Nasce Cartaceo, una nuova rivista tutta su carta

cartaceo.jpg


di Andrea Cafarella


Il 23 febbraio è stato presentato il numero Ø di una nuova rivista. Si chiama «Cartaceo». A cura dell'associazione Artnoise. Si tratta di uno spazio ibrido ed esclusivamente di carta (per questo motivo non troverete altre notizie sul web: una pagina Facebook o instagram dedicate). Ibrido perché prova a mettere insieme, in un singolo pieghevole d'arte, illustrazioni e testi di artisti molto diversi, che dialogano su un tema, un argomento specifico. Per il numero Ø è stato scelto «Mediterraneo» e vi hanno partecipato Giulia Caminito, Alvise Masto, Sandro Mele, Andrea Orlandi e Luana Perilli. Noi di Cattedrale abbiamo deciso di presentarvi questa rivista atipica attraverso una breve intervista a una delle redattrici (Giulia Priore) e, a seguire, il racconto di Giulia Caminito pubblicato su questo numero pilota. Inizierei chiedendo a Giulia come nasce Cartaceo.


In che modo e in quale occasione avete deciso di iniziare a lavorare a questo progetto? Quale è la genesi di Cartaceo?

 

Giulia Priore: Cartaceo nasce da Artnoise, associazione che si è occupata d’arte e cultura online. Dopo aver scritto, tra le altre cose, di cinema, danza, letteratura, abbiamo deciso di dare uno spazio nuovo agli artisti, dedicato solo a loro, in cui potessero esprimersi ognuno a proprio modo su un unico tema, senza il nostro intervento diretto. Abbiamo scelto la carta perché la stessa rivista doveva essere, nella nostra visione, un manufatto, un oggetto artistico con cui sperimentare. Oltre a essere una sfida e una piccola provocazione nei confronti dell’online (di cui tutti noi ci siamo serviti senza problemi con Artnoise), è stato anche un modo per dare uno spazio chiuso e delimitato, una gabbia formale, oltre che tematica, agli artisti che hanno partecipato per stimolare la loro creatività.

Volevo chiederti io stesso qualche ragguaglio sull'idea di incentrare tutto sul supporto di carta (fino a farlo diventare il nome stesso della rivista) in un mondo, quello delle riviste, che sta sempre di più migrando verso la dimensione web. Mi piacerebbe sapere un po' quali sono le conseguenze e le difficoltà dell'utilizzo esclusivo della forma fisica della rivista, anche se è un po' presto per dirlo.

 GP: Per il momento noi abbiamo vissuto solamente la parte positiva di questo esperimento. Nel senso che abbiamo ragionato insieme sulle opportunità che il supporto cartaceo ci poteva dare ed è stato stimolante proporre agli artisti una forma diversa (non nuova però) su cui potersi esprimere. Detto ciò, la carta non è per noi un territorio sconosciuto, noi tutti leggiamo ancora soprattutto libri nel formato tradizionale, quindi è stato un pensiero abbastanza naturale voler creare una rivista su carta. È stato nel momento in cui ci siamo resi conto che stavamo escludendo l'online che abbiamo capito che stavamo lanciando una sfida a noi stessi soprattutto. Oltretutto la scelta del tipo di carta, l'attenzione che abbiamo avuto per la resa dei colori e anche il sistema della piegatura (di cui è ideatore Paolo Girella) hanno aggiunto valore all'oggetto artistico in sé della rivista. Le conseguenze di questa scelta si vedranno nel tempo e sono legate soprattutto alla distribuzione. Ogni tema proposto da Cartaceo, secondo la nostra idea di partenza, deve essere occasione per creare momenti di discussione che vanno oltre i confini della rivista. Per ora chi vuole avere Cartaceo deve rivolgersi a noi e seguirci sulla pagina facebook di Artnoise per eventuali iniziative.

 

Cartacea è la forma. Ma parliamo invece, adesso, del contenuto. Come nasce questo numero Ø? Perché il tema «mediterraneo» e come è stato declinato dai vari artisti e perché proprio loro per dialogare su questo tema? Raccontaci un po' di questo numero pilota, il suo concepimento, la gestazione e infine il parto.

