a cura di Alfredo Zucchi
Nel quadro del recupero di libri italiani usciti negli ultimi dieci anni e andati, ingiustamente, fuori produzione, Minimum Fax ha pubblicato di recente una nuova edizione di Io odio John Updike, di Giordano Tedoldi, uscito per la prima volta con Fazi nel 2006. La nuova edizione è arricchita da un racconto inedito, “Sciarada”. Nell’introduzione alla nuova edizione di Io odio John Updike scrivi:
“Si dice delle raccolte di racconti che spesso c’è un filo comune, un personaggio unitario perché si teme la frammentarietà. Lo si disse, sciaguratamente, anche di questo libro, dieci anni fa. È falso: questo è un libro di racconti che non dialogano tra loro, che sono intrattabili l’uno rispetto all’altro, in cui ogni storia accampa tutti i suoi diritti sovrani a scapito delle altre. È un libro frammentario.”
Se non sussistono legami narrativi tra un racconto e l’altro, ci sono però temi che ricorrono con l’insistenza delle ossessioni: la relazione madre-figlio, gli scacchi, le macchine e in generale i beni materiali e il lusso, la sparizione e l’assenza (nelle figure volontaristiche della fuga e in quelle cliniche del coma, dell’ibernazione, della chirurgia invasiva). Le strutture stesse dei racconti sono in gran parte speculari. Questi legami tematici e strutturali, mi pare, fanno di Io odio John Updike un libro ossessivamente unitario: in questo senso, non ti sembra che, più che fare a gara tra loro, i racconti vogliano accumularsi, come per fornire un’immagine sempre più dettagliata della stessa figura?
Da dove discende la necessità dell’unità? Perché una raccolta di racconti deve essere unitaria? Perché persino un singolo racconto deve essere unitario? E anche riconosciuto che tale unità ci sia (un’unità di qualche genere, vaga, implicita o esplicita, è la cosa più comoda a trovarsi), perché soffermarsi su questa caratteristica formalistica, e non sulla forza dei dettagli, dei particolari, sulla indipendenza delle parti, sulla autonomia delle voci, delle storie, delle idee? Sulla novità? Sulla libertà dell’immaginazione che non si lega a alcun’altra immaginazione precedente o seguente ma sviluppa un sua isolata e densa visione? La paura del frammentario – non intendo il frammentismo letterario o poetico, che a suo modo consolidò nuove forme unitarie, che solo apparentemente e esteriormente si presentavano come frammenti – come la paura del grezzo, del non rifinito, dello scoordinato, è la paura che affligge chi antepone i problemi stilistici, formali, tecnici alle ben più importanti e vitali questioni, sfuggenti e afferrabili solo intuitivamente, che sono alla base della creatività. L’accumulazione è una variante ancora più povera dell’unità, una guida stilistico-tecnica che viene adoperata per sortire determinati effetti: in ultima analisi, un trucco, un espediente. L’arte non può ricorrere a espedienti se non in quei casi in cui le forze dell’artista sono arrivate al loro limite, e dunque solo in casi eccezionali, e, per così dire, in mancanza di meglio. Addirittura poggiare l’importanza di un libro sull’unità o sulla forza cumulativa vuol dire fraintendere completamente il libro, oppure, vuol dire che il libro è scadente. Devo dunque ribadire quanto scrivo nella prefazione alla riedizione di “Io odio John Updike”. L’ossessione non produce unità, l’ossessione fa vedere l’unità là dove non c’è, ed è, tra le ossessioni, una di quelle da curare. Sia detto en passant, nemmeno i romanzi sono unitari, se non quelli molto poveri di immaginazione.
La voce narrante, in Io odio John Updike, non si esime mai dal mettersi in scena: se nei racconti in prima persona questo meccanismo è inevitabile, diventa invece una scelta precisa quando, nei racconti in terza persona, la voce interpella il pubblico, il fratello lettore. Questo procedimento è ancora più estremo in “Sciarada”, il racconto inedito che arricchisce la nuova edizione di Minimum Fax: qui, la voce dà del tu al personaggio, costruendogli intorno una sorta di membrana, un recinto dentro il quale muoversi – se non proprio una trappola. Quanto è importante la posizione della voce narrante nel determinare la natura e gli sviluppi di una storia?
L’immagine della membrana avvolgente, per l’uso del “tu” rivolto al lettore nel racconto “Sciarada”, è molto appropriata, ed è quel tipo di scelte coscienti, tecniche, verso le quali in generale sono molto diffidente, ma che in questo caso mi sembrava sorgere insieme, innatamente per così dire, con la concezione del racconto. Se una tecnica è intercambiabile, è una buona tecnica, una tecnica efficace, ma resta solo uno strumento, un ferro del mestiere, e il mestiere rischia di distruggere la spontaneità di una storia. Gli scrittori tecnici sono troppo riconoscibili, le loro risorse troppo evidenti, la loro bravura troppo ruffiana, le loro parole solo parole e, spesso, portano i segni dello stesso male degli scrittori molto poco tecnici: la prolissità. Dunque la posizione della voce narrante, io direi più precisamente l’ordine della voce narrante, deve essere dettata da null’altro che il seguente criterio: non deve porre ostacoli alla narrazione e alla lettura, e se possibile facilitarla. Deve concrescere con l’idea della storia. In altre parole non è che una questione di mettersi a proprio agio, di comodità, né più né meno di quando andiamo a letto, e ci mettiamo nella posizione consueta e più rilassante per addormentarci. Tutte le altre considerazioni di prospettiva, posizione, distanza, sono deduzioni secondarie e sostanzialmente irrilevanti, che ammantano un racconto di una caratura tecnica fasulla.
