di Dorotea, il personaggio principale. Come si estrapola una cosa così, con la traduzione? Non basta solo ‘tradurre’, ovviamente, serve anche, secondo me, tirare fuori qualcosa di invisibile che aleggia nello scritto: come hai lavorato per estrarre questa invisibilità?

Vorrei saper spiegare che il processo della traduzione – almeno per me, e che questo valga da esonero per ogni osservazione generalizzante io possa fare – è molto meno “intellettualizzato” di quanto possa apparire visto da fuori. Dal testo non si estrae nulla che già non sia presente al suo interno, e non esiste in realtà una distinzione fra “tradurre” e distillare un invisibile aleggiante—nel senso che non si tratta di due operazioni distinte e consecutive. Se lo scritto è uno scritto letterario, un testo che si distingue da altri per un come e non semplicemente per un cosa, il visibile e l’invisibile si ricavano insieme tramite l’atto stesso del tradurre, che è (quasi) simultaneamente lettura e comprensione dell’originale – come parola, frase, periodo – ricerca del miglior analogo disponibile, scrittura, rilettura e rifinitura, e avanti così dall’inizio alla fine.
La frase citata nella domanda, per appoggiarmi al medesimo esempio, non è particolarmente lontana dal proprio originale (Her mother speaks English like she is spitting rocks); quanto contiene e riesce a trasmettere per sostanza e forma era già lì, e se l’omologa frase italiana fa lo stesso effetto, è più per il modo in cui la scrittura assai meditata dell’originale risuona dentro il traduttore all’opera e lo accompagna verso le parole giuste, che per una riflessione conscia dello stesso traduttore su come agguantare l’ineffabile. Non intendo certo dire che si lavori in trance, non siamo dattilografi folli al servizio di “voci” che ci incalzano; alla passeggiata inconsapevole tra tutte le parole disponibili seguono sempre percorsi di rilettura e revisione più rigorosi. Ma a quel punto, se l’ineffabile abitava la pagina originale, abiterà anche la traduzione, e si tratterà solo di dare al tutto una poderosa lustrata formale.

La questione del non visto, del nascosto, di ciò che i personaggi vedono o non vedono e che spesso è visibile solo al lettore, oltre a essere un tratto tipico delle short stories, è un elemento che pervade l’intero libro, e che appartiene a tutti questi racconti.  Come i segreti racchiusi nelle conchiglie del primo racconto, anche questi testi ne contengono sempre uno. Come hai scoperto il cuore di queste storie? Ti si è svelato subito come un colpo di fulmine, o hai dovuto scavare, scoprire, raschiare come con un innamoramento?

 Mi è difficile azzardare una replica che non sia, tutto sommato, una ripetizione con altre parole di quanto già detto. Per il mio specifico approccio al lavoro – di traduttrice, cioè, che non “legge prima” – tutto mi si svela per forza di cose man mano; tuttavia il potere della lingua di Doerr è tale che fin da subito, nell’incamminarsi per le prime frasi, si intuisce che a un certo punto si resterà sorpresi. La cura nella scelta delle parole – la netta preferenza per la precisione, per il termine corretto quando non decisamente tecnico, e insieme per la sinestesia non banale – lascia intendere che nel processo di scrittura non ci sia stato nulla di casuale; tanta intenzionalità non può essere fine a sé stessa. D’altro canto, come ho già tentato di spiegare, non è quasi mai necessario “scavare” nel senso di sottoporsi a una fatica; al momento giusto il mistero affiora in superficie, lievemente, pronto per essere colto e fissato.

Doerr ha scritto molti romanzi e non è, diciamo, un autore che i puristi del racconto (cosa che non siamo!) definirebbero come il tipico scrittore di racconti. Qual è il tratto principale che, secondo te, caratterizza questi racconti in quanto racconti? Cos’è, cioè, che rende queste storie adatte a essere vestite nell’abito della short story?

Non sono certa, da lettrice, di possedere la competenza di racconti (altro che purismo!) necessaria a rispondere costruttivamente a questa domanda. Il limite è tutto mio: ho letto molti meno racconti di quanti sarebbero stati necessari per darmi strumenti interpretativi più solidi in questo senso, e ne ho letti pochi perché ho una netta preferenza per il romanzo e anzi, per il romanzo-fiume, che abbracci possibilmente un arco temporale lunghissimo. Ma poiché si dà il caso che al momento stia lavorando a un altro libro di Anthony Doerr, di impianto autobiografico, mi faccio aiutare da lui che, dopo aver riferito di una quinta e poi sesta stesura di una medesima short story, chiosa:

Ogni narrazione cerca, per dirla con Emerson, “l’invisibile e l’imponderabile”. ... Ma per arrivarci, paradossalmente, il narratore deve usare il visibile, il fisico, l’eminentemente tangibile: il lettore, anzitutto, va convinto. E sono i dettagli – i dettagli giusti al posto giusto – a operare il convincimento. ... [I] particolari, scelti con cura, servono ... ad assicurarci che quanto si dice stia accadendo sta davvero accadendo.

E lo scrittore ... non intesse forse brandelli di sogni? Va alla caccia dei particolari più vividi e li inanella in sequenze che permettano al lettore di vedere, fiutare e sentire un mondo dall’apparenza conchiusa in sé; erige un palcoscenico e con cura certosina ne nasconde ogni puntello, ogni cavo, ogni chiodo, poi fa un passo indietro e spera che chiunque possa venire a vederlo, creda.

[...] un racconto, uno scritto compiuto, è per il lettore: dovrebbe aiutare il lettore a raffinare, percepire e assimilare il mondo... il particolare mondo del racconto, che è un’invenzione, un sogno. Lo scrittore fabbrica un sogno. E ciascuna stesura dovrebbe presentare una versione di quel sogno che sia resa con maggior precisione e argomentata con maggiore coerenza della precedente.

Affidandomi quindi al “mio” autore, penso di poter dire che questi racconti sono tali perché hanno tutte queste caratteristiche: contengono un elemento “invisibile e imponderabile” che si fa “fisico e tangibile” grazie al felice uso dei particolari giusti al posto giusto; sono mondi conchiusi in sé che si possono vedere, fiutare e sentire; e al tempo stesso sono altrettanto plausibili come sogni, a misura di una notte di sonno.

Qual è la maggiore differenza che hai riscontrato nel linguaggio di questi racconti, rispetto a quello dei romanzi che hai tradotto? E il tratto, invece, che li accomuna?

Ho tradotto Anthony Doerr nella direzione inversa rispetto a quella della sua evoluzione di scrittore: dal romanzo più recente (Tutta la luce che non vediamo), al primo (A proposito di Grace), ai racconti del Collezionista di conchiglie, pubblicati in originale per primi e in traduzione per ultimi. Questo percorso a ritroso mi ha forse permesso di notare più rapidamente, come in rewind, la differenza che a me pare più evidente ma che, ben più della lingua, riguarda l’acquisita capacità di separarsi dalle proprie parole. Rispetto ai racconti e anche al primo romanzo (perciò mi sono presa la libertà di accorpare queste due domande, originariamente separate), Doerr ha imparato a sottrarre quando serve, affinché personaggi e snodi di trama risaltino più densi di sostanza e netti nei contorni, anziché cedere alla tentazione di “tenersi” sempre tutto—in misura sovrabbondante, la bellezza rischia di confondersi con la belluria. Potrei forse definirla “quantitativa”, come differenza; dal punto di vista qualitativo, invece, non trovo diversità degne di nota. È chiaro fin dalle prime prove che l’autore pretende molto da sé stesso; che i testi, brevi o lunghi che siano, sono molto lavorati, arrivano in pagina solo dopo molte mute successive (analogia vagamente doerriana), quando sono dotati della livrea contemporaneamente più bella ma anche più “adulta” possibile. Penso che sia questo tratto ad accomunare tutta la sua opera fin qui, e di conseguenza a dettare un approccio alla traduzione che non varia in maniera sensibile tra un volume e l’altro.

Qual è stato il racconto che ti ha dato maggiore difficoltà nella traduzione?

Qui è doveroso ricordare che come tutti gli altri volumi di Doerr pubblicati in italiano, anche Il collezionista di conchiglie è una traduzione svolta a quattro mani con l’amico e collega Daniele A. Gewurz (ciascuno dei due ha tradotto quattro racconti e rivisto gli altri quattro, poi abbiamo proceduto ad appianare discrepanze e dare al tutto – sperando vivamente di esserci riusciti – una voce univoca). Quanto al lavoro di traduzione vero e proprio, quindi, per quanto mi riguarda c’è un ex-aequo tra «Il collezionista di conchiglie», appunto, e «Certi treni», per via del reperimento della precisa terminologia tecnica relativa in un caso alla malacologia-conchiliologia e nell’altro alla pesca con la mosca—che detto così magari strappa un sorriso, ma posso assicurare che gerghi professionali e linguaggi settoriali sono tra gli scogli più erti che si parano davanti al traduttore (un altro è l’umorismo). Da revisora del collega, invece, mi è costato molto lavorare al racconto «Il guardiano», per lo strazio che lo pervade.

Dimmi infine qual è il racconto che hai amato di più di questo libro e il perché.

«Così ci raccontavamo la storia di Griselda». Potrebbe essere l’impronta lontana ma indelebile delle Piccole donne della Alcott, ma in generale sono sempre molto attratta dalle storie di sorelle; e in particolare, questo racconto mi ha conquistata per lo scarto grazie al quale la protagonista sembra in apparenza una sorella, ma in realtà è l’altra, e per il tasso di romanticismo e il lieto fine, del tutto inattesi, regalati alla più improbabile delle coppie.

                              Anthony Doerr

                              Anthony Doerr

Il Premio Campiello Giovani a Francesca Manfredi


a cura di Marina Bisogno

Il Campiello Opera Prima 2017 se l’è aggiudicato una raccolta di racconti. Parliamo di Un buon posto dove stare (La nave di Teseo editore), il libro che ha rivelato ai lettori Francesca Manfredi, narratrice e autrice di testi teatrali, classe 1988, allieva della Scuola Holden di Torino. Subito dopo l’assegnazione del Premio – lo stesso che negli anni, a partire dal 2004, ha dato una buona mano al percorso letterario di Valeria Parrella, Marco Missiroli, Silvia Avallone, Viola Di Grado, Paolo Giordano e tanti altri autori – i lettori di racconti hanno sperato in una nuova stagione della narrativa italiana. Una stagione dove i racconti di qualità, come quelli della Manfredi, convivano serenamente con i romanzi, senza essere considerati una fatica di serie b. Un buon posto dove stare si compone di undici storie: coppie, famiglie, donne e uomini in cerca di sé. Con una scrittura delicata e risoluta, che non teme il fondo di quel che sfiora, Francesca oscilla tra atmosfere esistenzialiste e oniriche, a volte tenebrose. In scena va la “vita normale”, quella che per antonomasia offre lo spunto per racconti esemplari, rivelatori anche. Abbiamo contattato Francesca e le abbiamo fatto qualche domanda sul suo libro e sulla sua esperienza di scrittrice e di lettrice.

