Una libellula di città, intervista a Tiziano Scarpa

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L’ultima opera di Tiziano Scarpa è Una libellula di città, e altre storie in rima, edito da minimum fax.
Trenta racconti in rima. Storie strane, fantasiose, impossibili, i cui protagonisti sono uomini e donne, ma anche alberi e animali che non sopportano il modo in cui è organizzata la vita e cercano di reinventarla con mille esperienze avventurose. Un albero di sradica da sé per rotolare giù dal bosco in collina dove è costretto a vivere; una giocoliera assassina fa numeri da circo con i globi oculari delle sue vittime; un elefante con un sassofono al posto della proboscide cerca l'anima gemella; una libellula conosce in poche ore la pienezza dell'esistenza; un misantropo vive su un faro che si stacca dalla costa e naviga nell'oceano; un regista di film horror muore e diventa uno zombie di successo; una falena dissidente è attratta dal buio. Ciascuno di loro cerca l'amore e la verità, e trova sempre quello che si merita.
Tiziano Scarpa dà vita a una galleria di personaggi indimenticabili, scolpiti dalla metrica e dalle rime baciate, abbracciate, accarezzate, qualche volta accoltellate e strangolate.

Alfredo Zucchi ha intervistato l’autore per Cattedrale.


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di Alfredo Zucchi


Mi ha sorpreso molto la leggerezza canzonatoria – forse proprio per questo efficace – con cui tratti temi difficili (la morte, le illusioni, l’entropia). Come se questa forma (i versi, la rima baciata), paradossalmente, ti permettesse di andare dritto al punto.

Guarda, io cerco di evitare il Kitsch, sempre. Ogni opera d’arte, alla fine, è un tentativo di tenersi alla larga dal Kitsch, cioè dalla falsità nell’affrontare la bellezza e il male. Se parli di cose belle da un punto di vista bello, produci Kitsch. E se parli di cose brutte da un punto di vista brutto, produci un equivalente del Kitsch, il suo opposto simmetrico: un nichilismo manieristico. Parlare di morte, angoscia, disperazione, suicidio con una metrica fissa e rime baciate è guardare alle cose brutte da un punto di vista bello, è far sprigionare una differenza di potenziale fra il gelo e il fervore, fra l’amaro e il dolce, fra l’abrasivo e il morbido.

 

Da dove viene l’idea di scrivere Una libellula di città?

È il mio “libro segreto”, me lo porto dietro da tanto. Queste storie in rima ho cominciato a scriverle nel 2000: quasi vent’anni fa! All’inizio non pensavo che potessero diventare un libro, le scrivevo e basta, mi inebriava l’esperienza fortissima di inventare una storia in cui le immagini si impastano ai suoni e al ritmo delle parole. A differenza di un racconto in prosa, narrare in metrica e in rima ti avvinghia profondamente alla lingua Madre, che ti detta i suoi accenti e i suoi echi: la lingua Matrigna, la lingua Materia dell’immaginazione. Ho continuato a scriverne altre, di tanto in tanto, mi piaceva moltissimo farlo, ma solo quando ero veramente ispirato. Poi, una decina di anni fa, man mano che le accumulavo, ho capito che erano molto di più di un passatempo saltuario, e che senza essermene reso conto stavo dando forma a uno dei miei libri più importanti.

 

Ho pensato alle Favole di Esopo, in particolare alla loro versione originaria, quella senza il “la storia insegna che” – l’assenza della chiusa didascalica e moralistica rende ai testi di Esopo una grande ricchezza e ambiguità interpretativa.

Fai bene a richiamare le favole: la libertà di abbandonarsi alla fantasia raccontando avvenimenti inverosimili, animali che parlano, eccetera, c’è anche in queste mie storie. E certe volte una specie di “morale” viene enunciata a chiare lettere; ma in generale è come dici tu: sono racconti e basta. E finiscono quasi sempre male.

 Quali sono i modelli a cui hai guardato?

