Panorama, il viaggio memoir di Dušan Šarotar

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di Giordana Restifo

Ogni volta che leggo un libro di cui poi scriverò, è come se ciò che ho intorno mi parlasse, attraverso sfaccettature multiformi, dei temi o delle ramificazioni che pervadono quella determinata opera. I miei amici la definiscono sincronia, altri coincidenza; qualunque sia il termine più adatto, credo sia fondamentale saper ascoltare, captare e fare propri gli stimoli esterni. Per dirla con un verbo: immedesimarsi.
Così è successo anche con Panorama. Narrazione sullo svolgersi degli eventi di Dušan Šarotar, pubblicato in Italia nel marzo 2021 da Keller Editore, tradotto dallo sloveno all’italiano da Patrizia Raveggi. In questo caso, però, ho dovuto prestare molta attenzione, intesa nel suo significato etimologico di “rivolgere l’animo” (dal lat. attentio -onis, der. di attendĕre – vocabolario Treccani) e, quindi, tutti i sensi, per percepire i pungoli circostanti. Il primo approccio con l’opera, infatti, non è stato sereno.

Anzitutto, come ci dice Raveggi, che ha curato anche la postfazione di Panorama, «tempi ed epoche diversi, luoghi e avvenimenti confluiscono in un torrente che trasporta chi legge con la musicalità di un ininterrotto e labirintico scorrere, e offusca le tracce di trama cui il lettore cerca di appigliarsi, come di proposito sviandolo». Già dalle prime pagine è chiaro che tra le mani non si ha un romanzo e che, anzi, la tecnica narrativa scelta dall’autore, originario di Murska Sobota, è quella del flusso di coscienza; si decide di farsi trasportare attraverso ricordi, dialoghi senza alcuna punteggiatura, sogni lucidi.
Sin da subito si viene scaraventati in un’atmosfera nebbiosa, carica di una tristezza lontana, luoghi e personaggi esalano struggimento, tutto sembra avvolto in una grande nuvola di fumo che non si dissolve. Proprio mentre il lettore prova a districarsi o a cambiare atteggiamento per muoversi in questo spazio estraneo, ecco che le interferenze con la realtà sovvertono nuovamente la comprensione. Šarotar ci riporta alla tangibilità disseminando per tutta l’opera degli scatti fotografici in bianco e nero, più o meno sfocati – effetto voluto, come riferisce anche la traduttrice. Voglio immaginare che questo sia un ammonimento dell’autore per dirci: “Risvegliati, questi luoghi e queste persone esistono davvero, hanno patito tutta la tragicità che emanano, e anche più”.

 

Ritrovarsi con Google Maps?

Ciò che tormenta il narratore, verosimilmente Šarotar, e la gente che incontra durante il suo peregrinare attraverso la selvaggia regione del Connemara o la domata capitale del Belgio, è l’identificazione. Se da molto tempo ho lasciato la terra dove sono nato, se non parlo più la lingua con la quale sono cresciuto, se torno nella mia città e non la riconosco più, chi sono? La mia casa dov’è?
Insieme al narratore/viaggiatore si muove Gjini, autista e saggio albanese emigrato in Irlanda da tanti anni, che non perde occasione per aumentare il senso di inquietudine:

 

“quando sei lontano dalla lingua, sei anche lontano da casa, ogni giorno di più, a ogni nuova parola la distanza si fa più grande e profonda, la parola perduta viene rimpiazzata o apparentemente sostituita da un’altra, più convincente, migliore, comprensibile a tutti, ma straniera; l’emigrante, questo eterno custode della propria lingua e allo stesso tempo colui che la nega, sa che la perdita è un vuoto, avvolto nel disciolto malto dell’oblio, un vuoto che lui colma con un apprendimento costante, unico vaccino contro la solitudine, la disperazione e la follia, ma è una perdita comunque insostituibile, dolente e incurabile come l’amore”.

 

Persino Martin il cameriere, personaggio apparentemente marginale, è intriso di mestizia, si incanta fissando fuori dalla finestra, vaga lontano con lo sguardo e con la mente finché non si tranquillizza vedendo le case lungo la baia illuminate dagli ultimi raggi di sole e, come se dovesse convincere se stesso, dice agli avventori del pub: “è casa mia, là, c’è la mia casa, vicino alla chiesa, subito dietro il muro del cimitero …”.
Dunque, bastano dei punti di riferimento fisici per confermare dov’è la nostra casa?
E se questi punti fermi non esistono più, andati, cancellati, sbiaditi?
La malinconica Caroline prova a fornirci una risposta dal suo punto di vista, raccontando al viandante la sua (incredibile) vita da girovaga: “Non ho un paesaggio mio proprio, cerco e invento gli spazi della mia lingua”. E di nuovo Gjini sovverte tutto: “non possiamo nascondere o negare la nostra origine, da qualsiasi posto veniamo o dovunque siamo nati, cioè, siamo fatti di una sostanza, come terra o isola, e soprattutto nostalgia”. Una particolare, soggettiva, nostalgia che, in alcune situazioni, può essere condivisa anche se la memoria storica, all’apparenza, sembra differente.
Riflessioni, interrogativi che ci colpiscono nel profondo, finché il narratore non ci spiazza ancora una volta e, con un brusco risveglio, ci induce a credere che potremmo ritrovarci con Google Maps:

 

“con il tablet sulle ginocchia ho aspettato che i satelliti mi trovassero, perché solo così tornerò all’esistenza, il mio paesaggio interiore mi sarà restituito, sarò di nuovo iscritto in una rinnovata mappa dei nomi, anche se invisibile, unicamente virtuale, come un ricordo, dal quale il futuro testo comincia appena a prendere forma, con il rilievo e l’atmosfera di ciò che è passato, ma mai perso, come circonfuso da fasci di raggi in mezzo a nuvole fluttuanti, quindi ho soppesato e riflettuto, sebbene tutto fosse stato deciso molto prima, anche prima del mio arrivo, forse anche prima che io nascessi”.

 

Dopo aver letto queste parole, ho deciso di approfondire questo viaggio attraverso i territori, sono entrata su Google Maps e ho “camminato” per Galway, Clifden, insieme alla signora badessa Maura Ostyn attorno all’Abbazia di Kylemore, ho “percorso” piccoli tratti delle isole Aran; ho seguito il flusso fino in Belgio, scoprendo Gent, Mechelen, perdendomi nelle architetture della stazione di Anversa, sono giunta in Slovenia a Lubiana e a Maribor (allungando di poco il mio percorso per arrivare a Murska Sobota), sono passata da Travnik e, aspettando Šarotar che finisse di visitare la casa natale di Ivo Andrić, ho pensato che, a dire il vero, questi luoghi non erano così struggenti, anzi, alcuni infondevano addirittura serenità con le loro piccole case colorate sulle rive dei fiumi. Quando il viaggio è ripreso verso Mostar e Sarajevo, ho spento Google Maps e ho iniziato a ricordare.
Spomenka, la professoressa originaria della capitale della Bosnia-Erzegovina emigrata in Belgio, insegna ai suoi studenti che “la letteratura non è una medicina per la nostalgia”. Sicuramente, però, è un buon palliativo, aggiungerei io. La vicenda personale della professoressa e della figlia Zora, mi ha suggerito che non erano i paesi a suscitarmi quella angoscia provata sin dalla prima pagina, ma la storia legata ad essi.

 

Una storia collettiva

Come fa notare Patrizia Raveggi nella postfazione, il mezzo narrativo del flusso di coscienza è un omaggio a James Joyce nella sua terra d’origine. Potrebbe esserci anche una connessione tra i due scrittori rispetto ai cambiamenti che hanno scosso la storia politica e sociale tanto dell’Irlanda quanto della Slovenia. I due paesi hanno affrontato sconvolgimenti differenti e l’epoca in cui ha vissuto Joyce non è la stessa di quella di Šarotar, però entrambi sono rimasti profondamenti turbati da ciò che hanno visto e subito. Gli anni di formazione di Joyce coincidono con un periodo estremamente travagliato per l’Irlanda. Infatti, alla fine dell’800, il paese, stremato da anni di carestia e miseria, si è ritrovato diviso: “chi è rimasto, o accetta di conformarsi al regime politico esistente inserendosi integralmente nell’ambito della cultura inglese, oppure si propone una lotta disperata per sottrarsi al giogo dell’Inghilterra promuovendo in primo luogo un nazionalismo culturale che recuperi i valori di una tradizione ignorata e soppressa” (Giorgio Melchiori nell’introduzione dell’Ulisse, James Joyce, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1973). Tali fazioni ricordano ciò che è accaduto in Slovenia, in Croazia e, successivamente, in Bosnia-Erzegovina durante gli anni ‘90. Andando a rileggere la storia di come si dissolse il sogno del Maresciallo Josip Broz Tito di una grande Jugoslavia unita, è sopraggiunta la prima di quelle sincronie di cui si parlava all’inizio. Proprio nei giorni in cui sto scrivendo di Panorama, trent’anni fa la Slovenia, il primo paese di quell’area chiamata oggi ex Jugoslavia, si distaccava dal potere accentratore di Belgrado dichiarando la propria indipendenza. Il 25 giugno 1991 il parlamento sloveno proclamava la sovranità della Repubblica e, la sera dopo, il 26 giugno, nella piazza principale di Lubiana, si svolgeva una solenne cerimonia nel corso della quale veniva dichiarata l’indipendenza del paese, funesto preludio a giorni di scontri con l’Armata popolare jugoslava. La maggior parte degli sloveni voleva preservare le proprie tradizioni, la propria lingua, la propria storia, e non uniformarsi all’ideologia ufficiale della causa jugoslava, per tale ragione chi ha combattuto per l’indipendenza della Slovenia è stato considerato dalla Serbia un traditore. È una storia lunga, piena di lotte e spargimenti di sangue, quella del popolo sloveno: le rivolte contadine per la terra, contro gli invasori o per la preservazione della propria identità, iniziate nel 1469; le sommosse scoppiate tra i militari sloveni durante la prima guerra mondiale, dalle quali nacquero bande di disertori (i cosiddetti “gruppi verdi”); la resistenza slovena che guidò la lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale; questi sono solo alcuni degli episodi che hanno caratterizzato la storia di questa nazione.
Proprio in quegli anni tragici in cui il mondo veniva sconvolto dal nazi-fascismo anche la vita di Šarotar (non ancora nato), in qualche modo, dev’essere stata segnata inesorabilmente. Non è un caso se in molti dei suoi libri ci sono riferimenti al popolo ebraico. Un tempo, a Murska Sobota, la sua città natale, viveva una vasta comunità di ebrei, sterminata o deportata nei campi di concentramento durante il secondo conflitto mondiale.

 

Di monaci e fate

L’opera dello scrittore sloveno è intrisa di omaggi alle arti. Oltre alla fotografia e alla letteratura, l’autore si ispira alla pittura. Ci sono, infatti, cenni a Jack B. Yeats e ai fratelli Van Eyck, ma non solo. Una retrospettiva del pittore tedesco Richter a Londra gli ha, probabilmente, suggerito il titolo Panorama. Così, per puro caso, si è palesata la seconda connessione che mi ha fatto pensare al libro. Nei giorni scorsi in un programma in tv si parlava di un quadro che mi ha colpita per la sua potenza, tanto a livello cromatico quanto per il significato introspettivo. Il Monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich, infatti, mi ha subito portato alla mente l’immagine di angoscia e smarrimento di Dušan Šarotar che, scrutando il mare scuro dell’Irlanda, si chiede, per tutti noi, qual è la nostra casa.

Infine, una folgorazione, arrivata quasi sul finale, le “colline dolci e sassose” alle spalle, davanti agli occhi si apre la valle che precede Mostar, la strada scompare nel mare con l’aria tremolante per la calura estiva: “una fatamorgana”. La fata che per tutto il viaggio ha guidato il narratore è Jane. Di lei si sa ciò che deve bastare al lettore. Come tutti, era alla ricerca delle sue origini, che ricercava anche nelle annotazioni sui suoi taccuini. Figura eterea, impalpabile, è la Morgana che prende i personaggi per mano, li sospinge, li conduce e poi li inganna. La si vede in giorni, come si dice nella mia città, di calmarìa, quando cioè il mare sembra immobile. Le correnti d’aria si incontrano a temperature diverse e ti sembra di poter attraversare lo Stretto di Messina a piedi. Anche in Irlanda accade di incontrarla, così Gjini e il narratore si lasciano trasportare su un aliscafo, ma Morgana li tradisce: il mare si trasforma, montano le onde e il segnale non prende più, non ci si riesce a connettere per mandare l’ultimo messaggio, l’ultima email, o per aprire Google Maps e segnalare la posizione dell’imminente naufragio.

Non può finire così. E così non finisce perché, nonostante le parole dello scrittore in un’intervista del 2020, di cui ci informa Patrizia Raveggi, “la storia cambia, viene revisionata e cancellata e spesso scorrettamente manipolata. La poesia no, resta la stessa. In essa l’autore si riconosce, senza differenza tra la vecchia e la nuova”, la storia è quella che viene tramandata con spirito critico. È grazie alla storia studiata, capita, analizzata, discussa, che siamo qui oggi a parlare di ciò che è accaduto e che accade nel nostro mondo ricolmo di odio. E finché ci saremo non dovremo mai sottovalutare questa parola, come suggerisce a Ivo Andrić l’amico Max Levenfeld in Una lettera del 1920 (Romanzi e racconti, I Meridiani Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2001): “Sì, sull’odio. Anche tu reagisci istintivamente ribellandoti quando senti questa parola (l’ho visto bene l’altra notte alla stazione), come ognuno di voi si ribella a sentirla, capirla, accettarla. E invece si tratta proprio di capirla, rendersene conto, acquisirne consapevolezza, analizzarla. Il dramma è che nessuno vuole o può farlo”.

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Da 'Gli estinti', un testo di Donato Novellini

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Ne “Gli estinti” si trovano storie vere di persone e luoghi appartati o ribaltati, testimoni di un passato che non passa, profeti di un futuro che forse non sarà, nascosti anche quando ci stanno sotto gli occhi, violenti, fossili, dolci, sognanti, contraddittori.

Un indipendentista veneto; il toscano che ha ucciso Van Damme; l’asfalto di Bolzano, il cemento armato di Livorno, il petrolchimico di Siracusa. Lara Croft. Roma. Una piccola Italia (fallita) sul Pacifico. Un monaco pazzo. I dispersi. Gli alberi genealogici. Una medium, che parla coi defunti e, per lavoro, si occupa di accessibilità dei siti web per le persone non vedenti.

Segnali di vita, in mezzo alla vita sospesa.

Cattedrale vi propone il testo di Donato Novellini

*

Velocipede
di Donato Novellini

Paolo, si chiama così il vecchio misterioso e quando l’ho scoperto sono rimasto leggermente deluso perché ci avevo costruito sopra una storia monastica. Mi sarei aspettato quantomeno un Francesco, un Bonaventura, Bernardo, magari Giacomo o al limite Rocco (santi patroni dei pellegrini), congetture mie, voli pindarici, romanzate suggestioni da Il nome della rosa. Maggiormente rimasi stupito quando mio padre, che lo conosce bene, aggiunse il cognome: Bresciani, inequivocabilmente quello di una ricca dinastia di farmacisti del luogo. Blasone di caduceo ermetico, stemmi araldici appesi al caminetto, quattrini. Quando e dove nacque in me tanta curiosità per quell’uomo è presto detto; sarà stato il 2010 e al paesello, nella bassa lombarda, mi gingillavo come redento nella più amena mondanità. A quel tempo ne avevo le tasche piene di libri filosofici e film esistenzialisti, civette ragnatele e rituali esoterici, anzi proprio grazie a quei labirinti traditi compresi le virtù della superficialità, il famelico giganteggiare dell’ignoranza: più si legge meno si sa. Fu così che una sera d’estate uscii, dalla buia tana dove m’ero rinchiuso – mesi o forse anni dedicati al misticismo domestico – per fare una passeggiata all’aria aperta; come un astronauta, atterrato esattamente dov’era partito dopo un viaggio a vuoto, ritrovai i vecchi amici al bar – s’erano mai mossi da lì – e spontaneamente attaccammo a bagolare d’inezie, fumando e bevendo spritz Campari. Divenne piacevole abitudine quella dell’aperitivo tardo pomeridiano, siesta messicana nel plateatico fronte-strada cinto da vasi in granito, con le siepi rinsecchite e gli ombrelloni serigrafati Algida. Si guardava passare macchine e motorette pettegolando di minuzie locali, della gente a fine lavoro che stancamente tornava a casa, indolente traffico paesano delle 19.00. Una di quelle serate estive mi soffermai più del dovuto ad osservare il transito lento di una bicicletta arrugginita, sulla quale pedalava ricurvo un vecchio canuto. A colpirmi fu l’imponenza della figura, soprattutto il saio marrone scuro, come quello dai frati cinto in vita con una corda, nel quale era infagottata; ma anche i portapacchi anteriore e posteriore, sui quali, tra libri stretti dallo spago e altre cianfrusaglie indistinguibili, spiccava una grossa lanterna a petrolio. Una bicicletta che assomigliava ad un asino. Diogene, oppure un viaggiatore, rabdomante della notte.
La visione m’astrasse dai discorsi a tavolino, riflettei sul fatto che quella figura non mi era completamente ignota, fuoriusciva da qualche parte oscura della visuale, esulava dal solito paesaggio, come un’immagine ricorsiva e seppure misconosciuta mnemonicamente, restava in qualche modo collocata nella retina, in ciò che si vede ma non si guarda. Il sospetto d’essere visti, pupille invase da un profeta cieco. Chiesi lumi ai compari e quelli all’unisono sentenziarono, scuotendo il capo: «Quello è matto». Tutti ghignarono, con la forza balorda e crudele del gruppo al cospetto del solitario. Pavidamente tacqui. Cagnara da bar. Eppure, di lì a qualche giorno, accadde qualcosa di buffo tra noi: nel gruppo WhatsApp della compagnia presero a circolare foto o brevi video che ritraevano il cosiddetto Monaco pazzo in sella alla sua bicicletta, in vari luoghi della campagna mantovana e cremonese; spontaneamente ognuno di noi si sentì in dovere di condividere quell’apparizione casuale, con didascalie via via sempre meno canzonatorie, piuttosto come se l’epifania servisse a giustificare piccoli eventi fatali del quotidiano, come se vi fosse una sorta di nesso con altre strane coincidenze: “Avvistamento! L’ho beccato oggi pomeriggio, alle 17.17 ed oggi è il 17 del mese!”, così ci affezionammo a lui.

 

Tant’è che, qualche anno più tardi, quando presi la balzana decisione di partire per un pellegrinaggio di 2000 km a piedi, da Lourdes alla Galizia fino alle scogliere della terra continentale, fu a Paolo che mi ispirai. Equivocando probabilmente, giacché quei suoi spostamenti su due ruote non avevano natura spirituale, bensì più prosaicamente, senza telefono e automobile, affrontati per inderogabili commissioni, per approvvigionarsi del necessario. Prima di partire per quel lungo viaggio ebbi modo d’incrociarlo, cercai maldestramente di fermarlo per annunciargli la mia decisione, auspicando una legittimazione al viatico, ma egli tirò dritto sorridendo. Seppi poi che osservava una sorta di calendario del silenzio, potevano passare mesi senza che proferisse parola.

 

Sempre più incuriosito chiesi ulteriori delucidazioni a mio padre, il quale annaspando nella memoria cavò fuori un ritratto che lì per lì mi parve assai romanzato, ma avendolo registrato posso riportarlo fedelmente: «Paolo mi ha raccontato di essere originario di una zona non meglio definita nei pressi di Brescia (dato il cognome probabilmente una delle famiglie autoctone o comunque molto antiche). In effetti molti alberi genealogici della nostra zona sono originari di là, forse dall’epoca della peste del 1300, quando qua era borgo franco e si dava ospitalità a sfollati, spesso delinquenti... Torniamo a Paolo, contemporaneamente sosteneva d’essere discendente di Pico della Mirandola, ma non so fino a che punto possa essere affidabile questa affermazione, perché in effetti la sua dimora signorile è la stessa appartenuta alla famiglia dei Pico, notoriamente imparentati coi Gonzaga, ma fu acquistata dai Bresciani molto dopo. È la casa più grande del paese, l’ingresso principale è più o meno in una via vicina alla zona delle valli paludose, ma poi si estende fino all’imbocco dell’argine che dà sul ponte della bonifica; era usata dai Gonzaga come luogo di villeggiatura estivo, da qui la storia del “pozzo dei tagli” ossia una sorta di buca nel terreno, dove il Marchese Gianfrancesco avrebbe gettato i cadaveri delle sue amanti locali, ma non so, ci si chiede il perché avrebbe dovuto farlo, visto che era consuetudine dei signori avere delle dame di compagnia. Altra leggenda, alla quale Paolo certamente crede, è quella relativa al tunnel sotterraneo che avrebbe unito casa sua con l’Oratorio di S. Pietro, antica pieve romanica. Questa è assai più verosimile, non solo perché è risaputo l’uso di cunicoli per far fuggire i Signori in caso di pericolo, ma anche perché negli anni Sessanta una famiglia di allevatori perse una vacca. Avevano le bestie libere al pascolo, giù dall’argine, ad un certo punto gli allevatori udirono muggire disperatamente, la terra aveva ceduto e la bestia era sprofondata in una fossa, che poi si scoprì essere un lungo cunicolo; per paura che i bambini del paese cadessero dentro l’ingresso fu bloccato con una colata di cemento e ricoperto nuovamente di terra. Paolo s’era convinto (per certi suoi “studi”, come dice lui) che l’ingresso del cunicolo si trovasse nell’androne principale di casa sua, perciò i marocchini e negri che vivevano da lui – sempre avuto gente del genere in casa negli ultimi anni, che faceva sgobbare in cambio di vitto e alloggio , un po’ come il Bert[1] ma senza fini economici o di altra natura – si misero a rompere, sotto sua istruzione, il pavimento d’ingresso, aprendo voragini per scoprire appunto questo fantomatico ingresso, ma non so se l’abbiano mai trovato».

 

Affascinato dal resoconto paterno raccattai altre informazioni in giro. Delle varie opzioni per la missione investigativa scartai subito la parrocchia dopo che il prete, visibilmente contrariato, definì Paolo “una pecorella smarrita”. Assai meglio andò in coda alle Poste, nella sala d'attesa dell'ambulatorio medico, al minimarket, dal barbiere. In quelle enclavi del pettegolezzo, covi delle più funamboliche dicerie, gettai coll'atteggiamento dello sprovveduto le mie esche estorsive; vaghe constatazioni sul meteo – «han messo pioggia, chissà se quel vagabondo che gira sempre in bicicletta se la caverà» – rivolte alla massaia in coda e al pensionato con gli incartamenti in mano. Così, semplicemente lasciando discorrere la gente, venni a sapere che Paolo ha una sorella e un fratello, emigrati in città, ha studiato Veterinaria (pare non si sia mai laureato) fino a quando ha deciso di cambiare totalmente stile di vita, probabilmente radicalizzando certe predisposizioni, seguendo le orme di Francesco; alcuni dicono in seguito ad una forte febbre che gli avrebbe preso un po’ la testa, altri invece sostengono a causa di un amore perduto, ma qui si entra in una mitologia piuttosto nebulosa. Cercando di fare la tara fra detrattori («è impazzito») e apologeti («un sant'uomo»), scopro anche che è vegetariano da molto prima che diventasse moda. Sempre annotando le cronache del gazzettino paesano: fino ad un paio d’anni fa abitava solo nella casa familiare ma nonostante il cospicuo patrimonio viveva in povertà, con il suo gregge di pecoroni – animali che gli avrebbero creato alcuni guai negli anni della vecchiaia – che portava al pascolo traversando il paese come un pastore sceso dai monti o proveniente da un altro tempo. Una volta gliene sfuggì uno, di quei montoni, mentre per la via principale transitava una mesta processione funebre; la bestia prese di mira il corteo generando gran trambusto, due o tre persone rimasero contuse cadendo nella fuga precipitosa. In seguito a quell’episodio, come a voler dimostrare alla comunità che l’animale s’era ravveduto, Paolo presenziò a tutti i cortei diretti al camposanto, standosene però in disparte, immobile col caprone nero a fianco divenuto mansueto. Quella presenza ieratica, simile a una visione fiamminga, suscitò dapprima inquietudine, poi la gente ci fece l’abitudine considerandola in qualche modo parte del rituale. Forse per questo motivo il parroco non ha voluto raccontarmi niente su di lui, cianciando genericamente di pecora smarrita, mica era una metafora. E poi, parere unanime in paese, gatti tantissimi gatti, tutti quelli che trovava e anche quelli che avevano già una dimora, perché una delle sue fisse era il randagismo, perciò aveva in casa questa enorme colonia di mici che però, nonostante ne avesse le capacità, non voleva sterilizzare (forse per questioni religiose), perciò divideva in camere separate i maschi dalle femmine, nutrendoli amorevolmente con piselli cotti e ricotta. Quando qualcuno smarriva il gatto, s’andava da Paolo, glielo si descriveva bene, lui negava di averlo mai visto, ma un paio di giorni dopo il gatto rientrava magicamente a casa. Era la prassi. Gatto smarrito, Bresciani.

 

Altra sua ossessione esoterica era quella del colore nero, forse mutuata dalla nigredo putrefatta dell'opera alchemica, che sarebbe una sorta di manifestazione del maligno, perciò al negozio di alimentari apriva l’uscio, poggiando la sua manona unta di feci caprine sul vetro piuttosto di toccare la maniglia nera della porta. La titolare sostiene che non entrava mai a fare la spesa. Spingeva la porta e appoggiava una sorta di sportina di vimini intrecciato con all’interno un bigliettino di carta, scritto a matita cancellato riscritto cancellato riportante dei rebus o delle parole crociate di sua invenzione, enigmi che la stessa bottegaia doveva risolvere per potergli preparare il necessario; in serata sarebbe poi passato a ritirare la cesta piena di vivande, che per ore se ne stava a terra fuori davanti all'ingresso del negozio; nessuno ha mai rubato niente da lì, anche perché il contenitore puzzava di caprone e spesso all’interno si notavano delle palline nere che non erano praline di cioccolata. La sua spesa tipica consisteva in candele, ricotta o formaggini morbidi, pane, latte, legumi in scatola, piselli, fagioli e ceci. Con tutti quegli ovini in casa ci si sarebbe potuto aspettare da lui una produzione autarchica di latticini, invece nulla, probabilmente non era attrezzato per l'attività di casaro. Con la lana però si dava molto da fare, tosando con vecchie cesoie e arrotolando il vello in sacchi, per omaggiare qualcuno degno della sua gratitudine; doni che tuttavia, in epoca di piumoni pronti all’uso, venivano accolti dai beneficiari con una certa perplessità. Non aveva corrente elettrica in casa (perciò le candele) e si scaldava con la stufa a legna, si lavava in giardino con la canna dell’acqua che era collegata al pozzo, d’estate e d’inverno; in piedi, completamente nudo, lo si poteva facilmente vedere dalle finestre attigue, visto che mezzo paese ruota attorno al perimetro dei suoi possedimenti. Non indossava biancheria intima, solo il saio e una giubba screpolata imbottita di penna d’oca d’inverno. Sandali ai piedi o un tipo di strane scarpe chiuse a stivaletto d’inverno.
Dotato di un carisma sciamanico, circonfuso da un’aura ancestrale, Paolo era anche un gran esperto di erbe e medicamenti officinali. Ha curato le bestie di mezzo paese per una vita intera, difficile chiamare un veterinario con Bresciani in giro, anche perché era bravo, dotato di un’intelligenza brillante e intuitiva; non gli mancavano neppure ricette di decotti e tisane per malanni e dolori umani. Omeopata, dedurremmo oggi, ma egli probabilmente non apprezzerebbe il termine. Si dice non abbia mai visto un dottore, fino alla mezza gangrena del suo piede destro che poi lo ha portato alla casa di riposo dove tuttora risiede, perché non stava più in piedi. Fu a seguito di un incidente domestico, trauma che lo costrinse a malincuore a rivolgersi alla sorella. Praticamente, non si sa bene come, mentre stava coi pecoroni al pascolo un montone lo caricò e lui, cadendo, si fece del male; aveva di certo passato i 75 anni, a modo suo sempre lucido di mente ma non più autosufficiente per sostenere una vita medievale catapultata ai giorni nostri; durante la difficoltosa permanenza in ospedale (che si prolungò perché i dottori lo trovarono denutrito e in pessime condizioni) il fratello e la sorella vendettero a sua insaputa tutte le pecore; quando Paolo tornò a casa ci rimase molto male e se ne lamentò coi pochi che lo andarono a trovare, anche se effettivamente erano diventate bestie pericolose per lui, che ormai camminava a stento. Non lo vedemmo più in giro, di lì a poco la destinazione irreversibile prese la forma ergonomica di una sedia a rotelle, all’ospizio.

 

Paolo mi è tornato in mente recentemente, andando al lavoro la mattina presto, in tempi di nebbie e gelo, nell’ora in cui il buio si trasforma in grigiore diffuso. Per strada, in macchina sulla provinciale, si possono notare a destra, tra fossi e carreggiata, gruppetti di stranieri in bicicletta, qualcuno anche a piedi con giubbotto catarifrangente, lavoratori del settore vivaistico, oppure bergamini diretti alle stalle, nelle grandi cascine lontane dai centri abitati. Uno di quei pendolari su due ruote è il pakistano della stazione di servizio, dove settimanalmente mi fermo per fare il pieno di GPL: procede solitario, a rilento in sella ad una Graziella troppo piccola e stretto dentro un giaccone sintetico color grigio metallizzato. Con la dovuta flemma è diretto al gabbiotto di lamiera, alla sua cella da benzinaio riscaldata da una stufetta a cherosene, posta in un angolo della grande spianata di cemento. Gran regno di pompe, erogatori e spazzole per autolavaggio, sagrato oleoso sormontato da scatole luminose serigrafate Total. Cascasse il mondo, alle sei e mezza del mattino le nostre strade s'incrociano sempre nello stesso punto, nei pressi di un cartello stradale triangolare biancorosso, segnalante pericolo caprioli stambecchi cervi daini. Transiti selvaggi in pianura padana. Tre anni ormai che faccio rifornimento da lui e s'è mai scambiata una parola, a parte frettolosi saluti, perché sta sempre a parlare al telefono, anzi all'auricolare, in vivavoce nel suo misterioso idioma. Al di qua del finestrino, nell'abitacolo, talvolta pare di intuire una parola italiana, un vago quesito posto al conducente, ma poi niente, l'olivastro in salopette scuote il capo, come a dire che il suo mantra intercontinentale non mi riguarda. Associazioni mentali e nulla più mi riportano a Paolo. Riapparso sotto mentite spoglie, come un fantasma nelle trasposizioni stradali, il monaco pazzo resta tuttavia recluso all’ospizio, prigionia alla quale deve aver ceduto dopo strenua resistenza. Sento il bisogno di incontrarlo, di udire una sua parola in grado di assecondare o confutare i miei teoremi, sicché spinto da nostalgia per l’immagine scomparsa, ricurva e schiva, come fosse un santino semovente impresso nella memoria, con improvvisato colpo di matto decido di andarlo a trovare presso la residenza sanitaria assistenziale, dov’è rinchiuso.

 

L’impresa però si rivela da subito fallimentare. Tempo di ascoltare la risposta sbrigativa di una infermiera al citofono: «A causa della pandemia tutte le visite di amici e parenti sono rigorosamente interdette». Fuori dalle alte lance appuntite del cancello, osservo il parco della villa ottocentesca adibita a ricovero per anziani; tappeto di foglie gialle e marroni, alberi nudi neri, sentieri di ghiaia, panchine vuote, al centro il busto in marmo del filantropo fondatore dell’opera di carità, con barba tuba e monocolo, scruta pensoso col mento appoggiato alla mano, il panorama fradicio dal quale salgono vapori: gli spettri delle suore della provvidenza, immagino fantasticando. Aspetto lì davanti, qualcuno prima o poi dovrà uscire.
Difatti dopo pochi minuti riesco a fermare al volo una giovane ragazza, bionda, pallida, carina. Straniera? Slava? Stanca. S’appiccia una sigaretta infreddolita, lasciandosi il cancello alle spalle. Smonta certamente dal turno di notte. «Scusa posso offrirti un caffè? Vorrei sapere come sta un ospite». Accetta con un cenno del capo, nonostante il sonno che palesemente la affligge. Sotto i portici, fuori da un bar poco distante, coi bicchierini di carta in mano, chiedo di Paolo Bresciani e lei, dopo lo scetticismo iniziale, si apre trasformando l’eloquio fin lì monosillabico in un fiume in piena: «Qua al ricovero all’inizio fu un po’ dura, non si faceva lavare o spogliare volentieri, ma coll’andare del tempo di qualcuno prese a fidarsi. Sempre gentile Paolo, con un’ottima padronanza di linguaggio anche se molti suoi termini risultano un po’ antichi, diciamo così, tipo quando si metteva a parlare da solo riguardo alle teorie del flogisto. Cerca sempre di fare tutto da sé, solo in caso d'urgenza chiede aiuto, ma non bisogna imporgli nulla. Spesso domanda la natura dei farmaci che gli vengono somministrati, talvolta esprime obiezioni, allora si chiama il medico per certe trattative, visto che vuole scegliere quali prendere a seconda delle sue auto-diagnosi; quando è obbligato a prendere tutte le medicine prescritte dalle infermiere, inizialmente fa buon viso a cattivo gioco, sostenendo di non voler essere guardato mente le ingolla. Perché altrimenti s’inibisce, dice. Difatti, puntualmente, noi OSS troviamo poi le pasticche disseminate nel letto e ci premuriamo di gettarle via; con sua somma soddisfazione visto che non gli sfugge niente, anche se molto silenzioso sorride spesso o ammicca al momento giusto, soprattutto quando scorge complicità da parte del personale».

 

Sta ancora mescolando lo zucchero nel caffè da asporto, l’operatrice sanitaria, quando le faccio notare con pedanteria che potrebbe essersi già raffreddato. Fumiamo una sigaretta, qualche minuto di silenzio, poi riprende: «Ora Il suo pensiero è lievemente rallentato dai farmaci o forse dall’età, ma quando si trova a dover discutere con qualcuno perché non vuole fare qualcosa o robe del tipo mettersi le scarpe, fa uscire con poche parole un’ironia pungente che sì e no certe colleghe colgono, poi però, come per le medicine, lascia correre e si fa vestire. Tanto di lì a pochi minuti si leva da solo gli indumenti che lo infastidiscono. Paolo non partecipa mai alle attività di animazione tipo la tombola o le feste di compleanno comuni degli ospiti, anzi i canti e gli schiamazzi lo infastidiscono; solitamente passa la giornata a leggere, con la sua lente d’ingrandimento, la Bibbia in un’edizione francese perché sostiene essere la traduzione migliore; anche ad alta voce non solo nella mente come di chi studia o medita, tant’è questa sua prassi non disturba nessuno. Da quando è entrato in struttura sta accanto ad una vecchietta, una tipa fuori di testa, afflitta da demenza senile avanzata, condizione che la porta a crisi depressive terribili, piange tutto il giorno e rifiuta il cibo. Be’, Paolo che gli stava vicino anche in refettorio, prima della pandemia, era l’unico che riusciva a tranquillizzarla e a farla mangiare. Ora devi immaginartelo questo omone, altissimo, tutto ricurvo sulla sedia a rotelle, che ha perso l’uso della sinistra, oltre a patire una lateroflessione a destra, controlla discretamente solo la mano destra, con la quale mangia, si versa da bere, regge la lente per leggere, insomma tutto con quell’arto. Prima delle disposizioni per il distanziamento era uno spasso osservarlo a pranzo, mentre fissava la tipa depressa senza dire una mezza parola, imboccandola delicatamente con la sua forchetta, facendo a metà del formaggio e della sua razione di mela cotta. Tieni conto che alla signora veniva somministrato il cosiddetto piatto unico (sorta di pappone omogeneizzato) perché non masticava e faceva girare il cibo in bocca per ore; ecco, con lui stava zitta e si mangiava tutto».

