Qualcosa si muove, Nicola Lagioia

Qualcosa dunque si muove


di Alfredo Zucchi

Scrittore e editor: declinazione moderna dell’antico attributo alessandrino, poeta e filologo. Nonostante alla mia domanda sulla relazione tra la scrittura e l’attività di editor Nicola Lagioia abbia risposto con un secco «sono semplicemente due attività diverse», è proprio l’esperienza – e il successo – di Lagioia in entrambi gli ambiti a conferire alle sue parole un’aria rinfrancante, no nonsense:

« Chi dice che la letteratura italiana è morta confonde l’oggetto del proprio giudizio col soggetto che lo emette.»

Dieci minuti prima di chiamare Lagioia i dispositivi digitali mi tradiscono: il cellulare non si accende; provo a comprare credito skype – vivo all’estero, nel paese di Musil, di Hitler e di Conchita Wurst–: per evitare frodi, la mia banca invia un messaggio di conferma sul cellulare che non si accende; paypal mi pone domande di sicurezza sul passato della mia famiglia alle quali provo a rispondere con precisione prima, poi fantasiosamente – fallisco in entrambi i casi. Alla fine, con l’aiuto da casa, skype mi concede il lusso della comunicazione orale. Sono stressato e in ritardo, e le prime risposte di Lagioia – brevi, dirette e senza fronzoli – alle mie domande mi lasciano presagire il peggio: l’arte dell’intervistatore, come quella del detective, consiste nel creare un ponte tra i due soggetti, un “proiettarsi nell’animo dell’altro” (E.A. Poe, Gli omicidi della Rue Morgue), e nel mio caso pare che questo ponte stenti a prendere forma. Più avanti mi accorgo invece che proprio quest’attitudine diretta, realista e no nonsense di Lagioia è la leva per trarre gli spunti più preziosi dalla nostra chiacchierata.

Forme brevi

Cattedrale è un luogo sui generis, laboratorio e osservatorio sul racconto: la discussione sullo stato dell’arte delle forme brevi in Italia non tarderà a venire. Prima di arrivarci, però, chiedo della sua attività di editor di Nichel, la collana di narrativa italiana di Minimum Fax. Lagioia è molto chiaro al riguardo: fare l’editor vuol dire rimettersi a un lavoro di gruppo; dimenticare, mettere da parte o in qualche modo allegerirsi dalle ossessioni solitarie dello scrittore.

«Nella scrittura degli altri cerco semplicemente i libri
che fino ad allora non avevo immaginato di poter leggere.»

Nichel, ci dice, è una collana aperta, che non si preclude niente. Il filo che tiene insieme i libri che la compongono è unicamente «un’idea forte di letteratura». Soprattutto, aggiunge, è una collana senza pregiudizi sui generi e sulle forme: i racconti ci piacciono tanto come i romanzi.

Qui veniamo alle forme brevi. Cito un suo dialogo con Alessandro Grazioli del 2011:

Lagioia: « Non arrivano i racconti. Noi abbiamo pubblicato dei libri di racconti molto fortunati, quindi non c’è un pregiudizio. Non arrivano proprio, arrivano i romanzi.»

Grazioli: «E secondo te da che dipende? Arrivano meno proposte di racconti perché di fatto l’istanza del racconto si è indebolita o c'è una specie di furbizia di sottofondo per cui l'aspirante scrittore, nel momento in cui si deve proporre, o deve proporre la sua opera a una casa editrice, parte già con l’idea che deve scrivere un romanzo, altrimenti per lui è più difficile essere preso in considerazione.» 
Lagioia: «Non lo so. Secondo me non è una questione di furbizia, perché la furbizia si scopre, si vede nel testo. E noi non lo pubblicheremmo un testo furbo. Comunque io credo nell’esigenza. Evidentemente in questo momento gli scrittori hanno un’esigenza di romanzi. Questo è un cambiamento che ha coinvolto anche Nichel.»

Gli chiedo se questo sia ancora il caso oggi. Mi risponde con prontezza, dati a memoria: il 60% dei testi che arrivano in casa editrice sono romanzi. E perché arrivano più romanzi che libri di racconti? Questa è una domanda alla quale il realismo di Lagioia vieta di rispondere speculando: bisognerebbe chiederlo agli scrittori.