“Un racconto è una struttura, ma ora ho bisogno di destrutturarmi per tentare di raggiungere un’altra struttura più reale e veritiera; un racconto è un sistema chiuso e perfetto, e io voglio farla finita con i sistemi e i meccanismi di precisione per riuscire a addentrarmi nel laboratorio centrale e lavorare sulla radice che prescinde da ogni ordine e sistema.”
Così scrive Cortázar mentre lavora al romanzo Rayuela – Il gioco del mondo (in Carta carbone, Edizioni Sur, 2013). Tu sei autore di racconti e romanzi (I segnalati, Fazi, 2013). Cosa cambia, dal punto di vista compositivo, tra un racconto e un romanzo? Si può dire, con Cortázar, che un racconto non solo non dice le cose allo stesso modo di un romanzo, ma dice cose diverse?
Il racconto, come credo di aver accennato nelle risposte precedenti, non è un sistema chiuso e perfetto, e chi lo asserisce si compiace di un’illusione, per poi compiacersi ulteriormente credendo di averla infranta scrivendo cose “imperfette” che però vadano “alla radice”. A che scopo andare alla radice se non per disperatamente tentare di dimenticare il sapore dolciastro di frutti di cui si è fatta indigestione? Come si può “prescindere da ogni ordine e sistema” se non, sia pure dialetticamente, negativamente, essere vincolati a un qualche “ordine e sistema” rispetto al quale si muove la propria velleitaria rivolta? Anche io, quando dico che i miei racconti sono “frammentari”, devo inevitabilmente rinviare a un qualche ordine o totalità rispetto al quale ha senso il mio definirli frammentari, ma è una comodità linguistica, ciò che veramente intendo è: cessiamo di scrivere, e di ragionare sulla scrittura, a partire da astratti principi di struttura e destrutturazioni, unità e frammenti, patetiche imitazioni matematizzanti e platoniche. Il platonismo è una cosa seria, troppo seria per lasciarlo in mano a Cortázar. Dal punto di vista compositivo, tra un racconto e un romanzo, cambia solo questo: che un racconto muore a vent’anni, un romanzo a circa sessantacinque o settanta (certo, ci sono anche i centenari). Dicono cose diverse? O dicono le stesse cose in modo diverso? A qualcuno importano davvero queste cavillosità di pedanti?
Nei tuoi racconti, ellissi e sospensione hanno un ruolo fondamentale. Allo stesso tempo, l’impressione più forte, in particolare in racconti come “Amore freddo” e “The Leading Hotels of the World” (in cui il libro, a mio avviso, s’impenna), è la persistenza di un elemento irriducibile, di un nodo che non si scioglie perché non può sciogliersi. Se è così, se il nodo non si scioglie, come si conduce il finale di un racconto?
Il finale di un racconto non si può scrivere a forza, tantomeno seguendo un vademecum, ma certamente, a suo modo, alcuni dei nodi (e forse tutti, benché certo non siano chiaramente enumerabili) della storia li deve sciogliere. I nodi che non si possono sciogliere sono sciolti rivelando infine all’intuizione del lettore che, appunto, sono insolubili. Non c’è altro modo di chiudere una storia che percependo un sentimento inconfondibile che è appunto il sentimento della fine. Un sentimento antico, umano, col quale conviviamo ogni giorno, e che sappiamo riconoscere molto bene. Le cose, in sé, non finiscono. La fine è un senso interno, e non tutti concordano che un finale sia compiuto, o sia tronco (cioè che manchi un “vero” finale), perché hanno idee diverse su ciò che è “finale”. Ma tutti hanno un’idea di qualcosa di finale e dovrebbero a ogni costo restare fedeli a essa, respingendo al mittente finali suggeriti da altri. Gli editor che suggeriscono un finale (credo accada, possa accadere) si prendono la responsabilità di corrompere irreparabilmente un’opera, a prescindere dal fatto se il finale suggerito “funzioni” o meno. Inoltre, la fine di un racconto rivela se l’idea suprema di fine – che è un’idea, ripeto, generalissima, universale, che ha a che fare coi nostri rapporti con gli altri e col mondo - di un autore è nobile, oppure mediocre. Il che non vuol dire che un finale nobile deve essere grandioso, eclatante, “a sorpresa” e altre frivolezze del genere, oppure, al contrario, per evitare effetti retorici, un finale che va volutamente smorendo, dolce, delicato. Non è una grandezza misurabile, un effetto scenico calcolato con largo anticipo (benché, certo, un finale spesso possa essere presentito), deve solo corrispondere a quel sentimento della fine di cui parlavo, un sentimento difficilmente analizzabile perché, com’è risaputo, contiene paradossalmente le premesse di nuovi inizi che, naturalmente, restano inespressi, non detti.