 

La ragazza, di colpo come ridestata dal flusso spontaneo del suo stesso racconto, mi guarda ora con un velo di sospetto negli occhi; effettivamente nemmeno ci siamo presentati, è bastato fare il nome di Paolo Bresciani per portarla a rivelare un sacco di informazioni riservate, i cosiddetti dati sensibili. Anticipo quindi prevedibili obiezioni e imminenti scrupoli tendendole la mano, presentandomi nel ruolo di pronipote. Ella, pur non pienamente convinta, adducendo a giustificazione il desiderio di tornare a casa dopo il turno notturno, conclude frettolosamente il suo monologo: «Paolo, pur a suo modo devoto, non ha mai partecipato alle messe nella cappella del ricovero, quando glielo si proponeva scuoteva la testa e poi sogghignava luciferino, con atteggiamento di sufficienza. Ma la sera prima di dormire cercava sempre, immancabilmente, il volontario M. per parlare di cose loro e pregare un po’, tipo quei 10 minuti prima di mettersi a letto. Talvolta li vedo bisbigliare, fitto fitto all’orecchio, teoremi segreti confessioni, chissà. Questo signore, molto legato a Paolo, è un ex gran puttaniere che di colpo ha avuto una sorta di illuminazione e ora, seppur non abbia mai preso i voti, sta tutto il giorno a sgranare un rosario e a pregare, oppure a fare volontariato per gli anziani in casa di riposo e in generale dove c’è bisogno. Cercalo, se vuoi sapere cose più precise di Paolo, ammesso sia veramente tuo zio. Altro da dirti non ho, ora devi scusarmi ma devo veramente andare». Scompare lesta sotto l’ombrello giallo, macchia di colore sempre più fioca inghiottita dal viale brumoso, lasciandomi in balia di altre domande, destinate a non trovare risposta.

 

Nevica da ore, sotto le coperte lo si può intuire dal silenzio magico e da una luce diversa che filtra da fuori, percepibile ancora prima di aprire le imposte. Così al mattino il solito tetro paesaggio di pianura, spettralmente decolorato nelle tonalità del grigio fradicio, si risveglia beato, si trasfigura lasciando al candore uniforme l'effimero compito di nascondere o inventare nuove rotte: quando tutto è indistintamente bianco, importa forse più la destinazione del tragitto cancellato dai fiocchi? Domanda oziosa epperò bastevole a spingermi fuori. M'incammino inebriato dall'albedo ovattato, per la via deserta, in direzione dell'abitazione di Paolo. Cassetta della posta satura di pubblicità, due grifoni marmorei sui pilastri montano la guardia al cancello dell'entrata principale, chiuso con catena e lucchetto; costeggio quindi il lungo muro di cinta giungendo sul retro, nel lato che dà sulla campagna imbiancata. Qui tra rovi e sterpaglie c'è il vecchio letamaio, accanto ad una porta completamente marcia, difatti forzando l'uscio il legno si sbriciola e mi resta in mano il catenaccio. Varcata la soglia mi ritrovo sotto una barchessa, da un lato della grande corte quadrangolare. A destra l'imponente magione, facciata settecentesca, al cui ingresso soprelevato si accede da due scalinate ricurve, abbellite da eleganti balaustre in ferro battuto. Mi guardo attorno spaesato, il sagrato innevato, abbacinante, contrasta coi colori giallastri della paglia che calpesto, col marrone delle travi che mi sovrastano. Tutto attorno è vuoto, sgombro, ripulito come se dovesse passare in visita qualcuno dell'agenzia immobiliare. Nulla, so nemmeno perché sono capitato qui e cosa mai pensavo di trovare, entrando furtivamente in una casa abbandonata da anni. Tornando deluso sui miei passi per guadagnare l'uscita noto, in un angolo coperta di ragnatele, la bicicletta di Paolo. Quella vecchia ferraglia dalle ruote sgonfie, buttata là contro il muro, conserva ancora intatto il suo carico: la lanterna a petrolio, sulla quale la polvere si è impastata coll'unto, ma soprattutto libri e taccuini accumulati sul portapacchi. In cima alla pila stanno i Pensieri di Blaise Pascal, edizione francese anni Trenta. Lo apro e, sfogliando le pagine ingiallite, tutte bucherellate, prendo atto del corrosivo quanto costante lavorio dei topi. “Les bêtes ne s’admirent point. Un cheval n’admire point son compagnon” sta scritto e sottolineato col lapis. Dai piccoli diari rilegati in pelle, invece, ben poco riesco a decifrare: alcuni numeri, astrusità pitagoriche, simboli schematici varianti della croce e una grafia minuscola sulla quale l'umidità – gonfiando la materia – ha sbrodolato le sue nebulose colature, macchiando la carta con informi pozze d'inchiostro, lasciandomi di conseguenza cieco di fronte alla grammatica delle cancellature, alla censura delle leggi del tempo.


[1] Bert è l’“Alieno della porta accanto”: la sua storia è raccontata ne Gli ultrauomini, il primo libro della Trilogia normalissima.

Topografia dell’opera di Martin Pollack

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di Andrea Cafarella


Ormai sono passati lunghi anni
da quando affermavo con certezza che esiste una sola persona
dalla quale ci si può veramente allontanare, andar via,
che si può veramente abbandonare. Ma non è facile.

 Sylvie Richterová

Spesso mi viene da dire che non mi interessano le storie – o le trame, quando si parla di narrativa. E questo è vero e non è vero.
Di sicuro mi interessa molto di più come viene raccontata una storia, sia essa di fantasia o tratta dalla “realtà”; differenza che mi sembra assolutamente secondaria, benché interessante come discrepanza da indagare tra diversi modi di raccontare.
In ogni caso, il come viene raccontata una storia non è mai a sé stante, e per toccare il lettore deve avere una certa concordanza, sia essa armonica o disarmonica, con l’oggetto descritto dal linguaggio, che riverbera nelle parole e le fa suonare.
Potrei dire che questo mi interessa, innanzi tutto, nei libri che vado leggendo: il significato profondo del mondo espresso dalla letteratura. Pertanto, non mi hanno mai impressionato le etichette: “storia vera”, “autofiction” o “testimonianza”, eccetera. Che comunque vanno sempre di moda.
Soprattutto, probabilmente per ragioni anche anagrafiche, ho spesso pensato – e so che sto per dire qualcosa di politicamente scorretto – che stesse diventando quasi stucchevole la reiterazione ossessiva del racconto del grande trauma storico della Seconda Guerra Mondiale e di tutti i diversi fenomeni a essa legati. Bisogna però ammettere che, in qualche modo, l’effetto collaterale di questo avvenimento catastrofico e unico nella Storia è l’aver generato una grande quantità di opere d’arte incredibilmente potenti.
E perciò, inevitabilmente, sono legato a opere, letterarie e non, che parlano della Seconda Guerra Mondiale. Direi meglio: l’intero Occidente è segnato da questo episodio e quindi gran parte della cultura europea, tra le quali (seppure meno di altre) quella italiana è definitivamente segnata da quel periodo, forse per sempre, di sicuro per lunghi anni ancora a venire.
Eppure, comunque, come lettore, non cerco questa storia – almeno non in senso didascalico, non me ne frega assolutamente nulla. Credo che basti leggere i racconti di Bruno Schulz per rievocare quei fantasmi. 

Nonostante quanto detto fino a ora, c’è un autore che sovverte completamente questi miei “pregiudizi” (chiamiamoli così): Martin Pollack. Scrittore e giornalista austriaco nato nel 1944. La sua vita lo ha quasi costretto a scrivere quello che scrive. E scrive propriamente di Storia. Non potrei dirlo in modo più semplice e conciso, anche se profondamente limitato.

Sappiamo che il terreno sul quale ci muoviamo qui nella Mitteleuropa è fragile, che la Storia drammatica del secolo scorso ha aperto ovunque abissi che sono stati chiusi alla meno peggio. In questo modo si sono spesso formate delle cavità nascoste, come miniere abbandonate che possono crollare senza preavviso, così che ci vedremmo di colpo confrontati con il mondo dei nostri padri, con i relitti del passato che avevamo sperato non sarebbero più affiorati.  

Pollack si occupa della storia dell’Europa centrale durante un periodo ben preciso del Novecento. Attenzione, però: Pollack indaga specificamente «le cavità nascoste», non la Storia nella sua totalità ma quegli angoli che sono stati taciuti, dispersi nell’oblio per le più diverse ragioni. Riporta alla luce i relitti del passato e mi fa tornare in mente un’espressione linguistica che mi piace molto: «fare memoria», che non significa «ricordare», quanto rendere il ricordo presente. E allora raccontare quanto è stato dimenticato e occultato, significa compiere un’azione ben precisa su noi stessi e sul futuro che abbiamo di fronte, significa costruire.
Come un esercizio di catabasi Pollack si muove in mezzo ai traumi del passato, gli scheletri nell’armadio, fa i conti con la Storia tramite la sua storia e la sua infanzia, affronta i padri per sviluppare una consapevolezza che possa migliorare la condizione esistenziale di chi legge. Sì, leggiamo di fosse comuni di cui nessuno vuole parlare, di guerra e padri rivelatisi assassini, ma facciamo i conti con chi siamo davvero, con il nostro passato e i nostri fantasmi.  
Succede anche che i ricordi assomiglino a pericolosi campi minati, attraverso i quali ci muoviamo con timore, a tastoni, sempre pronti a imbatterci in immagini e rivelazioni terribili che minacciano di farci perdere l’equilibrio interiore. E poi viene da chiedersi se non fosse stato meglio lasciare stare il passato, che abbiamo disturbato con quei ricordi, e non mettere mano a quelle cose – anche se sappiamo bene che tacere e voltare lo sguardo, rifiutare e reprimere non fanno scomparire i problemi.Ormai più di dieci anni fa apparve in Italia, nel catalogo di Bollati Boringhieri, il libro più conosciuto di Martin Pollack, Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre. Poi più nulla. Fortunatamente dal 2016 Keller ha ben deciso di iniziare a pubblicare diversi suoi libri: Paesaggi contaminati, un breve ma densissimo reportage nei luoghi deturpati dalla guerra e dalle innumerevoli fosse comuni ancora sconosciute che modificano i paesaggi e la fisionomia di quei paesaggi; Galizia, forse il più letterario dei libri di Pollack, nel quale ci accompagna in un viaggio attraverso un paese scomparso, che rivive nelle pagine di grandi autori come Joseph Roth, Bruno Schulz e Paul Celan; una nuova edizione de Il morto nel bunker. Indagine su mio padre, dove appunto Pollack racconta la storia del padre naturale, sulla quale torneremo; e, infine, da qualche mese, Topografia della memoria, una eccezionale raccolta di saggi, articoli, discorsi e interventi vari che costituiscono una vera e propria mappa topografica della sua intera opera e ce la riconsegnano in dei lampi, dei frammenti, dei brevi racconti che hanno tutta la potenza della letteratura mitteleuropea e degli spettri che popolano i paesi di quella zona del mondo, dove gli alberi affondando le radici nella terra e nei cadaveri.

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Memoria e Fotografia

La memoria non funziona come una cinepresa, ma come una macchina fotografica. Che cosa sono i nostri ricordi se non fotogrammi le cui sequenze, spesso incontrollabili, ci lasciano di stucco? Per quale motivo la memoria sceglie di rendere un momento indimenticabile e di passarne sotto silenzio un altro? A causa della nostra razionalità? Delle nostre convinzioni? O piuttosto, il romanziere è un flaneur che obbedisce solo al suo imperativo estetico? Al suo senso della bellezza che lo spinge a camminare da un souvenir all’altro?

Massimo Rizzante ha scritto questa splendida intuizione su come funziona la memoria nella postfazione che chiude il volume di Topografia (appena ripubblicato da Rina edizioni), romanzo frammentario spettrale scritto da Sylvie Richterovà, un’altra perla dal valore inestimabile pescata dal fondale della letteratura novecentesca mitteleuropea.
Oltre i facili parallelismi che si potrebbero fare tra le due opere, mi colpisce l’intuizione di Rizzante: c’è una corrispondenza tra l’espressione della Memoria e il medium fotografico – come anche nello sguardo stesso del fotografo, aggiungo.
Tendenzialmente non sarei d’accordo nell’escludere il cinema dal ragionamento, anzi, mi piacerebbe includere qualsiasi forma espressiva. Nonostante ciò, capisco cosa vuole intendere Rizzante e perché sviluppa il discorso a partire dalla Fotografia e anzi proprio dalla macchina fotografica. Mi sembra come se si riferisse all’estetica che si è sviluppata a partire dai limiti del mezzo fotografico, soprattutto nei primi decenni. In questo senso, sì, la fotografia è fantasmagorica come la memoria umana.
«Ci ricordiamo di singoli incontri e situazioni, spesso casuali, di immagini che per qualche motivo hanno attirato la nostra attenzione e non ci hanno più lasciato» scrive Pollack in uno dei primi frammenti di Topografia della memoria, «Il viso di Jozef Parigal», nel quale ragiona intorno a certe dinamiche della fotografia a partire dalle capacità del noto fotografo Chris Niedenthal che lo ha accompagnato durante diversi servizi. Un vero e proprio omaggio, potremmo dire, che mette in luce diverse corrispondenze tra il modo che abbiamo di «fare memoria» – di nuovo – e fotografare. E a quel punto non ha importanza quando sia stata scattata una certa fotografia, il volto di un uomo può raccontare una storia millenaria, persino l’intera Storia dell’umanità.

Ciò vale anche per alcune fotografie scattate allora, fotografie che evocano una realtà ben più vasta di quella espressa dalla situazione contingente. Ci commuovono e ci inquietano ancora oggi, benché gli eventi siano trascorsi da tempo, passati, qualche volta pressoché dimenticati, ma le emozioni e gli stati d’animo che trovano espressione in quelle immagini continuano a essere validi. Raccontano storie che non hanno affatto perso la loro attualità.

 

Lo Sconosciuto 

Per Martin Pollack il tema centrale – che è anche il motivo che risuona nel modo che ha di raccontare le sue storie – è uno dei più classici, forse il più esplorato e primigenio: i Padri.
Il padre naturale di Martin Pollack, che conobbe a malapena, era stato nelle SS, nell’SD e nella Gestapo, e la sua storia è raccontata nel libro già citato Il morto nel bunker e lo ritroviamo nella maggior parte dei suoi scritti; in Topografia della memoria a un certo punto appare un breve ragionamento intorno a questa figura che percorre costantemente le pagine di Pollack: «Mio padre, lo Sconosciuto». «Cosa significa per me questo padre che non ho mai avuto vicino, con cui non ho mai fatto una passeggiata, né un discorso, che non mi ha mai sgridato», si chiede Pollack, trascinandoci in una dimensione estremamente intima, dove la testimonianza si sostituisce all’indagine. E questo attaccamento, questa affezione all’oggetto della narrazione, ci restituisce l’immagine fotografica perfetta che ci colpisce tutti: «Mio padre fu un estraneo per me, ma rimane mio padre, e di questo devo prendere atto, che mi piaccia o no». Voglio dire: chi non ha dovuto affrontare la figura del padre – o meglio dei padri: di chi ci ha preceduto, dei nostri genitori in generale. Per Pollack l’immagine del padre – che si fa palesemente simbolo – è proprio la Storia, è proprio il passato, ciò che ci ha resi chi siamo oggi, il materiale su cui lavorare.

 Spesso nei libri di Pollack scopriamo una certa ritrosia, soprattutto delle amministrazioni ma anche delle persone comuni – pure quando vittime o parenti delle vittime – nel supportare l’operazione di scavo, di ricerca e riesumazione delle tragedie che hanno puntellato il cuore dell’Europa negli anni delle grandi guerre. Preferirebbero non sapere, chiudere il passato nel silenzio, allontanare i fantasmi ignorandone la presenza. «Credo invece che si debba affrontare il padre come si affronta la Storia, anche se può essere scomodo o doloroso», risponde Pollack.

 Per questo bisogna leggere i suoi libri. Non tanto per l’immane lavoro di ricerca e documentazione che porta avanti da tempo e che sicuramente rappresenta un preziosissimo reperto storico, oltre che una lezione magniloquente sul modo di compiere il lavoro sul campo. Può essere fondamentale anche in questo senso, questo è chiaro. Nonostante tutto ciò, il valore della letteratura di Martin Pollack si accosta a quello della grande letteratura di tutti i tempi, poiché ci riporta all’uccisione dei padri, all’affrontare una parte di noi con la quale bisogna inevitabilmente fare i conti, anche se ci sembra distante, anche se siamo nati nel 1989, il muro era stato distrutto e tutto sembrava poter essere lasciato alle spalle; basterà fare mente locale sui fatti che hanno accompagnato i decenni a seguire, ricordare magari i servizi sulla guerra in Jugoslavia, i nostri genitori preoccupati davanti alla televisione sempre accesa.

 Ricordare i nostri genitori: a tutti i livelli. Farne memoria. Quelli naturali e la generazione precedente in toto. Macrocosmo e microcosmo. Fare i conti con il passato, riprendere contatto con le radici, sprofondare negli antichi traumi per ricostituirsi e ricostruire il mondo. Questo può provocare una scrittura autentica, che non ha paura della morte, dei fantasmi, delle ossessioni, delle immagini oscure di ciò che è scomparso per sempre. Una letteratura senza misericordia.

 I padri non ci lasciano liberi, per quanto a volte lo desideriamo, si aggrappano a noi, con una presa che non riusciamo a scuoterci di dosso. Perché i nostri padri sono una parte di noi, siamo inseparabilmente legati a loro da infiniti fili invisibili. Questa scoperta può essere magnifica, ma anche terribile e minacciosa.

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Storie che si biforcano, di Dario De Marco

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«Questo libro è composto da 21 coppie di racconti paralleli. Sono storie che iniziano nello stesso modo, con le stesse identiche parole, ma a un certo punto si biforcano. Nei primi racconti cambia solo il finale; negli ultimi, quasi tutto». Troverete queste parole scritte nella bandella di quello che la bandella opposta definisce «il primo libro» di Dario De Marco. In realtà Dario De Marco scrive per tantissimi giornali (qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui), sono usciti suoi racconti in altrettante riviste (qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui) e ha già scritto due libri: «il romanzo Non siamo mai abbastanza (66thand2nd) e la non fiction Mia figlia spiegata a mia figlia (LiberAria)». Perché mai questo suo Storie che si biforcano è definito come suo «primo libro»? Probabilmente perché è stato scritto prima degli altri due (intuisco, conoscendo questo dettaglio) ma forse anche per un’affezione particolare. In primo luogo verso la forma breve (anche questa più volte espressa da De Marco) e forse anche per questa deformazione liminare che s’ispira al labirinto e rende omaggio alla letteratura borgesiana, a quella squisita intelligenza che Jorge Luis sapeva imprimere così bene nella forma breve, con assoluta precisione e asciuttezza d’artigiano.

Il libro in questione, Storie che si biforcano estremizza la posizione del borgesiano Pierre Menard. Ogni racconto è scritto due volte ed è possibile quindi leggere la prima versione sulle pagine di sinistra e, rovesciando il libro, la seconda versione sempre sulle pagine di sinistra. Mentre sulle pagine di destra avremo sempre il testo nel verso opposto. Per questo motivo è possibile leggerlo in almeno due modi: proseguendo in un verso, racconto dopo racconto, per poi ricominciare daccapo nel verso opposto per rileggere le “seconde” versioni; oppure si possono leggere in successione le due versioni del primo racconto, proseguire facendo la stessa cosa con il secondo e così via fino all’ultimo. E poi ovviamente ci sono le consuete infinite possibilità di lettura del racconto, di cui la mia preferita è naturalmente: andare totalmente a caso.

Siamo felicissimi di ospitare uno dei racconti “doppi” della raccolta, ripetiamo: Storie che si biforcano, in anteprima assoluta, poiché il libro sarà nelle librerie italiane solo a partire dal 31 marzo, per Wojtek edizioni, che ringraziamo, insieme all’autore, per la gentile concessione del testo.

Andrea Cafarella

 

Destino

 

Nel sogno, vede questo posto. Pareti chiare, una tendina tirata, la finestra che occupa un lato intero della stanza. Davanti, una spiaggia di ciottoli, e il mare. Nient’altro. Subito, sa con immotivata e inesorabile certezza che è l’unico posto dove potrà essere felice. Passa il resto della vita a cercarlo. 

Compulsa diari di viaggio e atlanti di pergamena, interroga astrologhi pachistani e immobiliaristi svizzeri, prende aerei e canoe, guarda fotografie, alberghi, tramonti, piani regolatori. Niente.

Un giorno, sente una fitta atroce dietro l’occhio sinistro. Una rapida visita e subito, apprende con immotivata e inesorabile certezza che è finita. Un anno, massimo due. Capisce che il posto non era da qualche parte nel mondo, ma nella sua testa. Anzi, nel suo bulbo oculare. Non era un sogno, ma un retinoblastoma. Smette di cercare. E inizia a costruire. Ricorda benissimo la casa, la stanza, la luce, i sassi colorati. Riesce a far riprodurre tutto. Dopo nemmeno un anno èlì, davanti al mare. Sta dietro la grande finestra. Guarda e sorride. Vede una figura che si avvicina, dalla spiaggia. Capisce che non era un tumore, ma il suo destino. Si volta e aspetta.

 

Destinazione

 

Nel sogno, vede questo posto. Pareti chiare, una tendina tirata, la finestra che occupa un lato intero della stanza. Davanti, una spiaggia di ciottoli, e il mare. Nient’altro. Subito, sa con immotivata e inesorabile certezza che è l’unico posto dove potrà essere felice. Passa il resto della vita a cercarlo. 

Compulsa diari di viaggio e atlanti di pergamena, interroga astrologhi pachistani e immobiliaristi svizzeri, prende aerei e canoe, guarda fotografie, alberghi, tramonti, piani regolatori. Niente.

Un giorno, sente una fitta atroce dietro l’occhio sinistro. Una rapida visita e subito, apprende con immotivata e inesorabile certezza che è finita. Un anno, massimo due. Capisce che il posto non era da qualche parte nel mondo, ma nella sua testa. Anzi, nel suo bulbo oculare. Non era un sogno, ma un retinoblastoma. Smette di cercare. E inizia a vagare. Dimentica la casa, la stanza, la luce, i sassi colorati. Gira senza meta. Dopo circa un anno, è lì, sulla spiaggia della sua infanzia. Riesce a ricordare tutto. Ma qualcosa è cambiato: c’è una casa che prima non c’era. Dietro la grande finestra, una figura, che guarda e sorride. Si avvicina alla casa, lentamente. Poi si ferma: quella persona attende il suo destino, non un animale morente che ha obliato i suoi sogni. Capisce che non era un tumore, ma l’ultima destinazione. Si volta e aspetta. 

 

Appunti d'amore e di guerra, di George Bernard Shaw

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di Debora Lambruschini

In questo libretto dall’esiguo numero di pagine è racchiuso davvero moltissimo ed è interessante come sia possibile soffermarsi a riflettere sul suo contenuto da diversi punti di vista. Intanto, la prima cosa degna di nota: Appunti d’amore e di guerra, di recente pubblicato da Mattioli 1885, raccoglie per la prima volta in italiano testi inediti di G.B. Shaw, che nel corso di una lunga carriera ha scritto pochi racconti, ma di cui qui ne sono tradotti alcuni fra i più esemplari. Critico teatrale, drammaturgo, attore premio Oscar, scrittore insignito del Nobel, la scrittura di Shaw si caratterizza per l’ironia pungente, la prosa elegante, lo sguardo attento sulla realtà e le ingiustizie sociali, come traspare anche in questi scritti. Amore e guerra sono i due perni intorno ai quali ruota la narrazione, due tematiche in cui il genio di Shaw si esprime ora con ironia e leggerezza, ora con drammaticità, proprio laddove non te lo aspetteresti.
Quattro racconti e un memoir raccolti in questa bella edizione curata da Silvia Lumaca, che firma anche un’interessante prefazione all’opera per meglio inquadrarla nel contesto della produzione artistica dell’autore irlandese. Uno spunto, ma ancor più apprezzabile per la rarità con cui purtroppo oggi si trovano prefazioni alle opere e cenni bibliografici, uno strumento preziosissimo invece per orientarsi nella lettura di un testo, specie se particolare come questo.
Non è difficile in questi scritti riconoscere la voce di Shaw, lo humor messo al servizio della rappresentazione sociale, proprio di quel suo teatro delle idee con cui è noto a pubblico e critica: perché esattamente questo doveva essere il ruolo del teatro, farsi veicolo delle idee, superando la tradizione ottocentesca per rappresentare le contraddizioni della società vittoriana, mostrare la realtà senza retorica o finti moralismi, anche per mezzo dell’ironia e della satira. In questi scritti c’è molto della sensibilità artistica di Shaw, che gli permette un’attenta costruzione dei personaggi femminili, che siano protagoniste della storia o che non compaiano quasi mai in scena. L’universo letterario di Shaw, formatosi mediante le letture giovanili di Shakespeare e Shelley, il fondamentale incontro con l’opera di Ibsen, e l’attenzione come si diceva alle tematiche sociali, si traducono anche nella creazione di personaggi femminili anticonvenzionali, distanti dallo stereotipo dell’angelo del focolare di stampo vittoriano, ed emergono anche in questi scritti per ironia, arguzia, indipendenza. Non arrivano a ribaltare del tutto i canoni tradizionali come sarà proprio della New Woman di fine Ottocento o della prima ondata femminista di inizio secolo, ma sicuramente è possibile leggere in questi racconti il desiderio di rappresentare una donna che si muove più autonomamente nella società, esprime le proprie opinioni, compie scelte anticonvenzionali. È, personalmente, la chiave di lettura con cui ho tentato di indagare questi scritti, un fil rouge che li lega l’uno all’altro e ci da la misura di una tematica cara all’autore.
Le donne di Shaw, quindi, si muovono piuttosto liberamente e in autonomia, rifiutando chaperon e prendendo per prime la parola. Ne è un interessante esempio la protagonista del racconto d’apertura, “Don Giovanni chiarisce”, da cui peraltro nascerà la celebre commedia “Uomo e superuomo”: è la protagonista stessa a rivolgersi al lettore, raccontando di sé e dello straordinario incontro con il fantasma di Don Giovanni. Prima ancora della trama, del racconto di Don Giovanni e delle sue avventure, a interessare è soprattutto il ritratto di questa giovane donna, la sua ironia e intelligenza:

 

Ma lascia che ti dica che se c’è un divertimento di cui non sono mai andata in cerca è quello della seduzione, né mi sono mai preoccupata di impararlo. […] se sono più conosciuta dalle nostre parti come una bellezza da conquistare che come una botanica o un’insegnante, è perché nessuno ammetterà mai che io abbia altri interessi al mondo se non quello di fare un buon matrimonio.
(“Don Giovanni chiarisce”, p. 14)

 

Dopo aver assistito a uno spettacolo a Londra – proprio il Don Giovanni, di cui tuttavia non ha particolarmente gradito l’interpretazione – la ragazza viaggia sola sul treno che la riporterà in campagna, un fatto già questo degno di attenzione. Libera da accompagnatori, apre al lettore uno sguardo sul proprio mondo interiore, sulla società che la vorrebbe costringere entro certi ruoli prestabiliti, sul potere della propria bellezza e gioventù, che offuscano tutto il resto:

 

Gli uomini, anche i più amabili, cercano la mia compagnia per ammirare i miei lineamenti e la mia figura, e non per esercitare le loro facoltà intellettive.

(“Don Giovanni chiarisce”, p. 14)

 

Una critica sottile, che implica molto più di quanto chiaramente espresso sulla pagina, aprendo il discorso alla riflessione sulla Woman Question e sul desiderio ancora oggi non pienamente realizzato di essere riconosciute come individui dotate di intelletto e desideri che non sempre coincidono con il matrimonio. La giovane protagonista e Don Giovanni si riconoscono in parte come simili, entrambi chiusi dentro la gabbia che altri gli hanno costruito intorno, uno costretto nel ruolo del libertino impenitente, l’altra in quello dell’aspirante moglie trofeo cui non sono richieste opinioni o particolari guizzi di intelletto.
Ironicamente, mano a mano che il fantasma procede nel racconto delle sue disavventure, l’incantesimo-maledizione si compie ancora una volta e nemmeno la ragazza sembra immune al fascino di Don Giovanni.
Fascino che altre esercitano in modo decisamente anticonvenzionale, suscitando le ire di mariti gelosi e, soprattutto, costernati dalle idee a dir poco originali della propria moglie. È così che Shaw ci porta nello studio di un avvocato, dove avviene una curiosa conversazione fra lui e un cliente-amico deciso a divorziare dalla moglie:

 

Ha mai sentito di una donna che è andata da suo marito e gli ha detto che, visto che la Natura l’ha dotata del talento straordinario di far innamorare la gente, lei considera un peccato non esercitarlo?
(“I doveri di una bellezza”, p. 48)

 

Sarebbe un talento sprecato, molto più ragionevole utilizzarlo – non è dato sapere fino a che punto – e lasciare dietro di sé una fila di spasimanti.
Poi, di colpo, Shaw cambia scenografia – ma non del tutto registro e qui sta la particolarità – e porta il lettore in trincea, mediante una fiaba cupa, inizialmente pensata come contributo al Libro per bambini di Marie José, nel quale tuttavia non è stata inclusa proprio a causa della cupezza di cui è intrisa e, soprattutto, del sottotesto più adatto a un pubblico adulto. “L’imperatore e la bambina” è un’amara riflessione sulla guerra, l’altra faccia si diceva di questa raccolta di scritti, sul potere, l’insignificanza della vita umana e la morte. L’incontro fra il Kraiser e una bambina che porta l’acqua ai moribondi intrappolati nelle trincee, è lo spunto per riflettere sull’assurdità della guerra – in questo caso la Grande Guerra, dalle trincee delle Fiandre – , la  realtà filtrata dallo sguardo semplice di una bambina che ha conosciuto la morte da vicino e interroga l’imperatore con domande tanto dirette quanto vaghe sono le risposte – e le certezze – che l’uomo le fornisce. Una favola sempre più oscura, il mezzo letterario ideale per raccontare una guerra che è tutte le guerre, di ogni tempo e luogo.
Le posizioni pacifiste di Shaw appaiono ancor più evidenti nel memoir che chiude la raccolta, “Carne da cannone”, brevi scene e riflessioni del 1902 in cui la bellezza di un incontro contrasta duramente con la realtà degli uomini che si stanno imbarcando per raggiungere il fronte. Poco conta in questi scritti conoscere il dettaglio di quale zona di guerra si stia trattando, quanto distante da noi nel tempo e nello spazio essa sia, resta il sentimento di condanna di ogni conflitto, la disperazione della perdita, la morte, lo spoglio del potere da ogni forma di aulica misticità.

 Torniamo indietro di qualche pagina, al terzo racconto, per ritrovare una maggior leggerezza tematica e, ancora una volta, un interessante ritratto femminile, la donna contesa fra due spasimanti de “La serenata”. Un soggetto semplice, ma anche in questo caso trattato con sguardo lucido e attento nel ritrarre – seppur per pochi cenni e raramente sulla scena – una donna poco convenzionale e il corteggiamento sulle note della serenata di Schubert. Una scena dagli esiti divertenti, che sottende a qualcosa di più di quanto rappresentato, uno spazio che sta al lettore colmare.
È opportuno soffermarsi sulla vastità di considerazioni e di riflessioni, sia di natura stilistica che contenutistica, un libro così snello possa comunque fornire. E questo rende ancora più evidente quanto sia forte la portata di certi autori e scelte editoriali.

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Il rapido lembo del ridicolo, di Francesco Permunian

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di Andrea Cafarella

Una maschera che risuona dagli echi di un tempo che fu
Il rapido lembo del ridicolo e altri fogli sparsi riesumati dal faldone crepuscolare di Francesco Permunian

 

Da molto, non abitava tra noi uno scrittore posseduto da così violente ossessioni, da così tremende disperazioni, da così disumani furori: uno scrittore che vive continuamente sull’orlo dell’autodistruzione.

Pietro Citati  

 

La letteratura è solo una forma edulcorata della confessione, della testimonianza, che sono funzioni preliminari della preghiera.

Pierre Drieu La Rochelle

(in epigrafe a Chi sta parlando nella mia testa? di Francesco Permunian, Theoria, 2018)

Lavorare in una libreria al giorno d’oggi può concedere a un lettore attento diversi vantaggi: ovviamente impone di tenere lo sguardo sempre all’erta sulle novità, d’altra parte uno studio profondo dei cataloghi può essere uno strumento ancor più formidabile. Inoltre, il dialogo costante con i lettori è fonte di continuo arricchimento; un qualsiasi casuale avventore può aprire le porte di mondi sconosciuti. Per non parlare dei consigli – chiamiamoli così – dei diversi professionisti dell’editoria che, pur viziati dall’obiettivo ultimo di carattere puramente commerciale, spesso indicano dei percorsi ancora da battere. Strade nuove e tesori inattesi.
Un libraio accorto deve sapere muoversi nella complessa rete di suggestioni che arrivano da lettori di ogni foggia possibile.
L’altro aspetto che ho sempre trovato incredibilmente formativo – seppure a volte pericoloso – è la possibilità di conoscere personalmente gli scrittori (immaginate la tragedia che può consumarsi nel fare la conoscenza di un autore di un libro straordinario e scoprirlo una persona deplorevole, oppure l’esatto opposto, o ancora le ambigue sfumature di grigio tra questi due estremi. Questo: non ve lo auguro).
Di norma questo tipo di incontri in libreria si estinguono in alcune frasi di circostanza, poco più che quelle concesse a un normale spettatore della presentazione al quale l’autore è stato invitato.
A volte, però, molto di rado, può accadere la magia.
Ricordo pochissime occasioni di questo tipo. Anche se ognuna di esse mi rimane dentro, probabilmente idealizzata, nutrita dalla fantasia, ma non per questo meno importante.
Una fra tutte l’ho già in parte raccontata in un pezzo scritto ormai due anni fa. Si tratta dell’incontro con Francesco Permunian, per la presentazione del suo Costellazioni del crepuscolo (il Saggiatore, 2017). Un “dettaglio” che però non ho raccontato in quell’articolo è che a alla presentazione (purtroppo può succedere) partecipammo in cinque, di cui due librai. Francesco si mise comunque a sedere, mentre noi stavamo in cerchio attorno a lui. La libreria totalmente vuota e in silenzio. E si mise a parlare per un bel po’ di tempo. Rivolgendosi soprattutto ai più giovani di noi. Avendo capito trattarsi di possibili aspiranti scrittori si gettò a capofitto in una vigorosa invettiva delle sue: contro le false lettere, rimembrando i suoi maestri, le storie che lo avevano cresciuto. Aveva sempre in bocca Manganelli e Zanzotto e non si risparmiava nell’esprimere giudizi severi e onnicomprensivi verso gli scrittori della nuova generazione e tutto l’ambiente editoriale e letterario.
Quella sera lo accompagnammo fino all’alberghetto dove alloggiava e io tornai a casa estasiato. La presentazione era andata malissimo, chiaramente. E personalmente ci puntavo molto. C’era – è chiaro – una punta di amarezza e disappunto per l’assenza dei lettori, la disattenzione collettiva. Eppure, dentro di me sapevo che avevo avuto la fortuna di partecipare a un evento spettacolare e rarissimo, riservato a pochi. Organizzato per nessuno.

Incontrai nuovamente Permunian in quel di Chiari, per il festival della microeditoria, durante il quale presentava un suo lavoro sconosciuto ai più, e che ho il piacere di avere qui con me. Fortuna secondaria ma consequenziale, poiché seppi di questo evento proprio tramite la corrispondenza che mi ha legato a questo gigante della nostra letteratura per anni, e che continua ancora oggi. Altra fortuna che venne appresso – e grazie – a quella presentazione fallimentare. E che mi permise inoltre di lavorare, assieme a tutti gli altri autori, alla Piccola antologia della peste che Permunian ha curato per Ronzani durante l’anno appena passato.
Mi sembra incredibile, ricapitolando, quante piccole implicazioni possono verificarsi a seguito di una presentazione andata malissimo. O di un incontro andato molto bene – dipende da dove lo si osserva, da cosa reputiamo importante. 