Francesca, ci racconti la genesi di Un buon posto dove stare? Come è maturata in te l’idea narrativa del luogo come baricentro delle vite che hai tracciato?

Prima di Un buon posto dove stare sono nati i suoi racconti, o almeno alcuni di essi. Voglio dire che non è stato un progetto premeditato, come non è stata premeditata la scelta dello spazio abitativo come punto focale delle storie. A un certo punto mi sono trovata, semplicemente, con questa idea ricorrente, questa ossessione: sentivo che in ogni racconto che avevo scritto fino a quel momento, e negli altri che avrei voluto scrivere, la tensione narrativa si giocava tutta sul filo che lega i personaggi a un particolare ambiente domestico - il loro, quello d’altri - o a una particolare ambientazione. La casa è un luogo fondamentale per me, oltre ad essere fondamentale, da sempre, in letteratura. È uno spazio eloquente, rivelatore: un luogo in cui le persone mostrano la natura più autentica, nel bene e nel male.


I posti che tratteggi sono, nel tuo modo di vedere, più spazi di incontro o di separazione?

Sono luoghi di assenza, soprattutto. Sono case abitate da ricordi, da fantasmi della memoria, da piccole colpe sotterrate. I personaggi di queste storie condividono gli stessi spazi, ma la loro interiorità è complessa, oscura l’una agli altri: si tengono segreti, vorrebbero fuggire - alcuni lo fanno, come il padre de Il bosco, altri finiscono per arrendersi e limitarsi a piccole libertà, a piccole fughe tenute per sé, come la giornata passata in cantina de Il topo. Per alcune di queste case mi viene in mente la stanza de La metamorfosi di Kafka, il modo in cui sembra farsi, man mano che il racconto procede, sempre più piccola, più stretta, più isolata e lontana dal resto della casa. Sono luoghi che comprimono, più che unire.
 

Il racconto che dà al titolo alla raccolta è suggestivo, a tratti inquietante. Leggendolo si pensa a Cortàzar, ad alcune delle sue storie, ai suoi elementi fantastici, all’uomo che vomita conigli in Lettera a una signorina a Parigi. Ti ritrovi in questa associazione?

Amo quel racconto. A differenza dei coniglietti di Cortázar, però, i miei sono un elemento realistico, nello spazio della storia. Non c’è nulla di fantastico in Un buon posto dove stare, se non un certo modo di osservare la realtà, un aprire varchi infinitesimali per mezzo di un’osservazione stupefatta, un’atmosfera sospesa, un servirsi di simboli. I conigli che vengono allevati dai due contadini, accuditi al punto da farne il centro della loro vita, sono legati al tema del racconto. E sono legati, allo stesso tempo, a un sentimento personale. I conigli sono per me la concretizzazione di un’ansia, di un’ossessione: li ricollego all’infanzia, a un mondo preciso e a una serie di situazioni che, da qualche parte, mantengono un’eco inconscia. Il coniglio, poi, ha natura duale: è un animale che sembra sempre terrorizzato, sbigottito, le narici in perenne movimento, come se avesse una vita interiore molto più intensa rispetto al suo aspetto esteriore, così timido e rassicurante. È simile ad alcuni dei personaggi di questi racconti, e credo che si intoni bene con l’atmosfera gotica, di tensione, che corre lungo questa storia. Fornendo, allo stesso tempo, un contrappunto interessante, come i piccoli coniglietti morbidi del racconto di Cortázar.

Qual è il racconto che ha richiesto più applicazione da parte tua?

Cavalli, senza dubbio. È l’unico di cui so realmente qualcosa in più rispetto a quello che dico. Negli altri mi fermo dove si ferma il racconto, non chiedo nulla di più alla storia o ai miei personaggi. Ma in Cavalli c’è tutta una back story che, per qualche motivo, non mi sentivo di raccontare. Devo aver seguito alla lettera il consiglio di Hemingway, sull’iceberg - forse troppo: mi sono fermata qualche passo prima ancora di quanto avesse fatto lui con Colline come elefanti bianchi. Non so, mi sembrava di rovinare quella storia, di sciuparla pronunciandola, di renderla banale: allo stesso tempo, sentivo che il racconto avrebbe funzionato bene anche così. Anzi, che avrebbe mantenuto una potenza maggiore: nascondere mantiene viva la tensione, lascia la ferita aperta. Però ce n’è voluto prima di raggiungere un compromesso accettabile tra il detto e il non detto. Non so se ci sia arrivata: ma so che, tra chi l’ha letto, ognuno ha tratto le proprie conclusioni, ognuno ha messo la propria immaginazione e la propria storia personale. Credo che sia un regalo nei confronti del lettore, un modo per ingaggiarlo ulteriormente, per dargli più spazio: oltre che, come diceva Fellini, un gesto di umiltà del narratore, di onestà. Mi sono soffermata a registrare la storia nell’istante che avviene, come se fossi arrivata in quel momento e la spiassi per quel periodo limitato: non so perché i personaggi si comportino così, non so che cosa è avvenuto fra di loro prima, posso solo intuirlo.

E quello nel quale vivresti?

Da qualche parte al sicuro, forse. L’ambientazione è tratta da una delle case in cui sono cresciuta, la casa di campagna dei miei nonni - è una piccola nota autobiografica che ho inserito in quella storia. È un posto al quale sono molto legata, ma che ora esiste solo nella memoria: ho voluto dedicargli un racconto per tornare ad abitarlo. Allo stesso modo, conservo un sentimento di nostalgia rispetto all’infanzia, allo stupore e al timore della scoperta, che accompagnano la protagonista del racconto.
 

Non è il caso de La nave di Teseo, ma, secondo te, perché alcuni editori sono generalmente restii a puntare sui racconti, specie se di un esordiente?

Me lo chiedo spesso anch’io. Si dice che i racconti vendano meno, ma questo potrebbe anche dipendere dal fatto che si notano meno. A un certo punto credo che si sia messo in moto un circolo vizioso per il quale le case editrici puntano poco o nulla su questa forma e decidono di pubblicarne il meno possibile, gli autori ne scrivono pochi e i lettori ne trovano sempre meno in libreria, disinnamorandosi e disabituandosi a questo tipo di narrazione. Non so dire cosa sia nato prima. Sono stata fortunata a incontrare persone che, di fronte al mio lavoro, non facessero troppe domande, che non mi facessero pesare il fatto di aver scritto una raccolta di racconti - perché molti lo fanno, ed è un problema grave. È vero anche che, se da un lato la forma breve si adegua bene al nostro tempo, al deficit d’attenzione imperante, dall’altra il racconto richiede più impegno. Non solo da parte dello scrittore, ma anche del lettore - proprio per il fatto di essere maggiormente investito, come dicevo prima. Ci vuole una dose di allenamento, e io credo che debba cominciare nelle scuole. Il mio amore per i racconti forse è nato proprio lì: è tra i banchi che ho conosciuto Calvino e Čechov, poi Buzzati, Moravia, e Joyce con Gente di Dublino. Ma mi rendo conto, anche qui, di essere stata fortunata.

Hai frequentato la scuola Holden di Torino. Che autrice era Francesca Manfredi prima di questa esperienza formativa e che autrice è oggi dopo la vittoria del Campiello Opera Prima?

Prima di iniziare la Scuola Holden non avevo mai scritto nulla, se non poche cose disordinate. E si vedeva: se rileggo i primi tentativi di racconto mi verrebbe da sotterrarmi. Sono stati fondamentali le prove, i consigli, le letture fatte con consapevolezza; oltre alla pratica ripetuta, ovviamente. Ma anche l’insegnamento della scrittura come scoperta, che preserva quella componente istintiva del gesto. Poi ho sempre avuto timore a far leggere a qualcuno quello che scrivo - paura del giudizio, di non essere all’altezza. È una paura che c’è ancora, e credo sia un sentimento sacrosanto, da conservare, che ti mette sempre alla prova. Però col tempo ho imparato ad avere più fiducia - e il Campiello, in questo, è stato un’ulteriore, bella pacca sulla spalla.

Tre racconti celebri che sono importanti per te?

La casa dell’agonia di Luigi Pirandello: il racconto che avrei sempre voluto scrivere. Ogni racconto che si rispetti dovrebbe parlare di un’ossessione. E dovrebbe avere un finale come questo.

Penne di Raymond Carver. Il primo racconto di Carver che ho letto, il primo in cui abbia avvertito una sensazione ben precisa: sentivo che stava parlando a me, che, senza mai farne il nome, stava raccontando qualcosa che conoscevo bene. Aveva parlato di quella sensazione, quella cosa lì che non sapevo dire, non dicendola, a sua volta. Era il modo più efficace che conoscessi per non esorcizzarla, per mantenere tutta la potenza intatta. E poi i dettagli, perfetti, magnifici e terrificanti: il bimbo grasso, il pavone.

Casa d’altri di Silvio D’Arzo. Lo lessi per la prima volta anni fa (ci accomuna la provenienza reggiana) e lo rileggo di nuovo, di tanto in tanto. Ogni volta non smette mai di lasciarmi a bocca aperta. Per la lingua, prima di tutto: realismo sporco trent’anni prima e migliaia di chilometri da Carver. Per l’atmosfera rarefatta delle nebbie e della materia che tratta, il modo in cui lo fa. Ogni volta che lo leggo sento un formicolio all’altezza del petto, come se si spalancasse, se volesse più aria: mi capita solo con pochi, grandi racconti, nel momento in cui si arriva verso la fine. La morte di Ivan Il'ič, e questo, senza dubbio.