GP: Il tema «mediterraneo» è arrivato abbastanza facilmente. Si tratta di un territorio a cui apparteniamo, intanto, e che ognuno vive a suo modo. Il nostro obiettivo era quello di disegnare una mappa di tutti i punti di vista possibili e in parte speriamo di esserci riusciti. Infatti, ogni artista ha raccontato una storia differente: c’è chi ha parlato di un rapporto più intimo con il mare, chi di denuncia, chi di disperazione, chi di fuga e di salvezza. È un tema inestinguibile su cui si può costruire un dialogo stimolante e costruttivo. La fase di gestazione è stata lunga anche perché ci tenevamo a far interagire le opere e dare avvio a un ragionamento che andasse al di là dei confini della rivista.

 

So che ti sei occupata personalmente dei testi contenuti in questo numero della rivista, ti chiedo allora di presentarci brevemente il racconto che segue questa conversazione e lasciare ai nostri lettori qualche coordinata in più su come e dove acquistare Cartaceo e su dove e come contattarvi per eventuali proposte, informazioni, richieste. Sia in quanto lettori e librai che come autori o eventuali aspiranti tali, desiderosi di potervi mandare i loro contributi (ammesso che questa sia una possibilità da voi contemplata).

 GP: Io e Paolo Girella ci siamo occupati del testo e dei rapporti con Giulia Caminito. Posso dire che lei ha scritto il testo su nostra commissione e ha proposto una storia del mediterraneo dal punto di vista dell’Italia, di chi vuole fuggire da una vita difficile. È stato interessante mettere a confronto il punto di vista di questo racconto con quello delle altre opere, perché va in direzione inversa, propone una visione in cui l’Italia non è il paese a cui arrivare bensì quello da cui scappare, raccontando una storia molto personale con lo stile senza respiro e pieno di immagini di Giulia Caminito.

Continueremo il nostro percorso scegliendo per i prossimi numeri scegliendo temi urgenti, contingenti e controversi, perché il nostro obiettivo è di porre una domanda e di creare una discussione che oltrepassi i confini di Cartaceo con presentazioni, dibattiti, tavole rotonde, per usare l’arte come punto di stimolo e motore per comprendere.

Per contattare la redazione della rivista basta andare sul sito di Artnoise oppure contattare noi personalmente. Inoltre a breve è prevista probabilmente un’altra occasione per comprare Cartaceo, nella cornice di un festival dedicato alla musica del mediterraneo come l’Errichetta festival (il 4 maggio all’Angelo Mai) e anche un incontro-dibattito sulla natura e il futuro delle riviste cartacee da Tomo Libreria a metà primavera (data da definirsi).

 

Ringraziamo Giulia per il suo tempo e le sue parole e vi lasciamo alla lettura di «Mareggiata» di Giulia Caminito, invitandovi a cercare Cartaceo e acquistarlo, per il vostro bene.

 

52729359_1055445717974009_211299716514709504_n.jpg


MAREGGIATA
di Giulia Caminito

 

Le braccia le dolevano, scintillavano, luci al tramonto, il sudore le rendeva lucciole e comete. 

Bianca aveva remato onda su onda, nella lontananza. Era sdraiata, guardava un cielo pesto, preso a pugni dal mondo, il suo fiato era polvere, fumo di comignoli, fuoco quasi spento. Non si era mai fermata. 

Il molo di Ostia era lontano anni luce, come le estati al Kursaal, le grattachecche e il secchiello con sopra disegnati cavallucci e soli raggianti. Il gelato verde pistacchio schiacciato sul marciapiede, lo struscio della domenica dopo pranzo. 

Mentre navigava pensava e ripensava alle mani di suo padre alle cinque del mattino, con quelle impastava farina e uova, gli strati di burro. Lei e Antonio, suo fratello, dovevano mettere i croissant in fila nelle teglie, fino a mille brioche ogni mattina, tutti i bar dei ricchi di Campo dei fiori si rifornivano da loro. 