«La fama di un letterato può durare anche diversi anni, dipende dalle mode, dai giornali, dai compilatori di antologie e almanacchi vari. Poi scompare, inevitabilmente». Riporto queste parole dall’ultimo libro di Permunian, appena pubblicato dalla Italo Svevo nella splendida collana «Biblioteca di letteratura inutile» con il manganelliano titolo Il rapido lembo del ridicolo.
Queste parole mi ricordano ancora di quell’unico pezzo che scrissi parlando di un suo testo; l’articolo si concentrava su uno strano libro “marginale”, dedicato alla figura di Bruno Schulz, ovvero uno dei tanti autori maledetti, genitori e fratelli del nostro Permunian. Scrittori messi «in disparte dall’indifferenza delle nuove generazioni». Cioran, Kafka, Bernhard, il suo adorato Manganelli, e molte altre voci, più o meno celebri, sempre tormentate, sempre forgiate nell’ossessione. E sempre a un passo dall’oblio, misconosciuti durante la loro vita, pazzi, poveri, e simili altre categorie da riservare ai più sfortunati di noi. I dimenticati, che superano la prova definitiva del tempo per divenire eterni.

È difficile riassumere in poche righe la parabola editoriale di Francesco Permunian – provo a tracciarne un abbozzo. Nasce poeta, e approda alla prosa quasi cinquantenne con un romanzo deflagrante: Cronaca di un servo felice (Meridiano Zero). Un romanzo che non capì nessuno, tanto era diverso da tutto quanto fosse disponibile in quel momento storico. Lo ricorda benissimo Salvatore Silvano Nigro nella prefazione a Costellazioni del crepuscolo, il libro che contiene e ripropone, dopo molti anni di assenza dalle librerie, Cronaca di un servo felice e Camminando nell’aria della sera (il suo secondo romanzo), assieme a una selezione di testi dall’immenso faldone che costituì le fondamenta di entrambi i libri, e che era stato intitolato proprio Costellazioni del crepuscolo. Ovvero: la fucina, il pozzo pieno di voci dal quale Permunian evoca i propri fantasmi, travestendoli da pupazzi di carne per i lettori, o lasciandoli nudi, spettri, voci. Nella straordinaria prefazione di questo libro (che, tra l’altro, sento un po’ come il libro della consacrazione di Permunian) Silvano Nigro ripercorre i commenti della critica che si approcciò alla prosa di Permunian in occasione dell’uscita del suo primo romanzo, nel ‘99. E sottolinea con grande intelligenza filologica come, a volte, il senso di certi capolavori, di alcune voci, così sconvolgenti da essere inizialmente incomprensibili, lo si può carpire solo dopo molti anni, solo dopo tutti gli altri libri, che retroattivamente illuminano l’opera, nella sua interezza. E questo è proprio l’intento di Costellazioni del crepuscolo, far rivivere l’intera letteratura di Permunian tramite la rilettura (dell’autore, del curatore e infine del lettore) dei suoi primi libri, riscoprendo la grandezza di questo autore grazie a una spaventosa visione d’insieme fantasmagorica.
Quando il secondo romanzo di Permunian arrivò a Rizzoli, seguito dal suo terzo, Nel paese delle ceneri, ancora nessuno aveva capito davvero di cosa si trattasse, cosa fosse questo ronzio di voci spettrali che è la prosa di Permunian. Tuttavia l’autore continuò a scrivere e pubblicare: Il principio della malinconia (Quodlibet, 2005, libro cardine, nucleo di senso di tutta l’opera, del quale parleremo ancora), Dalla stiva di una nave blasfema (Diabasis, 2007, con postfazione di Fabio Pusterla), e poi i tre libri pubblicati per Nutrimenti: La Casa del Sollievo Mentale (2011), Il gabinetto del dottor Kafka (2013), La polvere dell'infanzia e altri affanni di gioventù. Frammenti di un fotoromanzo popolare (2015). Per arrivare, infine, al Saggiatore con Ultima favola (2015).
Ho come l’impressione che da quel momento – dalla pubblicazione nel 2017 di Costellazioni del crepuscolo – sia cambiato qualcosa. Oltre alla pubblicazione di libri “nuovi”, come Sillabario dell’amor crudele (Chiarelettere, 2019), sono stati ripubblicati dalle edizioni Theoria i primi libri di Permunian, riletti dall’autore: Chi sta parlando nella mia testa? (2018, che è una riscrittura di Dalla stiva di una nave blasfema) e Nel paese delle ceneri (2020). Mentre nel frattempo altri classici continuano a essere venduti e ristampati. Credo che, lentamente, come spesso accade e come lo stesso Permunian ci fa notare, si stia finalmente riuscendo a capire la portata di quest’opera agghiacciante, dandogli il giusto spazio. E quei cinque lettori essenziali, felici di sedere intorno a lui per ascoltarne gli sproloqui e le ossessioni senza fine, saranno finalmente saziati, felicissimi di potersi abbeverare alla fonte di uno degli autori viventi più sconvolgenti che abbiano mai infestato le nostre librerie.

Proprio in questi giorni, dicevamo, è stato pubblicato dalla Italo Svevo di Alberto Gaffi un libro di raro splendore oscuro, soprattutto per coloro i quali s’interessano di libri strani, obliqui, liminali. Frammentari, intimi e raffinati.
«Questo libretto contiene una selezione di note e appunti da me scritti e riscritti nel corso del tempo, in periodi diversi, correggendo e variando all’infinito sempre gli stessi temi. Le stesse ossessioni», ci avverte Permunian nella nota che conclude il prezioso volumetto (curato graficamente da Maurizio Ceccato). Tutti i suoi scritti, abbiamo scoperto leggendo le Costellazioni, provengono da uno stesso grande faldone ricolmo delle sue ossessioni perpetue. Alle volte Permunian ce le mostra rivestite, giustapposte in una trama, in una storia o almeno in un brandello di storia; altre volte invece ce le presenta nude, magari riordinate tematicamente – come in questo caso – ma comunque prive di un tessuto narrativo atto a coprirle di una storia più o meno coerente. Una struttura in grado di creare l’illusione della finzione.
Tuttavia, anche quando Permunian ci permette di leggere alcuni brandelli dei suoi Quaderni – potremmo dire cioranamente – lo fa con una cura e un’attenzione al particolare che puntano al perfezionamento assoluto, lirico e stilistico; minuziosamente rivede le sue prose e le affina con mano ferma, giorno per giorno, davanti al suo amato lago. I frammenti che leggiamo ne Il rapido lembo del ridicolo sono disarmanti, in ogni senso, ma prima di tutto quanto a perfezione stilistica. Non hanno l’immediatezza del Diario – kafkianamente, stavolta – eppure conservano quell’ardore, anzi lo sublimano, lo epurano.
«In tutta onestà e mettendomi una mano sulla coscienza – ammesso e non concesso che io abbia una coscienza – davvero non saprei che consiglio dare, o quale avvertenza suggerire a un lettore intenzionato a sfogliare qualche pagina di questo diario», men che meno io saprei come indirizzarvi nella lettura di questo grimorio. Poiché la prosa di Permunian è irreprensibile e pervasiva come le ripetizioni martellanti nei vertiginosi lunghi periodi di Thomas Bernhard, potete dunque immaginare che effetto possa fare frugare nelle sue pagine “private”. Può essere straziante, e può farsi sgradevole. Può farci vergognare e trapassarci il costato in un lampo inaspettato di crudeltà.

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Gli echi di un tempo che fu

Sono, diciamo così, i miei luoghi dell’anima. I quali variano a seconda delle stagioni ma, soprattutto, a seconda di cosa sto scrivendo.
In pratica, a ogni angolo del Garda corrisponde uno spunto narrativo, sia esso una piazza, un castello, un golfo, una limonaia, oppure il vicolo sassoso di un piccolo borgo.

Il rapido lembo del ridicolo si apre con un capitolo intitolato «Patrie». Nel quale troviamo alcuni testi dedicati ai luoghi che hanno ospitato Permunian durante la sua vita, come aveva già fatto, per esempio, nello stupendo catalogo del fotografo Pino Mongiello In certi luoghi dell’anima. Il Garda, il Polesine, il Gargano. D’altronde, ci dice Permunian, «gli unici viaggi che mi appassionano sono quelli tra le pareti della mia mente. E nella mia mente io so che si rispecchia il mondo intero». Non si tratta di essere sedentari o morbosamente attaccati alla propria terra. O comunque, di certo non è solo di questo che si tratta. Permunian si è spesso definito uno scrittore di provincia, nonostante sia stato giustamente e inevitabilmente individuato da molti critici come uno degli scrittori italiani più “europei”. Proprio perché si riferisce evidentemente a una tradizione d’oltralpe. Tuttavia è pur vero che molta della sua letteratura è intrisa dell’odore del polesine, sua patria natale; e dei venti che spirano sul lago di Garda, sua patria adottiva. E in questo libro, come in altri (quelli più nudi), ce ne regala frammenti di inestimabile valore, traboccanti di nostalgia. Come nell’ultima sezione del libro: torniamo a quel «viale di ippocastani, sotto la cui ombra» il piccolo Francesco giocava da bambino, e scopriamo insieme all’autore che quel viale «porta dritto al cimitero».
«Me ne accorgo soltanto ora che ritorno al paese per il funerale di mia madre», scrive. E qui rievochiamo quel prezioso libro che andai a recuperare alla rassegna di Chiari: s’intitola Autunno, ed è un testo brevissimo e lacerante, dedicato proprio a sua madre. Ed è esattamente da questo genere di rimandi che si comprende la forma – o meglio, le forme – faldone-zibaldone nella quale si esprime l’opera sconvolgente e buia di Francesco Permunian. Un misto tra Gombrowicz e Cioran. Difatti, «Ho l’anima anticlericale e un cuore da monaco» è la frase del Diario di Renard che lo stesso Permunian rivolge a sé stesso. Sottolineando anche questo suo rigetto verso l’istituzione clericale cattolica (alla quale è dedicato anche un intero capitolo de Il rapido lembo del ridicolo, «Settore cattolico») e basterebbe leggere il Sillabario dell’amor crudele per comprendere fino a che punto può spingersi questa sua avversione, fatalmente legata alle sue patrie e alla sua infanzia. Fatalmente legata alle voci spettrali che parlano nella sua testa.


Di penne e pennini, santi e manichini

Lontanissimo dalle trasgressioni plastificate imposte oggi dalla cultura dei media e dalla vacuità della società letteraria, egli non ha nulla a che fare con la figura oggi corrente del narratore: affabulatore scatenato, non è un paziente e compiaciuto centellinatore di “storie”, ma viene a porsi piuttosto come scardinatore di ogni illusione romanzesca, immerso in uno sterminato bric-à-brac di situazioni di vita e di letteratura che si incastrano, si combinano, si confondono, si distruggono l’una l’altra, sotto il segno di una rabbiosa passione per il mondo e per la sua futilità, di un beffardo risentimento verso i modelli intellettuali correnti, verso i pedestri idoli del mercato mediatico.
(Dalla postfazione di Giulio Ferroni a Il rapido lembo del ridicolo)

L’altro aspetto davvero intrigante di questo libello corrisponde a una faccia della prismatica personalità di Permunian cui ho già accennato. La sua posizione rispetto alla patria delle lettere.
Mi sembra che Permunian sia piuttosto un esule, nascosto in un paesello insieme alla sua amata: Madama Letteratura. Tuttavia infelice, continuamente perseguitato dai suoi fantasmi e dalle loro voci, chiaramente. Costretto a misurarsi con una società delle lettere (come la chiamerei io) che lo repelle e lo respinge, quasi quanto Permunian respinge viceversa chiunque della suddetta società gli si faccia incontro.
«L’unico merito di Eco, se di merito si può parlare, è di aver spalancato la strada verso il genere romanzesco a centinaia e centinaia di altri colleghi accademici», Il rapido lembo del ridicolo è costellato di sentenze come questa, spesso espresse in modo più generico o aneddotico, ma non meno tagliente; sono altrettanti, però, gli omaggi ad autori amici e affini, primo fra tutti il Manga: «Non ho mai capito il perché, però devo confessare di aver sempre subito il fascino di Manganelli. Un’attrazione discreta e vagamente morbosa, tant’è che non so ancora che cosa veramente mi attragga», questa è una dichiarazione totale di affinità elettiva scritta alla maniera di Permunian, espressa tramite una serie di storielle grottesche; come quando in sogno si figura il Manga riemergere dalla tomba, «brandendo il suo grande fallo a mo’ di bastone», per minacciarlo e deriderlo per le dimensioni del suo «pennino».
Straordinarie le pagine dedicate ad Alda Merini e ad Amelia Rosselli, come anche i frammenti per Sergio Quinzio. In uno di questi confessa che «Quinzio è stato l’unica persona – l’unico intellettuale italiano – con il quale riuscivo a parlare dei morti (sia dei miei che dei suoi) come se fossero ancora vivi, visto che per lui il confine tra i due mondi era alquanto labile e aleatorio, se non addirittura inesistente».

In questo libro di appunti grotteschi troviamo quindi – rara presenza nell’opera di Permunian – diverse annotazioni di carattere più squisitamente critico. Ovviamente, come abbiamo potuto saggiare, tutte scritte alla sua maniera, non certo delle recensioni simili a quelle del Manga che lo stesso Salvatore Silvano Nigro ha raccolto in Concupiscenza libraria (Adelphi, 2020). Eppure, in qualche modo simili. Se (come ho cercato di mostrare in questo scritto) le recensioni di Manganelli erano escrescenze della sua macchina letteraria e facevano parte del complicato mondo messo in piedi dalla sua prosa, evocato in ogni movimento della sua opera, allora anche alcuni degli scritti di Permunian dedicati “ai libri degli altri” (proviamo a dirlo semplicemente così) o comunque “agli altri”, all’interno de Il rapido lembo del ridicolo e altrove, sono l’espressione più “analitica” oppure “critica” della sua opera multiforme. E, devo dire, riescono a mettere in luce dei dettagli oscuri e bizzarri, che non avevo e non avrei mai potuto considerare, e che Permunian esprime con la sua consueta raffinatezza, ma sempre con un ghigno malsano a deturparle, il bieco sorriso marcio che contraddistingue la sua prosa crudele e mostruosa.

Ciò nonostante, malgrado sia costretto a convivere con tali bestie oniriche, io mi ostino a parlare ancora di poeti e di romanzieri imprecando amaramente contro tutto e tutti.
Contro il mondo dei vivi e quello dei morti, incapace di arrendermi al fatto che ben presto anch’io sarò un’ombra che litiga con altre ombre.


Le voci dei morti

 «Cos’è questo strano e fastidioso parlottio che da giorni mi ronza nelle orecchie? C’è qualcuno in grado di dirmi, con ragionevole approssimazione, chi sta parlando e sparlando nella mia testa?» citando il titolo di uno dei suoi libri che abbiamo già nominato, Permunian sottolinea, anzi: riverbera – come farà per tutto lo scorrere del libro, e di tutti i libri che ha scritto – la sua ossessione più grande: le voci dei morti, il sussurrare degli spettri.
«In sostanza, non faccio che parlare dei morti» confessa Permunian in uno dei frammenti della sezione forse più potente, intensa e vissuta del libro, intitolata «Stigmate».   

Uno sciame di voci mi bisbiglia all’orecchio, ho la netta impressione che qualcuno sussurri nel buio. Odo i morti che sospirano sottoterra: «Resta ancora un po’ qui con noi», mi dicono. «Ora che te ne vai, sappi che noi continueremo a parlarti anche quando tu sarai lontano».
Se avrete il coraggio di leggere questo libro sarete continuamente puntellati dalle allucinazioni di Permunian, dal continuo brusio delle voci che non vogliono smettere di bisbigliare al suo orecchio – e quindi al nostro. Incubi, spettri e soprattutto le voci dei morti lontani perseguitano ad perpetuam rei memoriam il nostro Permunian. Le stigmate sono quelle di un vecchio apparso in sogno: un vecchio «ricoperto di orribili grinze» supplica «una bellissima fanciulla di concedergli le sue grazie». «Mi svegliai inorridito allorché mi accorsi che la ragazza, completamente nuda, stringeva tra le mani un sudario da cui sgorgavano delle gocce di sangue». Una serie di immagini cruente, disgustose, sgradevoli, s’intrecciano in un incubo che attraversa la dimensione onirica per penetrare la realtà. «L’incubo del vecchio e della fanciulla mi perseguita» continua Permunian. I mostri braccano continuamente l’autore e i suoi sogni. «Ho sognato di vagare tra le mura di una casa in rovina, dove riecheggiava il pianto di una bambina abbandonata», prosegue ancora nello stesso frammento. Il sogno nel sogno che si schiude nella realtà tramite le voci e le allucinazioni presenti anche in stato di veglia, quegli spettri che lo minacciano di continuare a parlargli, quello sciame di voci che non se ne andranno mai. Non lo lasceranno mai in pace se non dopo la fine di tutto.

Le confessioni

Eccomi ancora qua a frugare come un ossesso tra le sudatissime pagine di questo zibaldone che, più passano i giorni, più io temo possa sfuggirmi di mano riducendosi a un confuso gnommero informe. Oppure, ben che vada, a un arruffato e sgangherato garbuglio proliferante di voci e confidenze.

 Nella postfazione a Chi sta parlando nella mia testa? Andrea Caterini suggerisce l’idea che Il principio della malinconia sia il libro centrale, il testo che racchiude ed enuclea il senso profondo delle ossessioni di Francesco Permunian. Anche io l’ho sempre pensato. È sicuramente il libro che più amo di Permunian e quello che racchiude davvero il motivo segreto e definitivo della sua concupiscenza libraria, o meglio: letteraria e scrittoria.
Ci basti osservare come il primissimo verso, di questo esile e sfolgorante libro di poesie in forma aforistica, indichi «Era l’ora del crepuscolo» per ritrovarci nuovamente di fronte al libro che io indico come quello della sua consacrazione, le Costellazioni del crepuscolo, scoprendo che le stelle di Permunian altro non sono che «anime incappucciate», ovvero i morti.
E andando avanti ritroveremmo per esempio l’incubo del vecchio con le stigmate, come i tanti rimandi ecolalici all’Autunno.

Nelle pagine de Il rapido lembo del ridicolo Permunian torna a confessare la sua malinconia, i segreti che riguardano i defunti che lo hanno accompagnato. Appare la madre, lo abbiamo detto, e appare anche Lei. Nonostante l’autore si chieda se forse sarebbe il caso di non rivelare un aneddoto così «squisitamente privato», alla fine ci dice, ci sussurra quasi, di un muro della sua casa «(quello tra la cucina e il soggiorno) che conserva ancora intatto il calore del suo corpo. Il profumo della sua pelle». Potrebbe essere forse lo stesso muro che troviamo ne Il principio della malinconia: «Il muro, a cui ieri appoggiavo la schiena», scrive Permunian, «conserva ancora il calore degli ultimi bagliori del sole al tramonto».
«Assomiglia a me, che ti sedevo di fronte a testa bassa.
E che ti sentivo già lontana».  

Siamo arrivati senza dubbio al punto. Al fulcro, al nucleo centrale dell’opera di Francesco Permunian.
Cosa sarebbe allora «il rapido lembo del ridicolo»? Giorgio Manganelli suggerisce (Permunian farà usare questa frase a un caro amico scrittore – vagamente caricaturale –, intento a tenere una lezione di scrittura, trovando negli allievi un apatico menefreghismo all’udire le parole di Manganelli) che per conseguirlo, per raggiungere questo «rapido lembo» bisognerebbe «oscillare fino sull’orlo del tragico e distrarsene in tempo», barcollare disperatamente sul baratro che si apre sull’abisso, abitare il confine tra la vita e la morte, come si diceva di Quinzio, osservare le stelle al tramonto, stare di qua e di là, nell’aria della sera, nel paese delle ceneri, sulla stiva di una nave blasfema, nella casa del sollievo mentale o nel gabinetto del dottor Kafka, o più semplicemente nella testa del nostro caro Francesco Permunian, ascoltandone l’emanazione più accessibile: i suoi libri. Facendo attenzione a non cadere nel tragico, distraendoci per tempo con il «ridicolo», con il «risibile» insito negli incubi e negli spettri, nelle mostruosità delle sue cronache dell’amor crudele, nel sillabario delle sue malinconie, guardando pur sempre al cielo e alle costellazioni che s’illuminano al tramonto.

*

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il testo integrale di Autunno (il Buon Tempo, 2018). Con la convinzione di poter dare così al lettore la possibilità, attraverso questo frammento brevissimo ma di straordinaria importanza, di scorgere e forse di cogliere sineddoticamente il senso dell’intera letteratura della malinconia di Francesco Permunian.

 Autunno

A mia madre Anna

  

Un fruscio di canne nella sera,

talmente secche da generare

un lamento insopportabile, è tutto

ciò che rimane della calda estate.

Ricordi che si decompongono

come foglie sotto la pioggia

autunnale.

Autunno della memoria.

Novembre. A poco a poco l’aria

si oscura e i monti si dileguano

dietro le piogge autunnali,

mentre i morti sprofondano

in una lontananza inaccessibile.

Eppure, per quanto lontani e

remoti, io mi sento costantemente

osservato da loro, come se il loro

sguardo accompagnasse

dovunque i miei passi.

Come se le loro voci risuonassero

sempre nelle mie orecchie

per guidarmi, amorevolmente,

verso l’ultima meta. 

 

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Fondi di caffè, di Mario Benedetti

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di Anna Lo Piano

“Il passato è sempre una dimora”. Con queste parole, che suonano come un verso di poesia, Mario Benedetti apre un articolo pubblicato su El Paìs dal titolo “Variazioni sull’oblìo”. Siamo nel 1987, lo scrittore uruguaiano è da poco tornato in patria dopo un lungo allontanamento per motivi politici, e questo percorso a ritroso è così denso di significati da spingerlo a creare un termine specifico per nominarlo: desexilio. Se l’esilio è l’uscita straziante dal suolo a cui si appartiene, il prefisso des- implica un processo di disfacimento di quello strappo, non una guarigione. Il filo che riavvolge sul gomitolo non tornerà mai liscio e compatto come prima. Come sa bene Ulisse, l’eroe del Nostos, per tornare non basta rimettere i piedi sulla terraferma. Le case vivono immutate solo nel ricordo, e chi se ne allontana nel tempo si trasforma, e come un naufrago porta addosso le concrezioni dei mondi e delle lingue con cui è venuto a contatto. Riaprire la porta implica un riconoscimento reciproco da parte della casa e di chi l’abitava, una mutua riconquista.
Nel 1992, qualche anno dopo quell’articolo sulla memoria, Benedetti pubblica Fondi di caffè (La Nuova Frontiera, tradotto da Elisa Tramontin), un romanzo che come suoi altri si muove tra finzione e autobiografia, e il cui primo capitolo porta il titolo emblematico di Traslochi. “La mia famiglia traslocava di continuo.”, racconta Claudio, il protagonista. Le ragioni di questo muoversi continuo non erano mai serie, si affretta a spiegarci, ma andavano cercate in una inquietudine interiore dei suoi genitori, una impossibilità a stare fermi. Era l’orizzonte divergente dei loro desideri - le strade trafficate del centro, la presenza di vicini disponibili per la madre, la tranquillità delle periferie e l’assenza di vicini impiccioni per il padre – a spingerli a cambiare, o forse qualcosa di più profondo. In ogni caso la stabilità era ogni volta precaria, apparente, e prova ne erano gli abiti e le suppellettili lasciati nelle cassapanche e nei bauli, pronti per un nuovo trasloco, che mi hanno ricordato le valigie ingombranti di un racconto di Igiaba Scego, Dismatria, in cui la protagonista racconta con ironia come la parola armadio in casa fosse tabù, come “erano tabù la parola casa, la parola sicurezza, la parola radice, la parola stabilità” .
Il tema dell’esilio è uno dei fili conduttori di questo romanzo che si compone di frammenti, come una memoria da ricostruire.  Molti personaggi sono raccontati nella loro ricerca di casa, nei loro traslochi. Il padre troverà nell’albergo di cui è direttore, metafora della non appartenenza, il suo vero luogo stabile. Con la famiglia di Claudio, dopo la morte della madre, verranno a vivere alcuni stranieri, tra cui Juliska, immigrata montenegrina raccolta sulla strada dove cercava lavoro, che mescola le lingue e le cucine.
Se per i genitori di Claudio ogni casa è un’illusione di stabilità, e non c’è differenza tra quelle in affitto e quelle proprie, per lui quella di Capurro è diversa, è l’unica che conta, perché “fu la prima che significò un mondo per me, uno spazio tutto mio”.
Se i suoi genitori, per orientarsi tra le sue stanze, al buio, hanno bisogno di una torcia, a lui basta il suo corpo, i piedi e le mani che sanno riconoscere gli oggetti, le superfici. La casa ha una qualità tattile e “un caratteristico aroma” che sa accoglierlo, al ritorno, “come una patria”.
Quello di Capurro è un microcosmo. Oltre le pareti della casa, si estende al quartiere, alle vie di Montevideo, ai suoi abitanti, agli amici, al Parco.
Andarsene, per volere del padre, equivale a una lacerazione con l’infanzia.
Al momento di salutarsi, Claudio e gli amici si ritrovano nel Parco. In tasca hanno tutti le chiavi di casa, segno della prima indipendenza, e si dicono che nulla cambierà, che si ritroveranno ancora, convinti che quel mondo rimarrà intatto. Ma quando si rivedranno, dopo anni, tutto sarà cambiato, loro stessi, il mondo, le relazioni.
Ancora in “Variazioni sull’oblio” Benedetti scriveva:

 

“Quando traslochiamo al presente, a volte alimentiamo l'illusione che chiudendo quella casa con tre serrature (diciamo perdono, ingratitudine o semplice dimenticanza)

ne saremo per sempre liberi.”

 

In realtà, come scoprirà a poco a poco Claudio, traslocare non è sufficiente. Una parte di noi rimane sempre nella “dimora del passato”, a “raccogliere gioie o risentimenti”, dove “gli eventi mummificati” si trasmutano in “delusioni, visioni o incubi”.
Per fare pace è necessario tornare indietro attraverso la memoria, stabilire un ponte con l’infanzia, perché “Se tagliamo i ponti con l'infanzia, possiamo condannarci a un'immaturità infinita.”
Ma come si recupera la memoria? Non basta un archivio, milioni di valigie a contenere quell’ “antologia di essenze preziose” di immagini, parole, “segni di identità”, che si sono accumulati. L’infanzia non si sfoglia come un album di fotografie ma bisogna scoprire, decifrare, in un movimento continuo tra i tempi, tra chi eravamo e chi siamo. Anche per questo, forse, la forma del romanzo si spezza e si frammenta in singoli quadri. La voce narrante passa dalla prima persona, dov’è Claudio che racconta, a un noi generazionale, fino a una terza persona esterna. E in qualche punto si insinua la voce del padre che scrivendo nel suo diario racconta la sua versione.

“Perché scrivo questi appunti? Quando gli anni si accumulano cominci a essere consapevole che il tempo passa in fretta e forse per questo motivo alimenti l’autoinganno che scrivere di tutti i giorni può essere un modo, per quanto primitivo, di frenare quella catastrofe. Non la freni, ovviamente. Niente e nessuno è in grado di trattenere il tempo.”

 

La scrittura da sola forse non basta a trattenere il tempo, ma attraverso la scrittura è possibile tornare indietro a rivivere, indagando, ciò che rimane oscuro, incompreso. Come quando Claudio ritorna da solo nella radura dove lui e i suoi amici hanno trovato il corpo del Dandy, in quel “chiaro del bosco” che messo così, tra virgolette nel testo, non può non farmi pensare ai “chiari del bosco” di cui parla María Zambrano.
“Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite” dice la filosofa spagnola, nel primo saggio di Chiari del bosco che dà il titolo al libro. Per capire, bisogna sospendere la domanda, arrendersi a un tipo diverso di comprensione, affidarsi alle parole che “risaltano diafane” , “fattrici di pienezza”.
La pace che ha trovato nel bosco, però, Claudio non la ritroverà per molto tempo. La sua domanda di senso prende forma nella figura di Rita, la bambina che arriva in camera sua arrampicandosi sull’albero del vicino, per consolarlo della morte della madre. Rita apparirà in varie forme in diversi momenti della sua vita, lasciando tracce nei numeri, 3 e 10, e nell’immagine dell’albero che Claudio continua a vedere in ogni fondo di caffè, e a riprodurre in ogni suo disegno.  Ogni volta che Rita ritorna sembra che il tempo faccia una curva intorno a lei, si pieghi in una spirale, risucchiandolo verso un dolore antico.
Il mistero di Rita si svela a poco a poco, nonostante lei stessa dissemini indizi, dita fredde, una voce senza consistenza, e alla fine gli dica la verità su se stessa:

 

«La morte non è così grave, Claudio.» «Tu come te la immagini?» «Io la concepisco come un sogno ripetuto, ma non un sogno circolare, piuttosto una ripetizione in spirale. Ogni volta che rivivi uno stesso episodio lo vedi da più lontano e questo te lo fa capire meglio.»

 

Ma lui non è pronto a capire. Bisognerà che arrivi in quel punto della vita in cui bisogna avere il coraggio di fare un salto di fede nei confronti della vita, scegliere tra la fascinazione del Nulla di una Rita che oscilla tra fughe e apparizioni e l’Aldiquà di Mariana, che è corpo e presenza.
Bisogna arrivare al momento in cui si ha la forza di immergersi nell’infanzia, accogliere tutto quello che la vita ha dato senza cedere alla tentazione dell’amnesia. Il momento della prima maturità, quell’affacciarsi su un futuro che è come un gioco d’azzardo, dove ci si arrende al desiderio di radici. Il momento in cui capisci, come spiega bene a Claudio lo zio Edmundo,

 

“che il mondo è enorme ma che il tuo mondo è minuscolo, lì cominci a recuperare l’equilibrio, be’, quel po’ di equilibro che ci è toccato nella spartizione e che non bisogna sprecare» .

 

Questo mondo minuscolo, individuale, si realizza attraverso scelte concrete, le uniche che sono nelle nostre mani, si costruisce attraverso i sensi. È un diario di bordo dei sensi che il padre scrive, è con i sensi che il cieco Matteo concepisce la realtà, e ancora con il tatto, con gli odori, che Claudio ha reso la casa di Capurro davvero sua.
Con la vita si danza una melodia di tango, che passa dalla geografia del corpo, come nel primo incontro tra Claudio e Mariana. Un tango è la musica del Dandy, è la canzone che ascolta Juliska quando, superata la menopausa dell’esilio, si adatta alla nuova patria, e il suo spagnolo si libera a poco a poco delle tracce del serbo-croato. Un tango è quello che ancora sente Claudio nel momento in cui, sul punto di decidere di sposare Mariana, di costruire con lei una casa che come dice suo zio “non è solo un bene materiale, ma un rafforzamento spirituale”, fa uno strano sogno, in cui rivede la propria vita in un movimento a spirale, fino a quando si rompe lo specchio che gli riflette addosso la maschera del nulla, e vede che al di là c’è il corpo nudo di Mariana:

 

“e lui riuscì ad appoggiare le braccia su quei fianchi meravigliosi, intimi, caldi, e riuscì anche ad avvicinare gli occhi a quell’ombelico unico, di tango e di goduria, di lavoro e svago, di gioco e sfida, di con-solazione e amore, e ci guardò dentro come chi spia da una serratura. E da quel carnale, splendido buco poté finalmente vedere il mondo, le strade e le praterie del mondo, un mondo con Nagasaki ma senza Rita, che era già qualcosa. E quando la serratura ritornò a essere l’ombelico di Mariana, ci appoggiò la fronte e bisbigliò: «Mariana e basta.»

 

 

Cosa pensavi di fare? di Carlo Mazza Galanti

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di Roberto Galofaro
 

Quale dei due filoni avrà più influenzato Carlo Mazza Galanti nello scrivere Cosa pensavi di fare?, recentemente pubblicato da il Saggiatore?

 

1) Proseguite nella lettura se pensate che sia stata la “letteratura del precariato”, un genere che invase brevemente le librerie e poi finì per essere rimosso in blocco, con qualche picco registrato da Vita precaria e amore eterno (2006) di Mario Desiati o da Il mondo deve sapere (2006) di Michela Murgia e dal film che Virzì ne trasse nel 2008, Tutta la vita davanti, e che fu mainstream, ma anche – mi piace ricordarlo – da Pausa caffè (2004) di Giorgio Falco. Spostato il fuoco decisamente sul piano del lavoro intellettuale, con alterna felicità di argomenti, il tema è passato alla saggistica di recente con Teoria della classe disagiata (2017) di Raffaele Alberto Ventura.

2) Ma proseguite senz’altro la lettura anche se pensate che a ispirare Mazza Galanti siano stati soprattutto i librigame, i romanzi a bivi che spopolarono tra gli adolescenti alla fine degli anni Ottanta e che io, personalmente, ricordo nella collana “Scegli la tua avventura” di Mondadori, con titoli affascinanti come Sopravvivere in mare, La casa del pericolo, Il terzo pianeta da Altair, In pallone sul Sahara, Il sottomarino fantasma e tanti altri, divorati, letti e riletti con la curiosità esplorativa con cui si esegue un esperimento da “piccolo chimico”.

 

Nel finto bivio che ho proposto è racchiusa non solo buona parte dell’ascendenza del libro di Mazza Galanti, ma anche una delle questioni cruciali intorno al librogame, ovvero la sua sostanziale finitudine. Proprio come la vita, il librogame ci pone di fronte a delle decisioni da prendere e però, trattandosi dell’attraversamento letterario di un percorso finito, finiti e determinati (dall’autore) sono anche gli explicit. Il divertimento e la sfida delle possibilità seguono piani previsti e confezionati. Questo è chiaramente messo in mostra in Cosa pensavi di fare? dai diagrammi di flusso posti alla fine dei tre capitoli, che riproducono schematicamente le possibilità di snodo delle vicende. Il meccanismo dell’orologio è esposto, insomma, perché sia chiaro il fatto che ci troviamo nel dominio della logica, non della fantasia.
Ma c’è di più.
Se l’adolescente lettore si lanciava nella lettura compulsiva dei librigame per vivere avventure poliziesche, marinare, fantascientifiche, sempre nuove, sempre diverse, in universi alternativi e scenari esotici vividamente descritti, chi aprisse il libro di Mazza Galanti, fin dal titolo azzeccatissimo, dovrebbe confrontarsi con tutt’altro orizzonte degli eventi.
Il motto normale per un libro del genere dovrebbe essere “Cosa scegli di fare?” (mi si perdonerà se nello scrivere queste note mi è tornata in mente persino un’eco del “Che fare?” leniniano); qui invece, a ribadire il chiuso novero delle possibilità esistenziali esplorate, che non esclude mai il rimpianto, abbiamo “Cosa pensavi di fare?”: ovvero l’impeto della scoperta è stato sostituito da un rovello interiore, per lo più malinconico. Azione e intraprendenza sono state soppiantate da insoddisfazione e sconfitta. Sconfitta, sì: la famosa sconfitta della generazione dei boomer, dei nati tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Attenzione, però: nel libro non c’è traccia di un “noi”, che di fatto non esiste nella realtà.
Infatti Mazza Galanti utilizza i topoi dei librigame, e si diverte a utilizzarli, a partire dal ricorso a una seconda persona, inclusiva e coinvolgente, ma la sensazione che si ha è che sempre, sottotraccia, ci sia una prospettiva sociologica: il “tu” che viene influenzato dalle scelte del lettore è sempre contemporaneamente un individuo e una categoria di individui, gli “umanisti sul lastrico” del sottotitolo.