I difetti di Luca Ricci

Da gennaio 2017 è in libreria l'ultima raccolta di racconti di Luca Ricci: I difetti fondamentali, edito da Rizzoli. Una carrellata di personaggi che ruota intorno al mondo dell'editoria, per raccontare l'essere umano in tutte le sue sfumature. Abbiamo intervistato l'autore, considerato uno tra i migliori scrittori di racconti in Italia.


a cura di Rossella Milone

La prima è una domanda che mi pongo spesso come scrittrice e come lettrice, perché mi ha sempre incuriosito il motivo per cui si è tentati di scrivere di scrittura. Ne I difetti fondamentali ciascun racconto non si limita a raccontare le avventure, le brutture, le ipocrisie o i difetti, appunto, degli scrittori, ma nel complesso si compone un ragionamento ben più ampio intorno alla scrittura. Ecco, perché? Qual è stata la necessità che ti ha spinto ad aprire una finestra (anzi quattordici, perché quattordici sono i racconti) sullo scenario letterario italiano di cui parla il libro?

Mentre stavo scrivendo questi racconti mi sono reso conto che la letteratura è piena zeppa di scrittori immaginari (ma del tutto verosimili). Lasciando da parte la numerosissima galleria degli scrittori che si sono dotati di un alter ego- su tutti penso a Fante con Arturo Bandini, Bukowski con Henry “Hank” Chinaski, Roth con Nathan Zuckerman- mi sono appuntato su un blocco una piccola bibliografia di opere il cui protagonista è uno scrittore di pura invenzione- magari perfino somigliante al suo autore, ma come fosse un traslato:  si va dalla “Morte a Venezia” di Thomas Mann a “Wonder Boys” di Michael Chabon, dal “Ritratto dell’artista da giovane” di James Joyce al “Pomeriggio di uno scrittore” di Peter Handke. Io credo che l’autorialità di uno scrittore passi per forza anche dallo studio del proprio lavoro (la domanda è: perché scrivo come scrivo?), quindi è un’esigenza quasi naturale a un certo punto rendere la scrittura stessa materia narrativa. 

In questi racconti sembra ci sia l’intenzione di avvicinare sempre di più la scrittura alla vita, nel senso che uno scrittore sa bene quanto le due cose coincidano: la scrittura è un abisso misterioso in cui risiedono ombre e luci, al pari di qualsiasi esistenza umana. In uno dei racconti, L’eccitato, questa intenzione è quasi esposta perché il protagonista, a un certo punto, dice: “Scrivere è come fare petting, né più né meno. Scrivendo uno non arriva mai al punto, e può continuare a macerarsi per ore, giorni, mesi, anni e così via. Insomma, scrivere non è piacevole, ma è eccitante. In senso metaforico, quanto ti sei eccitato, tu, a scrivere questi racconti?

Credo che il tratto distintivo degli scrittori protagonisti de I difetti fondamentali sia la fissazione, un tratto persecutorio. In fondo sono tutte partite a due, a sfondo ossessivo (non solo sessuale). Certo la grande e continuativa metafora sessuale che metto in atto in certi racconti- penso a “Lo scomparso” o “L’eccitato”- chiarisce molto bene certe dinamiche legate alla scrittura creativa, per così dire. L’orgasmo è la pagina perfetta a cui non si arriva mai, lo scrittore fa petting incessantemente, cioè rumina i suoi pensieri. Che cos’è questa se non la fissazione suprema?

I personaggi dei tuoi racconti hanno tutti a che fare col mondo editoriale: critici, scrittori, agenti, aspiranti scrittori, etc…In alcuni casi ci vai giù duro, come se avessi voluto toglierti un po’ di sassolini, ma in realtà l’affabulazione è ipnotica, non ci si stacca dal libro. Queste figure letterarie sono spogliate fino all’osso, e noi lettori siamo costretti a vederne gli aspetti più scuri: è così, secondo te? Spogliati fino all’osso, scrittori ed esseri umani sono così?

Hai fatto un’osservazione che mi sembra fondamentale rispetto al libro e ai suoi eventuali fraintendimenti: “l’affabulazione è ipnotica, non ci si stacca dal libro”. Ecco, volevo proprio che la dinamica fosse questa, che la potenza narrativa della storia restasse in primo piano rispetto al gioco meta-letterario. Non è un libro autoreferenziale per addetti ai lavori sulla scrittura, è un libro che sceglie gli scrittori come grimaldello (qualunque narrazione sceglie un punto di vista particolare, un singolo pertugio) per dare- tentare di dare- storie universali che riguardino l’umano e perciò interessino tutti. Quanto all’umanità spogliata, siamo di certo tremendi, ma nel libro ci sono anche molti punti di luce. Non è forse una sorta di riscatto da ogni abiezione la parabola de “Il folle” che regala libri costosi un po’ a chiunque, fino alla rovina? Tendiamo a dimenticarci troppo spesso che la scrittura prima di una carriera è un atto di apertura, di disponibilità e perfino di generosità.

Parlaci un po’ dei critici e della critica italiana nel mondo letterario: i racconti del libro che narrano le loro storie sono spietati (come ne La canonizzata, in cui il successo e la miseria di una scrittrice vengono manipolati e gestiti esclusivamente dal potere del critico Giorgio Gamba).

Proprio come succede ne “La canonizzata” mi pare che la maggior parte della critica italiana invece di servire la letteratura italiana voglia sfruttarla. Troppo spesso il sistema delle recensioni è solo un centro di potere auto conservativo e molto disancorato dalla realtà- cioè (in questo caso) dai testi, dal loro valore, dal percorso e il sacrificio e il dolore dei loro autori. Detta in altri termini, considero- considererei- la critica uno strumento fondamentale per arginare la dittatura bestsellerista del mercato, perciò detesto chi la usa male, chi la svilisce per il classico piatto di lenticchie.

Ho trovato Lo stregato uno dei racconti più belli della raccolta, perché il tono si addolcisce e anche dove vuoi infilare una lama, recuperi quella voce ironica, sognante e illusionistica che magistralmente avevi anche usato in Fantasmi dell’aldiquà (La scuola di Pitagora, 2014). Questo racconto sperimenta diversi registri narrativi e si distacca dalla canonica forma letteraria che appartiene alla forma racconto. Quanto, secondo te, il racconto può, in effetti, diventare il campo della sperimentazione?

I difetti fondamentali è l’opposto de L’amore e altre forme d’odio a partire dal lavoro sui personaggi- il gesto di voler ritrarre è abbastanza significativo, in tal senso-, che qui sono presentati con un taglio molto più tradizionale. L’estrema brevità modulare del passato è stata sostituita da storie più lunghe e che vogliono dare una percezione di forte discontinuità- pur nella compattezza della cornice-, e in generale ho cercato proprio di slabbrare la forma. In passato la domanda era: “fino a che punto posso togliere?”  Per questi racconti è stata: “fino a che punto posso aggiungere?”

In realtà la maggior parte di questi racconti si discosta da una classicità tipica del racconto, e in questo ho trovato tutti i tuoi maestri: da Manganelli a Maupassant, da Flaiano a Landolfi…Quanto hai lavorato, su questo aspetto? Ma, la cosa che mi interessa di più è: quanto ci hai riflettuto?

Ci ho riflettuto tanto, ma non basta che ci rifletta lo scrittore, deve rifletterci anche il racconto. Lo tratto come una creatura autonoma, con una sua volontà di pensiero, come faceva Giorgio Manganelli quando scriveva: “Il racconto è l’unico genere letterario che ha consapevolezza della fine, che finirà presto”. Voglio dire che secondo me un racconto- un testo letterario- è pienamente riuscito se oltre alla storia che sta raccontando riflette sui suoi stessi procedimenti, sulle ragioni della scrittura. É una riflessione incessante, che viene passata come un testimone da un libro all’altro. In questo senso potremmo dire che un classico è, semplicemente, «un libro che pensa».

In tutti i racconti sono preponderanti, aldilà del tema della scrittura, anche gli aspetti più problematici e complessi che riguardano il sesso e la famiglia (anzi, la coppia), come se ci fosse un demone persecutorio che tiene in scacco questi personaggi: a volte sembra che non ci sia scampo alle nostre più grette debolezze. Quanto conta, secondo te, per uno scrittore, fare i conti con i propri demoni?

Credo che chi scrive senza demoni dovrebbe darsi alla saggistica… oppure al romanzo, dove in fondo si può sempre diventare colletti bianchi della scrittura e portare a casa 300 o 400 pagine di variazioni narrative orizzontali (memento: la copiosa psicologia di certi personaggi da thriller o giallo simula soltanto una profondità), senza che nessuno si scandalizzi. In un romanzo la trama è tutto, in un racconto tutto è trama. Una bella differenza, no? Ecco, direi così: uno scrittore di racconti non può fare a meno dei propri demoni. 

Emanuele Giammarco, Racconti Edizioni

Emanuele Giammarco è il fondatore, insieme a Stefano Friani di Racconti Edizioni, la nuovissima casa editrice che pubblica solo libri di racconti. Noi ne abbiamo già parlato qui per dare loro il benvenuto. Ora entriamo con Giammarco nelle questioni più spigolose e difficili da affrontare per chi vuole pubblicare racconti, e cercare di capire, con lui, cosa si sta muovendo nel panorama editoriale.


a cura di Rossella Milone

Che mettere in piedi una casa editrice solo di racconti sia una faccenda complicata che, per alcuni, sfiora la pazzia, ve lo avranno detto in molti e in molti vi avranno chiesto: perchè? Noi non ve lo chiediamo, ma vogliamo sapere il momento esatto in cui voi diRacconti Edizioni avete preso coscienza della cosa e ve lo siete detto. Il momento in cui avete deciso: facciamolo. E cosa avete fatto subito dopo.
 

Mi piacerebbe saperti rispondere in modo esatto, ma non ne sono capace. Credo di condividere con molte persone della mia età una certa disillusione di fondo che non mi permette di cogliere appieno le svolte, come se fossimo abituati all’idea che le svolte non esistano, non siano mai esistite, o siano una falsità. Durante il Master alla Sapienza, che ho condiviso con Stefano (Friani, n.d.r), si è palesata l’idea di provare a fare una casa editrice. Ma il fatto che l’idea si palesi vuol dire poco, poi bisogna prenderla sul serio, e siccome nessuno dei due è in grado di prendere sul serio alcunché è difficile capire quando l’idea sia diventata una “realtà”. Viviamo in un continuo esorcismo, non ci siamo mai fermati a dirci: «ecco, ci siamo riusciti!»; chissà, potrebbe portare male. Ci siamo come “sfidati” a farla finché non ci siamo trovati troppo invischiati per tornare indietro. Sono abbastanza certo, però, che la prima “sfida” sia venuta fuori in un pub – ma d’altronde è un segreto di pulcinella che l’editoria si basi fondamentalmente sull’alcol. Per noi serviva una reazione e abbiamo cominciato a pensare seriamente a un progetto editoriale che avesse senso sia per noi che per un pubblico di lettori. La prima cosa che abbiamo fatto è stata parlare con qualcuno che stimavamo, che sapevamo potesse aiutarci e che avesse più esperienza (ci vuole poco effettivamente) di noi. L’idea-progetto dei racconti ci è piaciuta subito perché era audace, controcorrente e aveva dei vantaggi nascosti. In un momento folle come quello che stiamo vivendo è utile chiedersi che ragion d’essere può avere questa follia.