L’acqua fuori dalla barca era una lastra di vetro, Bianca non sperava più in qualche guizzo, un banco di acciughe, un pesce chitarra, gli occhi tondi di una murena, il mare era cocciuto nel suo silenzio, mentre lei voleva naufragare verso le colonne d’Ercole, dove il mondo doveva finire a tutti i costi, cambiare, diventare altro, morire e tornare giovane.

Se chiudeva gli occhi immaginava lo zucchero semolato e la vanillina, la marmellata di fragole, il bianco della panna, le scatole rettangolari con il marchio inciso sopra “Remo e figli”, e Antonio che partiva in Vespa per le consegne.

Erano passati trent’anni, la loro bottega di pasticcieri era diventata una tana dove lo zucchero aveva l’odore del bitume. Avevano deciso di non vendere l’attività solo per permettere a suo padre di svagarsi, da quando la madre non c’era più, incastrati in quella casa da collezionisti di cattive abitudini, senza di lei erano spogli, presi sotto da un rullo compressore. 

“Papà ha bisogno di qualcosa da fare” aveva detto Antonio, accasciato sul divano, il dolore al fianco, il fegato andato a male, non poteva più stare in piedi per ore, non poteva più fare le consegne, non poteva più preparare le brioche alla mattina. “Lasciamogli la bottega, resistiamo un altro po’”.

Così il vecchio padre, ogni giorno alle cinque, faceva cento cornetti da vendere ai dirimpettai, quelli che non avevano dato le attività in gestione ai cinesi, ai russi, ai giovani italiani che amavano tanto le apericene e i cocktail bar, le tapas, i drink, i cornetti Algida surgelati, i forni elettrici.

Si erano detti chi resta deve capire, i figli devono piangere i padri, le madri devono lasciare bomboniere chiuse in soffitta. 

La loro attività stava cadendo a pezzi, stucco dopo stucco, muro a muro e piastrella su piastrella. Si sgretolavano. Il prezzo basso che Don Gregorio, il prete che gestiva gli affitti della zona, gli aveva fatto per anni ora non bastava più, i nuovi preti volevano gli interessi, i nuovi preti volevano farci aprire un centro estetico, le lampade ultraviolette, le unghie di plastica, l’abbronzatura perfetta.

Quando era bambina sua madre le diceva che il loro mare non era come l’oceano, il loro mare era sicuro, piccolo, navigabile a vista, una scodella piena d’acqua appoggiata sul mondo. Roma, Olbia, Algeri, Gibilterra. La Grecia, il Libano, Creta, la Turchia. Tutto era a portata di navigatore. Il mare dava consigli. Il mare le diceva di scappare, di non desiderare altro che un porto nuovo. Lei era in guerra con se stessa, a volte pensava di volersi far sommergere, perché sotto l’acqua arrivano attutite anche le grida peggiori.

In realtà la sua vita era già stata una lunga apnea. Anni prima, mentre la madre era ancora viva, Bianca aveva scoperto che Gaetano, suo marito, andava a letto con la cognata e gli aveva fatto presente la cosa, lui s’era adirato, “Stai sempre a pulire, non si scopa mai e manco resti incinta”, se n’era andato di casa, aveva chiamato un avvocato. Lei che faceva la massaia o aiutava il padre in pasticceria, d’improvviso non aveva avuto di che pagare mille euro d’affitto, il suo letto comprato usato, la cucina di Ikea, il tappeto multicolore, le poltrone vibranti davanti alla tv. Aveva riempito valigie per le vacanze con i resti della moglie che era stata.

Bianca si affacciò dalla barca, le stelle di mille universi, di galassie a frotte, di moltitudini e disastri, di spegnimenti e risurrezioni, si specchiavano nel Mediterraneo, la culla dove lasciarsi oscillare, da un continente all’altro, come una pallina da flipper. Bianca voleva venire lanciata, scagliata da costa a costa, aveva smesso di remare, aspettava le onde, voleva incagliarsi su fondali bassi e sassosi. 

