Bestiario sentimentale, intervista a Guadalupe Nettel

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di Rossella Milone
Traduzione di Giulia Zavagna

 

Da pochi giorni è in libreria Bestiario sentimentale, l’ultimo libro di Guadalupe Nettel pubblicato da La Nuova Frontiera e tradotto da Federica Niola.

La raccolta rientra nella migliore tradizione dei Bestiari: cinque racconti che danno forma a una grossa metafora tra animali e esseri umani, così simili in certi comportamenti, ma, anche, così diversi nelle loro conseguenze. Un universo zoologico in cui le persone, e le loro relazioni, vengono raccontate dalla lente lucida e ingrandita di una narrazione tagliante, di estrema eleganza.

Nel racconto «La vita matrimoniale dei pesci rossi», a un certo punto scrivi: Mentre leggevo, avvertii qualcosa di simile al rossore. La sensazione che dà scoprire i lati oscuri di un conoscente senza il suo permesso. Questa immagine, credo sia il modo migliore per iniziare a parlare dei racconti di questo libro, perché è esattamente la sensazione che si prova mentre lo leggiamo. Siamo noi a leggere, e siamo noi, anche, ad arrossire: e non solo perché diventiamo i testimoni dei lati oscuri dei personaggi di cui racconti, ma, a un tratto, ci rendiamo conto che arrossiamo per noi stessi, che quei lati oscuri, ci appartengono. È questo che fa la scrittura, secondo te: è un autentico specchio che permette al lettore di guardare se stesso?

Sì. Sono convinta che scrittura e lettura siano due strategie di autoconoscenza molto potenti. Pensare all’intimità degli altri ci spinge a riflettere anche sulla nostra. Per me, gli esseri umani sono come strumenti musicali. Un flauto e un contrabbasso sono molto diversi tra loro, ma producono le stesse note: do re mi fa sol, ecc. Le nostre emozioni equivalgono a quelle note. Per questo quando leggiamo un autore giapponese del XII secolo riusciamo a identificarci con lui. I costumi e le culture cambiano, le emozioni no. A volte, arriviamo a conoscere i personaggi di un libro meglio di quanto conosciamo i nostri stessi amici o familiari.

I pesci combattenti, gli scarafaggi invasori, i parassiti, le vipere e le gatte sono i co-protagonisti dei cinque racconti, che fanno quasi da spalla a quelli umani. Ciascuno di loro mette in luce aspetti nascosti e subdoli dei propri padroni: una metafora fortissima che ritorna in tutti i racconti. Cosa ci dicono gli animali, che noi non capiamo?

Credo che gli animali siano il miglior specchio che ci offre la natura. Ogni volta che vedo un documentario sul regno animale, capisco qualcosa di nuovo sui membri della mia stessa specie. Gli animali ci mettono a disposizione una prospettiva che non abbiamo quando giudichiamo noi stessi. Ci permettono di vedere in che termini i nostri istinti, le nostre paure, le reazioni chimiche, i ritmi biologici o le reazioni fisiologiche decidano il nostro comportamento. Osservarci attraverso gli animali ci aiuta a renderci conto che non siamo razionali come crediamo.

Il Bestiario è un’occasione narrativa che ha precedenti illustrissimi, da Salinger, Carroll, Borges, Plinio il Vecchio (che, infatti, citi in esergo) e, ovviamente, Julio Cortázar – verso il quale il tuo libro pare fare un bellissimo omaggio. Ci hai pensato consapevolmente, alla scrittura di un Bestiario, o, a un certo punto, ti sei accorta che avevi materiale, e necessità di farlo?

Ho sempre amato i bestiari, sia sugli animali che sulle chimere. Quando mi sono decisa a scrivere questo libro, avevo già in mente quasi tutte le storie. Alcune, come «La vipera di Pechino», sono nate quando il progetto era già avviato. E ora che l’ho concluso, continuano a venirmi in mente nuovi spunti. Da poco ho pubblicato sulla rivista Granta un racconto recente intitolato «The Wanderers» (I girovaghi), che ho scritto alla fine dell’anno scorso. La mia passione per l’osservazione della vita animale viene dall’infanzia e credo che mi accompagnerà sempre.

Con il senso della vista hai un rapporto molto particolare, messo in luce nel magistrale romanzo Il corpo in cui sono nata (Einaudi, 2014). Per uno scrittore cosa significa, guardare?

Per me, che ho vissuto in una condizione di semicecità durante una parte dell’infanzia, vedere rappresenta un enorme privilegio. Mi permette di leggere una grande quantità di libri ai quali altrimenti non avrei accesso. Si parla sempre dello sguardo dello scrittore come del suo modo particolare di osservare il mondo. Jorge Ibargüengoitia, autore messicano che adoro, diceva che a lui interessavano solo scrittori con qualche difetto alla retina. Intendeva coloro che cercano il lato originale della vita, i dettagli che cambiano l’interpretazione di una storia o le versioni e i rivolgimenti che un racconto può avere. È però vero che ci sono molti modi di osservare che non passano attraverso la vista. Si dice che l’udito ci permetta di essere più percettivi rispetto alla vista. In Lessico famigliare, per esempio, Natalia Ginzburg fa un meraviglioso resoconto uditivo del modo in cui parlava la sua famiglia.

Nei racconti si avverte moltissimo - così come in tutta la tua cifra stilistica – un patrimonio di carnalità, corporeità e sensualità pieno di fascino. Quanto ha influito, e influisce, sulla tua scrittura il contesto sudamericano?

Molto. Prima che iniziassi a viaggiare, nel quartiere in cui vivevo da bambina si trasferirono molte famiglie uruguayane, argentine, cilene, esiliate dalle dittature sudamericane. Sono cresciuta ascoltando molte varianti dello spagnolo, lessici diversi, e mi sono impregnata delle differenti culture. Ben presto ho cominciato a leggere autori di quei paesi. I racconti fantastici di Borges e soprattutto quelli di Julio Cortázar hanno marcato il mio immaginario fin dall’adolescenza.

La tua è una scrittura perfetta per il racconto breve, simultanea eppure dotata di grande empatia, viscerale ma apparentemente semplice. E sei autrice di quattro raccolte di racconti. Ci racconti il tuo rapporto con la forma breve?

Il racconto è un genere che mi fa sentire a mio agio, come autrice e come lettrice. È molto più facile da afferrare rispetto a un romanzo. Sono d’accordo con chi dice che «le cose belle se brevi sono doppiamente belle». Non è facile scrivere un buon racconto, ma è più facile farlo diventare un’ossessione finché il risultato non è perfetto. È un genere per perfezionisti. Ed è importante resistere e difenderlo, perché gli editori sono soliti discriminarlo. Ho visto libri di racconti bellissimi rifiutati a causa di quell’allergia editoriale secondo cui il racconto non è abbastanza commerciale. Credo però che la sua marginalità gli doni un’aura di particolarità e bellezza.

Una domanda di rito, per noi di Cattedrale. Ci vuoi citare tre racconti che ami?

Perché solo tre?
«Il cuore rivelatore», di Edgar Allan Poe
«Axolotl», di Julio Cortázar
«Morte per saudade», di Enrique Vila-Matas

 

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