L'uovo di Barbablù, intervista a Gaja Lombardi Cenciarelli

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di Debora Lambruschini


“Quando mia madre era molto piccola, a Pasqua qualcuno le regalò un cestino di pulcini.
Morirono tutti”.
(incipit di Momenti significativi nella vita di mia madre, p. 9)

 

Arrivata alla fine de L’uovo di Barbablù, torno indietro e l’incipit del racconto di apertura mi appare esemplificativo del tono e di una certa atmosfera che percorre questi dodici racconti di Margaret Atwood da poco pubblicati per Racconti edizioni. Una raccolta davvero ricca di spunti e chiavi di lettura, eppure, allo stesso tempo, organica, che comprende testi pubblicati più di vent’anni fa e altri mai tradotti in italiano. Uno spaccato dell’universo di Atwood, autrice prolifera e capace di confrontarsi ogni volta con forme espressive differenti, mantenendo saldi i punti centrali della propria sensibilità letteraria e intellettuale. L’uovo di Barbablù arriva in libreria nella puntuale traduzione di Gaja Lombardi Cenciarelli e confrontarsi con lei è stato il mezzo ideale per cercare di penetrare il mistero della scrittura di Atwood e tentare di comprendere alcuni meccanismi del lavoro di traduzione.

 

Di fronte a un autore prolifero e mai uguale a se stesso come Atwood, qual è il tuo approccio alla traduzione? Consideri il resto della sua produzione letteraria? In generale, come ci si addentra in un testo da tradurre?

L’approccio è sempre lo stesso: faccio silenzio dentro di me e mi metto in ascolto. Non si tratta di umiltà, è la conditio sine qua non di chiunque traduca. Nel momento in cui le si restituisce nella lingua d’arrivo, tuttavia, siamo noi traduttori a scegliere le parole, ma non riusciremmo mai a trovare quelle giuste (o, perlomeno, le più giuste possibili) se non avessimo prestato attenzione e accolto alla voce dell’autore. Mi permetto una precisazione, nel caso della Atwood: non è vero che non è mai uguale a se stessa. Anzi, nelle sue raccolte, tutte antecedenti al “Racconto dell’ancella”, c’è già il suo universo narrativo, quello che troveremo più avanti nei romanzi e nelle poesie. Chiaramente, conoscere l’autrice contribuisce a consolidare un’intimità lessicale, sintattica ed emotiva. È come camminare in una città conosciuta e amata. La ri-conosci e, proprio per questo, continua a stupirti.



Nel caso specifico di una raccolta di racconti come organizzi la traduzione? Per esempio, segui l’ordine di pubblicazione della raccolta originale? Ti confronti, laddove ci siano, con traduzioni precedenti?

Evito di confrontarmi con traduzioni precedenti. L’ho fatto in passato ed è stato disastroso. Preferisco affidarmi a me stessa, mi trovo bene con le mie scelte. Per quanto riguarda la traduzione di una raccolta, seguo l’ordine del testo che mi viene inviato. Sic et simpliciter.

Il testo in questione, si diceva, presenta davvero chiavi di lettura e spunti molteplici, tra cui tematiche ricorrenti nella produzione letteraria di Atwood, a partire dal discorso sul femminile: è, ancora una volta, la rappresentazione di una femminilità non stereotipata, spesso fuori dagli schemi, che si rivela in uno sguardo ampio sulla vita delle donne dalla pre adolescenza fino all’età matura. Sono giovani donne colte nel momento di passaggio all’adolescenza, che si confrontano con nuovi istinti, aspettative, e con il mondo degli adulti. Un mondo, quest’ultimo, di codici comportamentali ed equilibri che le protagoniste delle storie di Atwood mettono in discussione, a partire dal tema della maternità, forse l’ultimo tabù rimasto: 

“[…] è stato comunque scioccante e leggermente offensivo rendermi conto che mia madre potesse non essere totalmente soddisfatta dal solo adempimento al ruolo che il destino le aveva riservato:
essere mia madre”.
(Momenti significativi nella vita di mia madre, p.27)