Quando era tornata dai genitori, dopo il divorzio, aveva trovato la sua vecchia camera piena di gingilli, nastrini, scatoline, regali incartati, fogli d’avanzo, fotografie infilate in contenitori di metallo, vecchie confezioni di cioccolatini, e aveva chiesto a sua madre “Perché?” che ci faceva quella marea di cianfrusaglie a infestare ogni stanza, ogni angolo della loro passata dimora, della famiglia che erano stati e non sarebbero stati mai più. 

“Voglio conservare tutto” aveva risposto lei, come se ciò bastasse a porla dalla parte del giusto, in quella geometria di corpi sbagliati, in quella vecchiaia senza pensione, in quei solai dove abitavano mostri e vampiri. Voleva tenerli lì, immobili come gli angeli sui ponti, in corridoi umidi e carte da parati ingiallite, sarebbero sempre stati bambini. 

Non si buttava via niente non si spostava nulla, Bianca entrava in camera in punta di piedi, il padre le ripeteva “Quando tua madre morirà puliremo” e ora che era morta le anticaglie erano diventate le offerte al suo mausoleo, “Non riesco a liberarmi di nulla, tutto mi ricorda di lei”. 

In molti avevano detto a Bianca che i viaggi fanno trovare la propria meta, anche lei avrebbe chiesto asilo all’infinito, profuga di patria cattiva, un barcone sugli scogli. Il mare si portava via il tempo, da quanto era partita? Ore, giorni, mesi. La tempesta, la pioggia, il sole, la massa salina: si sentiva sconfitta. Non vedeva all’orizzonte altre imbarcazioni. Non vedeva l’orizzonte, in verità.

Dopo il divorzio e la morte della madre, c’era stata la notte della fuga. Stanca di vivere tra i fantasmi, era scappata di casa, via da quel padre antico, lontano da quelle mura tombali, quasi avesse sedici anni e non quaranta, e aveva dormito in macchina, la sua unica proprietà. Non aveva i soldi per la revisione o per l’assicurazione, l’aveva parcheggiata vicino al parco, ci passò quella notte. Soffrì il freddo e il silenzio di quell’abitacolo, che non era nave o porto, ma l’ultimo punto d’attracco prima della disperazione.

Il giorno successivo si era alzata, dolorante, era andata alla bottega con un’ora di sonno. I nuovi preti erano entrati forzando la serratura e avevano murato la porta. Lei, suo padre e suo fratello erano rimasti fuori. Remo piangeva sull’uscio, nei suoi novant’anni di capelli caduti e calzoni di fustagno, chiedeva “E ora?” senza fare i conti con la fine.

“E ora niente, papà.” 

Lo aveva riportato a casa, si era decisa a trovarsi un altro lavoro, puliva le case delle signore, degli studenti sfaticati, delle madri in carriera, spolverava miniature di vetro, libri dalle coste colorate, sotto letti di calzini spaiati, buttava e differenziava, le bucce nell’umido, la carta solo pulita, la plastica va sciacquata, sturava lavandini dai resti delle cene altrui, raccoglieva assorbenti dal fondo dei cestini, cambiava asciugamani e saponette. 

Tutto quello che conta è andarsene, lo fanno in tanti nel mondo, doveva farlo anche lei, si ripeteva, con lo spazzolone da water in mano, trovare il proprio posto nelle cartoline da costiera, mappare le insenature e le foci dei fiumi, arrivare ai confini, per farsi travolgere dalle brezze salmastre, essere marinaio e conchiglia.

Per questo era partita, barca senza vela, braccia senza motore, aveva rubato una bagnarola, proprietà di amici di amici, in quell’Ostia infantile, remota e dimenticata. Si era messa a remare nel Mediterraneo, il mare che non è oceano, voleva trovare la salvezza tra la spuma e le alghe, le telline e le meduse, essere mareggiata.

Le avevano detto che il mare porta speranza, e lei ci aveva creduto.