Ce lo puoi dire chi sarebbe questo 'qualcuno'? E se non puoi o vuoi, ci dici quali sono stati i consigli, i pareri? Cosa vi ha passato questa esperienza maggiore di cui parli, per aiutarvi a trattare i racconti in maniera così specialistica?

La questione principale da chiedere a qualcuno del settore: trattasi di idea folle? Ovviamente sì – è stata la risposta unanime – ma forse di quelle follie su cui valeva la pena spendere le proprie energie rimaste. D’altra parte, ripeto, il mercato del lavoro e quello dell’editoria non sono certo attraversate dalla pura razionalità. La laurea viene riconosciuta come necessaria per l’avviamento alla carriera, ma poi per lavorare serve esperienza: e come me la dovrei fare, appena uscito dagli studi? Ha senso? Così come non aveva senso che non ci fosse spazio per i racconti nel mercato editoriale. Forse non esistono i lettori di racconti? La nostra ragion d’essere in parte è folle, in parte è la diretta conseguenza di alcuni pregiudizi o cristallizzazioni anch’essi folli o irragionevoli. Ora, tutto questo ragionamento traballante è venuto a maturazione grazie a tanto dialogo in fase preliminare. Inevitabilmente con Luca Formenton, che è stato nostro professore al suddetto Master, trattando per l’appunto di editoria cosiddetta “di progetto”. Parlando con Formenton siamo giunti alla conclusione che si dovesse rivestire il libro per renderlo più aderente al formato racconto, cosa che abbiamo provato a fare, puntando sulle connessioni esistenti fra i vari frammenti di cui è composta ogni collezione, cercando di mostrare una certa “unità nella diversità”. Siamo giunti a conclusione che dovevamo restituire un progetto editoriale (nell’uso della carta, con i paratesti e con le scelte dei titoli) a una domanda che doveva per forza esistere e speriamo si palesi presto e fieramente agli occhi di tutti (ma qualcosa si è mosso anche al di fuori di Racconti se ve ne siete accorti). Insomma, un compromesso con quel principio di marketing – dai alla gente quello che vuole – che se preso alla leggera e in senso assoluto fa il male non della letteratura, ma dell’umanità intera. Poi abbiamo parlato con un editor in gamba, Mattia Carratello, per saggiare tutto il lavoro di back-office e capire se avevamo i margini per iniziare e quanto potevamo osare con le acquisizioni. Abbiamo interrogato Piero Rocchi, con cui ho passato dei mesi al Saggiatore, per capire come muoverci con distribuzione e promozione. Siamo passati in Einaudi, dove ha fatto lo stage Stefano, per chiedere consigli sulla resa grafica. Tutti ci hanno restituito qualcosa. L’esperienza sul campo, poi, è un altro paio di maniche.

Riesci a rispondere, in qualche modo, alla domanda che hai posto nella tua risposta: Forse non esistono i lettori di racconti?

Io credo che i lettori di racconti siano i lettori, e che i non-lettori di racconti (potenziali lettori) siano i non-lettori. In questo senso noi stiamo tentando di venire incontro a un pregiudizio che appartiene all’offerta, non alla domanda. Perché se ci si ragiona bene, non ha alcun senso dividere i lettori fra raccontisti e romanzisti (o saggisti ecc). Pensiamo a questa cosa: quando si parla di racconti si sente spesso l’espressione "genere"; noi stessi siamo abituati ad esprimerci così. Ma il racconto non è tanto un genere quanto una "forma" letteraria. Questo la dice lunga sulla percezione che se ne ha. Viene trattato come una speciale partizione della letteratura e, come tale, sembra dover appartenere ad una sorta di serie B, adatta a pochi nerd appassionati. Eppure, quando provo a rappresentarmi il racconto come «genere» cado presto in errore. Carver è capace di raccontarci una bevuta fra amici in un arco narrativo di poche ore lasciando intendere problematiche e verità valide per tutta una vita, Bolano racconta vite intere come fossero biografie, Shirley Jackson una pratica consumata negli anni e ambientata in un passato non ben identificabile, probabilmente nell’anima di tutti noi, Cortàzar racconta una malattia passando da un flusso di coscienza di una persona a quello di un’altra mantenendo miracolosamente intatto il fiume della narrazione, Bierce ci parla da un non-luogo, descrivendo qualcosa che non è successo se non sulla carta o nel cuore del lettore. Quale sarebbe il genere qui? Parlando in astratto è troppo difficile, oltre che sbagliato, porre dei paletti a ciò che può essere narrato in generale. Si tratta della vita stessa, dell’essere, non so come dire. Forse l’unico limite imposto dal racconto è quello ovvio della lunghezza e della strutturazione. Ma da amante dei buoni libri non posso pensare che se ti è piaciutoRevolutionary Road allora non ti piace Undici Solitudini solo perché è costituito da narrazioni più corte. Quel racconto, Un buon pianista di Jazz, mi pare, distrugge in modo diverso lo stesso sogno americano del romanzo. I pregiudizi possono esserci, certo, però vanno affrontati e superati. Prendiamo i narratori diventati famosi per aver indugiato soprattutto, o solo, sulla forma racconto; quelli più vicini all’idea di "genere", se vogliamo. Diventa tutto ancor più complicato. Dobbiamo dire: Non mi piace Čechov, Kafka scrive male, Maupassant ha travisato del tutto l’indagine sull’animo umano. Andiamo avanti! I racconti sono fichissimi.

Che il pregiudizio risieda soprattutto nell'offerta e non nella domanda, è anche il nostro punto di vista ed è quello che in questo anno e mezzo di vita dell'Osservatorio abbiamo potuto riscontrare. Il pregiudizio esiste anche in una minima parte tra i lettori (c'è chi ha bisogno della storia lunga che li accompagni per le 200, 300 pagine senza lasciargli mai la mano) ma questo pregiudizio è avallato e perpetuato da un mercato e da una proposta che mortifica la forma breve. Forse i lettori andrebbero più guidati, rassicurati e incoraggiati, soprattutto da stampa e case editrici. Come casa editrice, in questo senso, che tipo di difficoltà riscontrate maggiormente con le librerie, per esempio? O con i premi letterari, o con i festival?

Difficile rispondere. I premi letterari al momento sono meno di un miraggio, per noi ci sono altre priorità e di certo non ci aspettiamo si possa iniziare così, d’emblée, a valorizzare il racconto. Se prendiamo come paradigma lo Strega non ci possiamo attendere chissà che. Se non sbaglio l’ultima vittoria risale a Magris ed è di vent’anni fa. È vero che i racconti non hanno mai vinto tanto ma è altrettanto vero che una volta c’erano i Parise, i Landolfi, e ancor prima i Buzzati, Bassani, Moravia. Se in generale contiamo anche Calvino – che si riferiva al proprio lavoro come un’opera di short stories – ci troviamo improvvisamente nell’olimpo della letteratura italiana. Magari all’estero funziona meglio, con premi dedicati al racconto, la vittoria di Munro ecc. – anche se in generale la partizione, come detto prima, può equivalere anche a un declassamento. La verità è che il problema è endemico e non si limita, come dici tu, a un unico strato della filiera. Il pregiudizio si insinua a tutti i livelli e si crea, come di consueto, uno strano circolo vizioso. I racconti non vendono quindi non si pubblicano quindi non si scrivono ma se non si pubblicano poi è difficile che vendano e se non si lasciano liberi gli scrittori allora… ecc ecc. Ci è capitato, è vero, che un libraio ci desse picche esplicitamente per via dei “racconti” ma c’è anche capitato il contrario, e si tratta di esempi virtuosi che valgono molto di più. Il rapporto diretto con i librai però è qualcosa che si costruisce con il tempo (come con i lettori). Noi speriamo di poterle visitare tutte, le librerie, a partire da quelle che si sono dimostrate interessate sin da subito e che ci hanno dato forza per proseguire. Per adesso tuttavia bisogna arrendersi al detto deleuziano secondo cui il vero cliente dell’editore è il distributore. In questo senso è difficile carpire quale sia la reazione in merito al racconto in sé. Magari chi non ordina non lo fa perché non è persuaso da altri fattori, non saprei dire al momento, ed è difficile andare a pescare le librerie poco convinte. Dove sicuramente non c’è pregiudizio, invece, è nel lavoro sul campo. In questo senso professiamo il massimo del rispetto per coloro che si prodigano da tempo per valorizzare la forma racconto. Lì c’è il vero succo. Siamo i primi a riconoscere il lavoro di Oblique con 8x8, il vostro lavoro con Trenta Cartelle, per esempio, e quello di altre realtà che abbiamo avuto il piacere di conoscere comeEffe. Ma anche i blog come VibrisseNazione IndianaNuovi ArgomentiTerraNullius e i vari collettivi. Da poco ne sono nati altri come Tre Racconti, quindi forse è arrivato il momento di una certa rénaissance. Noi vorremo poter approfondire quel lavoro, avere il tempo, lo spazio, l’attenzione e la forza economica. È questo che ci interessa di più adesso.

Per concludere vorrei porti una domanda sugli autori italiani. Siete nati da pochissimo e finora avete in catalogo una prestigiosa, affascinante linea editoriale tutta straniera. In Italia il problema di pubblicare - ma soprattutto di vendere - racconti è particolarmente sentito, e invito in nostri lettori ad approfondire l'argomento che abbiamo e continueremo ampiamente a trattare. Voi come vi porrete in futuro rispetto agli autori italiani? Percepite che il mercato è ancora in difficoltà da questo punto di vista?

