Emanuele Giammarco è il fondatore, insieme a Stefano Friani di Racconti Edizioni, la nuovissima casa editrice che pubblica solo libri di racconti. Noi ne abbiamo già parlato qui per dare loro il benvenuto. Ora entriamo con Giammarco nelle questioni più spigolose e difficili da affrontare per chi vuole pubblicare racconti, e cercare di capire, con lui, cosa si sta muovendo nel panorama editoriale.
a cura di Rossella Milone
Che mettere in piedi una casa editrice solo di racconti sia una faccenda complicata che, per alcuni, sfiora la pazzia, ve lo avranno detto in molti e in molti vi avranno chiesto: perchè? Noi non ve lo chiediamo, ma vogliamo sapere il momento esatto in cui voi diRacconti Edizioni avete preso coscienza della cosa e ve lo siete detto. Il momento in cui avete deciso: facciamolo. E cosa avete fatto subito dopo.
Mi piacerebbe saperti rispondere in modo esatto, ma non ne sono capace. Credo di condividere con molte persone della mia età una certa disillusione di fondo che non mi permette di cogliere appieno le svolte, come se fossimo abituati all’idea che le svolte non esistano, non siano mai esistite, o siano una falsità. Durante il Master alla Sapienza, che ho condiviso con Stefano (Friani, n.d.r), si è palesata l’idea di provare a fare una casa editrice. Ma il fatto che l’idea si palesi vuol dire poco, poi bisogna prenderla sul serio, e siccome nessuno dei due è in grado di prendere sul serio alcunché è difficile capire quando l’idea sia diventata una “realtà”. Viviamo in un continuo esorcismo, non ci siamo mai fermati a dirci: «ecco, ci siamo riusciti!»; chissà, potrebbe portare male. Ci siamo come “sfidati” a farla finché non ci siamo trovati troppo invischiati per tornare indietro. Sono abbastanza certo, però, che la prima “sfida” sia venuta fuori in un pub – ma d’altronde è un segreto di pulcinella che l’editoria si basi fondamentalmente sull’alcol. Per noi serviva una reazione e abbiamo cominciato a pensare seriamente a un progetto editoriale che avesse senso sia per noi che per un pubblico di lettori. La prima cosa che abbiamo fatto è stata parlare con qualcuno che stimavamo, che sapevamo potesse aiutarci e che avesse più esperienza (ci vuole poco effettivamente) di noi. L’idea-progetto dei racconti ci è piaciuta subito perché era audace, controcorrente e aveva dei vantaggi nascosti. In un momento folle come quello che stiamo vivendo è utile chiedersi che ragion d’essere può avere questa follia.
Ce lo puoi dire chi sarebbe questo 'qualcuno'? E se non puoi o vuoi, ci dici quali sono stati i consigli, i pareri? Cosa vi ha passato questa esperienza maggiore di cui parli, per aiutarvi a trattare i racconti in maniera così specialistica?