Lo si vede da come cominciano queste storie. Nel primo verso è nominato un protagonista e il luogo da cui proviene: il richiamo evidente è ai limerick di Edward Lear. Ma quelli erano componimenti brevissimi, e si fondavano su invenzioni surreali, assurde. Queste storie invece non sono dei nonsense: sono racconti pieni di ribaltoni e colpi di scena, sì, ma hanno uno sviluppo narrativo coerente. Qualcuno ha anche chiamato in causa Rodari: con tutto il rispetto, le sue filastrocche erano metricamente sciatte. E poi le mie non sono filastrocche, non sono giochetti iterativi: sono storie in rima per adulti che affrontano questioni capitali dell’esistenza con una forma leggiadra.

 

Il mio testo preferito: “Un quindicenne di Poggio Bustone”. In questo, il ribaltamento finale della prospettiva è duplice e ancora più spiazzante. Qual è, tra i testi che compongono Una libellula di città, quello a cui sei più legato?

Be’, mi sembra chiaro, no? Gli ho dedicato il titolo del libro… La storia della libellula è l’unica che, per ora, so perfettamente a memoria: è diventata un mio talismano portatile; ogni tanto me la ripeto in testa, camminando per la strada, come una preghiera o un rosario personale. Forse la poesia è questo: una portatile liturgia della Parola, da imparare a memoria e recitare fra sé e sé, un’eresia individuale, un’orazione privata per supplicare e smuovere il proprio dio.

 

Dietro le scelte formali (decasillabi e endecasillabi, distici in rima baciata) c’è un’esigenza stilistica precisa?

L’endecasillabo è molto elastico, sa diventare solenne o frivolo a seconda della distribuzione degli accenti. Il decasillabo invece è più difficile da comporre e da gestire artisticamente: tutti i ritmi pari, infatti (i decasillabi, gli ottonari…), se non stai attento suonano come marcette o cantilene. E quindi il decasillabo risulta perfetto per ottenere quello che ti dicevo prima: parlare di cose belle da un punto di vista brutto, o viceversa. In questo caso, parlare di cose adulte e tragiche da un punto di vista formale che può apparire puerile e scanzonato.

 

In un’epoca in cui la letteratura ha quasi del tutto abbandonato la poesia, l’uso del verso – e della rima – produce un forte effetto straniante. Com’è stato scrivere Una libellula di città?

È stata un’esperienza fortissima, un’immersione integrale nella visione-indissolubilmente-legata-alla-lingua. Tutte queste storie in rima le ho scritte in uno stato di concentrazione intensissima, dimenticandomi del mondo intorno, proprio perché mi hanno fatto vivere un’immersione totale nella lingua, che coinvolge non solo il significato ma anche il ritmo e il suono delle parole, il loro corpo-anima indivisibile.

 

Quali le differenze rispetto agli altri tuoi testi in versi?

Sarò post-romantico, ma quelle della Libellula io non le considero poesie, o non del tutto: perché non sono testi lirici. Sono storie in rima, lo ripeto. E, per le caratteristiche che ti ho descritto prima, credo che questo libro, bello o brutto che sia, non abbia precedenti nella nostra letteratura (o almeno, a me non ne vengono in mente).

 

Infine, due distici che mi hanno colpito per chiarezza, profondità e misura:

 

“Compito immane, grave e leggero,

felicità, pensare il pensiero”.

“Fu così che le uccise: conoscendole.

Perse la sua visione illuminandola”.

 

Come si trasporta (si trasforma) l’attitudine al verso nella prosa?

Forse intendi chiedermi come mi sento quando, invece di scrivere in versi, scrivo romanzi? Sono due esperienze veramente incommensurabili. In prosa cerco di far sognare a occhi aperti chi legge, facendogli dimenticare che sta leggendo delle parole, delle sequenze di lettere alfabetiche: è come se stessi dando istruzioni alla sua immaginazione, perché si figuri la storia e la viva nei dettagli, nelle sensazioni, negli stati d’animo. La prosa è una postina che ti consegna una lettera. La poesia è una postina che ti parla, e mentre la ascolti fai caso anche alla sua voce, alla sua faccia.

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