La prima cosa che ci siamo detti con Stefano è che ci serviva del tempo. Per la ragioni di cui sopra è stato subito semplice stilare una lista di nomi, anche grandi nomi, di narrativa straniera. Abbiamo potuto “permetterci” Rohinton Mistry, Eudora Welty, James Baldwin, Virginia Woolf e abbiamo altri nomi importanti per il futuro anche prossimo – non solo quindi underdog o libri dimenticati come quello di Faye o Graham Jones. Ovviamente questa possibilità non si presentava per la narrativa italiana – sempre per le ragioni di cui sopra. Allora: tempo. Abbiamo deciso di costruirci innanzitutto un catalogo. Non esterno o parallelo a quello dedicato ai narratori italiani, ma totalmente in funzione di un discorso unitario che comprendesse anche la nostra lingua. Siamo convinti che una casa editrice che si dica indipendente non possa sottrarsi a questo compito. Però allo stesso tempo ci piacerebbe che i nostri libri in qualche modo si parlassero fra di loro, indipendentemente dalla lingua in cui sono stati scritti. Per me è molto difficile parlare di linea editoriale; è un concetto che definirei “problematico”. All’inizio del nostro percorso ci eravamo quasi emozionati leggendo le parole di Deleuze-Guattari sulla letteratura minore e su Kafka. In un passaggio si dice espressamente che la letteratura sta dove si riesce a essere «immigrati della propria lingua». Questo magma sotterraneo in cui la lingua è sempre messa in gioco, in cui devia dai canoni anche grammaticali e normativi, vorrebbe essere lo stesso principio con cui scegliere e decidere chi pubblicare a prescindere dalla lingua originaria. In questo senso vorremmo che tutti i nostri scrittori fossero stranieri; cioè non italiani, americani, irlandesi, francesi ma: stranieri. Ora, tornando sulla terra, è chiaro che non è per niente semplice. Se vogliamo fare le cose il più seriamente possibile abbiamo bisogno di conoscere alla perfezione il perché pubblicare uno scrittore piuttosto che un altro. Crederci, quindi. Pensare come se il nostro lettore volesse rimanere piacevolmente sorpreso, «aspettandosi l’inaspettato», come dicono gli americani. E di scrittori di racconti ce ne sono! Qualcuno di loro ha avuto anche un discreto successo e bellissime edizioni. Certo, non credo che il mercato si muova in quella direzione, nel senso che gli addetti al settore non sono abituati a ragionare secondo forma breve. Il fine rimane il romanzo, se si trova un buon scrittore di racconti lo si ritiene “pronto” per altro, i librai si aspettano di vendere molto solo quando hanno romanzi in mano. Però non escludo che le cose possano cambiare ed è importantissimo per noi ragionare sull’unità del discorso editoriale; evitare limitazioni, segmentazioni e parlare soltanto dei libri in sé. Devo dire che alcuni nomi ci sono passati per la testa, anche insistentemente. Ci sarebbero esordienti davvero interessanti, a cui magari ci piacerebbe affiancare un ripescaggio di valore. Vorremmo riuscire a trovare la nostra prima doppietta di autori per la fine dell’anno prossimo e per questo stiamo anticipando i tempi per le cedole più vicine, nell’idea di dedicare qualche mese interamente alla lettura di manoscritti e proposte. Molto della casa editrice dipende da questo e vogliamo capire bene come muoverci e dove andare. Spero che le cose vengano da sé il più spontaneamente possibile.

Qualcosa si muove, Nicola Lagioia

Qualcosa dunque si muove


di Alfredo Zucchi

Scrittore e editor: declinazione moderna dell’antico attributo alessandrino, poeta e filologo. Nonostante alla mia domanda sulla relazione tra la scrittura e l’attività di editor Nicola Lagioia abbia risposto con un secco «sono semplicemente due attività diverse», è proprio l’esperienza – e il successo – di Lagioia in entrambi gli ambiti a conferire alle sue parole un’aria rinfrancante, no nonsense:

« Chi dice che la letteratura italiana è morta confonde l’oggetto del proprio giudizio col soggetto che lo emette.»

Dieci minuti prima di chiamare Lagioia i dispositivi digitali mi tradiscono: il cellulare non si accende; provo a comprare credito skype – vivo all’estero, nel paese di Musil, di Hitler e di Conchita Wurst–: per evitare frodi, la mia banca invia un messaggio di conferma sul cellulare che non si accende; paypal mi pone domande di sicurezza sul passato della mia famiglia alle quali provo a rispondere con precisione prima, poi fantasiosamente – fallisco in entrambi i casi. Alla fine, con l’aiuto da casa, skype mi concede il lusso della comunicazione orale. Sono stressato e in ritardo, e le prime risposte di Lagioia – brevi, dirette e senza fronzoli – alle mie domande mi lasciano presagire il peggio: l’arte dell’intervistatore, come quella del detective, consiste nel creare un ponte tra i due soggetti, un “proiettarsi nell’animo dell’altro” (E.A. Poe, Gli omicidi della Rue Morgue), e nel mio caso pare che questo ponte stenti a prendere forma. Più avanti mi accorgo invece che proprio quest’attitudine diretta, realista e no nonsense di Lagioia è la leva per trarre gli spunti più preziosi dalla nostra chiacchierata.

Forme brevi

Cattedrale è un luogo sui generis, laboratorio e osservatorio sul racconto: la discussione sullo stato dell’arte delle forme brevi in Italia non tarderà a venire. Prima di arrivarci, però, chiedo della sua attività di editor di Nichel, la collana di narrativa italiana di Minimum Fax. Lagioia è molto chiaro al riguardo: fare l’editor vuol dire rimettersi a un lavoro di gruppo; dimenticare, mettere da parte o in qualche modo allegerirsi dalle ossessioni solitarie dello scrittore.

«Nella scrittura degli altri cerco semplicemente i libri
che fino ad allora non avevo immaginato di poter leggere.»

Nichel, ci dice, è una collana aperta, che non si preclude niente. Il filo che tiene insieme i libri che la compongono è unicamente «un’idea forte di letteratura». Soprattutto, aggiunge, è una collana senza pregiudizi sui generi e sulle forme: i racconti ci piacciono tanto come i romanzi.

Qui veniamo alle forme brevi. Cito un suo dialogo con Alessandro Grazioli del 2011:

Lagioia: « Non arrivano i racconti. Noi abbiamo pubblicato dei libri di racconti molto fortunati, quindi non c’è un pregiudizio. Non arrivano proprio, arrivano i romanzi.»

Grazioli: «E secondo te da che dipende? Arrivano meno proposte di racconti perché di fatto l’istanza del racconto si è indebolita o c'è una specie di furbizia di sottofondo per cui l'aspirante scrittore, nel momento in cui si deve proporre, o deve proporre la sua opera a una casa editrice, parte già con l’idea che deve scrivere un romanzo, altrimenti per lui è più difficile essere preso in considerazione.» 
Lagioia: «Non lo so. Secondo me non è una questione di furbizia, perché la furbizia si scopre, si vede nel testo. E noi non lo pubblicheremmo un testo furbo. Comunque io credo nell’esigenza. Evidentemente in questo momento gli scrittori hanno un’esigenza di romanzi. Questo è un cambiamento che ha coinvolto anche Nichel.»

Gli chiedo se questo sia ancora il caso oggi. Mi risponde con prontezza, dati a memoria: il 60% dei testi che arrivano in casa editrice sono romanzi. E perché arrivano più romanzi che libri di racconti? Questa è una domanda alla quale il realismo di Lagioia vieta di rispondere speculando: bisognerebbe chiederlo agli scrittori.

Allo stesso modo, non è facile spiegare la predilezione dei lettori verso il romanzo. Può essere un’abitudine tutta italiana, dice, in parte rimpolpata da certa attitudine dei recensori a favorire i romanzi, a dare loro più spazio, contribuendo a creare una – falsa – immagine di superiorità del romanzo rispetto al racconto. A questa situazione contribuisce anche il sempre minore spazio dedicato ai racconti sulla stampa generalista, online e offline; lì, però, Lagioia sottolinea come il pregiudizio non abbia come oggetto il racconto in sé, ma la letteratura in generale: non ci sono racconti, su giornali e riviste che non siano specializzate sulla letteratura, così come non ci sono estratti di romanzi e non ci sono poemi. (Allora la literary non-fiction sta divorando lo spazio che un tempo era della narrativa e della finzione? Questa, invece, è una domanda per un’altra occasione.)

Anche qui si resta coi piedi per terra – una cosa è il quadro generale, altro è quello dell’esperienza personale:

«Nichel non discrimina i racconti. Quando ci arriva un libro di racconti che ci piace, lo pubblichiamo.»

Eppure – qui conveniamo – la situazione non è la stessa di cinque anni fa: di recente, Minimum Fax ha pubblicato due libri di racconti importanti – due libri diversi, ognuno con la propria «idea forte di letteratura» in grado di risuonare nel panorama italiano: 'Il silenzio del lottatore' di Rossella Milone, e 'Io odio John Updike' di Giordano Tedoldi. Qualcosa dunque si muove.

Sceneggiate all’italiana

Dai racconti ci spostiamo all’insieme più ampio della letteratura italiana contemporanea: l’immagine che ne abbiamo noi muovendoci dentro di essa; e quella invece che gli altri, da fuori, hanno di noi. Il rumore di fondo della sfera pubblica, gli dico, restituisce oggi un’immagine negativa, di decandenza e dipendenza della letteratura italiana, se non proprio di morte biologica. Ammetto di non credere a questa figura, mi sembra un piagnisteo. Ora siamo in sintonia.

È un piagnisteo che ci compromette, dice, che contribuisce a creare un circolo vizioso e ad alimentare una percezione negativa dall’esterno – quando invece la letteratura italiana continua a godere di un’ottima reputazione fuori: all’estero, nessuno dubita che la nostra faccia parte delle grandi letterature mondiali, insieme alla nordamericana, alla francese, alla spagnola e a poche altre.

Forse è solo un’inclinazione tutta italiana alla sceneggiata, aggiunge; però chi dice che la letteratura italiana, o il cinema italiano, sono morti, confonde l’oggetto del proprio giudizio col soggetto che lo emette – i vecchi critici e scrittori che temono che il talento altrui possa mettere a rischio la loro posizione: i morti sono loro. Forse dovremmo fare come la Francia, che vende i suoi successi con fin troppo zelo. O forse dovremmo semplicemente dare meno spazio al rumore:

« Non è vero, tra l’altro, che la letteratura italiana sia tradotta poco all’estero, o non riesca a farsi valere. Basta pensare al successo della Ferrante negli Stati Uniti, o di Umberto Eco. Certo è che si predilige il best-seller al libro di ricerca, eppure anche lì non si può dire che il quadro sia così negativo. Negli ultimi anni, ad esempio, Paolo Cognetti e Valeria Parrella hanno avuto visibilità all’estero, e un libro complesso come Il tempo materiale di Giorgio Vasta è stato tradotto in svariate lingue. »

«E a me in ogni caso la nostra letteratura degli ultimi anni piace molto.» Chiudiamo su quest’affermazione – una che, in qualche modo, rafforza le mie impressioni di vitalità e rinnovamento: penso, in particolare, alle recenti scelte di ricerca – e ai successi di pubblico e critica – di editori come Tunué, Neo e NN, e alla direzione della narrativa italiana del Saggiatore, votata a esplorare gli orizzonti distopici del progresso tecnologico e a lanciare nomi nuovi sulla scena. Qualcosa si muove: chi dice che la letteratura italiana è morta sembra fallire anche come profeta di sciagure.