Il libro è suddiviso in tre capitoli, dicevamo: Lavoro, Amore e Vita. Sono quasi le tre voci di un oroscopo – e del resto al principio del libro è riprodotta la stampa di una mappa per interpretare le linee del destino sulla mano. Il primo capitolo si apre con la decisione da prendere sull’università da frequentare: filosofia (intellettualità, improduttività) o medicina (concretezza, utilità sociale)? Il secondo è un’esplorazione delle apparentemente infinite variazioni e deviazioni sentimentali disponibili oggigiorno, con esiti che variano dall’accettazione del poliamore alla fuga nel turismo sessuale. Il terzo è il più libero e il più fantasioso: dai banchi di una scuola privata può portare alternativamente al pestaggio della Diaz di Genova 2001 (pietra miliare dell’educazione civile di chi c’era e di chi l’ha vissuto da lontano, raffigurato eloquentemente da un’intera gabbia tipografica ricoperta da inchiostro nero: fisica rappresentazione di una pagina nera della storia) o a un futuro, raggiunto con una improbabile ma funzionante macchina del tempo, simil-edenico e transumanista.
Qualcuno si riconoscerà in certe frasi apparentemente positive (“Per fortuna o per sfortuna muore una nonna lasciandoti in eredità una frazione della rendita di un trilocale in città”), qualcun altro nelle rapide pennellate che descrivono dei “lavori alimentari”. La mediocrità (ché di questa si tratta) esplorata da Mazza Galanti è estremizzata: se lavori di notte ti trasformi in geek; se resisti all’università sei comunque un fallito; se fatichi per sopravvivere sei un fallito; sei fallito se insegui i tuoi sogni invano o se li abbandoni per “il mercato”.
Sono pagine densissime, in cui la sintesi è bruciante, e in questo Mazza Galanti sa dosare il veleno e il lessico, variare la sintassi, sorprendere con un giro di frase inatteso o stupire con l’accostamento di un luogo comune che rovescia l’emozione veicolata fino a quel momento. Così il brivido di un’ascesa o di una scalata, si ribalta nella vertigine di un salto nel vuoto o nel tonfo di uno schianto.

 

La sera, quando esci a bere con i tuoi amici e colleghi precari dell’università, della scuola, dell’editoria, del giornalismo, del cinema, del design, della fotografia, della televisione, quella disomogenea compagine di intellettuali freelance o parasubordinati delle istituzioni culturali, cacciatori di bandi, coworkers, atipici, artisti e partite iva, quando ti ritrovi con questa gente, con la ex fidanzata, persino in famiglia, ripeti spesso, oltre alla frase «l’Italia è un posto buono solo per andarci in vacanza» (che ti sembra sempre molto icastica), anche «in Italia può crollare tutto, ma gli italiani non smetteranno mai di produrre e consumare cibo di qualità: affonderanno con la pancia piena».

 

Non sono escluse immagini di un compiacimento simile alla felicità, quando il “tu” protagonista riesce a sistemarsi in una nicchia che gli è congeniale. Anche lì, va detto, la felicità scolpita non è a tutto tondo, è piuttosto un bassorilievo in cui – parte ironia, parte amarezza – è sempre evidente l’ombra di una malinconia. L’accomodamento e il compromesso, ovvero in altre parole l’accettare una certa compromissione con la dura realtà: sono questi i confini di un relativo benessere conseguibile. Altro non ne è dato. Accontentarsi di un drink solitario sullo sfondo di un tramonto urbano, oppure contemplare oziosamente i pargoli e gli animali domestici nella quiete stereotipata di una casa di campagna da decrescita felice.
Così nel descrivere l’attesa per la nascita del figlio, si vede chiaramente che la pace non è totale e che sottintende una rinuncia a una parte di sé, per quanto non del tutto razionale:

 

Come fibrillazioni nel liquido amniotico galleggiano le ragioni biochimiche di quest’ottimismo forzato che proprio non ti aspettavi: la memoria selettiva che riesuma solo cose belle,
il sarcasmo che svanisce, le nubi che si diradano.

 

Proprio come i librigame vi ritroverete a tornare indietro per provare un’altra strada, cercando di percorrerle tutte, sorridendo amaramente davanti a un finale diverso ma ugualmente problematico. A rileggerlo come fosse un romanzo o una raccolta di racconti, e garantisco che vi capiterà di farlo, capirete di avere di fronte una sorta di modernissima operetta morale, scritta da un intelligente e sagace Leopardi dei nostri tempi.

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Senza tessiture, di Adriàn N. Bravi

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«Di fronte a un'emergenza inimmaginabile come quella del Covid-19, questo libro ha provato a chiamare all'appello le forze della letteratura italiana contemporanea, con nessun altro scopo se non quello di testimoniare il terribile evento mondiale - ancora in atto, e destinato a condizionare a lungo la vita di tutti - attraverso la parola dei nostri scrittori. Una pluralità di voci, trentaquattro poeti narratori saggisti giornalisti, autori famosi o esordienti, oltre trecentocinquanta pagine dove la prosa di diario si alterna alle narrazioni distopiche, il racconto al fumetto, la riflessione saggistica ai versi in lingua o in dialetto. Concepito e orchestrato da Francesco Permunian, Piccola antologia della peste è un libro imponente, vario e attualissimo, al cui insieme tutti gli autori contribuiscono con una risonanza poetica speciale.
Il volume è impreziosito da uno stupefacente “bestiario” di Roberto Abbiati, che ha realizzato la copertina e trentaquattro disegni, uno per ogni testo compreso nell'antologia».

Da oggi trovate in tutte le libreria e sugli store online «Piccola antologia della peste» (Ronzani Editore) a cura di Francesco Permunian e con illustrazioni di Roberto Abbiati.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta.

Senza tessiture
di Adrián N. Bravi

All’inizio di Pedro Páramo di Juan Rulfo, Juan Preciado promette a sua madre moribonda di tornare a Comala per aggiustare i conti con suo padre, Pedro Páramo. Nei pressi del paese trova un mulattiere e gli chiede:
«Come dice che si chiama il paese che si vede là in basso?»
«Comala, signore».
«È sicuro che è già Comala?»
«Certo, signore».
«E perché è tutto così triste?»
«Sono i tempi, signore». In questo periodo un po’ incerto e tormentato, ogni volta che esco da casa trovo una desolazione simile a quella di Comala; non si capisce se è un posto fatto per i vivi o per i morti, e mi viene sempre da pensare a questo dialogo e ripetere tra me e me: Sono i tempi, signore. Cammino tra gli angusti vicoli con le pareti scrostate ai lati, giro senza meta, nell’attesa d’incontrare un mulattiere a cui chiedere perché è tutto così triste. Arrivo fino alla piazza. Le rondini volteggiano indisturbate ripulendo l’aria (siamo fortunati che ci siano ancora). Entro in uno dei palazzi più antichi, attraverso il cortile con un grande pozzo di lato, sulle colon- ne osservo i capitelli che recano gli stemmi delle antiche famiglie, l’arco e il balcone che si affaccia sull’Adriatico sopra il quale campeggia un orologio con la scritta: Volat irreparabile tempus. Da quel balcone, a volte, durante l’alba, si scorge la costa dalmata. Qui il garrito delle rondini è ancora più intenso. Ritorno sui miei passi. Sono i tempi, signore, mi dico ancora, mentre il silenzio delle strade mi riporta a casa.

*

Dopo aver vagato qua e là, fermandomi a leggere le lapidi sui muri, varco la soglia di casa ed entro nella solitudine della mia quarantena. Mi levo la maschera che in verità non portavo, mi lavo le mani anche se non ho toccato nulla e mi siedo da- vanti a un foglio per cercare di dare una sintesi più o meno letteraria a questa desolazione. Prima di cominciare, però, mi chiedo se, effettivamente, in una società così schizofrenica come la nostra, una pratica solitaria come lo scrivere abbia ancora un senso, ma provo ad andare avanti lo stesso.
All’inizio di Discorso dell’ombra e dello stemma Giorgio Manganelli sostiene di poter immaginare un mondo senza locomotive o senza bandiere o televisione, «ma non riesco a immaginare un mondo, un tempo, una serie, un rosario di generazioni senza letteratura». Ecco, neanche io riesco a pensa- re un’esistenza senza il racconto, perché il mondo, mi verrebbe da dire, trova un senso solo se riusciamo a raccontarlo e a rappresentarlo nelle sue varie sfaccettature. E mentre penso a questo mi viene in mente quella bella parabola riportata da Agamben in Il fuoco e il racconto, presa a sua volta dal libro di Scholem su Le grandi correnti della mistica ebraica, in cui si dice: Quando il Baal Schem, il fondatore dello chassidismo, doveva assolvere un compito difficile, andava in un certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le preghiere e ciò che voleva si realizzava. Quando, una generazione dopo, il Maggid di Meseritsch si trovò di fronte allo stesso problema, si recò in quel posto nel bosco e disse: «Non sappiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere» – e tutto avvenne secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Mosche Leib di Sassov si trovò nella stessa situa- zione, andò nel bosco e disse: «Non sappiamo più accendere il fuoco, non sappiamo più dire le preghiere, ma conosciamo il posto nel bosco, e questo deve bastare». E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione trascorse e Rabbi Israel di Rischin dovette anch’egli misurarsi con la stessa difficoltà, restò nel suo castello, si mise a sedere sulla sua sedia dorata e disse: «Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia». E, ancora una volta, questo bastò.
Questa storia può essere letta come un’allego- ria della letteratura, ci dice Agamben: per quanto l’umanità si allontani dall’origine delle cose, dalla propria tradizione o smarrisca l’insegnamento (il fuoco, il luogo e la formula), le resta il racconto e questo può bastare. Dunque, la realtà esiste nelle varie forme in cui può essere raccontata, anche di fronte alla perdita del fuoco, perché, come vuole Celati, il narrare è un’attività pratica che consiste nel tenersi sul filo della temporalità. E chissà se noi riusciremo, in questi giorni o in futuro, a raccontare questo momento storico che stiamo attraversando, non per riempire l’attualità, che di suo trabocca d’informazioni e novità, ma piuttosto per trasformare questo momento stesso in un fatto memorabile. Il narratore, dice ancora Celati, ha qualcosa del rabdomante che segue le vibra- zioni del suo bacchetto per scoprire dov’è l’acqua; per farlo deve sapere orientare la sua sensibilità e seguire una specie di intuito primordiale. Il rabdomante non sa far sorgere l’acqua, ma sa dove si trova. Più o meno come il narratore che non sa più accendere un fuoco, ma può raccontare la storia.

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Non ho mai creduto ai fenomeni paranormali, an- che se mi fanno un po’ paura e non capisco come possa spaventare qualcosa a cui non ci credo. Ma poi mi rendo conto che non ho paura del fatto in sé, ma del racconto che se ne fa. Appunto, il fatto paranormale esiste solo nel resoconto che ne scaturisce, con le varie implicazioni. Assistiamo ogni volta al racconto del fatto, mai al fatto in sé, per questo è importante l’intensità della sua narrazione.

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Alvaney Xirixana era un ragazzino yanomami di 15 anni. Abitava in Amazzonia, a nord del Brasile, in un villaggio di nome Rhebe, sulle rive del fiume Uraricoera. Il virus era arrivato in queste foreste pluviali attraverso alcuni garimpairos (i ricercatori illegali d’oro) e Alvaney è stato il primo indio a morire in Amazzonia di coronavirus. Nella loro lingua l’epidemia si chiama Xawarai, che loro immaginano come una specie di nebbia invisibile che si propaga per la foresta. Esce dalle case dei bianchi o dalle loro fabbriche e poi percorre la selva di notte per entrare di nascosto nelle capanne degli indios. Questo essere infelice, il Xawarai, si esprime in vari modi: attraverso la tosse, la dissenteria o la nausea. Lo sciamano Davi Kopenawa, in un testo dal titolo La caduta del cielo, riferendosi alla tubercolosi e al morbillo, sostiene che lo Xawarai è arrivato con i garimpairos e che a volte, per proteggere i più picco- li, li nascondevano nelle piroghe dello spirito tapiro, chiamato così perché i tapiri hanno l’abitudine di stare in acqua per sbarazzarsi dei parassiti e sfuggire ai predatori. Inoltre, racconta Davi Kopenawa, quando lo sciamano entrava in contatto con gli oggetti dei bianchi, tipo un machete o un coltello o un’ascia, per pura precauzione, prima lo immergevano nell’acqua dei ruscelli e poi lo sfregavano con la sabbia per togliere le scorie di Xawarai o di qualunque altra cosa provenisse dai bianchi, in particolar modo dai garimpairos. Alvaney era arrivato all’ospedale di Boa Vista, vicino al fiume Branco, con il fiato corto, la febbre e mal di gola. Immagino che abbia dovuto viaggiare parecchio prima di arrivare in ospedale. Non so se ci siano foto o ritratti suoi, ma non è difficile immaginarlo a giocare sulla riva del fiume insieme a una sfilza di ragazzi come lui, confinati nella fo- resta, che nulla sanno delle nostre malattie e delle nostre inettitudini.

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La nona vittima per coronavirus in Uruguay è sta- to un uomo di 76 anni chiamato Juan José Noueched, ex sindacalista e militante tupamaro (il Movimiento de Liberación Nacional, organizzazione di ispirazione comunista, attiva tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta). Sembra che abbia contratto la malattia durante un viaggio in Svezia per parteci- pare a un documentario.
A metà del 1973, nel periodo della dittatura uruguayana, Eduardo Galeano racconta che Noueched aveva ricevuto una sanzione mentre era in prigione, in un tempo in cui – pertanto – non poteva ricevere visite né uscire per l’ora d’aria. Aveva violato il regolamento secondo il quale ogni prigioniero doveva camminare in cortile in fila indiana con entrambe le mani dietro la schiena, ma Noueched era monco, difatti lo chiamavano così, il monco, quindi era riuscito a mettere solo una, di mano, dietro la schiena, perché l’altra gliela avevano tagliata durante una retata. Questo handicap, però, non era bastato a giustificare la trasgressione, racconta Galeano; dunque, il capitano di turno lo ave- va messo in gattabuia lo stesso, non accettava che durante l’ora d’aria in cortile un detenuto facesse la ronda con una sola mano dietro la schiena.

*

Fin da piccolo ho sempre avuto problemi con i denti. Dei pochi molari che mi rimangono non c’è uno che non sia stato trattato, curato o devitalizzato e incapsulato. La mia bocca è stata sempre un tormento. Ho iniziato ad andare dal dentista a quattordici anni. Il dentista si chiamava Almeida, passava per essere uno dei migliori nel quartiere di Buenos Aires in cui abitavo. Aveva sempre delle belle assistenti che lo aiutavano. Spesso il mal di denti non mi faceva dormire la notte e mi imbottivo di analgesici o aprivo la grappa di mio padre, bevevo un sorso e senza ingoiarlo lo tenevo sul dente malato. Più di una volta ho pensato che l’ideale sarebbe stato svuotare la bocca dai denti, in particolar modo dai molari e sostituirli con una buona dentiera fatta a regola. Avrei evitato tante pene inutili. Per Almeida io ero un grande affare, sarà per questo che non ha mai consigliato ai miei genitori, che si fidavano troppo di lui, una cura ra- dicale a base di ferro o qualsiasi altra cosa. I denti sono stati la mia croce, sarei stato un uomo diverso, sicuramente migliore, più rispettoso e cordiale, se non avessi sperimentato i mal di denti in età precoce e per tanto tempo. Questa sofferenza potrebbe portare alla rovina una persona, come la fobia o la ludopatia, non se ne vuole sentire ragione e poi, nel picco delle fitte, uno sarebbe capace di cedere la metà del suo patrimonio pur di porre un freno al dolore. Solo chi conosce il mal di denti acuto, quello che non ti fa dormire la notte, sa quello che dico. E la mia bocca, dai quattordici anni in poi, come ho già detto, è stata una fucina di barbarie e atrocità. È da un po’ di tempo che non vado dal dentista, forse due o tre anni, e quando, a inizio della pandemia, mi è uscita la capsula del secondo molare, una capsula orrenda color argento, ho pensato che da lì a poco sarebbero arrivati i guai. Infatti, il molare protetto da quel cappuccio, subito dopo la caduta, ha iniziato a ballare, prima con piccoli movimenti, quasi impercettibili, poi potevo spostarlo con la lingua da destra a sinistra e alla fine si muoveva da tutte le parti come il dente di un bambino e non riuscivo a strapparmelo, perché avevo la gengiva intorno parecchio infiammata. Sem- brava proteggerlo, come se lo volesse trattenere. E quando Francesco Permunian mi ha scritto per propormi di partecipare a quest’antologia, ho subito pensato: speriamo di farcela con questo dente malato, che se uno non sta bene con i denti non sta neanche bene con il mondo intorno. Certe volte ho pensato che il mondo esterno che vediamo e contempliamo sia un’espressione dei nostri denti, nel senso che se abbiamo il mal di denti, quello che appare fuori sarà sicuramente disastroso; con i denti a posto, invece, qualche lontana parvenza di felicità, volendo esagerare, potresti pure trovar- la in questo grande caos.

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Un dente che sta lì, senza capsula, nella sua nuda vita, è un dente che si espone al rischio e affronta di petto l’esistenza, come un descamisado. Di punto in bianco decide di denudarsi e di andare incontro a tutte le incombenze; rivendica, per così dire, di essere considerato per quello che è, senza ambagi. È un dente vecchio, marrone, si fa fatica a pensare che sta lì, in bocca, a maciullare le cose. Dunque, ha deciso di sfidare le avversità senza protezione (come chi oggi si espone al rischio privo di mascherina e di guanti).
Senza un’avvisaglia, una mattina, il dente in questione, ovvero, il secondo molare inferiore destro, ha rivendicato la sua autonomia, nel senso che non accetta più di essere trattenuto o imprigionato. Per quanto non fossi d’accordo ho accettato la sua indipendenza (lungi da me costringerlo a indossa- re una capsula, tra l’altro d’argento), anche perché, faccio questa considerazione, ha deciso di disfarsi dell’involucro proprio quando tutti i dentisti e gli odontotecnici sono chiusi e sarebbe impensabile andare in un pronto soccorso, sapendo che ci sono decine e centinaia di persone intubate che fan fatica a respirare. Ebbene, in questo momento, il secondo molare, che per comodità chiamiamo dente, dopo la caduta del rivestimento che lo conteneva, a pochi giorni, ha iniziato a muoversi. Per punir- lo lo stuzzicavo con la lingua, lo spostavo di qua e di là; ero quasi deciso a estirparlo, ma lui, pur muovendosi, non voleva staccarsi. Fino a quando ieri ho preso un pezzo di filo interdentale, l’ho avvolto come se lo volessi impiccare e ho iniziato a tirarlo più che potevo. Alla fine è venuto su, non tutto il dente, come mi sarei aspettato, ma solo un pezzo di osso marcio. La base è rimasta in piedi ed è probabile che resti così per sempre, senza muoversi, anzi, salda nella sua gengiva. Oltre alla base ha resistito, all’angolo interiore, anche una specie di stalagmite appuntita che mi ferisce la lingua quando mangio o vado a verificare il vuoto che si è creato tra il primo e il terzo molare (conosciuto come dente del giudizio).

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Robert Walser, in una delle Sei piccole storie, racconta di un poeta talmente affezionato allo spazio della sua stanza che trascorreva l’intera giornata seduto nella sua poltrona a contemplare le pareti. Un giorno aveva tolto i quadri per guardare meglio le macchie. Non era né triste né allegro, fantasticava. Aveva trascorso tre mesi in quella chiusura e quando stava per cominciare il quarto mese non era più capace di alzarsi. Un giorno un suo amico, anche lui poeta, era andato a trovarlo, ma varcata la soglia era rimasto anche lui intrappola- to in quella stanza. Poi era arrivato un altro scrittore e anche lui era rimasto intrappolato, poi un altro ancora e così via. Non si trattava di un contagio, ma chiunque arrivava per chiedere notizie del primo poeta, rimaneva bloccato in quella stanza. Ora, racconta Walser, sono sette gli scrittori chiusi lì dentro. Fuori nevica e loro stanno lì, al chiuso, incollati ai loro sedili.

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Una bambina nasce senza l’abbraccio della madre e senza il sostegno del padre. Una donna muore senza un funerale e non è chiaro dove sia andata a finire la salma. Alla televisione c’è un concerto senza pubblico. Un’infermiera si addormenta su una tastiera dopo molte ore di lavoro. Un netturbino solitario si aggira con una mascherina in bocca. Abbracciarsi sarà un problema. Un operaio fa il turno di notte. Un corridoio pieno di malati di Covid-19 in quarantena. Non si capisce se bisogna chiamarla guerra o no. Un virologo dice la sua, una virologa dice anche lei la sua. Sui balconi la gente canta e si riprende con le telecamere dei telefonini. Due migranti giocano a tirarsi il pallone, uno lontano dall’altro. Molti fanno ginnastica. Un piccolo orso prova a scavalcare un balcone. Sul Lungotevere deserto una mamma anatra e i suoi anatroccoli camminano come se niente fosse. Un signore con gli occhi a mandorla si becca un pugno sul naso in un supermercato, perché scambiato per un cinese. Io mi alzo presto, anche il vicino di casa si alza presto, sento quando apre le finestre. Alcuni dicono che passata la pestilenza verrà un tempo migliore. Mio figlio sale e scende centinaia di volte le scale per tenersi in forma. Covid e Corona, così sono stati chiamati due gemelli nati in questo periodo; a un altro nascituro, invece, l’hanno chiamato Sanitiser, ossia Disinfettante. Mi dà molto fastidio un dente, ne ho già parlato. Mia madre anziana sta bene, mio padre, invece, è morto venti anni fa. Esi- ste l’ordine naturale delle cose? E gli angeli, i che- rubini e tutti i volatili che non vediamo, esistono?
Il digiuno esiste e anche la finzione. Avere tutto questo tempo a disposizione, piombatoci addosso da un giorno all’altro, non so mica se ci fa bene, a me disorienta parecchio. Una nonnetta viene por- tata via da un ricovero. In televisione è pieno di infermieri con gli scafandri. C’è un provvedimento della Protezione Civile e un’altra nonnetta (o forse è un nonnetto?) che la Croce Rossa porta via da un altro ricovero. Distanziamento fisico, non sociale, sottolineano alla radio. Tra un po’ arriverà un altro decreto. Il primo italiano morto di coronavirus si chiama Adriano Trevisan. Tutti parlano e hanno opinioni su tutto. Viviamo, senza renderci conto, narcotizzati d’informazioni. Ho un amico balbuziente, chissà come se la passa in questo periodo. Sembra che il primo morto di coronavirus, Adria- no Trevisan, non sia morto per coronavirus. Io in questo periodo non mi sono mai misurato la febbre. Un mio amico, mi racconta, se la misura tutti i giorni, la febbre. Sta arrivando la fase due, anzi, siamo sulla soglia. Tolstoj è stato uno dei primi a usare la macchina da scrivere.

L’emarginazione della natura umana: Come in una tomba di James Purdy

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di Fabrizia Gagliardi


Chiunque ne abbia sondato la carriera letteraria o l’abbia conosciuto di persona, concorda col dire che James Purdy era un uomo stranamente formale. Per avere un’idea dell’autore immerso nel suo tempo potremmo immaginare la sequenza di una pellicola degli anni cinquanta, i modi e le movenze patinate degli attori hollywoodiani verrebbero interrotti da bruschi stacchi di scena in cui la sua figura avrebbe proclamato la recitazione falsa e ingessata dei colleghi. James Purdy aveva provato a vivere l’ambiente letterario newyorchese, dove si muovevano autori come John Cheever e Richard Yates, con storie che trapassavano il sogno americano ponendosi a diretto contatto con la disillusione. D’altronde veniva da Chicago dove, grazie alla frequentazione di Gertrude Abercrombie, aveva assimilato la parlata significativa, il ritmo e l’improvvisazione di jazzisti come Miles Davis, Charlie Parker e Dizzie Gillespie.

Le sue storie si discostavano dall’aura patinata dei sobborghi, e la dilaniavano con ambienti urbani miseri, sporchi, oscuri e percorsi da uomini e donne tormentati da bisogni carnali, passioni violente, che lasciavano poco spazio alla razionalità a salvaguardia delle apparenze. Anche per questo i suoi scritti hanno incontrato molte resistenze dalle riviste letterarie del tempo, tanto da convincerlo a stampare e pubblicare per un pubblico ristrettissimo, grazie all’aiuto di mecenati. Non è difficile immaginare che lo stesso timore di collocazione di uno scrittore al contempo dentro e fuori i canoni l’abbia condannato all’oblio letterario dopo la morte.

Leggeva solo classici greci, vestiva in modo elegante, aveva modi ricercati fin quando non si mostrava scostante per un ambiente letterario che l’aveva escluso proprio quando, all’apice della sua carriera, avrebbe potuto essere la voce di una generazione.

Dopo anni di autoesilio e dopo essere stato lodato da autori come Jonathan Franzen e Susan Sontag, anche qui in Italia, da qualche anno, abbiamo riscoperto l’autore americano grazie a Racconti edizioni. La raccolta d’esordio, Non chiamarmi col mio nome, e la successiva, A casa quando è buio, ci hanno introdotto allo stile corrosivo e ai temi di Purdy, ora confermati dalla pubblicazione di un’opera emblematica: Come in una tomba, sempre edito dalla collana Scarafaggi di Racconti edizioni e tradotto da Maria Pia Tosti Croce.

Il racconto lungo narra la vicenda del ritorno a casa di Garnet Montrose, dopo che la guerra ha inciso in modo spietato la sua pelle. Consapevole che segni di ustioni e cicatrici lo rendono ripugnante agli occhi altrui, Garnet decide che l’unico obbiettivo della sua esistenza è conquistare la vedova Rance: si ritirerà in solitudine e sceglierà dei servitori per soddisfare ogni suo capriccio, compresa la consegna delle lettere d’amore alla vedova. Come in una tomba è il primo boccone amaro di una pietanza allettante nella forma, ma ignota e straniante nei contenuti. Un pensiero impellente viene abbandonato in poche righe per poi fare nuova comparsa qualche pagina dopo: alla narrazione in prima persona non interessa presentare l’interiorità nei modi di un narratore ottocentesco, il lettore assiste a una scrittura umorale i cui scatti riflessivi e aulici sono solo picchi di un encefalogramma impazzito.

Tutto quello che ho sono le lettere, i ragazzi che assumo, e la sala da ballo, e niente di tutto ciò è reale. Non credo neanche alla morte perché io sono più vuoto della morte stessa.

L’epoca storica è a malapena riconoscibile, ogni parvenza di realismo viene abbandonata per entrare in una storia dai confini immaginifici difficili da definire. Anche nel delirio di un racconto che a tratti si fa fumoso e più vicino a un flusso di coscienza, riconosceremo i temi cari a James Purdy. L’emarginazione di Garnet inasprirà la sua prospettiva sul mondo eliminando ogni possibilità di empatia. La miseria e il pericolo dello sfratto sposteranno la prospettiva umana dal piano angelico dell’adorazione dell’amata fino a ripiegarla sui bisogni carnali. La lontananza dalla realtà e il crogiolo di un passato glorioso che non può tornare.

Guardando a uno dei suoi contemporanei, la differenza con i personaggi di John Cheever che combattono guerre silenziose con demoni interiori e mai risolti, sta nel fatto che quelli di Purdy sono scostanti perché mostrano, senza remore, lo strato di pelle dopo una grave ustione: il groviglio di carne è rosso e teso e dalle vene in bella vista s’intravedono scorrere tutti i cambiamenti di stato dall’illusione alla consapevolezza.

È strano ma quando ottieni ciò che desideri da tanto scopri che desiderare era meglio, desiderare fa più male, ma si avvicina più a quello che vuoi.

Come in una tomba è il modo ideale per essere introdotti al mondo di James Purdy, perché è lo stesso luogo così familiare dei nostri desideri più profondi, quelli mai confessati, quelli che ci fanno godere nel segreto delle nostre case; un’alternativa per osservare la natura umana nella sua affascinante pochezza.

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Botho Strauß, l’ultimo erede di Benjamin e Adorno

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Perseverare in una strada a senso unico

 Botho Strauß, l’ultimo erede di Benjamin e Adorno

Io sono – significa che sopravvivo

in una bolla d’aria come il minatore nella buca inondata.

Botho Strauß

di Andrea Cafarella

La lingua è la più eloquente delle caratteristiche di una cultura, di un popolo. Per questa ragione cerchiamo nella letteratura dei popoli antichi le tracce per comprenderne la storia e la loro conformazione in società, nella Storia. La storia, d’altronde, è letteratura ed è fatta di lingua. Le lingue – complessi sistemi di comunicazione attraverso “segni” condivisi – sono il frutto ultimo della peculiarità che ci distingue dagli altri animali. La lingua, in fondo, è il nostro tratto caratteristico. L’essere umano è la lingua. 

Pertanto, vi sono, all’interno di ogni sistema linguistico, delle tracce particolari del sistema culturale di riferimento. Sono dei marchi, delle impronte che ci possono aiutare a comprendere profondamente alcune comunità, alcuni popoli, persino altri singoli esseri umani che, vivendo in una lingua differente dalla nostra, sono diversi in modo assoluto e quasi cromosomico. Cosicché per comprendere un essere umano che parla – e vive – una lingua X, facendo noi riferimento invece a una lingua Y, dovremo fare uno sforzo di avvicinamento a tutto un sistema culturale X. Non potrà bastare esprimerci in una lingua Z o affidarci a qualcuno che possa per noi trasporre i significati delle parole della lingua X nella nostra lingua Y. E questo è, in linea generale, il problema e la sfida della traduzione, soprattutto quella letteraria.

La mia avventura nel cuore della lingua tedesca inizia esattamente da questa idea, prende l’abbrivo da questo ragionamento. Ho sempre dato precedenza alle lingue neolatine, spagnolo e francese. Solo successivamente ho approcciato l’inglese e ho sempre tenuto da parte il tedesco (come pure tante altre lingue). Fino a scegliere, nonostante la vicinanza geografica e le conseguenti facilitazioni logistiche, di non visitare mai la Germania, se non di passaggio. E questo ha chiaramente influito anche sulle mie letture.

Tutto ciò fino all’anno passato. 

La storia più recente della Germania e di quei popoli immersi nella lingua tedesca, come tutti sappiamo, è centrale nella più generale storia europea ed occidentale dell’ultimo secolo. Questo comporta una produzione letteraria in lingua tedesca che ha dell’incredibile e sulla quale fondiamo le basi del tempo che stiamo vivendo e di quanto ci attende domani. Basti pensare a tutta la filosofia di lingua tedesca, oppure al solco lasciato da autori come Kafka, Walser, Karl Kraus; la poesia di Rilke, Hugo von Hofmannsthal o i drammi di Brecht. E si potrebbe continuare per pagine e pagine soltanto elencando i loro nomi. Potrebbe essere una bellissima poesia. 

È per questa ragione che ho scelto di analizzare – per comprendere e vedere – le mie resistenze verso questa lingua apparentemente così lontana, nella quale hanno vissuto, però, alcuni degli autori che più mi hanno segnato, nonché i fautori della letteratura più straordinaria della nostra epoca, sulla quale si fonda il nostro pensiero, il nostro presente. Uno per tutti: Friedrich Wilhelm Nietzsche. L’ho fatto poiché desidero superare i miei blocchi, gli stereotipi che mi allontanano da quei nomi a prima vista impronunciabili. L’ho fatto nel tentativo di avvicinarmi a Zarathustra, a Josef K. e a Simon Tanner. Per capirli meglio.

Per iniziare questo percorso mi sono rivolto ad amici che vivono da tempo nella lingua tedesca e ho seguito le tracce di un autore immenso e sconosciuto, Wolfgang Hilbig, fino a Berlino [di questo primo passo e della questione della ‘cortina di ferro’ verso la lingua tedesca e le sue parenti più prossime, ho già parlato qui]. Adesso ho iniziato a studiare il tedesco – con pochissima costanza – ma spero di poter leggere, presto o tardi, le poesie di Hölderlin in lingua originale. Prima che questo – lontanissimo – momento arrivi, tuttavia, ho deciso di affidarmi nuovamente a una delle germaniste più importanti in Italia. Ed è stata lei a presentarmi Botho Strauß, uno dei massimi scrittori tedeschi ancora in vita. Un vero e proprio monumento alla lingua tedesca.

 

«Mi sono trasformata (linguisticamente) in questo signore», così inizia l’e-mail nella quale Agnese Grieco mi ha suggerito la lettura dell’ultimo libro di Strauß pubblicato in Italia dal Saggiatore: Il perseverante. Poiché ogni cultura ha una sua lingua, anche ogni autore che si rispetti, creando un mondo, un universo a sé stante, ha una sua propria lingua. Una versione estremamente personale – autoriale, appunto – della lingua nella quale vive e scrive. E per essere tradotto come si deve il traduttore dovrebbe fare proprio quanto ha fatto Agnese in questa sua encomiabile ultima prova: trasformarsi (linguisticamente) nell’autore stesso.

In questo caso, mi avverte subito Agnese, ha avuto una grande responsabilità, «più che in altri casi», «dato che questo libro nasce e muore solo nella lingua (e se essa fallisce, il libro deve finire nel cestino)». Destino che alcuni testi straußiani, tradotti in italiano, hanno malauguratamente dovuto subire in passato. 

«Botho è un’anima romantica ed elitaria (nella vita un signore che ha appena compiuto 75 anni, piuttosto imponente nei modi di fare, galante, sensibile come un bambino o come una mimosa, come dicono i tedeschi)». Leggendo queste parole penso solo che un uomo così non può che essere un autore altrettanto imponente e sensibile. Uno che nella lingua costruisce la sua lingua con grande sapienza e immensa profondità. 

Per farci un’idea della veridicità di questa intuizione ci basterà analizzare i titoli di due opere fondamentali di Strauß (quelle di cui mi limiterò a parlare in questo testo): L’inizio perduto (Mimesis, 2013) e l’appena pubblicato Il perseverante. I titoli originali sono due parole di conio straußiano: Beginnlosigkeit (inventato «per analogia e contrasto con “Endlosigkeit”, ossia infinitezza o immensità – ci suggerisce Eugenio Bernardi nella sua postfazione) e Der Fortführer (letteralmente: il continuatore, il prosecutore). Scopriremo, proseguendo la lettura, quanto questa minuziosa attenzione per la parola possa sprigionare nuovi significati e generare effettivamente una nuova lingua: un intero universo. 

Il problema adesso torna a galla: come rendere in italiano una tale intraducibile ricchezza e complessità. Scegliere la magnifica traduzione “Il perseverante” significa cogliere ed esprimere qualcosa di diverso, qualcosa di più del semplice e letterale “colui che continua” qualcosa. Perseverare ha un significato molto più specifico e pregno di rimandi. C’è anche – almeno io lo sento così – qualcosa di disperato e insensato nell’atto di perseverare. È come un atto di fede, perseverare. 

Restituire al lettore italiano una profondità di significato così articolata e pregnante, vuol dire darci la possibilità di posare i nostri occhi sulla potenza della lingua originale. Leggere il tedesco, in italiano. Questo, in traduzione, significa perseverare. Per questo, seppure Il perseverante di Botho Strauß sia anche, inevitabilmente, La perseverante di Agnese Grieco, per riuscire a esprimere una tale concordanza di significato è importante, oggi più che mai, lavorare sulla traduzione in questo senso estremo e disperato, perseverare nella comprensione dell’altro, fino a trasformarsi.

 

Il pensiero “sregolato” di Botho Strauß

Botho Strauß è un autore, nato nel 1944, di cui purtroppo, per ragioni anche e soprattutto linguistiche, abbiamo davvero pochissimo in lingua italiana e il suo nome potrebbe non dire niente al lettore, nonostante sia considerato, in patria, già tra i più importanti autori viventi. 

Muove i suoi primi passi nel contesto del collettivo Schaubühne, accanto al regista Peter Stein. E si farà un nome nella Berlino Ovest come drammaturgo. Dal suo esordio con Gli ipocondriaci alla Trilogia del rivedersi, i suoi testi teatrali lasceranno un segno profondo nella grande drammaturgia del dopoguerra. Tuttavia, fin dall’inizio, a causa dell’uso peculiare della lingua e dei fortissimi riferimenti contestuali, le sue pièce avranno davvero poche rappresentazioni in Italia e restano un cimelio per i più esperti del settore. 

Alcuni dei suoi libri vennero tradotti in italiano nella preziosa e indelebile collana «Prosa contemporanea» che Franco Cordelli diresse per Guanda: Coppie, passanti (1984), La sorella di Marlene (1985) e La dedica (1982), dopodiché il silenzio. 

Nel frattempo, la sua fama cresce esponenzialmente, seguita da una bibliografia copiosa. In Italia, se escludiamo La catena delle umiliazioni (Leonardo, 1992), pubblicazione alquanto debole e insufficiente, non abbiamo notizie di Strauß fino al 2013, quando appare nelle librerie L’inizio perduto. Un nuovo inizio senza inizio, insomma, un fatto che mi sembra più che significativo. 