La questione principale da chiedere a qualcuno del settore: trattasi di idea folle? Ovviamente sì – è stata la risposta unanime – ma forse di quelle follie su cui valeva la pena spendere le proprie energie rimaste. D’altra parte, ripeto, il mercato del lavoro e quello dell’editoria non sono certo attraversate dalla pura razionalità. La laurea viene riconosciuta come necessaria per l’avviamento alla carriera, ma poi per lavorare serve esperienza: e come me la dovrei fare, appena uscito dagli studi? Ha senso? Così come non aveva senso che non ci fosse spazio per i racconti nel mercato editoriale. Forse non esistono i lettori di racconti? La nostra ragion d’essere in parte è folle, in parte è la diretta conseguenza di alcuni pregiudizi o cristallizzazioni anch’essi folli o irragionevoli. Ora, tutto questo ragionamento traballante è venuto a maturazione grazie a tanto dialogo in fase preliminare. Inevitabilmente con Luca Formenton, che è stato nostro professore al suddetto Master, trattando per l’appunto di editoria cosiddetta “di progetto”. Parlando con Formenton siamo giunti alla conclusione che si dovesse rivestire il libro per renderlo più aderente al formato racconto, cosa che abbiamo provato a fare, puntando sulle connessioni esistenti fra i vari frammenti di cui è composta ogni collezione, cercando di mostrare una certa “unità nella diversità”. Siamo giunti a conclusione che dovevamo restituire un progetto editoriale (nell’uso della carta, con i paratesti e con le scelte dei titoli) a una domanda che doveva per forza esistere e speriamo si palesi presto e fieramente agli occhi di tutti (ma qualcosa si è mosso anche al di fuori di Racconti se ve ne siete accorti). Insomma, un compromesso con quel principio di marketing – dai alla gente quello che vuole – che se preso alla leggera e in senso assoluto fa il male non della letteratura, ma dell’umanità intera. Poi abbiamo parlato con un editor in gamba, Mattia Carratello, per saggiare tutto il lavoro di back-office e capire se avevamo i margini per iniziare e quanto potevamo osare con le acquisizioni. Abbiamo interrogato Piero Rocchi, con cui ho passato dei mesi al Saggiatore, per capire come muoverci con distribuzione e promozione. Siamo passati in Einaudi, dove ha fatto lo stage Stefano, per chiedere consigli sulla resa grafica. Tutti ci hanno restituito qualcosa. L’esperienza sul campo, poi, è un altro paio di maniche.
Riesci a rispondere, in qualche modo, alla domanda che hai posto nella tua risposta: Forse non esistono i lettori di racconti?
Io credo che i lettori di racconti siano i lettori, e che i non-lettori di racconti (potenziali lettori) siano i non-lettori. In questo senso noi stiamo tentando di venire incontro a un pregiudizio che appartiene all’offerta, non alla domanda. Perché se ci si ragiona bene, non ha alcun senso dividere i lettori fra raccontisti e romanzisti (o saggisti ecc). Pensiamo a questa cosa: quando si parla di racconti si sente spesso l’espressione "genere"; noi stessi siamo abituati ad esprimerci così. Ma il racconto non è tanto un genere quanto una "forma" letteraria. Questo la dice lunga sulla percezione che se ne ha. Viene trattato come una speciale partizione della letteratura e, come tale, sembra dover appartenere ad una sorta di serie B, adatta a pochi nerd appassionati. Eppure, quando provo a rappresentarmi il racconto come «genere» cado presto in errore. Carver è capace di raccontarci una bevuta fra amici in un arco narrativo di poche ore lasciando intendere problematiche e verità valide per tutta una vita, Bolano racconta vite intere come fossero biografie, Shirley Jackson una pratica consumata negli anni e ambientata in un passato non ben identificabile, probabilmente nell’anima di tutti noi, Cortàzar racconta una malattia passando da un flusso di coscienza di una persona a quello di un’altra mantenendo miracolosamente intatto il fiume della narrazione, Bierce ci parla da un non-luogo, descrivendo qualcosa che non è successo se non sulla carta o nel cuore del lettore. Quale sarebbe il genere qui? Parlando in astratto è troppo difficile, oltre che sbagliato, porre dei paletti a ciò che può essere narrato in generale. Si tratta della vita stessa, dell’essere, non so come dire. Forse l’unico limite imposto dal racconto è quello ovvio della lunghezza e della strutturazione. Ma da amante dei buoni libri non posso pensare che se ti è piaciutoRevolutionary Road allora non ti piace Undici Solitudini solo perché è costituito da narrazioni più corte. Quel racconto, Un buon pianista di Jazz, mi pare, distrugge in modo diverso lo stesso sogno americano del romanzo. I pregiudizi possono esserci, certo, però vanno affrontati e superati. Prendiamo i narratori diventati famosi per aver indugiato soprattutto, o solo, sulla forma racconto; quelli più vicini all’idea di "genere", se vogliamo. Diventa tutto ancor più complicato. Dobbiamo dire: Non mi piace Čechov, Kafka scrive male, Maupassant ha travisato del tutto l’indagine sull’animo umano. Andiamo avanti! I racconti sono fichissimi.