Federica Aceto su Lucia Berlin

Intervistiamo Federica Aceto, traduttrice, sulla raccolta di racconti 'La donna che scriveva racconti' di Lucia Berlin, Bollati Boringheri.
Il titolo originale della raccolta è A Manual for cleaning women.


a cura di Rossella Milone

 

Cara Federica, il rapporto che un traduttore ha con l’autore tradotto è qualcosa che mi ha sempre affascinato. Penso sia un legame intimissimo, quasi carnale; che nasconde qualcosa che non può arrivare al pubblico, che rimane nell’intimità di quel legame. Mi racconti come vivi questo rapporto con gli autori che traduci e, nello specifico, con Lucia Berlin?

È un legame molto intimo perché si passano ore e ore della propria giornata, per mesi e mesi, in un mondo che qualcun altro ha deciso di costruire, cercando di ricrearlo rispettando le linee guida dell’autore, ma mettendoci qualcosa di intimamente nostro, le parole, la nostra lingua madre. Può essere faticoso, a volte, riuscire a trovare la distanza giusta dal testo, non farsi influenzare dall’antipatia per l’autore, la sua lingua, certi suoi stilemi, le sue idee, oppure, quando un testo ci piace particolarmente, non farsi prendere dal desiderio, spesso in parte inconscio, di far brillare i mondi che ricreiamo di una luce che non gli appartiene. Fuor di metafora: bisogna avere una grande consapevolezza dei propri limiti, pazienza, capacità di ascoltare e di mettersi in discussione, per poter gestire al meglio questo genere di intimità. Ma questo vale per tanti altri lavori che richiedono una stretta collaborazione con altri esseri umani. Nel caso della traduzione è particolarmente interessante e paradossale, questa intimità, perché avviene con una persona, l’autore, che in effetti non c’è, se non attraverso il testo.
L’assenza fisica dell’autore, nel caso della Berlin, che per ovvie ragioni non è stata nemmeno colmabile dal contatto via e-mail che spesso stabilisco con altri autori, devo dire che non l’ho minimamente sentita come un peso. Era talmente presente nel testo che traducevo, che non c’è stato bisogno di colmarla in alcun modo. 

Parlando di Lucia Berlin molti hanno ricordato Carver o Bukowsky. Per certe ambientazioni scarne, dal sapore quotidiano, spesso miserabile, tu hai anche sentito delle affinità con alcuni cantautori come Johnny Cash o Tom Waits. Su tutti, per via della scrittura dissacrante, che si distacca dalla trama per infilarsi nelle pieghe più complicate della vita spesso senza ordine, dominate da un caos senza intreccio, la Berlin ricorda Grace Paley – anche se, secondo me, ha una padronanzastilistica più sofisticata. Mi racconti come hai lavorato sulla sua scrittura? E quali sono le differenze con gli altri autori che hai tradotto?

L’approccio che ho avuto con la Berlin è stato quello dell’ascolto. Vari racconti della raccolta li ho tradotti usando un programma di dettatura, che non sempre utilizzo, anche per ragioni pratiche. Ma qui la voce, l’oralità, erano elementi importanti, ed è stata questa la cosa più difficile da ricreare, l’apparente estemporaneità della voce, la scioltezza, e quel calore umano potentissimo che non è mai di maniera e mai sdolcinato, anzi a volte crudo e brutale, ma senza essere cinico o grottesco. La differenza con tanti autori che ho tradotto è stata fondamentalmente quella di non vedere la tecnica (che pure c’è, e potente) dietro questi racconti, non percepire il desiderio di manipolare il lettore, nonostante la capacità di catturarlo. Tutto questo, detto in poche parole, è fascino. E non è per niente facile tradurre il fascino.

Il racconto ha molto a che fare con un passato di narrazione orale che forse in Italia trova la migliore origine nel nostro periodo novellistico, che risale al ‘200. Questi racconti della Berlin hanno qualcosa di epico che fatico a scorgere nel nostro panorama letterario, specie se guardo ai racconti. Sei d’accordo?

Temo di non essere in grado di rispondere in modo competente a questa domanda. Non sono un’accademica, né una critica letteraria, e le mie letture sono disordinate e molto molto meno numerose di quanto vorrei. Per rimanere nell’ambito delle mie impressioni personali, e quindi fallibilissime, mi pare che il racconto e l’elemento epico, anche solo l’epica del quotidiano, siano quasi sempre frutto di una grande maturità artistica e al tempo stesso di una freschezza estrema. Una paradosso che produce miracoli e non è sempre da trovare in natura. Perché per far stare tutto quello che vuoi dire in poco spazio, per riuscire a evocare mondi con pochi tratti, per far risuonare i tuoi personaggi di implicazioni universali, devi avere una padronanza dei tuoi mezzi, ma anche una tradizione solida alle spalle, una sicurezza in te stesso e un’apertura mentale che non è solo di te che racconti, ma di tutta la cultura e la tradizione da cui provieni. Ecco, secondo me, alle voci italiane di oggi manca un po’ questa sicurezza nei propri mezzi, questa freschezza matura, che è alla base della produzione dei racconti. E poi c’è la convinzione da parte degli editori, non so quanto fondata perché sembra una di quelle profezie che si autoavverano, che i racconti in Italia non vendono. E infatti non vendono. Forse dovremmo cominciare a raccontarcela diversamente.

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai trovato nel tradurre questo libro? E le maggiori soddisfazioni?

La maggiore difficoltà quando traduco un testo che amo molto è quello di tenere a bada il coro greco di voci critiche che continuano a dirmi che la mia resa è inadeguata. Di per sé i racconti della Berlin non sono complicati, non almeno nel senso usuale del termine: non ci sono state grosse ricerche lessicali o tecniche da fare, pochi e marginali i giochi di parole, la struttura sintattica è piana. Ma quello che è difficile, in questo genere di testi apparentemente semplici, è appunto rendere la semplicità. Ho avuto modo di rileggere alcuni racconti, riconfrontandoli con l’originale, a libro uscito, e mi sono accorta di alcune mie sbavature e imperfezioni, di aver spiegato laddove l’autrice rimaneva più sul vago, di essere stata vaga dove l’autrice era precisa. Certe imperfezioni, certe sbavature sono inevitabili in qualunque traduzione. Ma se si ama un testo, diventano quasi dolorose. Io non so se avrò mai la forza di rileggere il libro tutto per intero in italiano, perché mi verrebbe il desiderio di ritradurlo daccapo. La maggiore soddisfazione è sapere che sta piacendo a molti, che sta andando avanti grazie al passaparola. E che le imperfezioni della mia traduzione che a me, ogni volta che mi capita di leggere qualche frase citata da qualche parte, sembrano macroscopiche, sono in fondo perdonabili.

Nebbia. Due gru bianche. Un movimento ondeggiante della tartaruga legata vicino alla barca. Il vento faceva tremolare la fiamma della lanterna, i lampi illuminavano il mare color verde pallido. Le gru se ne andarono e cominciò a piovere.
 

I racconti di Lucia Berlin posseggono un disincanto nei confronti della vita a volte crudele, ma altre volte si scorge una particolare fiducia nell’essere umano, che l’autrice tratteggia con un occhio pieno di attenzione e di cura. Pensi che il racconto sia il taglio migliore per questo tipo di narrazione?

Forse sì. Nei romanzi, per forza di cose, devono esserci dei cali di tensione, che se ben gestiti dall’autore non sono momenti di stanca, ma di riposo e ricarica per lui e per il lettore. Nei racconti il calo di tensione, se c’è, è quasi sempre un difetto. E la forza vera dei racconti di Lucia Berlin è tutta lì, in quella miracolosa fiducia che lei esprime nell’essere umano nonostante tutto. In un romanzo, se non sei Dostoevskij, è un po’ difficile riuscire a fare questo miracolo. Anche se volendo, A Manual For Cleaning Women, può essere letto anche come una sorta di romanzo parzialmente autobiografico.

Quali differenze esistono, se le riscontri, tra la traduzione di un romanzo e quella di una raccolta di racconti?

A essere sincera, alla fine, nessuna, o comunque molto poche. È forse più piacevole tradurre racconti, se ben scritti, perché quello slancio di freccia scoccata che li percorre, se sei fortunato, riesce a influenzare un po’ anche te che traduci.

Tu hai tradotto moltissimi libri soprattutto di autori americani, da DeLillo ad Ali Smith, e hai dichiarato che secondo te se gli americani raccontano bene, sono imbattibili. In una recente intervista a Giulio D’Antona pubblicata su Minima&Moralia, riferendosi soprattutto ai contemporanei, lui afferma: “La letteratura americana è una spianata uniforme di voci molto ben educate e non c’è (o io non vedo) molta possibilità di uscire dal coro”. Cosa ne pensi tu?

Come dicevo prima, non ho competenze e conoscenze che mi permettano di fare analisi di questo genere. Ma capisco cosa vuole dire D’Antona perché seppure la mia conoscenza della letteratura americana contemporanea sia infinitamente meno approfondita della sua, noto anch’io un’omologazione formale dei testi, si percepisce dietro l’influenza a volte deleteria (quando troppo normativa e uniformante e basata sulle ricette di quello che “funziona”, di quello che “vuole il pubblico”) delle scuole di scrittura e dello show-don’t-tell andato a male. C’è poi la strana convinzione, per quanto riguarda i romanzi, che se non sono di almeno 300 pagine non funzionano. Non so se sia ancora per l’inconscia ansia di scrivere finalmente il Grande Romanzo Americano, ma non è difficile capire perché dalla lunghezza alla lungaggine il passo è breve e che la voluminosità non giova necessariamente a qualunque tipo di testo indistintamente. E poi c’è un DeLillo che ha il coraggio, o meglio la libertà, di scrivere romanzi anche molto brevi (lasciando da parte Underworld) e lì capisci che gli editor e gli editori americani forse sì, più che gli autori stessi, dovrebbero rivedere un po’ le loro idee su quello che funziona davvero.