Sarà finalmente nel 2015 che il Saggiatore, tramite la sua “portavoce”, Agnese Grieco, prende in carico l’opera di Strauß, pubblicando Origine (2015) e Mikado (2016). Due libri molto diversi e molto simili al contempo che, assieme a Il perseverante, cominciano a darci un’idea dell’opera di questo autore multiforme e “sregolato”. 

Origine è un libro che ha scritto per suo padre, proviene dal silenzio, dalla voragine che ha creato la morte del genitore quasi quarant’anni prima. È un libro commovente, dalla densissima forza espressiva. Mikado invece è una raccolta di racconti in piena regola. Quarantadue, come le stecche del gioco di cui porta il titolo. Da estrarre delicatamente, rischiando di muovere tutti gli altri e perdere, quindi, il gioco. 

«Tutto può crollare di colpo in queste microstorie di sottrazioni, calcoli infinitesimali, scommesse ardite e fallimentari. “Silhouette, istantanee, passanti, profili che scompaiono, quelli solo citati e quelli solo messi in lista, tutti pretendevano una vita propria…”». (Enzo Di Mauro, «Alias», il manifesto, 16 ottobre 2016).

Il dato paradossale è che questa descrizione potrebbe essere usata per descrivere gran parte dei libri di Strauß. Ognuno con le sue peculiarità, con il suo vestito, muovendosi su un tema o verso una direzione, ognuno di questi libri è fatto di «microstorie di sottrazioni», di frammenti articolati in mosaici caleidoscopici che possono apparire, a prima vista, confusionari. Bisogna guardare meglio, in questo caso.

Nel saggio che fa da postfazione a L’inizio perduto, il grande germanista Eugenio Bernardi (voce italiana, tra gli altri, di Thomas Bernhard) definisce questa sua tendenza: «pensiero “sregolato”». Richiede una tecnica che forma spesso una «struttura per brevi tratti di racconto, citazioni, impressioni di lettura, allusioni, note di tipo diaristico, affermazioni sospese». Il pensiero “sregolato” di Botho Strauß – che troviamo alla sua massima espressione ne Il perseverante – pertiene a una modalità espressiva della lingua stessa – e non solo strutturale – che segue un dipanarsi del discorso «restio all’organizzazione, attratto dalla molteplicità dei punti di vista, e nello stesso tempo istintivamente sostenuto da un concetto di persistenza, permanenza, stabilità». 

E alcuni dicono che noi emergiamo da un mare di storie,

in cui di nuovo sprofonderemo. Ci si accorge tuttavia che

sempre più qualcosa viene alla luce, si vede sulla fronte e 

scorre come una didascalia di notizie sullo schermo. E molte 

cose vengono dette senza che le si capisca: cose che un 

tempo tutto sapevano. Gli esseri fatti di spazzatura. E il loro 

desiderio di comprendere assomiglia alla fame di fuoco di 

un’anima infiammabile. (da Il perseverante)

Il perseverante è diviso in due parti: «Tra adesso e attimo» (costituito da quattordici sezioni numerate) e «Il perseverante» (una singola sezione, molto breve, che chiude il testo). I frammenti che lo compongono sono organizzati in versi e disallineati nella pagina. In ognuna delle sezioni della prima parte, la più consistente del libro, veniamo avvertiti della loro imminente fine da un segno grafico cui seguono gli ultimi brani. Le sezioni non hanno tra loro una concordanza, un tema che le lega, una successione. Si muovono, però, tutte sotto lo stesso sole, espresso nell’epigrafe (che ha ispirato il titolo di questa prima parte) tratta da Meister Eckhart: «Un pezzo di tempo/non è né il giorno di oggi/né il giorno di ieri./Un attimo invece racchiude/il tempo tutto». In pratica ognuno di questi «attimi» li racchiude tutti. Ognuno dei passi e delle indentazioni (che anche Bernardi, parlando de L’inizio perduto, sottolinea come altamente significative: «quel bianco può essere una trappola, offrire pensieri da proseguire per conto proprio») ogni momento del testo tende ad avere un significato assoluto, o meglio: a provocarlo nel lettore. 

Quel «mare di storie» che Botho Strauß mette in scena, potrebbe sembrare insensato. Un magma caotico senza scopo. «Si potrebbe ora parlare pressoché di tutto concludendo» ci suggerisce lui stesso verso la fine del libro. Eppure «ci si accorge tuttavia che sempre più qualcosa viene alla luce», come una soluzione, una fiammella alla quale anelare costantemente per tirare fuori da quel mare gorgogliante di «notizie sullo schermo», una soluzione. Un groviglio nel mezzo del quale è possibile scorgere una verità, la Verità, nascosta in quelle «cose che un tempo tutto sapevano».

  

L’eredità, l’Origine – la Strada a senso unico

Capiamo subito che descrivere questo libro (e venderlo, di conseguenza) risulta impresa ardua. Nel mare di “romanzi” nel quale siamo immersi. Eppure, paradossalmente, come vedremo, esso rappresenta la tradizione più pura. 

«Con inopportuna approssimazione si potrebbe evocare – per analogia tecnica e strutturale – lo «Zibaldone» leopardiano. Mentre per una maggiore equità si dovrebbero ricordare certi diari di poeti-scienziati del primo Ottocento tedesco, mossi dalla «libido scientiae» e magistrali nella loro manieristica farraginosità (sia lecito pensare a Novalis o, prediligendo la finzione, a Faust)».

Guglielmo Gabbiadini, parlando de L’inizio perduto (in questo pezzo uscito su Doppiozero) suggerisce un accostamento – «con inopportuna approssimazione» – allo Zibaldone. Accostamento che viene ripreso anche nella bandella in cui si presenta il testo nell’edizione saggiatoriana de Il perseverante. E che anche Agnese Grieco ha utilizzato per descrivermi il libro. Tuttavia, si tratta pur sempre di un’“approssimazione inopportuna” che serve solo a darcene subito un’idea strutturale. Bisogna dire che le annotazioni straußiane vogliono cogliere una visione ampia, fatta da punti di vista diversi e disparati, sono «contro l’unità, l’uno e l’unicità; a favore di una dispersione proliferante – le coordinate ideologiche che orientano il discorso straußiano sono palesi ad ogni sua pagina». E, secondo me, qui Gabbiadini coglie davvero l’eredità di Strauß, quando cita Walter Benjamin e il suo «Il narratore». A proposito de Il perseverante, in luogo dello Zibaldone, si potrebbero citare infatti, per esempio, Minima moralia o altri testi adorniani (come suggerisce anche Enzo Di Mauro nel suo succitato «Botho Strauß. Adorniano, letteratura ingovernabile»), oppure la Strada a senso unico di Benjamin, un testo eterogeneo, una wunderkammer postmoderna della Berlino di inizio secolo, «giudicata dal filosofo Ernst Bloch come un autentico “bazar” filosofico sull’esempio dello “stile di pensiero surrealista”». 

Adesso possiamo avere un quadro più completo.

Il pensiero “sregolato” di Botho Strauß, altro non è che il pensiero surrealista, in lingua tedesca e, in quanto trasformato in un’altra lingua e filtrato dalla voce di Strauß, risulta pregno di quei tratti che coinvolgono Wittgenstein come Hitler. Heidegger come Horkheimer. I suoi “personaggi” – o meglio: i suoi punti di vista –vedono il nostro mondo dai nostri stessi occhi – in quanto siamo noi stessi – e ce lo rigettano indietro in forma di immagini pulsanti di vita e piene di tutti questi significati combinati in un abbaglio che si staglia sulla marea di dettagli della quotidianità. 

D’altronde lo confessa lui stesso, nelle prime righe della seconda parte de Il perseverante. Scrive: «Siamo il perseverante – oppure non esistiamo». Torna a capo, lasciandoci quello spazio bianco di cui si diceva prima e specifica: «Il poeta persevera nel solco tracciato da i poeti che lo hanno preceduto». Pur senza un inizio ma con una strada a senso unico da dover percorrere a tutti i costi – perseverandovi con la costanza dell’«autore-eremita», del credente, dell’impavido brillante prosecutore di quella illustre tradizione che Wolfram Eilenberger ha denominato «degli Stregoni».

 

Dall’uccidere l’inizio al perseverare fino alla fine 

Uccidere l’inizio significa trasmettere un comando “enzimatico” attraverso l’organismo complessivo del pensiero, soffocare sul nascere ogni formarsi di un concetto collegato a un elemento iniziale…in qualsiasi punto della coscienza deve esistere tutto. (da L’inizio perduto)

Come possiamo vedere e potremmo leggere, aprendo delicatamente Il perseverante, quella di Botho Strauß è una filosofia coerente che si è sviluppata negli anni attraverso questi suoi libri ibridi, pieni di storie di vita, teorie, aforismi, pensieri slegati, critiche selvagge, momenti minuscoli e osservazioni infinitesimali. Possiamo trovare tutto in una singola frase. E ogni frase tende a contenere tutto in un lampo di comprensione. Poiché l’inizio non esiste, in ogni passo è condensato tutto il percorso. 

Dobbiamo prenderci carico di questa locuzione in modo “enzimatico”, quasi ontologico: «Non è ipotizzabile che nel primo secondo di vita in noi ci sia qualcosa di essenziale che non sperimentiamo» scrive ancora ne L’inizio perduto, «È l’essere-tutto-nello-stesso-momento l’esperienza da cui proveniamo». Leggendo una frase del genere ci potrebbero venire in mente le filosofie più diverse. In questo solco, Buddha e Einstein si compenetrano. È una frase imperfetta, chiaramente. Poiché conserva un’ambiguità, un punto di vista personale, presuntuoso anche. «Piuttosto imponente nei modi di fare», come diceva Agnese. Strauß è un autore con il quale non si può essere d’accordo su tutto. Eppure, il disaccordo che genera la parola di Strauß è un disaccordo prolifico, che ci fa pensare. 

A un certo punto, ne Il perseverante, parlando di Eureka di Edgar Allan Poe, sembra come volerci spiegare, per analogia, il senso del suo testo, suggerirci una strada. Lo analizza partendo dall’inizio: «l’autore annuncia nella prefazione che nel libro verrà risolto il mistero dell’universo». Che, se vogliamo, in un modo decisamente elegante, che affascina molto, è esattamente quello che prova a fare Strauß. «Nel romanzo tuttavia non viene presentata né una teoria né la soluzione dell’enigma del mondo. Piuttosto viene affastellata una quantità incontrollata di idee, dimostrazioni e speculazioni, in mezzo a cui, probabilmente, una soluzione è mescolata in modo così poco identificabile come l’ago nel pagliaio». Questa, invero, è una puntuale descrizione dei suoi stessi libri, pensandoci. «Anche se nascosta tra le righe, da qualche parte la soluzione, come promesso, deve ben essere indicata e spiegata! È anche possibile che nella sconfinata indagine in cui si perde il romanzo la soluzione sia stata, in un dato passo, appena accennata per poi, in seguito, venire alla luce in tutto il suo stupendo rigore formale». Qui ironizza, si comporta da lettore. Strauß sembra quasi pretendere, assieme a noi, che nel libro di Poe, come promesso, debba esserci una Verità, espressa in termini scientifici e comprensibili, divulgativi. Eppure, non deve essere semplice trovarla, quindi per incoraggiarci Botho Strauß si rivolge direttamente a noi, «Abbi pazienza!» esclama. E continua a dare altri indizi, «è stata forse sistemata in una parabola, che facilmente leggendo si sorvola» oppure «addirittura è stata inserita quale merce teoretica di contrabbando priva di dichiarazione». Non ha importanza «Cercala! – grida tutto il libro. Cercala!».

In questo senso, l’autore è “il perseverante” ma anche il lettore deve essere “il perseverante”. Questo è un libro da leggere con l’attenzione di un archeologo. L’apertura mentale alla diversità di un antropologo. La cieca pervicacia di un alchimista.

Leggere Il perseverante significa diventare un inseguitore, un lettore a caccia. «Come se dovesse sbarazzarsi di un inseguitore, egli schizzava fuori da sé spirito impenetrabile, come fa il polpo con la sua nuvola di inchiostro. Non vuole essere né compreso né riconosciuto, vuole solo restare protetto». Non è facile – e non deve essere facile – scovare il polpo-Botho in mezzo a quel mare sterminato di parabole, di racconti brevissimi, lampi di genio, analisi concettuali o puro manierismo. Frasi che lasciano il fiato sospeso e per le quali bisogna chiudere un attimo gli occhi e sentire lo spazio bianco come una pausa, un momento di stasi prolofica. 

Come questo frammento: «Quando quello che non c’è, cancella tutto quello che c’è, quando per esempio una persona di cui senti la mancanza riempie tutto il tuo presente più di quanto potrebbe mai fare la sua presenza» (da L’inizio perduto). 

Qui vediamo il vero Botho Strauß, quella sua sensibilità, come di mimosa. «Il paradosso del testo intimo è la sua metamorfosi in una stoffa non trasparente che copre la nudità dell’autore», si faccia tuttavia attenzione, coprire significa velare o ri-velare, velare due volte. Per rivelare la nudità-verità – la soluzione di cui parlavamo prima – bisogna che essa sia ri-vestita di quella stoffa non trasparente, ovvero: il mare di storie di cui siamo fatti e di cui è fatto il mondo, la lingua. Solo così avremo la possibilità di denudarla. E per svestire la lingua e svelare la Verità, bisogna cercarla, bisogna essere lettori attivi e curiosi, saltare le pagine e tornare indietro, e leggere poco a poco, e godere del silenzio. Questo è un libro che bisogna leggere lentamente, meditando, meditando della vita offesa, perseverando nella ricerca – cogliendo i gerundi leopardiani e riempiendoli del suo infinito, in una prospettiva adorniana, che guardi alla vita come a un’infinita catena di attimi che racchiudano, ognuno, «il tempo tutto». Ognuno, tutto.

Orsola Nemi, l'essenza aerea della scrittura

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di Marina Bisogno

La scrittura ha decine di declinazioni: la narrativa, la saggistica, il giornalismo, la comunicazione, l’autobiografismo, la poesia, la traduzione. L’elenco non è esaustivo ma abbozzarlo ci aiuta a ripercorrere la relazione tra Orsola Nemi, pseudonimo di Flora Vezzani, scrittrice e traduttrice, e le parole. Bompiani richiama l’attenzione dei lettori su questa autrice poliedrica, profondamente cattolica, prima di tutto poeta, ripubblicando Taccuino di una donna timida, raccolta di considerazioni e pensieri, uscito in Italia per la prima volta nel 1969. È un libro senza trama, prezioso per la scrittura scintillante, che, a seconda dei casi, è un fiore da contemplare o una sciabolata impietosa, discordanza data da una espressività esercitata a forza di osservare e di commentare. La Nemi scrive delle piante, dei gatti, delle persone, dei tram che sferragliano a sera, delle scelte politiche e sociali di un Paese già avvezzo a nascondere e a negare le sue ferite. Nel taccuino si inseguono i sentimenti che l’autrice riserva alla vita: la gratitudine, la meraviglia, la rabbia, certe volte una nausea pavesiana.

Vi sono giorni in cui il vivere dà noia come portare indosso il vestito di un’altra persona, che è troppo corto o troppo lungo, da una parte avanza, dall’altra tira. Così la vita non sembra fatta sulle nostre misure.

Quando il taccuino viene proposto sul mercato editoriale alla fine degli anni Sessanta, Flora Vezzani è già Orsola Nemi. Lo è dal 1939, quando Montale legge le sue poesie e decide di pubblicarle sulla rivista “Letteratura”. È la prima donna poeta ad avere voce attraverso un canale tanto esclusivo e si battezza ‘Orsola’ per ricordare suo padre caduto da ufficiale sul Carso nel giorno di Sant’Orsola durante la Prima Guerra Mondiale. Nemi deriva, invece, dal latino nemini: di nessuno.

La poesia la conduce anche all’uomo che sarà il complice di un’esistenza nomade, votata alla conoscenza e alla narrazione. Henry Furst lavora in Italia come corrispondente del New York Times Book Review e quando legge le poesie di Orsola fa di tutto per conoscerla. La loro, più che una relazione passionale, fatta di picchi di allegria e di dolore, è un’intesa elettiva pacifica, basata su interessi comuni, un universo condiviso. Orsola è cagionevole, da bambina sopravvive a una poliomielite che la fiacca. Chi la conosce parla di lei come un’essenza aerea: la pelle diafana, un temperamento risoluto e mistico. Il misticismo si manifesta nella fede, nel bisogno inesauribile di contemplare il mare, la campagna.

 

Dalla parte del mare, la sera, con una sola stella sul petto, è una regina che vuole morire in piedi. La sua bellezza ci impedisce di guardare di là, di avere paura”. […] Il corso del giorno segue una costante felicità, il crepuscolo non ha inquietudini, la notte non ha paure. È questa la terra che ci hanno detto nemica? Il mondo dove è chiamata a vivere una razza di peccatori indegni? Non lo si crede.

 

La Liguria è la sua terra d’elezione, vi si trasferisce bambina dalla Toscana e qui allena la lirica e la scrittura. Di riflesso, diventa un rifugio anche per Henry, sebbene siano lunghi i periodi che la coppia trascorre in città, a Milano, a Firenze, a Roma. Il richiamo della costa è però insistente, una costante per l’autrice, amante del silenzio. Una chiamata che Orsola asseconda anche per periodi lunghi: ad esempio, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale o dopo la morte di Henry, nel 1967, che rende definitivo il legame con il mare, il giardino, la natura lussureggiante e i gatti. In mezzo a questi momenti di isolamento, ci sono esperienze editoriali che l’hanno incoraggiata a sperimentare le sfumature dello scrivere. Nel 1942 Bompiani pubblica Cronaca, la sua prima raccolta di poesie. Bompiani le propone anche di collaborare al Dizionario delle opere e dei personaggi, mentre per Longanesi traduce, tra gli altri, Baudelaire, Maupassant, Balzac. Orsola collabora con riviste, quotidiani, scrive racconti e fiabe. La raccolta di racconti I gioielli rubati vince nel 1958 il premio femminile Bagutta che lei rifiuta, inorridita dall’immutato cliché della differenza tra la scrittura di un uomo e quella di una donna. Si diverte a comporre fiabe: la più famosa delle sue è Nel paese di Gattafata, illustrata da Giorgio De Chirico. Nel 1980 viene pubblicata la biografia di Caterina de’ Medici, che Orsola e il marito stavano curando insieme, prima che lui morisse. Orsola scompare dalla scena editoriale in punta di piedi, con discrezione. Il fatto che fosse sempre stata schiva e riservata non ne escludeva la risolutezza. Oggi, dopo tanto tempo, la casa editrice che l’ha sostenuta e per prima le ha dato voce, ce la riconsegna negli aspetti intimi, sfaccettati, al confine tra saggio e diario, gettando luce nuova su un’intellettuale cangiante e solida del secolo scorso.

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La novella umana di Oreste del Buono

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di Marina Bisogno

In noi è odio ma un odio, un furore senza altro oggetto che noi stessi: il furore di essere tanto schiavi della nostra miseria, della nostra vigliaccheria.

Il peggio dell’essere umano è condensato in questa frase: se non c’è alternativa all’orrore, diventiamo un grumo di paure e violenza, e la distanza tra gli uomini e gli altri esseri viventi – le tigri, i leoni, ad esempio - si riduce. Siamo fatti di luci e di ombre, ma se la notte interiore è favorita da condizioni esterne, diventa complicato gestire questo equilibrio sottile. L’abbrutimento e il tentativo di tenere accesa la fiammella della solidarietà umana sono due motivi centrali in Racconto d’inverno (minimum fax), testimonianza piena di lirismo e sofferenza dell’esperienza di Oreste Del Buono - autore a tutto tondo (narrativa, giornalismo, saggistica), editor e traduttore - che durante la Seconda Guerra Mondiale viene fatto prigioniero dai tedeschi e condotto nel campo di lavoro di Gerlospass. È il 1943, Del Buono è arruolato in Marina, l’armistizio del Paese segna l’inizio della resistenza contro il nazifascismo e molti soldati italiani subiscono le ritorsioni degli ex alleati. Tra questi c’è Del Buono, che durante la prigionia non smette di prendere appunti: scrivere è già il suo modo di stare al mondo. Racconto d’inverno, di chiara matrice autobiografica, viene pubblicato sotto forma di novella per la prima volta nel 1945. Minimum fax lo ripropone nel 2019, valorizzando una delle prime testimonianze della guerra, antecedente anche a Se questo è un uomo di Primo Levi. Del Buono non sceglie l’io narrante: predilige la terza persona, crea dei personaggi e si serve di uno di loro, Tommaso, il cui sguardo, disincantato ma non rassegnato, mette a fuoco vicende dolorose, irreversibili.

Siamo arrivati a rubarci il pane, il pane risparmiato o elemosinato, qualcosa che appartiene al sangue, alla carne, siamo arrivati a rubare il sangue, la carne ad un altro affamato.

Non è un testo di trama, non succede quasi nulla: il suo valore sta nella scrittura telegrafica, impalpabile che rievoca le violenze e gli stenti degli uomini nel campo, la loro trasformazione, l’annebbiamento della mente, il ritorno ad un’era barbarica, come se la civilizzazione non fosse mai avvenuta. Tommaso e gli altri si sono arruolati per il desiderio di sfuggire al degrado e alla povertà. Nello stanzone dove sono ammassati, senza privacy, a patire il freddo e i morsi della fame, non fanno che parlare di cibo, donne e ricordi di infanzia. Ogni giorno percorrono strade innevate per andare a lavorare: senza gli abiti adatti, con le mani e le labbra falciate dal freddo, disboscano un’abetaia per costruire una teleferica. Le guardie tedesche li sorvegliano, urlano, li spintonano. Sono ridotti a muli da soma, senza amore, senza calore e una sensazione costante di umiliazione sotto pelle. La speranza è che la guerra finisca, restituendo la vita che si è presa a forza. Qualcuno sgattaiola di notte nelle stanze delle donne che lavorano nel campo, anche loro devastate nel corpo e nella mente, ma pur sempre femmine, con un seno, un ventre, una bocca, due braccia accoglienti, sufficienti per sfuggire alla sensazione perenne di morte e sfinimento. Non ci sono prospettive allettanti, diversivi: gli occhi dei prigionieri sono fermi su un paesaggio di montagna innevato e avvolto in un’atmosfera di dannazione.

È la tristezza che rende monotone le voci, come un ferro che batta su un ferro all’infinito. Pensava al corpo di Kata che aveva avuto acconto al suo sulla branda, alla carne di lei: su tutti pesa la tristezza come un sopruso, ma non possiamo sfuggirle. Il nostro ridere è insincero. Siamo monotoni sotto un peso di dolore

dice Tommaso in uno dei passaggi del libro. L’inverno non è solo una stagione, ma anche uno stato d’animo. Tommaso e i compagni sono in balìa di una corrente che non riescono a controllare. Quello che vivono è illogico, inumano, indegno. Il passato ritorna nei sogni confusi, nei discorsi strascicati, stanchi, ripetitivi; il futuro è un auspicio, una chimera. Nel 1945 rievocare quei giorni per Oreste Del Buono è una forma di terapia: riportare a galla il vissuto, farne materia letteraria attraverso un alter ego che si scompone di continuo in un noi. Io, noi, voi: sono voci narranti della medesima storia. Una storia che ha contrassegnato quello che è stato dopo, fino a noi, nel ventunesimo secolo. Racconto d’inverno è un pugno, un rumore fastidioso e insistente, un prurito, il ronzio di una mosca che non rompe il silenzio. Rammenta agli uomini come si può diventare piccoli e insignificanti se si mette da parte la ragione per lasciare spazio all’odio e al disprezzo.

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Da 'Gli ultrauomini', un testo di Donato Novellini

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Un libro-reportage di incontri ravvicinati con terrestri d’Italia che vanno ultra: a partire dal gestore di un’agenzia di pompe funebri di Mirandola, in provincia di Modena, che fornisce servizi di ibernazione. Tradotto: congela i cadaveri dei richiedenti e li spedisce in Russia in un centro specializzato di criogenesi (pratica legalizzata in quel paese), dove i corpi riposeranno in silos, a meno 196 gradi, in attesa di una “resurrezione” per intercessione della tecnologia.

E poi reportage da un convento di suore di clausura, dalle viscere della terra, da una sala operatoria, dalla casa di un “alieno di paese”, da una panchina su cui siede un cyborg ventiduenne, da un salottino in cui un maestro della Quarta Via beve il caffè, da un ufficio comunale in cui lavora una donna wrestler, da una conferenza di Persone Altamente Sensibili, dalla cameretta di una tanatoesteta, dalle spiagge dove un pensionato va a caccia di messaggi in bottiglia.

Cattedrale vi propone il testo di Donato Novellini

*

L’alieno della porta accanto
di Donato Novellini

Quell’uomo stralunato, trasandato e palesemente inattuale, ricorda un po’ Louis-Ferdinand Céline, periodo fuggiasco in esilio danese; imbottito a strati di giacconi e maglioni d’orso usurati, con un gatto raggomitolato sulle spalle, sta fermo dinnanzi alla porta verde scrostata di casa guardando distrattamente i rari passanti. Vecchie ricurve coperte di scialli e becchini del giorno, del sole velato costretto in fretta al crepuscolo; tutti spettri infagottati dal passo lesto diretti al calduccio. D’inverno marciapiedi dissestati, squarci di pozzanghere ghiacce, luci sterili in vasi da notte capovolti dall’alto, collezione privata ENEL. Saluti appena accennati, la mano intirizzita che frettolosamente esce dalla tasca per un gesto che assomiglia a una benedizione reciproca tra conoscenti, ovvero tra abituali estranei; poi il traffico biancastro dei furgoncini degli artigiani, nervoso scemare oltre la visuale di catrame sbriciolato tra due filari di portici, deserte strisce pedonali, direzione aperitivo delle 19.00. Solito viavai serale, diverso lo sguardo – del solitario senza telefono e televisore in casa – che osserva con disincanto dal civico 71 il meccanico deambulare di provincia: in alto comignoli fumanti, gelo e foschia, è da poco passato Natale e l’obsolescenza maldestra delle luminarie conferisce alla strada quel nonsoché di sordido. Decadenza padana, come quando la neve muta in pioggia imbrattando di fanghiglia i bei portoncini blindati delle dimore con balcone. Come quando le stelle filanti di carnevale affogano nella guazza, dimenticate dalla festa. Quella catapecchia con le tapparelle sempre serrate in obliquo guasto, buttata lì su una curva a gomito della via principale di un piccolo paese in riva all’Oglio, tra Mantova e Cremona, è tutto ciò che possiede, ultimo baluardo dell’eredità (sperperata) ricevuta dai genitori: suo padre, bell'uomo intraprendente, era un rivenditore di dolciumi, per l'esattezza Ingrosso Coloniali. Appassionato d'auto veloci, morì ancora giovane schiantandosi con l’Alfa Giulia contro un paracarro. Robe da film. La madre invece, casalinga protettiva d'aspetto gitano, usava pettinarlo come una signorina, cercando di dare una forma di banana a quei boccoli ribelli da putto barocco. Ella desiderava somigliasse ad una bambola, oppure a quei marinaretti d'inizio ’900, statuine di porcellana che custodiva gelosamente nella vetrinetta in salotto. Ma lui era maschio, figlio unico precocemente aduso a incipriarsi il volto, in qualche modo predestinato all’omosessualità. Ma poi chissà. Da sempre vive solitario in quel presidio d’alterità sovraccarico di memoria minuta, come in un presepe pagano tra animali vivi e altri immaginari, ovvero gli spiriti di piccole bestiole domestiche ormai morte; come in un’enclave di bizzarrie, tra vetusto mobilio per quotidiano horror vacui, le gerarchie risultano invertite: «I gatti sono i veri proprietari, io solo un ospite», suole dire al casuale visitatore schermendosi. Roberto, per tutti Bert, è un uomo senza età, pelle rettile – di primo acchito vecchio cogli occhi capaci di imprevedibili guizzi di vivacità – ma sulla cui figura allampanata pesano trascuratezze boeme, fardelli di vite precedenti, tutti i dazi doganali della libertà praticata senza compromessi. Se ne sta lì appollaiato davanti all’uscio per ore, come un bonzo, reduce orientale, come la piumata ancella di Minerva; testa sotto cuffia di lana a rombi e borse di plastica della Coop piene di chissà cosa, all’erta per motivi genericamente contemplativi o, più prosaicamente, per scroccare una sigaretta, 2 euro per la prioritaria pappa dei gatti, l’ultimo pettegolezzo carpito dalle badanti estoni in libera uscita, un ciocco di legno in extremis per rientrare. Finissima questuanza frammista a incancrenita pigrizia. Dentro casa fa più freddo di fuori.

In paese si dice che Il Bert non abbia mai lavorato in vita sua. Ultimamente, addirittura, si sostiene che sia un inetto approfittatore, un parassita della comunità, il satrapo direttore di misteriosi traffici illeciti: “Gatti e indiani”, borbotta la gente scuotendo il capo. Dalla prolungata inoperosità l’inevitabile taglio dell’utenza gas, massima onta per i perbenisti della domenica. Per acqua ed energia elettrica invece si fa bastare un piccolo sussidio, messo insieme da amministrazione comunale, parrocchia e lontani parenti pietosamente benefattori. Talvolta viene convocato nell’ufficio del sindaco, il quale dapprima lo rampogna riguardo alla cronica condotta improduttiva, per poi proporgli “lavori socialmente utili” e altre forme di reinserimento nella vita della comunità locale. Profferte che puntualmente cadono nel vuoto. Carta d’identità scaduta, saranno 10 anni come minimo che non va a votare. Come tutte le affermazioni categoriche pure quella dell’allergia al lavoro tende all’iperbole macchiettistica. Un mese da operaio presso l’officina, manutenzioni di vagoni treno in deposito, se lo fece eccome il Bert. Fu una delle sofferenze più grandi della sua vita. Erano i primi anni ’70, le baffute tute blu – con le loro rivendicazioni sindacali, picchetti, striscioni rossi e poster di donne nude negli armadietti, con quel piglio rude e in fondo cameratesco – tolleravano a malapena le stravaganze di quell’invertito pacifista devoto a Krishnamurti, le finezze metafisiche di uno in procinto di farsi “arancione” Hare Krishna, di un vegetariano senza patente ma soprattutto anticomunista. Difatti fu un capriccio camuffato da obbligo, tanto per poter consegnare agli annali locali l’ovvia sentenza: “Ci ho provato, ma davvero non faceva per me durar fatica”. Per un lungo periodo s’arrangiò dipingendo murales onirici, presso il bar del Mecca, storico ritrovo di fricchettoni. Il titolare, pure lui omosessuale e forse suo vecchio amante, gli lasciava carta bianca pagandolo più del giusto; così quel locale di anno in anno prendeva le sembianze di un cielo costellato a zodiaco, di una Śambhala nevosa e fiorita di loto, di un Olimpo per divinità disinibite, di una New York di finestre gialle, cassonetti e piume di struzzo. Contemporaneamente esercitava l’attività di tatuatore, in spregio ad ogni norma igienica, per cavie incoscienti e adoratori di serpenti. D’altronde erano gli anni ’80, anche se da queste parti non se n’accorse nessuno. Cascami dello spirito hippy imputridivano stancamente nella bruma, perpetuando anticonformismi giovanili sempre più vacui, relegando questo paese di cacciatori e pescatori d’acqua dolce ad un manicheismo permanente, ad una contrapposizione generazionale altamente stucchevole. I giovani erano tutti vecchi già da giovani, inghiottiti dal tedio della provincia, come se la segnatura basso-padana non sapesse generare altro che argini alle acque intorbidite del tempo nuovo: simili coi simili e diversi coi diversi. Tutti uguali nei loro ruoli prestabiliti. Erano quelli i tempi delle Citroen DS Pallas, degli adesivi col vagabondo o con il simbolo dell’Om sulla Vespa, delle discoteche Cosmic, Melamara, Typhoon e dei pomeriggi noiosi passati ad ascoltare Radio Azzurra al parchetto, tra uno spinello e l’altro. Chiamavano “Afro” quella musica funky imbastardita con l’elettronica, pretesto per baccanali e inconcludenti raduni di storditi, variante nichilista del peace & love fuori tempo massimo; s’abbigliavano con larghe camicie a sbuffo, colletto alla coreana, jeans chiari strettissimi, pendagli, argenterie assortite a collo e polsi, ai piedi Clarks scamosciate. Ogni tanto qualcuno finiva nella spirale dell’eroina e ci restava secco. Li trovavano il giorno dopo distesi in macchina con le facce bianche, ibernati nei pressi di certe cascine diroccate, mentre le zolle scure all’alba emanavano vapori nel grigiore fatiscente della campagna. Morti tra le acque morte. Il Bert invece, riluttante alle medaglie di spade, furbo come i gatti, s’era già chiuso nei suoi appartamenti, congetturando d’apocalissi prossime venture. Sprezzatura d’un veterano d’ebbrezze, ma d’altronde se lo poteva permettere: alla fine degli anni ’60, assieme ad una compagnia di utopisti locali, partì per Londra, poi Amsterdam, quindi finalmente il generazionale viaggio in India: fiume Gange! Di quella comitiva tornata al villaggio dalla Lourdes degli hippies, con le boccette d’acqua sacra e taluni souvenir illegali dall’Afghanistan, solo il Bert rimase in fissa con l’induismo; gli altri, inventatisi elettricisti, idraulici, fabbri ferrai, carpentieri e messa su famiglia, dimenticarono per necessità e pragmatismo gli ori lontani dell’illuminazione. Così delle droghe: dopo l’LSD e le baluginanti fumate d’oppio venne la stanca routine dell’hashish in Padania. Dopo le infatuazioni per i mistici orientali mescolate a sincretismi rosacrociani, venne un blando attivismo antiproibizionista presso il Partito Radicale di Marco Pannella. Egli gradualmente abbandonò le scene coi bonghi e l’agitarsi dei capelloni, per divenire l’eremita del paese. Un celebre sconosciuto ormai calvo. Un emarginato ormai salvo, a suo modo un personaggio: l’Uomo-Gatto.