Che il pregiudizio risieda soprattutto nell'offerta e non nella domanda, è anche il nostro punto di vista ed è quello che in questo anno e mezzo di vita dell'Osservatorio abbiamo potuto riscontrare. Il pregiudizio esiste anche in una minima parte tra i lettori (c'è chi ha bisogno della storia lunga che li accompagni per le 200, 300 pagine senza lasciargli mai la mano) ma questo pregiudizio è avallato e perpetuato da un mercato e da una proposta che mortifica la forma breve. Forse i lettori andrebbero più guidati, rassicurati e incoraggiati, soprattutto da stampa e case editrici. Come casa editrice, in questo senso, che tipo di difficoltà riscontrate maggiormente con le librerie, per esempio? O con i premi letterari, o con i festival?
Difficile rispondere. I premi letterari al momento sono meno di un miraggio, per noi ci sono altre priorità e di certo non ci aspettiamo si possa iniziare così, d’emblée, a valorizzare il racconto. Se prendiamo come paradigma lo Strega non ci possiamo attendere chissà che. Se non sbaglio l’ultima vittoria risale a Magris ed è di vent’anni fa. È vero che i racconti non hanno mai vinto tanto ma è altrettanto vero che una volta c’erano i Parise, i Landolfi, e ancor prima i Buzzati, Bassani, Moravia. Se in generale contiamo anche Calvino – che si riferiva al proprio lavoro come un’opera di short stories – ci troviamo improvvisamente nell’olimpo della letteratura italiana. Magari all’estero funziona meglio, con premi dedicati al racconto, la vittoria di Munro ecc. – anche se in generale la partizione, come detto prima, può equivalere anche a un declassamento. La verità è che il problema è endemico e non si limita, come dici tu, a un unico strato della filiera. Il pregiudizio si insinua a tutti i livelli e si crea, come di consueto, uno strano circolo vizioso. I racconti non vendono quindi non si pubblicano quindi non si scrivono ma se non si pubblicano poi è difficile che vendano e se non si lasciano liberi gli scrittori allora… ecc ecc. Ci è capitato, è vero, che un libraio ci desse picche esplicitamente per via dei “racconti” ma c’è anche capitato il contrario, e si tratta di esempi virtuosi che valgono molto di più. Il rapporto diretto con i librai però è qualcosa che si costruisce con il tempo (come con i lettori). Noi speriamo di poterle visitare tutte, le librerie, a partire da quelle che si sono dimostrate interessate sin da subito e che ci hanno dato forza per proseguire. Per adesso tuttavia bisogna arrendersi al detto deleuziano secondo cui il vero cliente dell’editore è il distributore. In questo senso è difficile carpire quale sia la reazione in merito al racconto in sé. Magari chi non ordina non lo fa perché non è persuaso da altri fattori, non saprei dire al momento, ed è difficile andare a pescare le librerie poco convinte. Dove sicuramente non c’è pregiudizio, invece, è nel lavoro sul campo. In questo senso professiamo il massimo del rispetto per coloro che si prodigano da tempo per valorizzare la forma racconto. Lì c’è il vero succo. Siamo i primi a riconoscere il lavoro di Oblique con 8x8, il vostro lavoro con Trenta Cartelle, per esempio, e quello di altre realtà che abbiamo avuto il piacere di conoscere comeEffe. Ma anche i blog come Vibrisse, Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, TerraNullius e i vari collettivi. Da poco ne sono nati altri come Tre Racconti, quindi forse è arrivato il momento di una certa rénaissance. Noi vorremo poter approfondire quel lavoro, avere il tempo, lo spazio, l’attenzione e la forza economica. È questo che ci interessa di più adesso.