Nonostante abbia pubblicato molti racconti su riviste specifiche, abbia vinto il National Book Award nel 1991 e nell’85 il Jack London Short Prize, Lucia Berlin è stata fondamentalmente ignorata, e solo adesso, in Italia, si parla di lei. Come mai, secondo te, non siamo stati in grado di accorgerci prima di lei? 

Non lo so, rimane un mistero. Una mia ipotesi è che i racconti di Lucia Berlin cominciano ad avere l’effetto ciliegia uno tira l’altro, soprattutto dopo che ne hai letti un certo numero, perché all’inizio possono essere un po’ spiazzanti. E forse, in raccolte non particolarmente voluminose, non hanno avuto lo spazio e il respiro di cui avevano bisogno. Ecco, questo è un caso in cui la lunghezza del testo era davvero necessaria al libro, perché anche se è composto di testi brevi, a volte brevissimi, A Manual For Cleaning Women è un tomone voluminoso. Ma è voluminoso rimanendo leggerissimo. A modo suo, è un Grande Romanzo Americano.

 

Rimanemmo svegli in attesa di sentire i suoi genitori che lo facevano, ma non lo fecero. Gli chiesi com’era, secondo lui. Sollevò la mano e l’appoggiò alla mia, in modo da far combaciare le dita, e mi disse di passare il pollice e l’indice sopra i nostri pollici e indici che si toccavano.
Non capisci quale è mio e quale è tuo. Deve essere più o meno così, disse.

 

Giordano Tedoldi

 

a cura di Alfredo Zucchi

Nel quadro del recupero di libri italiani usciti negli ultimi dieci anni e andati, ingiustamente, fuori produzione, Minimum Fax ha pubblicato di recente una nuova edizione di Io odio John Updike, di Giordano Tedoldi, uscito per la prima volta con Fazi nel 2006. La nuova edizione è arricchita da un racconto inedito, “Sciarada”. Nell’introduzione alla nuova edizione di Io odio John Updike scrivi:

“Si dice delle raccolte di racconti che spesso c’è un filo comune, un personaggio unitario perché si teme la frammentarietà. Lo si disse, sciaguratamente, anche di questo libro, dieci anni fa. È falso: questo è un libro di racconti che non dialogano tra loro, che sono intrattabili l’uno rispetto all’altro, in cui ogni storia accampa tutti i suoi diritti sovrani a scapito delle altre. È un libro frammentario.”

Se non sussistono legami narrativi tra un racconto e l’altro, ci sono però temi che ricorrono con l’insistenza delle ossessioni: la relazione madre-figlio, gli scacchi, le macchine e in generale i beni materiali e il lusso, la sparizione e l’assenza (nelle figure volontaristiche della fuga e in quelle cliniche del coma, dell’ibernazione, della chirurgia invasiva). Le strutture stesse dei racconti sono in gran parte speculari. Questi legami tematici e strutturali, mi pare, fanno di Io odio John Updike un libro ossessivamente unitario: in questo senso, non ti sembra che, più che fare a gara tra loro, i racconti vogliano accumularsi, come per fornire un’immagine sempre più dettagliata della stessa figura?

Da dove discende la necessità dell’unità? Perché una raccolta di racconti deve essere unitaria? Perché persino un singolo racconto deve essere unitario? E anche riconosciuto che tale unità ci sia (un’unità di qualche genere, vaga, implicita o esplicita, è la cosa più comoda a trovarsi), perché soffermarsi su questa caratteristica formalistica, e non sulla forza dei dettagli, dei particolari, sulla indipendenza delle parti, sulla autonomia delle voci, delle storie, delle idee? Sulla novità? Sulla libertà dell’immaginazione che non si lega a alcun’altra immaginazione precedente o seguente ma sviluppa un sua isolata e densa visione? La paura del frammentario – non intendo il frammentismo letterario o poetico, che a suo modo consolidò nuove forme unitarie, che solo apparentemente e esteriormente si presentavano come frammenti – come la paura del grezzo, del non rifinito, dello scoordinato, è la paura che affligge chi antepone i problemi stilistici, formali, tecnici alle ben più importanti e vitali questioni, sfuggenti e afferrabili solo intuitivamente, che sono alla base della creatività. L’accumulazione è una variante ancora più povera dell’unità, una guida stilistico-tecnica che viene adoperata per sortire determinati effetti: in ultima analisi, un trucco, un espediente. L’arte non può ricorrere a espedienti se non in quei casi in cui le forze dell’artista sono arrivate al loro limite, e dunque solo in casi eccezionali, e, per così dire, in mancanza di meglio. Addirittura poggiare l’importanza di un libro sull’unità o sulla forza cumulativa vuol dire fraintendere completamente il libro, oppure, vuol dire che il libro è scadente. Devo dunque ribadire quanto scrivo nella prefazione alla riedizione di “Io odio John Updike”. L’ossessione non produce unità, l’ossessione fa vedere l’unità là dove non c’è, ed è, tra le ossessioni, una di quelle da curare. Sia detto en passant, nemmeno i romanzi sono unitari, se non quelli molto poveri di immaginazione.

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La voce narrante, in Io odio John Updike, non si esime mai dal mettersi in scena: se nei racconti in prima persona questo meccanismo è inevitabile, diventa invece una scelta precisa quando, nei racconti in terza persona, la voce interpella il pubblico, il fratello lettore. Questo procedimento è ancora più estremo in “Sciarada”, il racconto inedito che arricchisce la nuova edizione di Minimum Fax: qui, la voce dà del tu al personaggio, costruendogli intorno una sorta di membrana, un recinto dentro il quale muoversi – se non proprio una trappola. Quanto è importante la posizione della voce narrante nel determinare la natura  e gli sviluppi di una storia?

L’immagine della membrana avvolgente, per l’uso del “tu” rivolto al lettore nel racconto “Sciarada”, è molto appropriata, ed è quel tipo di scelte coscienti, tecniche, verso le quali in generale sono molto diffidente, ma che in questo caso mi sembrava sorgere insieme, innatamente per così dire, con la concezione del racconto. Se una tecnica è intercambiabile, è una buona tecnica, una tecnica efficace, ma resta solo uno strumento, un ferro del mestiere, e il mestiere rischia di distruggere la spontaneità di una storia. Gli scrittori tecnici sono troppo riconoscibili, le loro risorse troppo evidenti, la loro bravura troppo ruffiana, le loro parole solo parole e, spesso, portano i segni dello stesso male degli scrittori molto poco tecnici: la prolissità. Dunque la posizione della voce narrante, io direi più precisamente l’ordine della voce narrante, deve essere dettata da null’altro che il seguente criterio: non deve porre ostacoli alla narrazione e alla lettura, e se possibile facilitarla. Deve concrescere con l’idea della storia. In altre parole non è che una questione di mettersi a proprio agio, di comodità, né più né meno di quando andiamo a letto, e ci mettiamo nella posizione consueta e più rilassante per addormentarci. Tutte le altre considerazioni di prospettiva, posizione, distanza, sono deduzioni secondarie e sostanzialmente irrilevanti, che ammantano un racconto di una caratura tecnica fasulla.

“Un racconto è una struttura, ma ora ho bisogno di destrutturarmi per tentare di raggiungere un’altra struttura più reale e veritiera; un racconto è un sistema chiuso e perfetto, e io voglio farla finita con i sistemi e i meccanismi di precisione per riuscire a addentrarmi nel laboratorio centrale e lavorare sulla radice che prescinde da ogni ordine e sistema.”

Così scrive Cortázar mentre lavora al romanzo Rayuela – Il gioco del mondo (in Carta carbone, Edizioni Sur, 2013).  Tu sei autore di racconti e romanzi (I segnalati, Fazi, 2013). Cosa cambia, dal punto di vista compositivo, tra un racconto e un romanzo? Si può dire, con Cortázar, che un racconto non solo non dice le cose allo stesso modo di un romanzo, ma dice cose diverse?

Il racconto, come credo di aver accennato nelle risposte precedenti, non è un sistema chiuso e perfetto, e chi lo asserisce si compiace di un’illusione, per poi compiacersi ulteriormente credendo di averla infranta scrivendo cose “imperfette” che però vadano “alla radice”. A che scopo andare alla radice se non per disperatamente tentare di dimenticare il sapore dolciastro di frutti di cui si è fatta indigestione? Come si può “prescindere da ogni ordine e sistema” se non, sia pure dialetticamente, negativamente, essere vincolati a un qualche “ordine e sistema” rispetto al quale si muove la propria velleitaria rivolta? Anche io, quando dico che i miei racconti sono “frammentari”, devo inevitabilmente rinviare a un qualche ordine o totalità rispetto al quale ha senso il mio definirli frammentari, ma è una comodità linguistica, ciò che veramente intendo è: cessiamo di scrivere, e di ragionare sulla scrittura, a partire da astratti principi di struttura e destrutturazioni, unità e frammenti, patetiche imitazioni matematizzanti e platoniche. Il platonismo è una cosa seria, troppo seria per lasciarlo in mano a Cortázar. Dal punto di vista compositivo, tra un racconto e un romanzo, cambia solo questo: che un racconto muore a vent’anni, un romanzo a circa sessantacinque o settanta (certo, ci sono anche i centenari). Dicono cose diverse? O dicono le stesse cose in modo diverso? A qualcuno importano davvero queste cavillosità di pedanti?

Nei tuoi racconti, ellissi e sospensione hanno un ruolo fondamentale. Allo stesso tempo, l’impressione più forte, in particolare in racconti come “Amore freddo” e “The Leading Hotels of the World” (in cui il libro, a mio avviso, s’impenna), è la persistenza di un elemento irriducibile, di un nodo che non si scioglie perché non può sciogliersi. Se è così, se il nodo non si scioglie, come si conduce il finale di un racconto?