Allo stesso modo, non è facile spiegare la predilezione dei lettori verso il romanzo. Può essere un’abitudine tutta italiana, dice, in parte rimpolpata da certa attitudine dei recensori a favorire i romanzi, a dare loro più spazio, contribuendo a creare una – falsa – immagine di superiorità del romanzo rispetto al racconto. A questa situazione contribuisce anche il sempre minore spazio dedicato ai racconti sulla stampa generalista, online e offline; lì, però, Lagioia sottolinea come il pregiudizio non abbia come oggetto il racconto in sé, ma la letteratura in generale: non ci sono racconti, su giornali e riviste che non siano specializzate sulla letteratura, così come non ci sono estratti di romanzi e non ci sono poemi. (Allora la literary non-fiction sta divorando lo spazio che un tempo era della narrativa e della finzione? Questa, invece, è una domanda per un’altra occasione.)

Anche qui si resta coi piedi per terra – una cosa è il quadro generale, altro è quello dell’esperienza personale:

«Nichel non discrimina i racconti. Quando ci arriva un libro di racconti che ci piace, lo pubblichiamo.»

Eppure – qui conveniamo – la situazione non è la stessa di cinque anni fa: di recente, Minimum Fax ha pubblicato due libri di racconti importanti – due libri diversi, ognuno con la propria «idea forte di letteratura» in grado di risuonare nel panorama italiano: 'Il silenzio del lottatore' di Rossella Milone, e 'Io odio John Updike' di Giordano Tedoldi. Qualcosa dunque si muove.

Sceneggiate all’italiana

Dai racconti ci spostiamo all’insieme più ampio della letteratura italiana contemporanea: l’immagine che ne abbiamo noi muovendoci dentro di essa; e quella invece che gli altri, da fuori, hanno di noi. Il rumore di fondo della sfera pubblica, gli dico, restituisce oggi un’immagine negativa, di decandenza e dipendenza della letteratura italiana, se non proprio di morte biologica. Ammetto di non credere a questa figura, mi sembra un piagnisteo. Ora siamo in sintonia.

È un piagnisteo che ci compromette, dice, che contribuisce a creare un circolo vizioso e ad alimentare una percezione negativa dall’esterno – quando invece la letteratura italiana continua a godere di un’ottima reputazione fuori: all’estero, nessuno dubita che la nostra faccia parte delle grandi letterature mondiali, insieme alla nordamericana, alla francese, alla spagnola e a poche altre.

Forse è solo un’inclinazione tutta italiana alla sceneggiata, aggiunge; però chi dice che la letteratura italiana, o il cinema italiano, sono morti, confonde l’oggetto del proprio giudizio col soggetto che lo emette – i vecchi critici e scrittori che temono che il talento altrui possa mettere a rischio la loro posizione: i morti sono loro. Forse dovremmo fare come la Francia, che vende i suoi successi con fin troppo zelo. O forse dovremmo semplicemente dare meno spazio al rumore:

« Non è vero, tra l’altro, che la letteratura italiana sia tradotta poco all’estero, o non riesca a farsi valere. Basta pensare al successo della Ferrante negli Stati Uniti, o di Umberto Eco. Certo è che si predilige il best-seller al libro di ricerca, eppure anche lì non si può dire che il quadro sia così negativo. Negli ultimi anni, ad esempio, Paolo Cognetti e Valeria Parrella hanno avuto visibilità all’estero, e un libro complesso come Il tempo materiale di Giorgio Vasta è stato tradotto in svariate lingue. »

«E a me in ogni caso la nostra letteratura degli ultimi anni piace molto.» Chiudiamo su quest’affermazione – una che, in qualche modo, rafforza le mie impressioni di vitalità e rinnovamento: penso, in particolare, alle recenti scelte di ricerca – e ai successi di pubblico e critica – di editori come Tunué, Neo e NN, e alla direzione della narrativa italiana del Saggiatore, votata a esplorare gli orizzonti distopici del progresso tecnologico e a lanciare nomi nuovi sulla scena. Qualcosa si muove: chi dice che la letteratura italiana è morta sembra fallire anche come profeta di sciagure.