Ci scambiamo visite, con Roberto, come due monadi con una generazione di troppo in mezzo, anche perché è il mio dirimpettaio in via Garibaldi e traversare la strada non gli costa gran fatica. Più sue da me che il contrario, ma dipende dai periodi. Bussa al vetro, segnale in codice per chi sa che ho disattivato il campanello, quindi dopo alcuni minuti d’attesa attacca a chiamare a gran voce: «Don, Don, è urgente, ho bisogno di te!». In caso d’assenza lascia biglietti melodrammatici nella cassetta della posta. Scostando l’imposta lo vedo muoversi a scatti, nervosamente davanti alla porta, un passo e mezzo a destra un passo e mezzo a sinistra, uno avanti uno indietro, balletto di preoccupazioni con una pila d’oggetti in mano. Si tratta di vecchi volumi a tema esoterico, che vorrebbe vendermi per l’urgenza del momento: ha finito le scatolette per i gatti, afferma affranto mentre gli apro. Tantrismo, sufismo, alchimia, qabbaláh, astrologia, in belle edizioni primonovecentesche, rarità da bibliomane mescolate a dozzinali pubblicazioni ufologiche o sul cinema, Touring Club color carta da zucchero, dischi di Roxy Music, Devo, Talking Heads imbarcati dall’umidità, arrugginite scatole di biscotti, spaiati mazzi di tarocchi, campanelle tibetane, amuleti nepalesi, mappe astrali, ammennicoli elfici, civette in terracotta. Prendo tutto per i 20 euro richiesti e un paio di sigarette. Ma poi rinfrancato alza la posta, recitando un superfluo siparietto di smorfie piagnucolose: «Non avresti anche un pezzo di legno per la notte? Del sale grosso? Una bottiglia di vino? Del formaggio grattugiato? Stasera vengono a trovarmi gli amici indiani…» – alludendo a taluni bergamini inturbantati, orientali in bicicletta provenienti dal lavoro presso cascine sparse nella campagna, sovente suoi ospiti, quasi si trattasse di un consolato o di un Mandir dove meditare sui 18 canti della Bhagavad-gita – «Pronti!» ribatto cercando l’occorrente, immaginandomi con una certa attendibilità nei suoi panni, tra qualche anno. Così, grazie a quello stravagante mercimonio mensile, l’oggettistica fané in cerca di nuova polvere e la libreria arcana del Bert traslocarono da me, accadimento che assunse i connotati d’un temibile passaggio di consegne: ispirato da esotiche pratiche mistiche avrei finito anch’io per giudicare illusoria ogni realtà? Perderò il lavoro, affidandomi ciecamente all’interpretazione solipsistica delle coincidenze? Percepivo pericolosamente d’esserne propenso e l’occultismo mal si conciliava con i ripetitivi doveri della cronaca minuta, del giornalismo locale, ovvero con la mia precaria fonte di reddito. Ad oggi l’Uomo-Gatto tiene gelosamente per sé i vinili di Patty Pravo, anche se non ha più il giradischi, e un antico manuale per consultare gli astri, indispensabile strumento per compilare temi natali. D’altronde, non essendogli rimasto più nulla da vendere, con le mani atrofizzate dall’insalubrità domestica e perciò incapaci di praticare tatuaggi a rischio epatite – che per altro al giorno d’oggi nessuno si sognerebbe di fare da lui – quella degli oroscopi personalizzati resta l’ultima attività di piccolo guadagno. Fa così: traccia un cerchio col compasso su un foglio a quadretti, all’interno del quale tira delle linee, formando spicchi dove collocare i pianeti. Tutto il cielo su un pezzo di carta. In base a quel posizionamento e alla sua sapienza, nelle tre pagine seguenti narra con bella calligrafia e piglio confidenziale questioni riguardanti sconosciuti. O sconosciute. Proprio da ciò dipendono le mie sortite presso il suo domicilio, bramoso di conoscere preventivamente i segreti futuri, le più recondite intimità di certe donzelle del Leone, del Sagittario, dell’Acquario, del Toro, della Bilancia…

“Spero sempre che gli effetti terapeutici della cannabis riescano a mitigare la maledizione d’avere l’ascendente in Scorpione”, penso tra me mentre pigio il dito sul campanello. Ma poi che importa? Mica sono io il soggetto delle sue indagini stellari. «Vieni vieni, entra pure, non aver timore», fa con quei modi melliflui, tali da riportarmi alla memoria le due sorelle macellaie de La casa dalle finestre che ridono, pellicola di Pupi Avati narrante le vicende di un pittore d’agonie, di uno sprovveduto restauratore vittima dell’omertà di paese e di altre misteriose vicende ambientate alla foce del Po. Anche se da fuori la bettola del Bert somiglia più ad una casa dalle finestre che piangono, gli interni conservano ancora intatta la caleidoscopica stramberia del flower power; Berlino di campagna, austerità architettonica del dopoguerra orpellata da iconografia un poco lugubre, come di un santuario dannunziano; teatrino domestico di lacerti orfici, colonizzato da vezzi hollywoodiani versione gay d’antan. Nell’atrio i ritratti in bianco e nero di Dirk Bogarde e Charlotte Rampling, James Dean, Rock Hudson, Judy Garland e Liza Minnelli, Yukio Mishima, Jean Genet, Joe Dallesandro, Candy Darling, Lou Reed, David Bowie e molti altri, formano un mosaico emblematico, un puzzle di cartoline ingiallite appiccicate al muro con puntine da disegno. Varcata una porta di legno con finestrelle, vetro increspato d’allegorie liberty tenuto insieme col nastro adesivo, si accede ad un salottino piumato, camera tutta smaltata di rosso e blu. Dentro due enormi poltrone in velluto verde tempestate di bruciature di sigarette, in fronte a un sofà ricoperto di trapunte sgualcite dove poltrisce un numero imprecisato di gatti. Miao, fan tutti stiracchiandosi, come surreale benvenuto. A terra bottiglie vuote di alcolici, grappa e vino, nocino di contrabbando. Tutt’attorno piante grasse in vaso e altre finte, statue del Buddha e di demoni con la lingua fuori, campane di vetro contenenti ossa d’animali domestici messe in candeggina, riproduzioni accumulate in cornice del San Sebastiano di Guido Reni, candele da fabbriceria probabilmente prelevate da qualche pieve in stato d’abbandono. Zolfo e incenso, misticismi obliqui irrorati dal nauseabondo odore di piscio di gatto che rende la permanenza oltremodo difficoltosa. Ma poi dopo una sigaretta ci s’abitua a tutto, anche al doppio senso del termine ospite. Alla richiesta d’accomodarmi mi siedo sul bracciolo consunto del divano, assumendo la pavida posa del richiedente udienza. Mi tolgo dagli imbarazzi passandogli un foglietto rosa con su scritto: “Napoli, 25 gennaio 1981, ore 18.00”.  L’astrologo lo prende tra due dita, come se fosse una brace incandescente, limitandosi a insistiti cenni d’assenso. «Ti consegnerò l’esito in busta chiusa tra quattro o cinque giorni» – per alimentare attesa, ma sarà domani come sempre, perché ha bisogno di soldi subito – «Ora gradisci un calice di Porto Sandeman? M’è rimasta mezza bottiglia dal cesto natalizio della Pro Loco». La finiamo in tazzine da caffè decorate alla moda del Kandinskij, ciaccolando di Schopenhauer, Pascal, Guénon, Crowley, Gurdjieff, davanti ad una stufa in ghisa agli ultimi tepori. Inebriato dal vino liquoroso azzardo una sortita maldestra, una stoccata fuori protocollo per ridestare il colloquio dal mero ricamo dialettico, dall’eruditismo sofistico inerente culti catacombali mitraici o dell’androginia ermetica del Rebis: «Senti Bert, ma tu ci credi veramente? Intendo ai tarocchi, agli oroscopi, alle reincarnazioni, agli spiriti, al paranormale?». E lui serafico, accavallando la gamba, con quei pantaloni maron di velluto a coste larghe: «Credere? Semmai il contrario, perché solo smettendo di aver fede nelle cose, nei fatti, nella realtà, perfino negli strumenti divinatori e negli oracoli, la vita degli altri si fa un po’ leggibile». Silenzio, appagata boccata di fumo da quella bocca senza più denti, poi riprende con tono lievemente artificioso: «Indubbiamente serve una certa conoscenza, anche matematica, per indagare il futuro, ma ancor più è necessario liberarsene, svuotarsi, farsi porosi al cospetto dei segni; si conosce l’ignoto altrui attraverso l’ignoto che ci permea», quindi chiude in leggerezza; «Oppure parlando ai gatti, affidando l’esito dell’oroscopo alle loro reazioni enigmatiche… Spesso sono i micetti a decidere… Per me è solo un gioco di miagolii siderali, per il consultante invece sembra sempre una questione di vita o di morte». Siamo entrambi ubriachi, consci dell’ora tarda e che là fuori la notte è greve. La notte è gelida e oscura. La notte muta che fa cantare i morti fin dentro la sala, volteggianti spettri entrati come spifferi, ebbri passaggi catturati per un attimo sulle specchiere ossidate, sorpresi loro malgrado dalla coda dell’occhio. Suggestioni. Seduta spiritica tra mici dormienti appallottolati in ciambelle di pelo, fumoir narciso su un tavolino traballante che culmina in lievi elzeviri su cenere: «Post fata resurgo», sussurra il Bert poco prima del commiato, contemplando il braciere quasi spento. Passando davanti allo specchio invecchiato dell’atrio non mi riconosco, forse era il mago che mi accompagnava alla porta a velare il transito, forse a riflettersi null’altro che un presentimento messosi di traverso.

Neve il mattino seguente, la rosa nel vaso è già imbiancata e nella cassetta della posta c’è una lettera, con l’effige dell’Acquario disegnata a pennarello sulla busta. Brocca d’acqua e pesci gialli assiderati, mentre la temperatura va sottozero il flutto dolce si ghiaccia in tariffa. “Sono 20 euro grazie, Bert”, recita il post-it in allegato. Quando mai l’avrà stilato l’oroscopo, se ci siamo salutati da poche ore? Mistero, o forse solo tempi diversi dettati dall’insonnia. Così quella busta diventa prassi di doppio Mercurio, come un Ermete carpiato – messaggio degli Dei che passa dalla mano del mago a quella del tramite interessato, e quindi forse alla signorina indagata negli astri – che potrebbe farsi rituale bendato affidato alle Poste Italiane, oppure perdersi nel gorgo della curiosità personale, infrangendo così il patto di segretezza che vincola certe ambasciate. Prevale come sempre la seconda, sicché la dissigillo ficcando il naso tra stelle e pianeti, ascendenti, costellazioni forestiere, metalli e premonizioni che non mi riguardano direttamente, tutto uno zodiaco altrui messo in inchiostro su foglietto a righe dalla bella mano del Bert. Compito in classe d’un veggente, premure da vecchia zia, perfide coccole di un abile affabulatore. Leggendo con avidità, improvvisamente l’umore si guasta. Ma perché sapere anzitempo di gioie e delusioni di là da venire? Forse per evitarle entrambe? Per profanare la sorpresa della vita? Nauseato dalle previsioni astrologiche, dalle possibili gravidanze impreviste di un’amabile sconosciuta richiudo la busta, affidandola senza indugi al guscio ingiallito di un vecchio libro, dove sparirà come un fiore secco. Di malumore traverso la strada per saldare il debito, il Bert è già sulla porta inscalfibile al tempo, in paziente attesa della banconota. Col gatto prediletto acciambellato al collo a mo’ di sciarpa, nota immediatamente la delusione che accompagna i miei passi verso di lui. Piegando il sorriso in una smorfia luciferina mi fa: «Non sarà attraverso il futuro degli altri che eviterai di pensare al tuo». «Grazie, il futuro non esiste», sono già di spalle mentre medito sul fatto d’avergli commissionato decine di oroscopi, ma mai il mio.

Gli immortali, storie dal mondo di Alberto Giuliani

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Il Saggiatore (che ha gentilmente concesso la pubblicazione di un estratto) ha appena pubblicato Gli immortali. Storie dal mondo che verrà di Alberto Giuliani. 

Un libro inclassificabile, composito. Un libro di viaggio ma anche un memoir. Un libro che parla del suo autore, dei suoi affetti, delle sue paure. Un libro di racconti, in un certo senso. Alberto Giuliani ci narra, per episodi, il pellegrinaggio che ha fatto alla ricerca di chi sta lavorando per scoprire il segreto dell'immortalità. In questo libro scopriamo le storie di chi si occupa di criogenesi, della vita su altri pianeti, di clonazione, di bunker contro l'apocalisse, di bolle trasparenti nelle quali conservare pezzi del nostro pianeta, per salvaguardarli. 
Dietro queste storie si nasconde la storia dell'Uomo. La storia dell'ossessione più grande che l'umanità abbia mai avuto e che ha mosso da sempre i nostri passi. Possiamo rintracciarne le prove a partire dall'Odissea per finire con gli ultimi studi in ogni campo del sapere. Ed è una cosa che accomuna tutti noi, da sempre e in ogni istante del nostro quotidiano.
Giuliani ci racconta queste storie – e così: La Storia – a partire da se stesso. Dopodiché, il suo sguardo curioso si sofferma, con grande intelligenza, sulle esperienze minime delle persone che ha incontrato, raccontandone il vissuto nel particolare, puntando l'occhio sul dettaglio, quello che illumina il tutto, rivelandolo. 
Il risultato è un cammino spirituale e filosofico e esistenzialista all'interno dell'animo umano, delle nostre paure e dei nostri desideri. 
Leggendolo è possibile scoprire e ricordarci una cosa essenziale: il motivo per cui siamo a questo mondo, il significato della nostra vita – e quindi della nostra morte.

Pubblichiamo un estratto del primo episodio del viaggio di Giuliani, in cui racconta di quando, una sciamana in Siberia prima e un bramino indiano poi, gli predirono una morte prematura e violenta, che dovrebbe avvenire l'anno corrente. Gli episodi, cioè, che hanno dato l'abbrivo a questo viaggio e alla semplice quanto splendente rivelazione cui conduce il suo autore, ovvero: il viaggiatore. L'uomo.

Andrea Cafarella

*

La profezia
di Alberto Giuliani

Ho sempre amato arrivare prima agli appuntamenti. Il tempo che intercorre tra ciò che abbiamo smesso di fare e ciò che faremo è privo di ansie: non devo e non posso fare altro che attendere. Finalmente smetto di inseguire il mondo, e in quei momenti mi sembra di riuscire a osservarlo davvero, evocando fantasie e speranze – che sono quasi sempre più dolci della verità. È come un viaggio: inizia nel momento in cui lo si immagina e quasi sempre ci porta, nella fantasia, in molti più posti di quelli che riusciremo davvero a visitare. A volte penso che dovrei sedermi e aspettare tutta la vita, anziché rincorrere le cose e perdermi, per riparare ai guai dell’andare. Se fossi su un pianeta lontano, basterebbe un istante. Dicono che lassù il tempo si dilati, strappato dalla gravità. Un sospiro nel cielo vale quanto un anno sulla Terra. Allora forse sarei già a casa, sano e salvo. Invece continuo ancora a girarmi tra le dita lo stesso anello che mi accompagna da vent’anni. Tozzo, con gli angoli smussati e uno zaffiro color miele affogato nell’oro ormai opaco. Dovrei tenerlo sul dito indice, invece lo porto all’anulare della mano destra, perché mi sembra stia meglio. Quando lo indossai per la prima volta ero dall’altra parte del mondo e in un’età nella quale si desidera che ogni esperienza lasci un segno sul corpo, per sembrare grandi contro la precarietà della vita. Fosse un bacio o una cicatrice. O un anello, appunto, che ora mi ricorda di questa storia iniziata molto tempo fa. L’ho portato sempre con me perché mi aiutasse a cacciare la paura. Ma dopo tanto tempo, quella mi è venuta a prendere per trascinarmi in questo viaggio. Non ha certo fatto fatica a portarmi via perché, da che ho memoria di me stesso, andare è sempre stata la medicina contro ogni male. Quando le situazioni non funzionano più, prendo le mie cose e me ne vado, senza clamore. Non si tratta di fuggire. Credo piuttosto che abbia a che fare con un istinto nomade e col rispetto della felicità. Se i prati sono esausti è sterile restare, perché poi viene solo il buio e il freddo, come d’inverno. Mentre vado invece, i ricordi corrono fuori dal finestrino, col vento, insieme al paesaggio. E nella luce dei nuovi incontri, nella nostalgia per il passato, ritrovo i sentimenti. A volte mi basta salire su un treno o guidare qualche ora per sentirmi meglio, altre volte invece non mi fermo e ciò che lascio rimane per sempre alle mie spalle, nella memoria, bello come il ricordo di un’avventura. La passione per il viaggio nasce da mia madre, e suonò alla porta di casa in un pomeriggio d’estate dei miei otto anni. Andai ad aprire col gatto in braccio e i piedi scalzi. Un signore sulla sessantina, cappello da sole e camicia celeste intrisa di sudore, se ne stava seduto su un motorino davanti a me, con il portapacchi pieno di giornali. Altri li aveva impilati tra le gambe, e in diversi sacchetti appesi alle manopole del manubrio. Era l’edicolante della piazza e mi diceva che la nostra raccolta di viaggio era conclusa e che restava da pagare. Corsi a chiamare mio padre, che lavorava in uno studio ricavato nella mansarda, con la scrivania rivolta alle finestre sul giardino. Sapevo che non amava essere disturbato, così restando sull’uscio gli dissi sottovoce che c’era un signore alla porta che voleva venderci delle cose. Mio padre non era un uomo tirchio, ma la miseria vissuta nell’infanzia della guerra gli aveva insegnato a essere parsimonioso e a vivere l’essenzialità come un valore. In questo era l’opposto di mia madre, che per riscatto dalla stessa miseria spendeva ciò che poteva e aveva una particolare ossessione per i libri di viaggio o qualsiasi cosa le raccontasse di paesi lontani. Era stata lei a chiedere all’edicolante sotto il suo ufficio di tenerle da parte le uscite di una enciclopedia a fascicoli, salvo poi dimenticarsene quando la compagnia telefonica per la quale lavorava fu spostata fuori città. Lasciando la scrivania, mio padre brontolò qualcosa tra sé ma poi non aggiunse nulla, e mentre io portavo i giornali sul tavolo del soggiorno, lui pagò un anno e mezzo di arretrati senza obiettare. Sapeva che quei giornali erano importanti anche se nessuno li avrebbe mai sfogliati. Le mappe del mondo erano per mia madre l’atlante dei ricordi, dove ricostruiva i pezzi di una famiglia polverizzata dalla geografia e dal bisogno, fatta di emigranti e malinconia. Nelle pagine dei suoi libri di viaggio riusciva a guardare l’Argentina e a trovarci suo padre, che l’aveva lasciata per un campo di polvere e cipolle in Patagonia. Tra le vie simmetriche e ortogonali di Buenos Aires cercava un cimitero di periferia dove era sepolta sua sorella e nelle fotografie dei pescatori sul Rio Paraná trovava la loro infanzia. Sognava di andare in Canada, dove quello zio con le mani ruvide da muratore aveva sposato una stilista di moda e che poi, poveretto, aveva finito i suoi giorni in un manicomio. Immaginava il Kenya, dove si erano trasferiti i cugini, compreso quello che si era innamorato della cinese e si era perso chissà dove. Rimasta sola, a quattro anni mia madre fu affidata alle cure di una zia adottiva e cominciò a guardare l’orizzonte come un naufrago. Voleva proteggere le radici, perché tutti avevano promesso di tornare un giorno. Il tempo, invece, ha rarefatto ogni rapporto e reso la sua vita simile a un esilio. Lei non ha mai voluto partire, per paura che il mondo facesse perdere anche lei, ma in quei volumi incellofanati e muti come tombe aveva trovato la forza per andare avanti. Compresi quella sua nevrosi solo da grande. Nell’infanzia invece, mi sedevo ai piedi delle librerie e aprivo un volume a caso con la stessa curiosità con cui si apre un baule in soffitta. Amavo l’odore della carta patinata, il rumore che facevano le pagine e gli sbuffi con cui ricadevano le une sulle altre. Iniziai a viaggiare così, con la fantasia, strappando da quei libri le figure che più mi piacevano e ficcandole in uno zaino nascosto sotto al letto. Fingevo di essere stato in un posto diverso ogni giorno, di aver incontrato gli indigeni o navigato con le balene. Non sapevo se avrei mai avuto il coraggio di partire davvero, fino a quando l’adolescenza prese il sopravvento e tutto ciò che mi circondava divenne noioso. Avevo tredici anni, in Cina i ragazzi occupavano Piazza Tienanmen, a Berlino abbattevano il muro e io passavo le mie giornate tra l’algebra e gli antichi egizi, con pessimi risultati in entrambe le cose. Mi vergognavo del mio corpo troppo esile e lo annegavo in felpe troppo larghe. Avevo sempre un cappuccio a coprirmi il volto e pedalavo su una bicicletta scassata per andare agli allenamenti di basket, dove l’unico canestro che feci durante una partita fu un auto-canestro. Mi sentivo inutile e tutto mi sembrava senza senso: cominciavo a pensare seriamente che me ne sarei dovuto andare davvero. Quell’autunno, per il mio compleanno, mio padre mi regalò una macchina fotografica. Disse che così avrei potuto immortalare i momenti belli, ma se fosse servita per quello avrei potuto tranquillamente lasciarla nella scatola. Invece me la misi al collo e cominciai a fotografare ogni cosa. Non lo facevo per fermare il tempo, semmai al contrario. Sentivo che mi spingeva oltre i miei limiti, che mi faceva crescere. Quell’apparecchio tra le mani mi dava un ruolo agli occhi degli altri, riscattava la mia inadeguatezza facendomi stare al centro dell’attenzione e, cosa più importante di tutte, si metteva tra me e il mondo facendomi sentire protetto. Fu così che la macchina fotografica diventò il passaporto per ogni mia insolente curiosità, fu il viatico del mio viaggiare e divenne presto anche il mio lavoro. Finita la scuola cominciai a partire senza dire a nessuno dove sarei andato né quando sarei tornato. Volevo vivere ogni cosa, essere tutto e come nessuno, senza troppe domande sul futuro, perché a quell’età mi sembrava semplicemente eterno. Anche quando un giorno, in Siberia, mi parlarono della fine della vita. Era l’ottobre del 1996 ed ero arrivato al lago Bajkal su commissione di un giornale tedesco. Mi avevano assegnato come interprete una ragazza di San Pietroburgo di nome Anna, giovane quanto me, con le gote rubiconde e lo sguardo lieto. Doveva essere un lavoro semplice, invece dopo due settimane non avevo ancora fatto una fotografia buona. L’arrivo dell’inverno aveva mandato all’aria ogni mio programma e la sfortuna mi stava convincendo a mollare il colpo. Seduto sul letto della mia camera d’albergo a Irkutsk, mi misi a contare i dollari che mi restavano. Anna se ne stava in piedi davanti alla finestra a guardare la prima neve e una mucca che pascolava in giardino. «Poco più di mille. Che facciamo?» «Hai visto che carina?» «Anna potresti lasciar stare la mucca e aiutarmi a capire cosa fare? Il treno per Mosca parte domattina e l’aereo non ce lo possiamo più permettere.» «Andiamo avanti.» «Dove?» «Non so. Aspettiamo. Se siamo qui ci sarà un motivo.» Il fatalismo era forse la qualità di Anna che più ammiravo, insieme alla sua caparbietà. Non mi sono mai rassegnato agli eventi, ma devo ammettere che in quel momento non vedevo alternative. In quella stanza d’albergo ricoperta di rose stampate su una carta da parati ingiallita dal tempo, tutto mi sembrava immobile. Come se nulla fosse mai accaduto e nulla mai fosse potuto accadere. Ma un viaggiatore ha bisogno di credere che il luogo in cui si trova abbia un significato così da acquisire un significato egli stesso. Perciò decisi di fidarmi di Anna, anche perché l’intuito delle donne a volte vede meglio della ragione. Arrotolai i soldi e li misi nel portadocumenti di camoscio che tenevo sempre appeso al collo. Mi infilai il cappotto e porgendole il suo le dissi che volevo uscire a camminare e che avevo fame. Le strade ottocentesche di Irkutsk scendono al fiume Angara tra facciate che sembrano coperte di glassa colorata. Un tempo la chiamavano la «Parigi della Siberia», e anche se il mio stato d’animo non era adatto a un simile romanticismo la dimensione modesta della città e la sua grazia sfuggente addolcirono le mie angosce. Alcune giovani donne passeggiavano a braccetto in una chiassosa baldoria, sotto la neve che ora cadeva a fiocchi grossi e bagnati. Gonna corta, passi lunghi e lucidi collant. Precedevano i nostri passi sulla via Marx, tra negozietti e chioschi che vendevano tutti le stesse cose. Erano arrivati i primi fast food e l’odore di patatine e pel’meni – i ravioli siberiani – si diffondeva nell’aria. Una coppia di cammelli attraversava la strada e da qualche parte a est, dietro le colline, si apriva il lago Bajkal. Il più profondo del mondo, il più grande, il più tormentato. Era un Mare Sacro per i nativi, che lo veneravano e lo temevano, perché si diceva che dal suo respiro nascesse il Sarma, una tormenta gelida e improvvisa, che aveva riempito il cimitero della città di giovani pescatori. Solo l’inverno portava una sorta di pace. I venti si sopivano, il lago gelava e la sua superficie si faceva tanto dura da diventare strada per i camion e campo di gioco per i bambini. Nell’aria sommessa di questa stagione camminammo fino al mercato principale della città, dove commercianti di pellicce, cercatori di minerali e contadini si ritrovavano ogni giorno per vendere le loro mercanzie, stese ordinatamente a terra come si usava fare cento anni fa. Nel periodo della corsa all’oro, i padri di questi piccoli commercianti fecero fortuna da un giorno all’altro e nelle notti debosciate dei night e delle bische clandestine persero ogni cosa, rimanendo intrappolati nel cuore dell’Asia e nella miseria, che con la caduta del comunismo aveva dato a Irkutsk i peggiori primati della violenza. Qui ogni sera i capifamiglia avevano l’abitudine di affacciarsi alla finestra di casa, sparare un colpo a salve in aria e poi andare a dormire. Tra un centro commerciale dalle vetrine sporche e le finestre di un palazzo abbandonato, si alzava l’edificio del telegrafo con l’intonaco celeste dipinto di fresco. In un angolo, un’insegna indicava l’ingresso di un fornaio, un caffè e un ristorante, dove secondo Anna servivano un ottimo tsuivan, cioè noodles fritti con carne di capra e cipolla. Seguimmo le indicazioni entrando in un corridoio spoglio, con un pavimento fatto di assi vecchie e marce. Sul fondo, una scritta dipinta sul muro diceva «Krasivyy i khoroshiy», belli e buoni. Quello era il posto di cui parlava Anna, un salone da ricevimenti che doveva aver goduto di gloria e fama, delle quali però non rimaneva che la decadenza. Al centro, un gradino più in basso del resto del locale, c’era la pista da ballo, con un pavimento sconnesso e polverosi festoni colorati appesi al soffitto. Tra i ripiani di una scaffalatura a specchio erano ancora conservati i trofei delle vecchie gare di ballo, con la falce e il martello incisi sopra. Un ritratto di Lenin li guardava da una cornice rotta, appoggiata a terra sotto l’ombra che il tempo aveva lasciato sul muro. Alcuni tavoli disposti in maniera disordinata erano l’unico segno capace di rammentare un ristorante. Erano apparecchiati con una tovaglia di raso bordeaux, un vaso di fiori finti e un cestino di plastica colorata per il pane. Sul lato opposto del salone invece, gli arredi della festa lasciavano spazio a un parrucchiere, con il casco per la messa in piega, una bacinella per lavare la testa e una sedia sistemata davanti a uno specchio ovale. Stupito per quello strano accostamento, non avevo notato una donna anziana che un po’ in disparte ci guardava, con occhi piccoli e aggressivi. Se ne stava seduta su una poltrona verde, rivolta verso una finestra. I capelli tinti di un biondo quasi giallo e il corpo robusto, in una tunica di velluto scuro coperta di ricami rossi. Sulle gambe reggeva un grande tamburo, sottile e rotondo, con il cuoio consumato dall’uso. Per un attimo pensai che quella donna fosse seduta lì dall’ultima festa. «Non mi sembra un gran ristorante» dissi ad Anna. Ma non feci in tempo a finire la frase che a passo di marcia lei stava già attraversando il salone. Si avvicinò alla donna e iniziò a parlarle. Dopo un istante di esitazione seguii i suoi passi ma, non capendo niente di quello che si dicevano, continuai a sorridere, annuire e volgere lo sguardo altrove con aria distratta. Finché l’anziana mi fece segno di avvicinarmi. Allungò un braccio verso di me e sfiorandomi i polsi mi invitò a inginocchiarmi. Anna annuì senza fiatare, mentre stendevo le braccia sulle gambe di quella donna, che ora teneva le mie mani tra le sue. Aprendole al cielo e stringendole sui fianchi, esaltò le pieghe del tempo che attraversavano i miei palmi. Su quelle rughe iniziò a far scivolare i suoi polpastrelli, come se dovesse togliervi un granello di polvere, come un cieco che ha bisogno di toccare per riconoscere. Al suo solletico provai a ritrarre le mani e lei le strinse con fermezza, senza distrarsi. Poi il suo sguardo si fece serio e dalla veste, vicino al cuore, estrasse un pugno di pietre bianche, piccole e rotonde come nocciole. Le posò sulla mia mano destra e mi ordinò di lasciarle cadere a terra. Non ho mai creduto a chiromanti e fattucchiere, alle quali riconosco solo mediocri capacità psicologiche e un sopraffino intuito truffaldino. Ma quando si è in viaggio le cose si mettono diversamente. Si ha del tempo da perdere e ci si sente più liberi. Per questo ci apriamo a cose che altrove rifiuteremmo e che alla fine ci fanno ritrovare diversi. Questo in fondo è il viaggio: un palcoscenico dove ci mettiamo in scena, davanti a un pubblico che non vedremo mai più. Lasciai cadere quelle pietre come la donna mi aveva ordinato e le guardai rotolare sul pavimento mentre si disponevano come pianeti nella galassia del caso. Nel loro movimento io vedevo solo le leggi della fisica che combattevano nella materia, per spingersi oltre quella venatura del pavimento o fermarsi su quella cicca di sigaretta schiacciata a terra. Invece, nelle stesse rotte quella donna leggeva il mio destino, e lo raccontava ad Anna in una lingua a me sconosciuta. «Anna ti dispiacerebbe tradurmi ciò che dice? Anche se sono cazzate sono curioso.» «Dice che viaggerai molto lontano.» «Bella fatica.» «E che avrai tre figli. Uno sarà più piccolo degli altri.» «Almeno conosce l’aritmetica!» Sussurrando parole, la donna si alzò dalla poltrona con gesti stanchi e si accovacciò vicino alle pietre rotolate più lontano. La osservavo divertito, aspettando solo che mi chiedesse dei soldi. Ma le cose presero una piega che non mi sarei mai aspettato. Irkutsk è un luogo caro agli sciamani, che sulle sponde del Bajkal hanno trovato i loro demoni e i loro dèi. Per secoli sono stati i custodi della memoria dei popoli, delle tradizioni e dei segreti tramandati. Vestiti di mantelli adorni di tintinnanti ornamenti e acconciati con piume o corna, invocavano il bene e il male. E dialogavano con la morte al ritmo di tamburi e mazzafrusti. La loro magia non mi aveva mai affascinato, ma pur non avendo una chiara idea di come potesse apparire uno sciamano di oggi, doveva certamente essere qualcosa di diverso da questa donna, che strisciava sul pavimento cercando chissà quale filo smarrito. Gli spiriti non potevano tollerare tanta volgarità. Questi pensieri furono interrotti da una sommessa risata di Anna che, portandosi una mano alla bocca, scambiò uno sguardo complice con la donna.
«Cosa dice?»
«Parla del tuo sesso.»
«Mi interessa.»
«È curioso.»
«Cosa?»
«Niente, lascia stare, è una sciocchezza.»
«Si ma visto che vi faccio ridere…»
«Lascia stare, poi ti spiego.»
Davanti a me Anna cambiò improvvisamente espressione. Si era fatta cupa, accigliata e muta, come chi non è certo di capire. Curvò la schiena e chinò il capo, porgendo l’orecchio alla voce della donna che tra le pietre sussurrava parole col ritmo di una nenia. Poi quella si alzò da terra e disegnando un cerchio nell’aria inspirò con soddisfazione un profumo che solo lei sembrava sentire. E tornò a sedersi sulla poltrona. «È finito il mio futuro?» chiesi con aria da sbruffone. Anna sollevò la mano per dirmi di aspettare. Scambiò qualche parola con la donna, poi mi chiese se volevo davvero sapere. «Cosa?» domandai. «Non è bello. Te lo devo dire?» «Vuole dei soldi?» «No. Dice che morirai.» «Sì, di fame, se non andiamo a mangiare in fretta.» «Prima di compiere quarantacinque anni…» Mi sembrò il colpo di scena finale di un film scadente. Avevo vent’anni e non credevo affatto che un giorno sarei morto. Diedi un ultimo sguardo alle pietre per terra, presi Anna sottobraccio e me ne andai.

La casa della fame, di Dambudzo Marechera

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Con La casa della fame, di Dambudzo Marechera, Racconti Edizioni lancia la nuova collana Scarafaggi, dedicata alle narrazioni che sconfinano dal racconto classico, inserendosi nella tradizione del racconto lungo e, più propriamente, nella novella.

La casa della fame, tradotto da Eva Allione, è una brutale rappresentazione della vita quotidianamente onirica in un paese dilaniato dalla carestia e dalla guerra, la Rhodesia di Ian Smith al nadir del dominio coloniale e segregazionista. Esistenze fratturate che si concentrano attorno a un bar scalcagnato e a una casa da cui per quanto si cerchi di sfuggire non si riesce mai ad allontanarsi abbastanza. Un mondo dove la violenza regola ogni rapporto e la follia prende lentamente possesso del protagonista, un io narrante che conduce le danze a un ritmo impenetrabile e allucinato, zigzagando tra i detriti e le macerie che chiamiamo Africa.

La casa della fame sarà in libraria dal 16 Maggio 2019, e Cattedrale ne anticipa l’uscita con un estratto.

*

Presi le mie cose e me ne andai. Stava sorgendo il sole. Non mi veniva in mente un posto dove andare. Mi incamminai verso il bar ma mi fermai al negozio di liquori a comprare una birra. C’era gente sparsa dappertutto nell’ampia veranda del negozio, a bere. Mi sedetti sotto il grande msasa dai rami che graffiano la lamiera ondulata dei tetti. Cercavo di non pensare a dove stavo andando. Non ero risentito. Ero contento che fosse andata com’era andata: non potevo restarci più in quella Casa della fame dove ti portavano via ogni boccone di sanità mentale come certi uccelli che strappano il cibo dalla bocca dei bambini. E poi gli occhi di quella Casa della fame ti seguivano come se ci fosse una qualche bestia indescrivibile pronta a saltarti addosso. Certo, c’era la ragazza. Ma che altro potevo fare, con Peter che gliele dava dalla mattina alla sera? E poi, il mio intervento non era stato disinteressato come avrei voluto. Sì, il sole sorgeva tanto in fretta che prima ancora di accorgerti quanto era alto sulle montagne già ti picchiava in mezzo agli occhi. Mi tolsi la giacca e me la ripiegai fra le gambe. Così com’erano andate le cose, nessuno avrebbe potuto incolpare qualcun altro per la fame della propria anima. La mia era già lì che ardeva polverosa sotto il sole del mattino e io non sapevo quale fosse, né se c’era, il modo per placarla. Ma di testa ero lucido: e quando i poliziotti neri si misero a sfilare e rendere omaggio alla bandiera e l’impiegato nero del ghetto si avviò disinvolto verso i camion della lager e un gruppo di scolaretti in divisa kaki e verde si lanciò a perdifiato verso la scuola grigia al suono della campanella ebbi come la sensazione di passare in rassegna tutti i dettagli dello stronzo fetido che era stata ed era ancora in quel momento la mia vita. I poliziotti furono congedati. Il sergente era un metro e ottanta d’arroganza, magro e affamato e furbo come un camaleonte che caccia una mosca. Quel camaleonte lì alla Casa della fame di preoccupazioni non ne aveva ancora date. Di spiacevolezze ce n’erano state eccome però. C’era stato il vecchio, che era morto in quel brutto incidente ferroviario e che una volta si era ficcato nei guai per accattonaggio. E poi Peter, finito dentro per aver accettato una stecca da una spia della polizia. Una volta scarcerato non riusciva a farsela passare. Continuava a parlare dei bianchi di merda; quella frase, «bianchi di merda», sembrava cuocergli il cervello, e gli scontri in cui si ficcava terrorizzavano tutti al punto che non ce n’era uno sano di mente che osasse contraddirlo. E se ne andava in giro furioso e in cerca di uno scontro che di fatto non c’era. E siccome di quello scontro aveva fame, la gente glielo leggeva in faccia, e perciò lo apprezzava. Il che peggiorò la situazione, finché la sua donna rimase incinta e l’ispettore scolastico disse che in quello stato non poteva insegnare, e Peter minacciò di prendere il cielo e farne polvere e si rifiutò di sposarla perché voleva essere «libero». Fu durante quello scandalo che nostro padre si prese qualcosa di tossico e cominciò a star male davanti ai nostri occhi e smise di parlare anche se sapevamo che sapeva che sapevamo che era tutta una sua mossa per spingere Peter a sposarsi. Dopotutto lei era tenera e dolce e rigonfia del suo sperma e a noi non ci sembrava vero che Peter fosse così fortunato. Fu proprio in quei giorni che la mia classe come le altre dell’ultimo anno si riversò in strada per protestare contro le discriminazioni salariali e io come tutti gli altri passai qualche ora in gattabuia – e impronte digitali e fotografie e qualche buffetto sulla guancia perché «devi mettere giudizio», anche se il preside tenne a freno la bile e si limitò a farci una filippica che prima di degnarsi di alzare le barricate uno deve prendersi almeno il diploma. Allora avevo un’estrema fame di autoconoscenza ed ero curiosamente convinto di trovarla nella «coscienza politica». Tutti noi giovani neri avevamo questa sete. Non c’era oasi di pensiero che non prosciugavamo a furia di leccate – a parte le oasi che ci avevano vietato, che se le bevevi ti portavano in galera o altre seccature del genere. Avevo smesso di struggermi per l’irraggiungibile Julia, che mi era stata affidata dal mio migliore amico. Ero arrivato al punto in cui non aveva più senso stare lì a tormentarsi se trovare o meno dei soldi e sfidare gli ignoti terrori delle malattie veneree – magari con l’aiutino della dagga. Li avevo già affrontati in una notte tempestosa, e solo per uscirne pentito. Peter naturalmente aveva capito tutto. «Finché non ci passi non sei un vero uomo» disse. E io confermai e feci un sorriso suadente perché lui sapeva dove trovare la cura, o almeno dove andare per farsi le iniezioni con una certa discrezione. Quell’esperienza mi lasciò un irriverente disgusto per le donne che non mi ha più abbandonato. Mai più avrei sofferto con tanto trasporto per una donna. Ma non tutti erano disposti a grattare la schiena al prossimo. All’università ci furono arresti di massa e altri arresti ancora quando in sciopero ci si misero i lavoratori. Gli arresti facevano talmente parte del companatico che nessuno batté ciglio quando una mattina giustiziarono due guerriglieri e lasciarono i cadaveri in bella mostra davanti a un gruppo di scolaretti. C’era tuttavia un tumulto dello spirito che ci spingeva tutti quanti a vagare in cerca di quell’irraggiungibile elisir a cui la nostra irrequietezza preludeva. Ma era una ricerca vana, perché sembrava che l’elisir fosse sotto il nostro naso e al tempo stesso non ci fosse. La libertà che bramavamo – come si brama la dagga o la birra o le sigarette o l’aldilà – questa libertà era così viva nel nostro respiro e nelle nostre dita che ne venivamo intossicati ancor prima di averla effettivamente scovata. Come un uomo che si lecca le labbra sognando un banchetto; una donna che danza sognando un carnevale, o il vecchio che corre al passo della gazzella anelando ai giochi funebri della sua gioventù. E però il banchetto, la festa e i giochi in realtà non c’erano. Era questo il paradosso che una volta scoperto ci lasciava turbati, infurbiti e nel migliore dei casi dolenti perché consci che non ci saremmo mai più sentiti così. Non c’erano addii consapevoli all’adolescenza, perché il vuoto si era già insediato in fondo alle nostre budella. E sapevamo che di fronte a noi se ne spalancava un altro con un appetito da lupo, e di cose vive. La vita si dispiegava come una serie di baracche rosicchiate dalla fame dispiegata all’infinito verso l’orizzonte. La mente si trasformava in quelle stanze lerce, le ragnatele polverose dove i minuti scheletri della nostra infanzia restavano per sempre intrappolati in quella presa aracnea che si estendeva a includere non soltanto le pietre stesse su cui si camminava, ma le stelle che scintillavano indistinte sul fetore della nostra vita. Torcibudella, ecco cosa diventavi col tempo. E quali che fossero gli insetti del pensiero a ronzarti in quella latta che ti ritrovavi al posto della testa, quando t’accovacciavi sulla sua latrina, il sole continuava comunque a innalzarsi più veloce che mai e la notte cadeva rapida sulla terra com’era caduta negli anni andati.