Per concludere vorrei porti una domanda sugli autori italiani. Siete nati da pochissimo e finora avete in catalogo una prestigiosa, affascinante linea editoriale tutta straniera. In Italia il problema di pubblicare - ma soprattutto di vendere - racconti è particolarmente sentito, e invito in nostri lettori ad approfondire l'argomento che abbiamo e continueremo ampiamente a trattare. Voi come vi porrete in futuro rispetto agli autori italiani? Percepite che il mercato è ancora in difficoltà da questo punto di vista?
La prima cosa che ci siamo detti con Stefano è che ci serviva del tempo. Per la ragioni di cui sopra è stato subito semplice stilare una lista di nomi, anche grandi nomi, di narrativa straniera. Abbiamo potuto “permetterci” Rohinton Mistry, Eudora Welty, James Baldwin, Virginia Woolf e abbiamo altri nomi importanti per il futuro anche prossimo – non solo quindi underdog o libri dimenticati come quello di Faye o Graham Jones. Ovviamente questa possibilità non si presentava per la narrativa italiana – sempre per le ragioni di cui sopra. Allora: tempo. Abbiamo deciso di costruirci innanzitutto un catalogo. Non esterno o parallelo a quello dedicato ai narratori italiani, ma totalmente in funzione di un discorso unitario che comprendesse anche la nostra lingua. Siamo convinti che una casa editrice che si dica indipendente non possa sottrarsi a questo compito. Però allo stesso tempo ci piacerebbe che i nostri libri in qualche modo si parlassero fra di loro, indipendentemente dalla lingua in cui sono stati scritti. Per me è molto difficile parlare di linea editoriale; è un concetto che definirei “problematico”. All’inizio del nostro percorso ci eravamo quasi emozionati leggendo le parole di Deleuze-Guattari sulla letteratura minore e su Kafka. In un passaggio si dice espressamente che la letteratura sta dove si riesce a essere «immigrati della propria lingua». Questo magma sotterraneo in cui la lingua è sempre messa in gioco, in cui devia dai canoni anche grammaticali e normativi, vorrebbe essere lo stesso principio con cui scegliere e decidere chi pubblicare a prescindere dalla lingua originaria. In questo senso vorremmo che tutti i nostri scrittori fossero stranieri; cioè non italiani, americani, irlandesi, francesi ma: stranieri. Ora, tornando sulla terra, è chiaro che non è per niente semplice. Se vogliamo fare le cose il più seriamente possibile abbiamo bisogno di conoscere alla perfezione il perché pubblicare uno scrittore piuttosto che un altro. Crederci, quindi. Pensare come se il nostro lettore volesse rimanere piacevolmente sorpreso, «aspettandosi l’inaspettato», come dicono gli americani. E di scrittori di racconti ce ne sono! Qualcuno di loro ha avuto anche un discreto successo e bellissime edizioni. Certo, non credo che il mercato si muova in quella direzione, nel senso che gli addetti al settore non sono abituati a ragionare secondo forma breve. Il fine rimane il romanzo, se si trova un buon scrittore di racconti lo si ritiene “pronto” per altro, i librai si aspettano di vendere molto solo quando hanno romanzi in mano. Però non escludo che le cose possano cambiare ed è importantissimo per noi ragionare sull’unità del discorso editoriale; evitare limitazioni, segmentazioni e parlare soltanto dei libri in sé. Devo dire che alcuni nomi ci sono passati per la testa, anche insistentemente. Ci sarebbero esordienti davvero interessanti, a cui magari ci piacerebbe affiancare un ripescaggio di valore. Vorremmo riuscire a trovare la nostra prima doppietta di autori per la fine dell’anno prossimo e per questo stiamo anticipando i tempi per le cedole più vicine, nell’idea di dedicare qualche mese interamente alla lettura di manoscritti e proposte. Molto della casa editrice dipende da questo e vogliamo capire bene come muoverci e dove andare. Spero che le cose vengano da sé il più spontaneamente possibile.