Spifferi, intervista a Letizia Muratori

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di Marina Bisogno
 

È in libreria, edito da La Nave di Teseo, Spifferi, il nuovo libro della scrittrice Letizia Muratori. Dopo aver pubblicato con Einaudi ed Adelphi, l’autrice si affida ad una casa editrice giovane ma audace sul fronte racconti. Spifferi, infatti, è una raccolta di sei racconti. Senza esitazioni, la Muratori delinea situazioni non ordinarie, conducendoci, tra l’Italia e l’America, verso la conoscenza di personaggi sopra le righe, sofferenti per certi versi, affetti da un male di vivere che un’ironia soffusa e necessaria stempera ad arte. La maestria linguistica della Muratori è imbarazzante: leggendola (specie se si è a digiuno dei lavori precedenti) si ha chiara la percezione di avere a che fare con una fuoriclasse della scrittura. Una constatazione che risana le aspettative dei lettori scafati, pretenziosi e che ritrovano in questi scritti l’arte della parola, della rifinitura narrativa, del raccontare senza tralasciare lo stile. Sono pagine di ossessioni umane, di scelte, di perdite: episodi a prima vista sconnessi, legati dalla ratio. Per scoprire qualche particolare in più abbiamo intervistato l’autrice.

 

Letizia, iniziamo dal titolo. Perché Spifferi?

Ce ne sono molti in queste pagine, direi che la dimensione aerea del fantasma difficilmente fa a meno degli spifferi: sono sostanza, mezzo di trasporto e annuncio. Ma il titolo può anche essere letto in chiave umoristica, come qualcosa di leggero e freddo che ti frega. La mia è una pagina sempre aperta agli spifferi, ai rischi quotidiani, alle intrusioni sottili. Però il titolo non lo ho trovato io, mi è stato suggerito da Livia Signorini cui feci leggere i racconti. Forse solo un'altra persona - in questo caso una lettrice attenta che mi segue da anni - può stanare quel titolo speciale che non vale solo per un libro, ma è il marchio di uno stile. 

Dagli umori dei suoi personaggi traspaiono tenacia, una certa vivacità, ma pure nostalgia, alienazione, umorismo. Lo sguardo del narratore, spettatore mai giudicante, attraversa questo caleidoscopio di sentimenti, al di là della diversità delle situazioni narrate. Possiamo dire che il fil rouge di questi racconti è una dimensione soprattutto emotiva?

I miei personaggi sono spesso umorali, è che mi piace esplorare i momenti spiazzanti in cui, reagendo in modo inatteso, come in preda a un riflesso, sorprendiamo noi stessi e chi ci sta accanto.

Da Rispondi a Dimitri e Miss Mucca, passando per Alla deriva in Antartide: è interessante osservare come in questi racconti mixa tragicità e paradosso, delicatezza ed esagerazione. Cosa le interessava raccontare scrivendo di Stefano, di Magda e di Pietro?

Sono figure a loro modo estreme, io non so raccontare l’equilibrio. I fantasmi del libro sono di due categorie: quelli, diciamo, tradizionali, nel senso che sono morti, e quelli vivi: uomini e donne, ragazzi e adulti, che si percepiscono, o vengono percepiti, come inconsistenti. In ognuna delle sei storie che compongono il libro si ripresenta il confronto tra il fantasma vivente e quello defunto: il rischio di non essere riconosciuti del resto si corre in eterno.

L’accoglienza dei migranti, la maternità surrogata, la malattia mentale: tra i temi dei racconti nella raccolta ci sono spunti sociali, di forte attualità. Come è arrivata a scriverne? Ci racconta l’assemblaggio dei pensieri nel momento creativo?

Contro tutti i dettami programmaticamente antisociologici e inattuali, che fanno tanto Letteratura con la elle maiuscola e spesso approdano a un cumulo di spazzatura presuntuosa, io parto spesso da uno spunto di cronaca, da ciò che si orecchia e circola nell’aria, mi interessa rivoltare la notizia, o la battuta del momento, dandogli un taglio diverso. L’accoglienza dei migranti o la maternità surrogata sono argomenti che hanno un tratto fantasmatico evidente e non potevo perdere l’occasione. Perché lasciare solo all’inchiesta il compito di svelare qualcosa di ciò che ci circonda?

In questi racconti domina Roma, anche se non è sempre presente. Riecheggia, anche quando scrive di Sondrio. Secondo lei, siamo anche i luoghi che raccontiamo?

Se Roma riecheggia anche a Sondrio allora vuol dire che qui abbiamo un problema…Battute a parte, sì: il luogo non è mai neutrale.

Secondo lei qual è la soluzione per un racconto stilisticamente perfetto?

Il finale, sintetico e rovesciato. Mi spiego: sintetico perché vi si concentra tutta la materia del racconto, speculare all’incipit, e rovesciato perché ti porta a rileggerlo in senso contrario. Il bello del racconto classico è che non ne esci, è un circuito chiuso. 

Ci indica tre, quattro racconti, non suoi, che ama o ha amato?

Uno dei miei racconti preferiti è Anniversario di matrimonio di Inoue Yasushi, splendido da tutti i punti di vista, è la storia d’amore più toccante del mondo, tra due spilorci patologici. Poi c’è Mavis Gallant, una maestra. Le pagine che lei stessa scrisse, introduttive alla raccolta Al di là del ponte e altri racconti, sono così incisive e nitide, rare nella loro capacità di restituire la macchina del processo creativo. Sul racconto non credo si possa dire molto di più, o di meglio. Infine, visto che qui si parla di fantasmi, vorrei citare “l’altro James”, Montague Rhodes James e il suo insuperabile Oh, whistle, and I’ll come to you, my lad (Fischia e io verrò da te). Chiunque si sia imbattuto in quel volto di lino gualcito non credo lo dimentichi più. Il suo è fantasma per eccellenza, fatto perfino di stoffa, una creatura di spaventosa e geniale ovvietà.

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