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La psicologia archetipica nel bestiario wilcockiano

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Rodolfo e l’enciclopedia dell’invisibile
La psicologia archetipica nel bestiario wilcockiano

di Andrea Cafarella

«Nel suo sogno, che è il sogno di tutto quel che avviene, il ragionier Scabbia mescola gli infiniti eventi come in un gioco di specchi; tutti accadono a lui, la morte di un insetto, la corolla che si apre, la signora che versa la pasta nell’acqua bollente, il lampo e il tuono. Sulle acque originali, il suo sogno contiene tutti i tempi e tutte le cose che sono nel tempo.
Quando si srotolerà il serpente, il rag. Scabbia si sveglierà e tutto avrà fine».

 J. Rodolfo Wilcock, «Rag. Anchise Scabbia», Il libro dei mostri, Adelphi

Preambolo (del funambolo)

 

«Molti anni fa, quando abitavo a Girona ed ero povero, o almeno più povero di quanto non sia adesso, un amico mi prestò il libro La sinagoga degli iconoclasti di J. Rodolfo Wilcock, pubblicato da Anagrama; era il numero 7 della collana Panorama de Narrativas, che cominciava a uscire allora». (R. Bolaño, Tra parentesi, Adelphi) .
Inizia così uno dei testi più autentici e toccanti mai scritti su Juan Rodolfo Wilcock. Un testo molto breve e molto usato. Perché Bolaño fa tendenza, ormai, per fortuna. Questo è chiaro. Tuttavia, questo pezzo viene usato – più o meno consapevolmente – così spesso, per presentare le opere di Wilcock, anche perché c’è effettivamente un filo che lega questi due scrittori sudamericani. Si tratta di una lunga fune da equilibrista tenuta dalle mani magiche di scrittori come Borges, Schwob, Kafka e Cortàzar. E già solo questo dovrebbe far balzare dalla sedia tutti i bolañiani convinti e imporgli di correre a farsi carico di questa lettura essenziale. Compratelo, rubatelo, fatevelo prestare ma leggetelo, vi direbbe Roberto. Credete a lui se non volete credere a me.
Eppure, la mia storia non è molto diversa da quella di Bolaño. Nel mio caso me lo consigliò un collega, mentre stavo preparando delle letture di testi dei migliori scrittori di racconti in lingua italiana. Io conoscevo il suo nome, certo. Non lo avevo mai letto, però. Non mi ero fidato nemmeno di Roberto, che incosciente! Presi La sinagoga degli iconoclasti e lo lessi con voracità neonatale. E ne volevo ancora. Iniziai a cercare i suoi libri. Alcuni erano pressoché introvabili. Alcuni restano di difficile reperimento. E scrivo questo testo per festeggiare il ritorno nelle librerie italiane de Il libro dei mostri, sempre per Adelphi, l’editore storico di Wilcock. Dobbiamo la riedizione dei suoi libri (aspettando ancora quella di Parsifal. I racconti del «Caos», la sua prima raccolta di racconti, per esempio) agli illuminati studiosi che lo hanno scoperto e se ne sono innamorati selvaggiamente, facendo un grande lavoro di divulgazione della sua opera caleidoscopica e, ripeto, essenziale, vitale.
Uno di loro è Edoardo Camurri e utilizzerò le parole con cui descrive Wilcock nell’introduzione al suo Finnegans Wake (pubblicato encomiabilmente da Giometti & Antonello) per cercare di darvi un’idea su chi fosse questo personaggio misterioso: «Se lo studioso intende raggiungere Juan Rodolfo Wilcock per via enciclopedica, può fare prima una sosta alla voce precedente Wilcker Ulrich, papirologo della Pomerania (1862-1944), oppure accerchiarlo tramite la voce successiva, Wilczek Franz, Nobel statunitense per la Fisica, esperto in quanti. Questa semplice mossa definisce lo spirito di Juan Rodolfo Wilcock più di quanto si creda». Juan Rodolfo Wilcock era un argentino, trasferitosi in Italia, parlava perfettamente spagnolo, italiano, inglese e tedesco. Traduceva e scriveva e leggeva con sapienza. Ingegnere come Gadda. Nato dalla cerchia che ruotava attorno alla trinità argentina (Borges-Casares-Ocampo) scriveva poesie e libri di racconti. Scriveva nei giornali, di tutto e di nulla. Scriveva le sue cose, inventava. Non è possibile effettivamente descrivere esattamente tutte le incongruenti caratteristiche di Wilcock senza tralasciare dettagli importanti – o quantomeno abbastanza strani o divertenti. Juan Rodolfo era un personaggio che potremmo tranquillamente immaginare di trovare annoverato in uno dei suoi stessi libri.
Ho deciso quindi di dare qualche coordinata al lettore che voglia scoprire anche le infinite e sorprendenti sfaccettature di questo uomo sui generis.

-          Il sito web dedicato a Juan Rodolfo Wilcock

-          Una lunga intervista messa in onda su rai3 nel 1973

-          Un articolo (di Gabriele Gimmelli uscito su doppiozero il 13 dicembre 2017

-          (mi ripeto) L’introduzione di Edoardo Camurri all’edizione Giometti & Antonello del Finnegans Wake di J. Rodolfo Wilcock

Ci sarebbero sicuramente degli altri testi interessanti su di lui e si potrebbero cercare i suoi pezzi pubblicati su giornali e riviste (Si veda: Il reato di scrivere, Adelphi). Si potrebbe andare a sentire lo stesso Camurri o Elio Pecora o i tanti altri che si sono avvicinati a questo personaggetto unico, questo gigante dalla lingua di fuoco, meglio: dalle lingue di fuoco. Eppure, non servirebbe a molto, sarebbe comunque impossibile slegare tutti i suoi nodi biografici. Quello che posso dire con certezza è che la sua ironia ti resta addosso con una rara empatia benefica. La sua lingua ti rimane nelle orecchie come il mare nei gusci di paguro. E non voglio soffermarmi a parlare di lui perché voglio parlare solo della sua scrittura, giacché è uno dei rari casi, questo, in cui la scrittura è talmente compenetrata dell’anima dell’autore da diventarne l’emblema più vivido e chiaro, l’unica cosa che conti davvero.

 

La letteratura enciclopedista

La sinagoga degli iconoclasti e Lo stereoscopio dei solitari sono entrambi del 1972. Il libro dei mostri, l’ultimo di Wilcock, è del 1978. Sono tutti e tre libri enciclopedisti, potremmo dire. Elenchi di personaggi inventati (un modo davvero becero e sgarbato per definire i suoi libri, ma mi serve per poterci ragionare). Nel 1979 viene pubblicato Centuria di Giorgio Manganelli. Nel 1977 è la volta di Nuova enciclopedia di Alberto Savinio. Nel 1982 Kermesse di Leonardo Sciascia appare nella «Memoria» blu di Sellerio. Nello stesso anno il più famoso Museo d’ombre di Gesualdo Bufalino. I Sillabari di Goffredo Parise appaiono sul «Corriere della Sera» tra il 1972 e il 1980, e vengono raccolti in volume nel 1984.
Cosa hanno in comune tutti questi libri emblematici, oltre che la vicinanza anagrafica? Sono fatti di frammenti, di ripetizioni; apparentemente senza movimento, almeno narratologico. Sono enciclopedie di prosa, potremmo dire. E, nonostante ognuna abbia le sue diversità e un tema ben preciso (e parliamo di tema come se fosse un tema musicale, non si pensi a quello scolastico cui siamo abituati) è possibile comunque descriverle tutte allo stesso modo, evidenziando questa caratteristica predominante strutturale della forma. «Il presente volumetto racchiude in breve spazio una vasta ed amena biblioteca» ci dice Manganelli introducendoci il suo Centuria, all’interno del quale racchiude cento situazioni narrative diverse, descritte utilizzando più o meno lo stesso numero di parole, che stessero all’interno di una singola pagina. «Libriccino sterminato, insomma; a leggere il quale il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne: giochi di luce che consentono di leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio, nei luoghi ove si appartano capitoli elegantemente scabrosi, pagine di nobile efferatezza e dignitoso esibizionismo, lì depositate per vereconda pietà di infanti e canuti. A ben vedere il buon lettore vi troverà tutto ciò che gli serve per una vita di letture rilegate». E non solo: nelle pagine di questi autori enciclopedisti è davvero possibile trovare una vita di infinite letture e combinazioni inaspettate e, leggendo con attenzione, vi si può trovare molto di più. Poiché le penne indomite di questi strani scrittori sanno scavare nell’ignoto dell’animo umano grazie alla loro potenza vocale inarrestabile, come le pale dei becchini, oltre la morte e il tempo. Così, le lunghe liste di tipicità siciliane, nel caso di Bufalino e Sciascia, rispolverano il grande libro della memoria collettiva per farci toccare con mano a scoccia da lùmia, la scorza di un limone colta dalle mani rugose di un contadino di quei tempi, ci permette di essere, di nuovo e per sempre, lì in quel momento esatto. E chiunque abbia letto i Sillabari può confermare che la meravigliosa galleria poetica di cui sono composti nasconde negli anfratti bui le sue gioie più preziose.
Savinio c’introduce alla sua enciclopedia scrivendo una breve nota: «Sono così scontento delle enciclopedie, che mi sono fatto questa enciclopedia mia propria e per mio uso personale. Arturo Schopenhauer era così scontento delle storie della filosofia, che si fece una storia della filosofia sua propria e per uso personale». E in un certo qual senso questi sono gli autori italiani che discendono dalla lezione del Tractatus e dei Minima Moralia. Ma basterebbe leggere Strada a senso unico per farsi un’idea di quanto le due cose siano collegate: la grande stagione filosofica mitteleuropea e quella degli immensi prosatori e poeti italiani degli anni ’70 e ‘80. La tradizione della letteratura enciclopedista, del frammento, è assurda e variegata e percorre tutte le arti e i movimenti. Si potrebbe andare perfino a ritroso fino a Le metamorfosi di Ovidio, ma non vogliamo qui dare una lectio sulla storia di questa forma espressiva, dal momento che stiamo parlando di Wilcock. Potremmo dire che Wilcock reinterpreta il genere? Probabilmente sì, eppure tale definizione continuerebbe a ridurre la complessità della sua opera. Nonostante ciò, ci aiuta a capire. I libri di J. Rodolfo Wilcock sono tutti fatti di frammenti, elenchi, voci di un unico testo. La sinagoga è un elenco di scienziati assurdi e iconoclasti folli, Lo stereoscopio una carrellata di personaggi la cui solitudine domina la stranezza, I due allegri indiani una finta rivista redatta da tredici autori fittizi inventati dall’autore fittizio inventato da Wilcock, Il libro dei mostri è un bestiario di personaggi deformi. Di creature simboliche ma vere, reali nella misura in cui è reale un drago. E questo lo spiega meglio di chiunque un altro grande autore, uno dei padri della genia cui Wilcock appartiene, uno che ha fatto del frammento e della poesia la sua raison d'être: Jorge Luis Borges.
Riporto qui, per iniziare a capire ciò di cui stiamo parlando, il consiglio al lettore che Borges ci da nel prologo a Il libro degli esseri immaginari. Scritto con la collaborazione di Margarita Guerrero, pubblicato prima nel 1957 come «Manual de zoologìa fantastica» e ripreso dieci anni più tardi, questo libro raccoglie alcune delle creature immaginarie più importanti della storia dell’uomo. Lo fa con un’intelligenza che potremmo definire soltanto borgesiana. Vale a dire che il libro ha una costruzione in cui i significati si legano e comunicano tra loro, arricchendosi e contaminandosi l’un l’altro, grazie alla quale riesce ad alimentare le idee e persino i sogni e le idee più inverosimili.
È così che Borges consiglia la lettura di questo suo libro (nel modo in cui, a mio parere, andrebbe consigliata la lettura anche di tutti i libri di Wilcock): «Come tutte le miscellanee, come gli inesauribili volumi di Robert Burton, di Frazer o di Plinio, Il libro degli esseri immaginari non è stato scritto per una lettura consecutiva. Vorremmo che i curiosi lo frequentassero come chi gioca con le forme mutevoli svelate da un caleidoscopio».
I libri di Wilcock sono libri da consultare come un libro oracolare: l’I-Ching o i Quaderni di Cioran; sono combinazioni magiche, evocano creature discendenti dai teriantropi trovati dipinti nelle grotte, dall’uomo, agli albori dell’autocoscienza. Sono enciclopedie dell’inconscio, dell’invisibile. Hanno la potenza della filosofia tedesca del secondo dopoguerra e l’intelligenza folle di certa poesia sudamericana. Riscrivono il mito, come Kafka. Per questo sembrerebbe possibile intuire il senso ultimo di tutto solo leggendone un singolo frammento e si potrebbe comunque continuare ad aeternum, trovando sempre un significato nuovo, un simbolo in grado di verificare se stesso e allo stesso tempo verificare, ogni cosa.

 

I nomi

 

«Non esiste nulla di più misterioso dello splendore dei nomi e del nostro attaccamento a tali nomi e nemmeno la non conoscenza delle opere che li illustrano impedisce a Lulu e a Ondina, a Emma Bovary e Anna Karenina, a Don Chisciotte, a Rastignac, a Enrico il Verde e a Hans Castorp di condurre una esistenza trionfale».
Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia, Adelphi

«E Dio disse», due punti.

Siamo nell’ambito del mito dei miti. Del mito primigenio secondo il quale è il linguaggio, il dire, a «creare le cose», nominandole. Una rosa, è una rosa è una rosa. Il linguaggio crea ogni cosa, nominandola. Di questo insegnamento Wilcock ne ha fatto arte sopraffina ed elevatissima. Vi basterà perdervi negli indici di alcuni dei suoi libri per assaggiare la sua poesia, ingenita, già nell’atto – linguistico-mitico – di annoverare i suoi personaggi. Così originale e vario, così misteriosamente splendido. Bisognerebbe leggere gl’indici dei suoi libri ad alta voce, così per ridere, per stare meglio, la mattina dopo il caffè.

Addentrandosi, poi, nei testi che compongono l’opera di Wilcock, si scopre la complessità e l’acutezza che risiede nel significato di questi nomi e nomignoli. Il nome – il titolo, potremmo dire – è già esso stesso una creazione (nel senso di creazione primigenia, divina). In ognuno dei nomi che Wilcock ha usato, ha scelto, germoglia nascosto il suo significato profondo. Sia pure in una sfumatura del suono, che ricorda l’allegria, il mare, l’astuzia.

C’è un pezzo di Alfredo Zucchi, pubblicato anni fa su Cattedrale, dove ripercorre l’uso del frammento e dei frammenti (e quindi la composizione e ricomposizione e il gioco di specchi che ci si può creare, giocandoci), in una sorta di catena evolutiva che va da Borges a Bolaño, passando per Cortázar. Mi colpiva che il discorso di Zucchi si fondasse prevalentemente sull’uso che i tre autori fanno di determinati personaggi, di determinati nomi. Effettivamente capisco per quale motivo escludere Wilcock da questa catena – nel ragionamento di Zucchi. Il modo che Wilcock ha di comporre i suoi libri non punta verso nessuna evoluzione formale, è antico. Quel modo di accostare le storie che possiamo ritrovare nei poemi classici greci o nei libri di favole. Forse non ha apportato nessuna evoluzione al romanzo contemporaneo (si voglia credere che i lunghi elenchi dei Detective selvaggi o di 2666 o de La letteratura nazista in America non abbiano alcuna radice nei libri di Wilcock) e non aspira a cambiare i romanzo contemporaneo dacché sta di lato, distante dalla tradizione romanzesca. Sta di lato e lontano dal mondo. È la letteratura dell’outsider: la letteratura dei Nomi. La letteratura archetipica. Poiché essa crea, nominando.

La psicologia archetipica nel bestiario wilcockiano

«Per studiare l’anima dobbiamo scendere in profondità, e ogni volta che scendiamo in profondità, viene coinvolta l’anima. […] Vediamo qui come le metafore, che crediamo di essere noi a scegliere per descrivere idee e processi archetipici, come «l’inconscio» di Freud e la «psicologia del profondo» di Bleuler, siano in realtà parte costitutiva di quei processi e di quelle idee. È come se il materiale archetipico si scegliesse da sé i termini atti a descriverlo e questo facesse parte del suo modo di esprimere sé stesso. Ne consegue che «l’attribuzione di nomi» non è affatto un’attività nominalistica, bensì molto realistica, in quanto il nome ci conduce dentro la propria realtà».
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, Adelphi

 Mi rendo conto che usando le parole di Hillman scendiamo a un livello più profondo, sottile e filosofico di analisi dell’opera di Wilcock. Mi preme quindi precisare quanto io credi fermamente che il valore rivelatorio dei testi wilcockiani abbia sede esclusivamente nella forza espressiva della sua scrittura, della sua voce, in prosa come in poesia. Detto ciò, penso anche che un’immaginazione così fervida e intelligente e ricca possa provenire solo dalla facilità dell’autore di accedere al proprio inconscio gorgogliante di immagini e simboli nuovi: archetipi sempre neonati. Essi si rivelano nell’essere nominati e rievocano qualcosa di profondamente nostro, di estremamente oscuro e per questo reale, al massimo livello possibile di realtà catartica. Attraverso le metafore generate dai suoi personaggi – creature paradossali e assurde – Wilcock svela le metamorfiche sfaccettature dell’animo umano, dell’inconscio, dell’estraneo.
Misteriosamente, come «il nome ci conduce dentro la propria realtà» ognuno dei personaggi wilcockiani ci trascina in un’altra dimensione, la sua, e ci fa da specchio. Ritrovandoci nudi davanti a noi stessi – trasfigurati in bestie mostruose – possiamo capire qualcosa in più di noi stessi. «Ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immaginazione degli uomini» scrive Borges nel prologo al «Manuale di zoologia fantastica».
Nello stesso prologo Borges ci spiega cosa è un mostro. Invito il caro lettore a leggere il Libro dei mostri di Wilcock (come anche tutti gli altri suoi libri) illuminando le pagine di questa luce borgesiana, dove ogni testo collabora a una visione universale e caotica in cui si mischiano infinite variabili che s’influenzano l’un l’altra continuamente, e che sono al medesimo tempo la stessa cosa: un insieme unico, anima mundi. Così madama Letteratura avrà la testa di Borges, un braccio di Bolaño e uno di Cortázar e le dita saranno quelle di Wilcock, per indicare e nominare ogni cosa, ogni mostro, «giacché un mostro non è altro che una combinazione di elementi di esseri reali e le possibilità dell’arte combinatoria restano l’infinito. Nel centauro si coniugano il cavallo e l’uomo, nel minotauro il toro e l’uomo (Dante lo immaginò con volto umano e corpo di toro) e così potremmo produrre, si direbbe, un numero indefinito di mostri, combinazioni di pesce, uccello e rettile, senza altri limiti che il tedio o il disgusto. Ma questo non accade […] Ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immaginazione degli uomini». (dal Prologo al «Manuale di zoologia fantastica»).

 Mi sembra doveroso, a questo punto, terminare questo scritto scusandomi e facendomi perdonare. Scusandomi per non aver inserito nel pezzo alcun frammento dello stesso Wilcock (nonostante abbia più volte sottolineato quanto, a mio parere, la sua forza espressiva si concentri prevalentemente nella sua voce, nel suo fraseggiare magistrale). Quindi cercherò di farmi perdonare, riportando una delle sue memorabili chiuse, particolarmente esemplificativa del suo stile. Si tratta di un «elenco di ipotesi varie» su cosa contengano le uova che fa Primio Doppo (uno dei personaggi raccolti ne Il Libro dei mostri). L’attento lettore noterà la poesia di questo elenco. Quella che Rodolfo sapeva intraducibile. Lui che aveva affrontato il Finnegans Wake senza impazzire. L’accorto lettore sentirà il suono di questo elenco. Il movimento musicale e la fantasia e l’umorismo schietto di questa serie di «nomi» seguiti da due punti e un’«ipotesi». E si ricorderà di tutto il discorso fatto sui nomi. E si ricorderà della lettura caleidoscopica proposta da Borges, e si ricorderà forse delle invenzioni lessicali cortazariane e manganelliane. E si rivedrà nel verso: «Morotti Andrea: sassi» sentendone l’inquietante solitudine. Si ricorderà qualcosa di molto personale, forse, leggendo la violenza solitaria nascosta nel rigo «Il postino: bombe» o nel versetto «La guardia comunale: estratto di fegato». Dovrà lasciar perdere il divertimento provocato dallo humour senza senso di questa lista; arrivato all’ultimo gradino – all’ultimo piolo della scala: lasciare andare la scala; è quello che succede al lettore sensibile leggendo l’ultima voce «Morotti Quintino: stracci». La magia di Wilcock sta nel fare diventare quegli stracci reali, nel farci percepire la tristezza di Quintino che guarda quelle stoffe sporche buttate in un angolo come i ricordi della sua vita. E la maestria funambolesca di Wilcock si sprigiona in tutta la sua necessaria empatia, in un’esplosione di senso, quando ti ci rivedi, in Quintino, seduto sul bordo del letto a guardare i panni sporchi e pensare a cosa possa venir fuori dalle uova del falegname Primio Doppo, o sarebbe meglio dire solo Rodolfo?

 «Riguardo al problema centrale, e cioè che cosa venga fuori dalle uova del falegname, quando si schiudono, accludiamo un primo elenco di ipotesi varie, avanzate dai cittadini più in vista di Vetriolo:

Don Olimpo: angeli.

Il sindaco: caffè istantaneo.

Ing. Bellapadrona: galline.

Il macellaio: sorprese svariate.

Catteruccia Daddo: omettini.

Gioacchini Teresa: niente.

Il fornaio: serpi.

Calabrese Giuseppina: frutta.

Vedova Pizzo: mobilini giocattolo.

Rossi Osvaldo: merda.

Polimati Lino: accendisigari.

Fraticelli Sergio: spiritelli.

Scorsini Giovanni: oro.

Brillanti Caterina: olio d’oliva.

Tirinnanzi Vicenza: organi usati del sig. Coppo.

Polimati Maria: ortaggi.

Il maestro: dinosauri preistorici.

Menichetti Annunziato: premi in contanti.

Morotti Andrea: sassi.

Romanelli Gina: bambole.

Febbraro Vittoria: pasta all’uovo.

Pizzo Armando: pulcini di tacchino.

Montagna Betty: miele.

L’ufficiale postale: qualche porcheria.

Il postino: bombe.

Chiavoni Ofelia: formaggio.

La guardia comunale: estratto di fegato.

Barziacchi Letizia: saponette.

Muller Elfriede: cagnolini.

Aramini Alberto: diamanti, rubini e smeraldi sfusi.

Montagna Gabriella: uova di cioccolata.

Pesci Luigi: semenze varie.

Centoscudi Mario: purea di patate.

Proietti Francesco: petrolio.

Rossi Pierina: calzini, mutande, eccetera.

Tirinnanzi Icilio: latte in polvere.

Moncelsi Vincenzo: accessori per automobili.

Morotti Quintino: stracci».

(da «Primio Doppo» nel libro dei mostri)

 

Non devi dirmi che mi ami, di Sherman Alexie

di Sherman Alexie NN Editore Traduzione: Laura Gazzarrini pp. 472 Euro 21,00

di Sherman Alexie
NN Editore
Traduzione: Laura Gazzarrini
pp. 472 Euro 21,00

È in libreria Non devi dirmi che mi ami, di Sherman Alexie, pubblicato da NN Editore. Un libro che è molte cose: raccolta, memoir, in cui prosa e poesia si fondono in una scrittura incantatoria e ammaliante, lungo il percorso di vita dello scrittore nato e cresciuto nella riserva indiana di Wellpinit.

Per gentile concessione dell’editore, Cattedrale vi propone uno dei racconti accompagnato dalla nota introduttiva della traduttrice Laura Gazzarrini.

Libertà

Nel febbraio 1979 tornai a casa dalla scuola della riserva e dissi ai miei genitori che dovevo andarmene. Volevo andare al college e diventare un pediatra. E non sarebbe mai potuto succedere se fossi rimasto nel sistema scolastico della riserva.
Erano anni che cercavo di fuggire da lì. Voglio dire, le riser­ve indiane sono state create dai bianchi per funzionare come campi di concentramento rurali, e credo che l’intento prima­rio sia ancora questo. Così, è ovvio che fossi scappato di casa già in terza elementare. Avevo riempito uno zaino con fumet­ti, panini con il burro di arachidi e occhiali da vista e cammi­nai per più di tre chilometri prima che mia madre mi trovasse.
Da quel momento, mi ha ripetuto spesso: «Junior, sei nato con la valigia in mano». Senza dubbio un complimento per un noma­de. Peccato che la mia tribù non sia nomade da più di un secolo.
Quando tornai a casa in quel gelido giorno d’inverno del 1979 e chiesi ai miei genitori il permesso di lasciare la scuola della riserva, non sarei rimasto sorpreso se me lo avessero im­pedito. Avevo appena dodici anni e stavo chiedendo di abban­donare la tribù per diventare un rifugiato indigeno a Reardan, un paese di contadini.
«Posso andarmene?» chiesi.
E loro, consci del fatto che stavo voltando le spalle a migliaia di anni di tradizioni tribali per andare a vivere in mezzo ai bianchi, mi dissero: «Sì».
I miei genitori, così feriti e fragili, ebbero la forza e il corag­gio di darmi la libertà.
Credo sapessero che non sarei più tornato, né con il corpo né con lo spirito, ma mi amavano troppo per costringermi a rimanere.

*

Laura Gazzarrini

Sherman Alexie lo dichiara più volte: Non devi dirmi che mi ami è un memoir. Il suo primo, vero, memoir. Certo, la fac­cenda si complica quando capiamo con che tipo di narratore abbiamo a che fare: alcuni capitoli si allungano per diverse pagine, altri sono composti da una poesia o magari soltanto da un paio di righe. Ricordi che cercano di seguire un ordine cronologico (si parte da inizio anni Settanta e si arriva ai gior­ni nostri) vengono intervallati da approfondimenti sulla storia della comunità tribale degli Spokane, in cui Alexie è nato e ha vissuto fino all’adolescenza, o da salti indietro e in avanti che riportano alla luce avvenimenti e aneddoti a volte divertenti, molto più spesso cupi e dolorosi. E poi, sarà tutto vero quel che ci viene raccontato?

Per l’intero libro, comunque, si percepisce chiaramente la difficoltà che Alexie ha provato da ragazzino, e prova ancora oggi, a essere diviso fra il mondo occidentale, dei bianchi, in cui spesso si ritrova a essere l’unico nativo americano e quindi a essere guardato e trattato come un animale raro, e la riserva Spokane in cui ancora vive gran parte della sua famiglia: lui è l’indiano che ha deciso di abbandonare la riserva e le sue tradizioni per inseguire fama e denaro, lui è l’indiano senza più “indianità”.

In Non devi dirmi che mi ami si parla di molti componenti della famiglia Alexie: dei fratelli e delle sorelle di Sherman, dei cugi­ni, degli zii e dei nonni, ma appare chiaro fin da subito che la figura centrale è quella di Lillian Alexie, sua madre, scomparsa nel 2015. Un esempio perfetto di quella “scrittura come tera­pia” a cui Sherman accenna diverse volte nel corso del libro. Proprio come era stato per la morte del padre, avvenuta nel 2003 e raccontata nelle pagine di Danze di guerra (NNE, 2018), Alexie cerca di superare il dolore e il senso di colpa facendo quello che sa fare meglio: scrivere. Ci troviamo così davanti a una vera e propria cascata di parole che si ripetono, si ripetono e si ripetono, donando all’intera opera un’idea di circolarità, di eterno ritorno. Come riconosce lui stesso, la struttura di Non devi dirmi che mi ami ricorda quella delle trapunte che sua madre ha cucito per tutta la vita: quadrati di stoffa “ad infinitum” che seguono schemi precisi e si incrociano formando sempre gli stessi pattern.
Dal punto di vista traduttivo, le sfide sono state parecchie. Ogni capitolo è caratterizzato da giochi di parole, rime e asso­nanze che costituiscono parte fondamentale della cifra stilisti­ca di Alexie e che spero di essere riuscita a rendere al meglio, per una lettura scorrevole e senza intoppi.
Per quanto un lettore italiano possa sentirsi distante da un mondo fatto di powwow, capanne sudatorie, orsi e salmoni, sono sicura che nel corso di queste quasi cinquecento pagine riuscirà a immergersi e, forse, anche a immedesimarsi, nell’in­tricata relazione fra Sherman e Lillian; un figlio e sua madre, un sopravvissuto e un fantasma.

Il colle degli impiccati, di J. M. De Eça de Queirós

J. M. De Eça de Queirós  Lindau Editore Traduzione di Giuliana Segre Giorgi  pp. 64 Euro 9,00

J. M. De Eça de Queirós
Lindau Editore
Traduzione di Giuliana Segre Giorgi
pp. 64 Euro 9,00

Da Agosto 2018, Lindau ha portato in libreria il piccolo capolavoro gotico di Eça de Queirós, lo scrittore portoghese che ha fatto del realismo uno dei fondamenti della propria opera. Con questo racconto lungo, la poetica intensità della narrazione dimostra quanto sia mutevole e fruttuosa la complessità autoriale di un bravo narratore, almeno quanto sia inutile e riduttiva la classificazione di un’opera in un genere confezionato.

In queste pagine i moti del cuore umano, e delle umane passioni, siano indagati con sensibilità sottile e a tratti evocati con commosso lirismo – senza che ne scapiti uno stile che non si saprebbe immaginare più plastico e vigoroso, più naturale e preciso. Eppure essi passano sempre al filtro dell’ironia, e ne risulta una sorta di lievità divertita, e anche di malinconico distacco, quasi che la materia del narrare fosse, da chi scrive, più contemplata che davvero goduta.

Cattedrale vi propone un estratto del testo, per gentile concessione dell’editore.