 

Essere madre o, per contro, la mancanza di istinto materno, è un nodo centrale nella narrazione di Atwood, che ancora una volta sceglie di raccontare una delle innumerevoli espressioni del femminile, libera da schemi precostituiti. Non nega la maternità, l’istinto e l’affetto, come non nega il desiderio di famiglia, delle sue relazioni, anche nelle loro forme più tradizionali, ma dimostra che sono soltanto alcune delle innumerevoli possibilità e forme. L’idea stessa di famiglia assume contorni sempre diversi, i confini labili. Troviamo artiste che convivono più o meno pacificamente con ex compagni, amanti, amici e che almeno in apparenza sembrano adeguarsi a ciò che ci si aspetta da loro, al ruolo che le è stato assegnato; donne che si ritrovano a vivere quasi ai limiti della civiltà – per scelta personale o per aver seguito le necessità lavorative del compagno – assecondando i ritmi imposti dalla natura e un isolamento che ne rivela la profonda capacità di adattamento; ma anche famiglia nel senso più tradizionale del termine, di cui Atwood sottolinea le crepe, le imperfezioni, senza mai arrivare al punto di rottura, all’esplosione.
Ecco, la sensazione è proprio questa, di qualcosa che sta per finire o per cambiare in modo assolutamente radicale. C’è un certo grado di indefinitezza, Atwood quasi mai ci mostra l’esplosione, bensì ci spinge a interpretare gli spazi vuoti. Un’indefinitezza che è anche del tempo della narrazione, un tempo ampio, che va dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, e che appartiene anche ai luoghi – alle città, agli spazi aperti, alla natura, alle piccole comunità – , e alla forma stessa del racconto, il cui richiamo alla tradizione orale è fortissimo.



In un immaginario così ricco, non mancano considerazioni sul linguaggio, sulla capacità/incapacità di comprendere e farsi comprendere dagli altri, un argomento per sua natura molto legato al lavoro di traduzione, come non mancano, in generale, alcune riflessioni su scrittura e sull’arte che sono disseminate qui e là nella raccolta:

Sospetto che Atwood abbia letto Pirandello. Scherzi a parte, uno dei passi che più mi hanno segnato, da quando ho iniziato a scrivere (per tacere di quando ho cominciato a tradurre), è contenuto in “Sei personaggi in cerca d’autore”: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!
Chi scrive, chi traduce - e, in generale, chi si occupa di cultura e di editoria a vario titolo - lavora sempre con questa consapevolezza. 



Qual è stato il racconto più complesso da tradurre e per quale ragione?

La complessità della Atwood è l’uso della polisemia nel lessico per creare giochi di parole, allusioni, collegamenti intellettuali e, in generale, un mondo narrativo che trascende dalla parola scritta (grazie a uno stile molto potente ed evocativo). In questo senso, tutti i racconti sono stati complicati da interpretare, su vari livelli. Posso dire che, rispetto a Fantasie di stupro”(la prima raccolta di Atwood, pubblicata sempre da Racconti edizioni), L’uovo di Barbablù”ha presentato qualche nodo semantico più ostico, e di conseguenza, anche più gratificante da sciogliere.

Personalmente ho la sensazione che negli ultimi tempi il lavoro del traduttore trovi finalmente il riscontro, la rilevanza che merita: un ruolo fondamentale, che tuttavia non solo resta spesso nell’ombra ma anche scarsamente apprezzato. Che ne pensi a riguardo?

Forse se ne parla di più, ma sempre tra addetti ai lavori. I traduttori non sono ancora pagati adeguatamente per la mole di lavoro che sbrigano. I tempi di un traduttore sono lunghissimi e l’impegno e la fatica (mentale e fisica) non sono quantificabili. Per carità, ci sono piaghe lavorative ben più gravi in Italia (mi vengono in mente i crimini del caporalato), non voglio fare del vittimismo. Però ho l’impressione che la civiltà e l’eguaglianza passino anche dal giusto riconoscimento economico di chi lavora nella - e per la - cultura.

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