Il finale di un racconto non si può scrivere a forza, tantomeno seguendo un vademecum, ma certamente, a suo modo, alcuni dei nodi (e forse tutti, benché certo non siano chiaramente enumerabili) della storia li deve sciogliere. I nodi che non si possono sciogliere sono sciolti rivelando infine all’intuizione del lettore che, appunto, sono insolubili. Non c’è altro modo di chiudere una storia che percependo un sentimento inconfondibile che è appunto il sentimento della fine. Un sentimento antico, umano, col quale conviviamo ogni giorno, e che sappiamo riconoscere molto bene. Le cose, in sé, non finiscono. La fine è un senso interno, e non tutti concordano che un finale sia compiuto, o sia tronco (cioè che manchi un “vero” finale), perché hanno idee diverse su ciò che è “finale”. Ma tutti hanno un’idea di qualcosa di finale e dovrebbero a ogni costo restare fedeli a essa, respingendo al mittente finali suggeriti da altri. Gli editor che suggeriscono un finale (credo accada, possa accadere) si prendono la responsabilità di corrompere irreparabilmente un’opera, a prescindere dal fatto se il finale suggerito “funzioni” o meno. Inoltre, la fine di un racconto rivela se l’idea suprema di fine – che è un’idea, ripeto, generalissima, universale, che ha a che fare coi nostri rapporti con gli altri e col mondo - di un autore è nobile, oppure mediocre. Il che non vuol dire che un finale nobile deve essere grandioso, eclatante, “a sorpresa” e altre frivolezze del genere, oppure, al contrario, per evitare effetti retorici, un finale che va volutamente smorendo, dolce, delicato. Non è una grandezza misurabile, un effetto scenico calcolato con largo anticipo (benché, certo, un finale spesso possa essere presentito), deve solo corrispondere a quel sentimento della fine di cui parlavo, un sentimento difficilmente analizzabile perché, com’è risaputo, contiene paradossalmente le premesse di nuovi inizi che, naturalmente, restano inespressi, non detti.

Valeria Parrella

a cura di Giuliana Riccio

“Tienimi alla giusta distanza da quelli che amo, Dio, cazzo…Tienimi alla giusta distanza dalla morte, Dio, cazzo”

Dice Bud, il protagonista di Behave, uno deiracconti più belli di Troppa importanza all’amore.
Queste due frasi, sparse in momenti diversi della narrazione, connotano con grande efficacia la natura dei tuoi personaggi e di tutto l’impianto narrativo del libro: un testo sulla verità, la ricerca della verità, e di conseguenza sull’amore.  I personaggi di questi racconti ci si presentano nel momentoin cui ,faccia a faccia con se stessi,  sono pronti finalmente a dirsi quello che hanno sempre saputo e che per un motivo o un altro hanno sempre dimenticato di dirsi.  Li vediamo nell’atto di fare di questa consapevolezza l’incipit di una nuova vita e qui, sulla soglia di un prossimo inizio, li perdiamo. Sembra che la tua urgenza narrativa sia concentrata non sul dopo ma sull’attimo prima del dopo, il momento in cui il divenire si concretizza in una possibilità o semplicemente una certezza. Così facendo riesci sempre a mantenere quella  giusta distanza dai personaggi e dalle loro storie che consente alla scrittura di non morire, di restare sempre fresca, mai stanca. In questo senso, quanto credi che la forma del racconto possa essere utile, in virtù delle sue caratteristiche spazio-temporali, a preservare lo scrittore dal rischio di annegare nelproprio personaggio e banalizzarne la storia trasformandola in tesi?

Ciao. Premetto che ho letto con grande interesse questa tua osservazione, ma anche voltandomi un po’ di là, perché io questa lettura dei miei stessi racconti non la posseggo del tutto, e diciamo che non la voglio possedere del tutto. Diciamo che io non ci penso mai. Stano nei libri degli altri (in questo momento lo sto proprio facendo con Alice Munro) i meccanismi narrativi, o quelli drammatici, ma poi quando devo scrivere io ne sto alla larga.
Ecco: allora forse, proprio in questo non guardare direttamente, tenersi alla larga gioca la giusta distanza che tu generosamente trovi nei miei racconti. In quanto alla scelta del racconto: io fosse per me scriverei solo quelli. Ma forse non scrivo solo quelli? Tranne ‘Lettera di dimissioni’ che accompagna un personaggio dall’infanzia ai quarant’anni (ma lo fa anche “Chi ti credi di essere?” di Alice Munro, che poi alla fine sono racconti) tutto il resto della mia produzione non è incontrare i personaggi a un certo punto e lasciarli andare?
Chiaro che più breve è il percorso più è riuscito l’esperimento.

Nella forma del racconto la tua penna sembra muoversi come la Giulia, di Il giorno dopo la festa:

“Allora io andai rabbrividendo nell’acqua vitrea del mattino, ma dopo pochi minuti già nuotavo e non avevo più freddo. Davanti a me, una bracciata sì e una no, vedevo le barche lente all’orizzonte. Avanzavo e a ogni metro sentivo che l’ acqua mi alleggeriva e sosteneva”

Giulia non nuota oltre la baia e in questo suo stare dentro una conca, metaforizza il senso stesso del genere racconto: una nuotata perfetta che sa esattamente quando fermarsi per non perdersi nell’infinito.
Quando scrivevi negli ampi confini del romanzo, al contrario, ti sei mai sentita sopraffatta dallo spazio bianco? Da una nuotata oltre confine? Le sponde del racconto permettono alla tua voce di avanzare con maggior sicurezza/naturalità?

Forse allora ti ho già risposto, non so: io non ho mai la sensazione di perdermi, mi dispiace se il lettore si è perduto….anzi quando scrivevo ‘Lo spazio bianco’ la scrittura mi serviva proprio per arginare l’inedito. Nominare, limitare, decidere dove sta il limite, guardare. Non lo dico in senso terapeutico, lo dico proprio in senso letterario: tenermi ben stretta alla scrittura è la mia forma dello scrivere. Altra non ne ho. Decidere che lingua usare, come e quanto usarla per dire e come e quanto usarla per celare. E poi ‘Lo spazio bianco’ sono 120 pagine. È un romanzo? Mah?

Alcuni di questi racconti erano già apparsi in altre vesti, in altri luoghi. Come l’hai costruito questo libro? E come pensi che si pongano gli scrittori contemporanei rispetto alle raccolte di racconti: le ritengono dei libri compiuti con una loro anima viva, o pensi che spesso i racconti siano delle tappe per riposarsi tra un romanzo e l’altro?

La scrittura e la pubblicazione sono due cose diverse. Quando io scrivo racconti, (e lo faccio continuamente, anche mentre sto scrivendo altro, in maniera random, quando penso alla storia, e non sistematicamente) corro libera nel praticello. Ho tredici anni e ho passato lo steccato, ora c’è solo da correre nell’erba, poi buttarsi a terra per la stanchezza, evitare di pestare le cacche di mucca. Qualcun altro penserà a far da mangiare quando sarà ora. Ogni tanto ho un bel po’ di questi racconti e verifico se l’editore ha voglia di pubblicarli. Allora lì si cominciano a scegliere in base a una coerenza interna (che non può mancare giacchè l’autore è lo stesso!), e alcuni usciti in rivista per esempio sono piaciuti più di altri originali. In questa raccolta avevo un racconto molto bello, ma alla mia editor non convinceva proprio. Lei ci voleva mettere un altro racconto che a me invece non convinceva proprio. Allora ho detto: mo ne scrivo un terzo. L’ho scritto in una settimana, è ‘Gli esposti’: e siamo state d’accordo tutte e due a metterlo nella silloge

Leggendo il tuo libro ho più volte ripensato a Fuochi della Yourcenar. Anche lì, come qui, un percorso che prende le mosse dall’amore per ritrovare una strada più che perduta, abbandonata, e che, attraverso dialoghi rarefatti, che non chiamerei proprio monologhi, poiché scorgo un dialogare costante con l’al di là del proprio io, riesce a ritornare a galla, alla coscienza non solo di chi scrive, ma anche di chi legge. Il tutto scandito da un ritmo drammatico che non fossilizza mai il testo. In questo riconosco la forza del teatro: la capacità di dare consistenza alla voce e di trasformare le descrizioni in azioni. Quanto la tua esperienza in scena ha arricchito, trasformato, la tua forza narrativa?

Stai diventando la mia intervistatrice preferita, lo sai? Fuochi l’ho letto e riletto quando scrivevo Clitemnestra. Che alla fine è una novella, ma è stata portata in scena. La verità è che io per la scena scrivo solo di eroine demoniache e alte: Antigone, Euridice, la protagonista di ‘Ciao maschio’. Cioè, come ti può dire qualunque regista e critico, io non scrivo “per la scena”, ma scrivo storie dialogate o monologanti che possono essere “tradite” per la scena. Dentro c’è tutto. Nell’ultimo lavoro, ‘Assenza’, faccio dire a Hermes un sacco di cose: cenere, ginestra, pira, satiro, etc etc., cose che il regista ha deciso di utilizzare come elementi scenici. Un altro magari gliele faceva recitare. Se, però, leggi il testo nel volumetto Bompiani, senza la messa in scena, regge lo stesso. Non c’è manco una didascalia.

“Lo trovo onesto, dire ciò che si pensa. Non è garbato, direbbel’ assistente sociale.
L’ assistente sociale non è una che dice quello che pensa. Èuna morta. Non è un modo di dire,questa cosa qua a me riesce bene: io quando dico , sto proprio dicendo morto. Sto dicendo che dentro le persone normali, che camminano, fanno le loro cose, io vedo i morti”

Colpisce, in questo libro, la tua capacità di fare del mondo contemporaneo, con le sue drammaticità e le sue incongruenze, uno scenario a un tempo potente e discreto. I fatti che compaiono in queste pagine, benché tragici, non prendono mai il sopravvento sulle scelte deituoi personaggi . I dilemmi, le storture attuali del nostro sistema politico ed esistenziale ci sono tutti: il precariato scolastico, la fugacità dei rapporti coniugali, la prostituzione, il fantasma evocato del Mar Mediterraneo, del mare nostrum non più innocente, della paradossale situazione degli ergastolani, costretti a scontare una pena che non si può scontare.

È questa una conseguenza spontanea del tuo essere al mondo e nel mondo, o una scelta legata al tuo modo di intendere l’arte?  Credi che uno scrittore, oggi, per essereautentico, per non creare libri morti, possa prescindere dalla Storia/ cronaca quotidiana?


Vorrei pensarlo. Ma sono nata nel 1974 e sono cresciuta a pane e Nilde Jotti. A casa mia si vedeva Fantozzi perché faceva la lotta di classe. A me faceva ridere. Quest’anno l’ho rivisto assieme a mio marito e ci siamo tormentati a rivederlo da grandi: è un capolavoro di cattiveria orrenda. Vorrei scrivere una storia per il solo piacere di affabulare ma non ci riesco, non mi sento chiamata al mondo per questo. Non credo che se un libro è lontano dalla sua epoca (non in senso temporale ma di impegno politico/civile) è morto, anzi! Li leggo felicissima da lettrice e sono grata a chi mi dona questa parentesi. Io credo che l’unico vero “ingaggio” dell’artista è fare cose belle. Punto. Ma sono laureata in lettere classiche, e la kalokagatia di Saffo mi è entrata sotto pelle. Che ci posso fare?