*

1

 

Nell’anno 1474, che fu così ricco di grazie divine per tutta la cristianità, regnando in Castiglia el-rei Enrico IV, venne ad abitare nella città di Segovia, dove aveva ereditato case e un orto, un giovane gentiluomo di assai nitido lignaggio e gentile aspetto, che si chiamava don Rui de Cardenas. Quella casa, che ereditava da uno zio, arcidiacono e professore all’Università di Coimbra, si trovava ben accosto e sotto l’ombra silenziosa della chiesa di Nossa Senhora do Pilar: e proprio di fronte, al di là del sagrato, dove cantavano i tre zampilli di un’antica fontana, c’era il cancello del tetro palazzo di don Alonso de Lara, ricchissimo nobiluomo dalle maniere poco cordiali, che, ormai in età matura e con la chioma quasi completamente ingrigita, aveva sposato una fanciulla celebre in tutta la Castiglia per il candore dell’incarnato, capelli color di chiaro sole, e collo di cigno reale. Don Rui era stato per l’appunto battezzato sotto la protezione della Madonna del Pilar, e ne era rimasto sempre un devoto e fedele osservante, sebbene, essendo di temperamento allegro e impetuoso, lo attraessero le armi, la caccia, le feste galanti, e persino a volte una serata chiassosa in taverna con dadi e boccali di vino. Per devozione e per le facilitazioni consentitegli da questa santa vicinanza, da quando si era trasferito a Segovia aveva preso la pia abitudine di rendere omaggio tutte le mattine all’ora della prima alla sua Divina Madrina per chiederle grazia e benedizione con tre Ave Maria.
All’imbrunire poi, anche dopo qualche gagliarda scorreria per campi e per monti con falchi o levrieri, vi ritornava ancora, per la salutazione del vespro, a mormorare soavemente un Salve Regina.
Tutte le domeniche comprava sul sagrato da una fioraia mora un mazzo di giunchiglie, o di garofani o semplicemente di rose che distribuiva amorevolmente con garbo e gran cura davanti all’altare della Madonna.
In questa veneranda chiesa del Pilar si recava pure tutte le domeniche donna Leonor, la tanto celebrata e incantevole moglie del signor De Lara, accompagnata da una arcigna governante, che aveva gli occhi più aperti e più fissi di quelli di una notturna civetta, e da due robusti staffieri che la scortavano e la presidiavano come due torri. Era talmente geloso questo signor don Alonso, che era soltanto perché glielo aveva severamente ordinato il confessore e per timore di offendere la Madonna, la sua vicina, che permetteva questa visita fugace; e lui rimaneva a spiare ansiosamente tra le stecche di una gelosia i movimenti di lei e la durata della permanenza. Tutti i lenti giorni della lenta settimana la signora donna Leonor li passava nel chiuso del palazzo di granito nero cinto da inferriate e non aveva, per distrarsi e respirare almeno nelle ore calde dei meriggi estivi, altro che un angolo di giardino verde scuro, incassato tra muri così alti, che al di là se ne vedeva emergere a mala pena qualche cima di triste cipresso. Ma quella breve sosta presso la Madonna del Pilar bastò a don Rui per innamorarsi di lei, follemente, una mattina di maggio, quando la vide in ginocchio dinnanzi all’altare sotto un raggio di sole, aureolata dei suoi capelli d’oro, con le lunghe ciglia abbassate sul libro d’ore e il rosario pendente tra le dita sottili, morbida e flessuosa e tutta bianca, di un candore simile a quello di un giglio dischiuso nell’ombra, più bianca in mezzo al pizzo nero e le pieghe nere delle sete sparse intorno al suo corpo pieno di grazia, rigide pieghe sulle lastre di pietra della cappella, che erano antiche pietre tombali. Quando, dopo un attimo di turbamento e di deliziosa emozione egli s’inginocchiò, fu meno per la sua Divina Madrina la Vergine del Pilar, che per quella straordinaria apparizione, di cui non conosceva né il nome né la vita, ma soltanto che per lei era pronto a dare vita e nome se ella avesse potuto concedersi per così dubbioso prezzo. Balbettando con ingrata fretta le tre avemarie con cui ogni mattina faceva la sua salutazione a Maria, prese il cappello, ridiscese in punta di piedi la sonora navata e si fermò sul portale, ad attenderla in mezzo ai mendicanti e ai lazzaroni che si spidocchiavano al sole. Ma quando, dopo un indugio, durante il quale don Rui sentì nel cuore un inusitato batter d’ansietà e di timore, la signora donna Leonor passò e si fermò a bagnarsi le dita nell’acquasantiera di marmo, i suoi occhi, sotto il velo abbassato, non si levarono su di lui. Con la governante dagli occhi molto aperti incollata alla gonna e in mezzo ai due staffieri come tra due torri, attraversò lentamente il sagrato pietra a pietra godendo indubbiamente come una carcerata l’aria libera e il sole schietto che l’inondavano. E grande fu lo stupore di don Rui quando la vide penetrare sotto la buia arcata tra due pesanti pilastri su cui gravava il palazzo, e scomparire attraverso una porta stretta coperta di catenacci. Era dunque quella la tanto celebrata donna Leonor, la bellissima e nobile signora De Lara…
Allora ebbero inizio sette lunghi giorni, che trascorse appollaiato su uno dei sedili di pietra di una sua finestra a scrutare quella nera porta coperta di ferro come se fosse stata la porta del Paradiso e di lì dovesse comparire un angelo ad annunciargli la Beatitudine. Finché finalmente giunse la tardiva domenica: e nell’attraversare il sagrato all’ora della prima, mentre si udiva il rintocco delle campane, con un mazzo di garofani gialli in mano per la sua Divina Madrina, incontrò donna Leonor che si stava affacciando tra i pilastri del buio portico, bianca, dolce e pensosa, come la luna di tra le nuvole. Quasi gli caddero di mano i garofani in una deliziosa agitazione che gli fece ansimare il petto come e più di un’onda di mare, mentre tutta l’anima in tumulto gli sgorgava fuori attraverso lo sguardo con cui la divorava. E anch’essa alzò gli occhi su don Rui, ma erano occhi tranquilli, occhi sereni, dai quali non trapelava curiosità e neppure la consapevolezza di uno scambio di sguardi con altri occhi tanto accesi e offuscati dal desiderio.
Il giovane gentiluomo non entrò in chiesa, per il pio timore di non prestare alla sua Divina Madrina l’attenzione che certamente le avrebbe rubato completamente colei che era solo umana, ma già padrona del suo cuore, e in esso divinizzata.
Attese impazientemente davanti all’ingresso in mezzo ai mendicanti e mentre i garofani appassivano per il calore delle sue mani ardenti gli sembrava ben lento il rosario che essa recitava. Donna Leonor stava ancora ripercorrendo la navata, che già lui sentiva nell’anima il dolce fruscio delle pesanti sete che strisciavano sul pavimento dietro di lei. La bianca signora passò – e il medesimo sguardo distratto, disattento e calmo, che essa posò sui mendicanti e sul sagrato, lo lasciò scivolare su di lui, o perché non comprendesse come mai quel giovane a un tratto si fosse fatto tanto pallido, o perché non lo distingueva ancora dalle cose e dalle forme indifferenti.
Don Rui si ritirò precipitosamente con un profondo sospiro; e giunto in camera sua accomodò devotamente davanti all’immagine della Vergine i fiori che in chiesa non aveva dedicato al suo altare. La vita divenne allora per lui un’amarezza continua per il fatto di avvertire così fredda e disumana quella donna, unica tra le donne, che aveva catturato e reso savio il suo cuore volubile e incostante. Sperava ancora, e pur prevedendo benissimo un disinganno, prese a far la ronda attorno ai muri molto alti del giardino – oppure, imbacuccato nel suo mantello, con una spalla appoggiata a una cantonata, a rimanere fermo per lunghe ore a contemplare le inferriate di quelle gelosie nere e spesse come di una prigione. Ma i muri non si aprivano e dalle grate non filtrava il minimo barlume di promettente luce! L’intero palazzo sembrava una tomba: lì giaceva una donna insensibile, anzi, al di là di quelle fredde pietre c’era un freddo cuore. Per sfogarsi compose con riverente cura, vegliando nottetempo sulle carte, strofe gemebonde, che non lo rincuoravano. Dinnanzi all’altare della Madonna del Pilar, sulle medesime pietre su cui l’aveva vista inginocchiata, a sua volta si metteva in ginocchio e rimaneva lì, senza pronunciare orazioni, immerso in un fantasticare dolce-amaro, in attesa che il suo cuore si rasserenasse e si rianimasse sotto l’influenza di Colei che di tutto consola e tutto placa. Ma ogni volta si rialzava più desolato che mai, senz’altra sensazione se non di quanto erano fredde e dure le pietre su cui si era inginocchiato. Il mondo intero gli pareva non contenere altro che durezza e gelo.
In altre luminose mattine domenicali incontrò di nuovo donna Leonor: ma gli occhi di lei erano ancor sempre disattenti e come immemori, oppure, quando incrociavano i suoi, era con tanta naturalezza, erano tanto sgombri da qualsiasi emozione, che don Rui li avrebbe preferiti offesi e balenanti d’ira o superbamente distolti con superbo disdegno. Certamente donna Leonor ormai lo conosceva – ma così lo conosceva anche la fioraia mora accoccolata davanti al suo cesto presso la fontana; o anche i poveri che si spidocchiavano al sole di fronte al portale della Madonna. Né don Rui poteva ormai pensare che essa fosse fredda e disumana. Era soltanto superbamente remota, come una stella che nel firmamento si volge e rifulge, senza sapere che in basso, in un mondo che essa non distingue, occhi che essa non suppone la contemplano, l’adorano e le affidano il governo del proprio destino e della propria sorte.
Allora don Rui pensò: «Lei non vuole, io non posso: è stato un bel sogno ed è finito, che la Madonna ci abbia in grazia tutti e due!».
E siccome era un gentiluomo molto discreto, dopo che ebbe accettato che essa fosse davvero così irriducibile nella sua indifferenza, non la cercò più, e neppure levò mai più gli occhi verso le grate delle sue finestre, e rinunciò persino a entrare in chiesa quando casualmente dal portale la scorgeva inginocchiata, con la testa dorata, tanto piena di grazia, china sul libro d’ore.

 

Ultimo round, ovvero intrugli stregoneschi che servono a guarire

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di Andrea Cafarella


Un’anima che combatte per farsi anima tua
Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round ovvero intrugli stregoneschi che servono a guarire.

 

Che cosa importava a Van Gogh della tua ammirazione? Voleva la tua complicità, che tu cercassi di guardare come stava guardando lui, con gli occhi scorticati da un fuoco eracliteo.
«Morelliana, sempre» da Il giro del giorno in ottanta mondi

 

Ho conosciuto Julio Cortázar da grande. Mi consideravo già un lettore navigato, esprimevo pareri anche molto secchi, giudizi severi su questo o quell’altro autore, su tutti i libri che mi venivano consigliati, anche senza averli mai letti (vizio, da presuntuoso, che non mi toglierò mai). Sapevo cos’è Letteratura e cosa no, pensavo (questa ottusa convinzione invece sono riuscito a levarmela di dosso, fortunatamente). Poi, un bel giorno benedetto, presi in mano Rayuela. Quell’incontro cambiò totalmente la prospettiva che avevo avuto fino a quel momento di cosa significasse la parola «Letteratura». Imbattermi in quell’essere mastodontico, quella creatura vivente e multiforme, fu come per Achab al primo avvistamento di Moby Dick. La sensazione che si ha quando la caccia sta per cominciare.
Lessi Rayuela tutto d’un fiato, nell’ordine che suggerisce la «tavola d’orientamento» che apre il libro. Poi in modo lineare, dal primo al capitolo cinquantasei della prima sezione, «Dall’altra parte». Poi tentai di leggerlo in un ordine mio. E continuo: ogni anno, ogni sei mesi, ogni tanto, quando nell’incresparsi delle onde vedo uno spruzzo che mi pare provenga dallo sfiatatoio di Rayuela, allora riapro quel libro e inizio a leggere, e vado avanti, indietro, a destra, in alto e fino al fondo dell’ultima riga; e riprendo altri libri, cerco degli stralci in cui Julio abbia lasciato altre tracce che non ho ancora preso in considerazione. Urlo, bestemmio, appendo un doblone spagnolo all’albero di prora, perché qualcuno mi porti il cadavere di questo libro. Cerco ancora di capirlo davvero e fino in fondo… ottuso.
Poi, stanco, mi sdraio accanto a una grossa bitta, sopra una cima enorme, raccolta nelle sue spire, impregnatasi di sole e salsedine, che mi fa da giaciglio, e chiudo gli occhi, lasciandomi cullare dall’andirivieni delle onde. Mi arrendo. Ed è proprio quando mi arrendo, quando depongo le armi, l’arpione, e lascio che la prosa abissale di Julio fluisca dentro di me come un respiro. Quando mi fido di lui. In quel momento scopro il testone bianco di Moby Dick all’orizzonte, capisco qualcosa di nuovo, di me, comprendo davvero – anche se non saprei spiegarlo, ammesso che sia possibile – cosa è «Letteratura».
Ecco, l’incontro con Julio Cortázar ha significato, per me, proprio questo: l’inizio dell’ossessione, della caccia infinita e senza senso che porta alcuni di noi alla follia, all’esclusione, all’eremitaggio. Incontrare Cortázar può essere destabilizzante, trasformativo, perché significa conoscere uno stregone. Un alchimista della parola.
E la pratica alchemica è inesplicabile, non si basa sulle regole logiche e razionali cui siamo abituati. Bisogna crederci. Per comprendere la trasmutazione del piombo in oro, dobbiamo abbandonarci alle coincidenze, ai legami inaspettati, al dialogo mistico tra il sopra e il sotto, il dentro e il fuori. All’anima.
L’unico modo per leggere Cortázar è imparare, giorno dopo giorno, «a guardare, come lui, verso l’infinita apertura che aspetta e reclama» («Morelliana sempre» da Il giro del giorno in ottanta mondi).


Che tu generi figli o libri o figure o pentagrammi non avrai generato che frammenti, collages, grida rotte e lacrime senza testa.
Ma dappertutto, dappertutto è l’anima
l’anima che combatte per farsi anima tua 

(un verso di Seferis di cui ho constatato mille volte la verità).

Posso chiamare ancora raccolta un insieme di luoghi-pensiero dove c’è un’anima che combatte per farsi anima mia, o tua?
G. Ceronetti, Tra pensieri


Si può dire che ogni libro di Cortázar sia un libro di frammenti, e un frammento, esso stesso, di un organismo più grande. Una prodigiosa opera immensa, una intera letteratura.
Parlandone da questo punto di vista, non può non venirci in mente uno dei predecessori di Julio, un tale Jorge Luis Borges. Uno che del frammento ne ha fatto una religione. Uno dei pochissimi grandi scrittori del novecento che non abbia mai scritto un vero e proprio romanzo. Uno che ha costruito libri e libri, che sono collage di pezzi di altri libri, di altri testi, di altre cose. Il Libro di sogni (Adelphi, 2015), il Libro del cielo e dell’inferno (con Adolfo Bioy Casares, Adelphi, 2011), il Libro degli esseri immaginari (con Margarita Guerrero, Adelphi, 2006), il Libro di sabbia (Adelphi, 2004), Storia universale dell’infamia (Adelphi, 1997), per citarne qualcuno. Ma tutti i libri di Borges sono delle «raccolte», degli «insiemi di luoghi-pensiero dove c’è un’anima che combatte per farsi anima» nostra.
Cortázar, non solo fa sua la lezione di Borges – come è d’obbligo per tutti gli scrittori argentini, e sudamericani, e probabilmente per tutti gli scrittori e basta – ma la porta alle sue conseguenze estreme e definitive. Ne esplora le potenzialità, in tutte le direzioni. Vive l’insegnamento del maestro, facendolo suo, assieme ai suoi fratelli, che in quegli anni si svestivano delle opprimenti regole estetiche che avevano dominato la storia artistica dell’uomo fino al novecento. Mischia la regola Borges alla sregolatezza del dadaismo, del cubismo, del futurismo, della musica nera che stava riconfigurando il concetto stesso di musica attraverso le improvvisazioni, evanescenti e sgrammaticate, dei giganti del jazz dei primordi.
Da queste mani, da questa voce, in questo contesto nascono Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round, rispettivamente nel 1967 e nel 1969. Due libri che sono un tutt’uno, di «grida rotte e lacrime senza testa», di frammenti di altri libri, di altre cose. Di Moby Dick e di Borges, e di Jules Verne e Charlie Parker. Contengono il suono della tromba di Armstrong e le opere più bislacche di Salvador Dalì. Due libri che sono uno solo, di cui non si può parlare singolarmente. E, nel loro insieme, uno degli esempi più chiari, efficaci, estremi ed esplicativi dell’intera opera di Julio Cortázar.
Sono libri di magia. Almanacchi per gli iniziati, scritti da un maestro. Due libri che sono parte di un insieme enorme, un corpo pulsante. Due libri che «respirano».

 «Era un libro di grande formato, con la copertina che ricordava un giornale, e soprattutto diviso in due «piani» che si sfogliavano in maniera indipendente l’uno dall’altro». Chi scrive è Bruno Arpaia, e il testo si trova nella bandella dell’edizione Alet del 2007 di Ultimo round, ormai molto difficile da reperire. E parla, a sua volta, «dell’introvabile edizione del 1969, quella della Siglo XXI Editores messicana, stampata, chissà perché, a Torino». Ultimo round, come Il giro del giorno (come lo appuntava lo stesso Julio nelle sue lettere e nelle interviste), sono due libri talmente particolari che persino l’edizione era studiata dall’autore fino al minimo dettaglio. Erano dei volumi atipici, che dovevano potersi sfogliare in più direzioni, che prevedevano inserti di ogni tipo, collegamenti e rimandi all’apparenza del tutto illogici. Un libro da esplorare come una scatola più che come un tomo. «Un oggetto-libro del tutto anomalo per gli schemi di chi non guardasse il mondo con il suo stesso atteggiamento poetico e surrealista, con la sua onnipresente e profondissima ironia» (sempre Bruno Arpia nella bandella di Ultimo round).

Scrivo questo testo in occasione della ripubblicazione, in Italia, della meravigliosa traduzione di Eleonora Mongavero, per Sur edizioni che, da anni, si occupa dell’opera del maestro argentino di tutti i cronopios del mondo. Questa nuova edizione di Ultimo round arriva esattamente l’anno dopo quella de Il giro del giorno in ottanta mondi; e dopo un lungo percorso di pubblicazioni essenziali: libri fondamentali come Un certo Lucas, Componibile 62 e L’inseguitore (in un’edizione che lo accompagna alle illustrazioni di José Muñoz), libri minori ma non meno preziosi, come Correzione di bozze in Alta Provenza e Un certo Julio. Vita di Cortázar illustrata da Rep – che contiene una lunga intervista inedita, davvero interessante – e i tre volumi che raccolgono tematicamente il suo carteggio epistolare (Carta carbone, Chi scrive i nostri libri e Così violentemente dolce). (Contestualmente, segnaliamo altre importanti pubblicazioni degli ultimi anni, come Lezioni di letteratura (Einaudi, 2014), A passeggio con John Keats (Fazi, 2014) e l’indispensabile Le ragioni della collera (Fahrenheit 451) pubblicato nell’anno corrente, che raccoglie le sue poesie).
Eppure, questi due libri sono completamente diversi da tutti gli altri. Ogni libro di Julio è diverso da tutti gli altri, è vero, ma Il giro del giorno e Ultimo round hanno qualcosa di così estremo, di così anomalo e perturbante, che li pone in una posizione di ulteriore differenza, rispetto a qualsiasi altro libro di letteratura.

In effetti, quei due libri io li definisco come dei veri e propri «libri-almanacco». [...] Scrissi Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round perché avevo accumulato molti appunti sparsi: poesie (come sai, ho pubblicato poche poesie, perché le ritengo sempre molto personali), qualche racconto. All’improvviso, mi dissi: «Perché non fare qualcosa con Julio Silva, bravissimo pittore argentino e mio vecchio amico di Parigi? Perché non facciamo un libro per giocare, un grande almanacco?»
da L’altra parte (mimesis, 2014)

 

In questa densissima intervista di Joaquin Soler Serrano, Julio stesso parla di questi due libri come se fossero un insieme. E con la solita leggerezza che, giustamente, lasciava trasparire dalle sue parole quando ne parlava. La leggerezza che travolge il cuore di ogni cronopios che se ne accosti. Ultimo Round e Il giro del giorno sono dei libri-almanacco, dei libri-gioco. Bisogna leggerli ogni tanto, quando se ne ha voglia, e anche tutti d’un fiato, alla finestra, d’estate; oppure lentamente: venti trenta pagine al giorno. Poco importa, se sei un cronopios anche tu. Come anche Julio Silva, (pittore e scultore argentino a cui si deve l’idea da cui nascono Il giro del giorno in ottanta mondi, Ultimo round e altri libri di Cortázar in cui si uniscono testo e immagini) che potremmo dire co-autore concettuale di questi due libri. La letteratura di Julio è un gioco e, come tale, può e deve essere anche condiviso (e mi viene nuovamente in mente la co-autorialità tipica di un certo Borges).
In effetti, il gioco di Cortázar è condivisione: contaminazione, contagio. Servizio. Cibo. Julio cucina per e con i suoi amici e compagni, per e con noi. Cucina pozioni magiche con ingredienti stregoneschi molto particolari: «questo libro va componendosi come uno di quei misteriosi piatti di certi ristoranti parigini il cui primo ingrediente risale forse a due secoli fa, fond de cuisson al quale si sono via via aggiunte carni, verdure e spezie in un interminabile processo che conserva nel profondo il sapore accumulato in un’infinita cottura» scrive in uno dei frammenti de Il giro del giorno: «Un Julio parla di un altro» nel quale, come se fosse un diario, semplicemente appunta l’andazzo dei lavori.
Perché, sì, questi sono anche due libri-cantiere, attraverso cui, con un ascolto attivo, sincero e cronopicamente attento, possiamo comprendere, intuire dei segreti che illuminano tutta l’opera cortazariana. E sarebbe più corretto dire, in modo più preciso, che la ri-velano: cioè che la ricoprono di ulteriori enigmi e astuzie e ne impreziosiscono e alleggeriscono, così, paradossalmente – magicamente, la materia, arricchendo la complessità della sua intera opera.
Inoltre, in questi due libri-collage troviamo le sperimentazioni più ardimentose di Julio. Non è solo nella struttura, la sperimentazione. Il suo spirito dada, qui più che altrove, si è potuto sbizzarrire in modo assoluto: ci sono poesie, citazioni, stralci, notazioni di scritte sui muri, falsità, amenità, spazi bianchi, fotografie, illustrazioni, cianfrusaglie inutili e pezzi di vita.
«Sono opere vertiginosamente aperte, costantemente attraversate da quelli che Cortázar amava definire passaggi, di sentieri interrotti e distrazioni (tutto ciò che in qualche modo permette di evadere dal territorio di competenza dei famas, quei personaggi cortazariani fatalmente incaricati della difesa dell’ordine, della norma e dell’efficienza)». (L’altra parte) (scrive Tommaso Menegazzi, parlando di Rayuela, del Libro de Manuel e di Componibile 62, in un lungo discorso che parte da Il giro del giorno e Ultimo round, nell’introduzione all’edizione italiana della lunga intervista del 1977 di cui sopra: L’altra parte).
E se tutta l’opera di Cortázar è un insieme di frammenti, di quei «luoghi-pensiero» di cui parla Ceronetti, Il giro del mondo e Ultimo round ne sono l’esempio più illustre. Sono dei libri scoperti, sinceri, ineludibili. Non c’è finzione, o perlomeno la finzione, portata al livello più puro del gioco, si svela attraverso sé stessa, come un dettaglio minimo, nell’atteggiamento di chicchessia, che tradisce un aspetto profondo della sua personalità. Può essere parte di una tipica costruzione, della propria apparenza, attenta a ogni minuzia, o dell’inconsapevolezza sbadata, nella fretta che riserva all’atto di vestirsi, il più grande ritardatario; non ha importanza, finché noi non lo notiamo e non lo comprendiamo realmente.

 

A Julio Silva il 23 Agosto 1966

Lavoro molto al Giro del giorno in ottanta mondi, così si chiamerà il libro-collage che uscirà in Messico l’anno prossimo. Niente mi rende più felice che poter contare sui tuoi consigli e sul tuo aiuto per l’elaborazione grafica di quel libro, che sarà una specie di almanacco di testi brevi e molto diversi tra loro, un libro per cronopios. [...] Mi piacerebbe un libro molto arioso, con spazi bianchi da tutte le parti, vignette tra un testo e l’altro, strani disegnetti ai margini, e altre astuzie silviche e cortazariane. L’idea non ti terrorizza troppo, vero?
(Chi scrive i nostri libri, Sur, 2014)

 

Il J. di J.

«Questo libro mi capitò tra le mani trentacinque anni fa ed ebbi subito la sensazione di essere davanti a un libro di istruzioni per arricchire la vita». scrive il maestro Enrico Rava, in un testo intitolato: «Istruzioni per arricchire la vita» contenuto nella bandella de Il giro del giorno dell’edizione Alet del 2006. Anche lui, come Arpaia, racconta il suo primo incontro con questo libro, che lo «spinse, nel 1972, a intitolare il [suo] primo disco Il giro del giorno in 80 mondi».

Questi due libri, in effetti, hanno una caratteristica evidente, sulla pelle proprio: suonano come il lato A e il lato B di un disco jazz di altri tempi. Le pagine sanno del fruscio del vinile sovrastato dagli Hip e gli Square di Lester Young, che, ci dice Rava «altro non sono che i Cronopios e i Famas di Julio».
Il contatto, la comunione tra la letteratura di Julio e la musica nera dei primi anni del novecento è commovente, toccante. Un rapporto simbiotico che percorre tutta la cultura bohème di quegli anni, il dadaismo, le avanguardie.

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Il giro del giorno in ottanta mondi inizia (e potremmo dire: Il giro del giorno e Ultimo round iniziano)con questa dichiarazione, palese, chiara: «Devo al mio omonimo [qui si riferisce a Julio Silva] il titolo di questo libro e a Lester Young la libertà di averlo modificato senza offendere la saga planetaria di Phileas Fogg, Esq.». Questa è una dedica esplicita quanto toccante a Lester Young e a quanto rappresenta effettivamente la musica jazz di quegli anni: la libertà. Affrontare i padri senza il timore reverenziale e classicista che aveva sempre vegliato, fino a quel momento, sull’operare di ogni artista. Non si tratta di prescindere da chi c’è stato prima, si tratta di non averne paura, si tratta di trovare nuove chiavi di lettura, anche riscoprendo certe nostre peculiarità, qualcosa che era stato trascurato, per esempio, da una certa mentalità colonialista, abituata a considerare solo l’analisi e la rielaborazione della cosiddetta «cultura occidentale». Si tratta di rivivere il rito antico africano. Certi ritmi, certe modalità d’esecuzione. L’abbandono e l’estasi, non per forza riferite all’onnipresente dionisiaco. Che poi, chiaramente, ha a che fare con quanto intendiamo per dionisiaco, ma non è dionisiaco. Il jazz è jazz. Libertà e improvvisazione. Non vuol dire nient’altro. Non vuol dire niente. Jazz non significa altro che jazz.

Ne Il giro del giorno in ottanta mondi troviamo brani, come quello dedicato ad Armstrong («Louis, grandissimo cronopio») o quello che racconta di Thelonious Monk («Il giro del piano di Thelonious Monk»), che sono testi che, da soli, valgono più di mille trattati jazz (suggerisce enfaticamente Enrico Rava). Per non parlare della chiusa, delicata e preziosissima, di Ultimo round: «Si può quel che si fa», di cui non dico niente per non rovinarvi la sorpresa, l’emozione della scoperta di un cristallo con all’interno una rosa.
Il jazz di Cortázar si trova nella struttura, in ciò che descrive, nella materia che usa e anche nel modo in cui la tratta. Il jazz è il suo metodo. Le sue scelte lessicali e ritmiche sono evidentemente jazz, non saprei in quale altro modo definirle. Basta leggere le due poesie in verticale, contenute in questi due libri: «Il rogo su cui arde una» e «Non ci sono più speranze di» per sentire, in quelle frasi tronche, monche come certe intuizioni di Miles Davis o di Coltrane, le sonorità di quegli anni, l’ululare di Howlin' Wolf davanti alla luna che illumina il Mississipi.
La tecnica di Cortázar è esattamente la stessa di Lester Young: la stonatura come armonia, l’improvvisazione, l’errore, la mancanza. L’incompleto, l’incerto. L’intuibile, la ricerca incessante di quel qualcosa «dall’altra parte delle cose» che possiamo raggiungere solo rischiando, inoltrandoci nel terreno sconosciuto di quanto ancora non sappiamo. Di quanto nessuno ancora ha fatto o ha visto. La caccia alla balena che nessuno è ancora riuscito a prendere.

In altre parole, la sua aspirazione era quella di donare alla sua prosa il fraseggio argenteo della tromba di Louis Armstrong («Armstrong – dirà lo scrittore nell’intervista – era uno dei miei dèi: i miei dèi appartengono a questo mondo, non ad altri»), la sua frenesia afrodisiaca, il suo discorrere bacchico, voluttuoso: «e poi la fiammata della tromba, il fallo giallo che lacera l’aria e gode avanzando e retrocedendo e verso la fine tre note scendenti, ipnoticamente d’oro puro, una perfetta pausa nella quale tutto lo swing del mondo palpitava in un attimo insopportabile.» [...] è possibile scorgere quella scintilla sciamanica e intimamente rivoluzionaria che, dai racconti «neofantastici» ai contro-romanzi, passando per il suo impegno politico e la sua inquietudine esistenziale e libertaria, caratterizza così profondamente la figura di Julio Cortázar. (Tommaso Menegazzi in L’altra parte)

 

La questione dei cronopios

«A quei tempi, avevo già letto quasi tutto Cortázar ed ero forse molto più cronopio di quanto lo sia adesso. Perciò fu semplicissimo entrare in quell’universo percorso da nessi apparentemente casuali, da accostamenti improvvisi e insoliti, eppure retto da una logica implacabile che teneva insieme racconti, poesie, saggi letterari e politici, fotografie, quadri, disegni, musiche, ritagli di giornale [...] ancora oggi mi aiuta a restare almeno un po’ cronopio, capace di guardare il mondo senza certezze cartesiane e di scoprire l’altra realtà, ludica e terribile, magica, barbara e cerimoniale, che solo i nostri paraocchi razionalistici ci impediscono di vedere». (dalla bandella di Ultimo Round) Cosa sono i cronopios? In tanti hanno provato a rispondere a questa domanda. Io credo che questa sia proprio una domanda da famas, una domanda che un cronopio non si fa e non dovrebbe mai farsi a un cronopio. A questa domanda Julio risponderebbe così: «con me il problema, come avrai già capito, è che quando mi si chiede qualche spiegazione è tempo perso, perché per me è molto difficile spigare delle cose che nemmeno io riesco a spiegare» (L’altra parte) raccontando, successivamente, il momento del concepimento dell’idea dei cronopios, come un’esperienza mistica, in cui degli esserini, i cronopios appunto, fluttuavano nell’aria, in un immenso teatro degli Champs Elysee, al termine di una serata in onore di Igor Stavinskji. Julio, rimasto solo, vede dei «personaggi indefinibili, come dei palloncini, che a [lui] sembravano verdi, molto comici, divertenti e amichevoli». Un cronopio è un cronopio, non è un semplice scellerato, un distratto, uno sbadato con la testa rivolta sempre al cielo. Un cronopio è un cronopio. Spiegare cosa sia un cronopio sarebbe come spiegare cos’è la magia (o il jazz, appunto). Si potrebbero scrivere e si sono scritti moltissimi libri, trattati antropologici e ricerche scientifiche sull’argomento, è vero. Si è voluto anche svalutare, nel tempo, il concetto di magia – come quello di cronopios – cercando d’incasellarlo in uno schema di stampo razionalistico e scientifico. Eppure, resiste – la magia e i cronopios, e il gioco, per fortuna ­– perché non può essere considerata in quelle stesse categorie, per cui, se ne svincola ed esiste lo stesso, volteggiando nell’aria quando uno sciamano, come Julio, ha una visione estatica. Ecco, i cronopios sono una visione allucinogena durante un rituale sciamanico. Possiamo provare a spiegarla, ma ne risulterà sempre limitata. Bisogna vederla per capire davvero cosa s’intende, cosa sono i cronopios.
In ogni caso, una spiegazione razionale molto completa ed esaustiva la da Italo Calvino, nella sua introduzione a Storie di cronopios e di famas. Anche se, io credo che Julio non avrebbe gradito, perché forse bisognerebbe solo tacere sull’argomento, o inventare un’altra storia che finisca con Calvino che fa qualcosa di stravagante, per dargli l’aria da cronopio che avrebbe sempre voluto avere.
Ve la riporto per correttezza. Ma vi avverto: un cronopio si fiderebbe di me e la salterebbe a piè pari.

«Dire che i cronopios sono l’intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, e che i famas sono l’ordine, la razionalità, l’efficienza, sarebbe impoverire di molto, imprigionandole in definizioni teoriche, la ricchezza psicologica e l’autonomia morale del loro universo. Cronopios e famas possono essere definiti solo dall’insieme dei loro comportamenti. I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi, che bevono la virtù a cucchiaiate col risultato di riconoscersi l’un l’altro carichi di vizi, che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; se sono dirigenti della radio argentina fanno tradurre tutte le trasmissioni in rumeno; se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l’illusione della velocità».

 

La poesia è un gioco

A Francisco Porrùa
Parigi, 21 gennaio 1967

Sono contento di ciò che mi dici sul Giro del giorno, che è lungi dall’essere un libro «importante» ma al contrario contiene, credo, molte pagine divertenti.
Chi scrive i nostri libri, Sur, 2014

 

Julio considerava Il giro del giorno e Ultimo round come dei giochi. In un modo tutto suo, però. Come tutto, nel mondo di Julio. Nel gioco del mondo di Julio. L’inversione dei valori, nei suoi libri e nella sua prosa (intendo proprio tecnicamente parlando), è il gioco principale, la regola assoluta. Tutto ciò che è tremendamente profondo, viene alleggerito per arrivare in superficie. E quanto appare frivolo viene caricato di significato per scintillare come il dettaglio, sul fondo, che tutto spiega, con la limpidezza del respiro meditativo: l’attenzione per le cose piccole ed essenziali: l’aria che entra ed esce dalla bocca, attraversandoci.
E, se questo è vero, l’impressione che Julio considerasse questi due libri come opere minori, di raccolta, giochetti facili, è del tutto falsa. In questi volumi troviamo alcune delle riflessioni più importanti di Cortázar su qualsiasi cosa, e specialmente sulla poesia, sull’arte, sulla letteratura.
Come il lungo saggio che Julio dedica a un libro fondamentale, che Cortázar amava, Paradiso («Per arrivare a Lezama Lima» da Il giro del giorno). Oppure il bellissimo omaggio che fa a Borges («The smiler with the knife under the cloak»), che è anch’esso un insieme di frammenti. E ancora il testo – fondamentale per ogni scrittore e lettore, soprattutto di racconti – che era già apparso in Bestiario (Einaudi): «Del racconto breve e dintorni», che è diventato un po’ un manifesto letterario di un certo modo di concepire la misura breve in narrativa, di concepire il racconto, el cuento, di cui Julio (e questo mi riporta sempre a Borges) è considerato maestro indiscusso ed eroico pioniere.  Mi sembra bello, in questa sede, leggerne un estratto ­– a mio parere molto significativo rispetto al discorso che sto cercando di portare avanti – insieme:

«Ogni volta che mi è toccato rivedere la traduzione di un mio racconto (o tentare quella di altri autori, come nel caso di Poe), ho sentito quanto l’efficacia e il senso del racconto dipendessero da quei valori che danno alla poesia e al jazz il loro carattere specifico: la tensione, il ritmo, la pulsazione interna, l’imprevisto dentro parametri pre-visti, quella librerà fatale che non ammette alterazione senza una perdita irreparabile. I racconti di questo tipo rimangono come cicatrici indelebili nel corpo di ogni lettore che li meriti: sono creature viventi, organismi completi, cicli chiusi, e respirano». 

In questi due libri c’è il jazz, la letteratura, il gioco, c’è la boxe, ci sono i viaggi, il tempo, le cose intime e quelle che devono essere di tutti.

Ci sono tante poesie, quelle che Julio aveva sempre considerato troppo personali per la pubblicazione. E c’è tantissima sperimentazione. C’è della poesia visiva, diremmo oggi. Ci sono dei giochi, direbbe Julio, come il brano «Poesia permutante» (da Ultimo Round) dove l’autore mette insieme dei componimenti i cui versi possono essere letti in qualsiasi ordine, creando molteplici possibilità. Di nuovo: i frammenti, la libertà. Queste poesie multiformi sono precedute da un brano che, come fossero istruzioni per l’uso, spiega il processo e le modalità di fruizione dei testi. Con una spaventosa ironia, quasi prendendosi in giro da solo.
L’autoironia, a mio modo di vedere, è una delle più grandi possibilità di autoanalisi. Imparare a non prendersi troppo sul serio per ritrovare una serietà più profonda, che vada aldilà.
«Dico giochi con la serietà che hanno i bambini quando pronunciano questa parola. Ogni poesia degna di questo nome è un gioco» scrive, sempre in Ultimo round.
Il gioco di Cortázar, direbbero i famas, si avvicina al paignon platonico. No, il gioco, in Cortázar, trascende la discussione filosofica. Nemmeno la affronta, nemmeno la vede: lo sa. Esattamente come i bambini: d’istinto. I bambini sanno già cos’è il gioco, giocando. Sanno che «niente è più rigoroso di un gioco; quando giocano con un aquilone o ai quattro cantoni, i bambini rispettano le regole con una diligenza che non riservano a quelle grammaticali». (da Ultimo Round) Come uno stregone sa che niente è più rigoroso e serio del rituale magico. In questo senso la poesia è un gioco. La letteratura è un gioco. La vita è un gioco. In un’equazione mistica che raggiunge la penna di Cortázar e fa questo concetto parola. Lui, forse più di ogni altro, ci ha insegnato a sovvertire le regole grammaticali per seguire quelle del suo gioco: la Rayuela, ovvero Il gioco del mondo. Fino alla Fine del gioco, come se non ci fosse niente di più importante e rigoroso.

Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round sono tra gli esempi più estremi della  macchina creativa cortazariana. Non seguono le regole usuali, eppure hanno una struttura, fatta di corrispondenze improbabili, che risulta impeccabile. I brani fluttuano l’uno accanto all’altro cronopicamente, senza una ragione precisa e nell’unico ordine possibile: quello giusto.
Stanno insieme per magia, come gl’amanti. Eh sì, sono anche romantici i cronopios. Disperati e romantici, da far schifo. Bevono, i cronopios. Sbadigliano e inventano macchine per leggere romanzi smontabili che parlano di ogni cosa in ordine sparso, in ordine di cuore. Cercano una cura, i cronopios.
Infatti, i libri di Julio sono intrugli stregoneschi che servono a guarire. Sono per gli altri i libri di Julio. «Istruzioni per arricchire la vita». Costellazioni di cose che stanno dall’altra parte delle cose. Manuali per cronopios, senza capo né coda, tutto unito nell’ordine, apparentemente casuale, in cui si configura l’universo intero. Sono come i tarocchi: una macchina filosofica in grado di leggere le trame del cosmo, che però si basa sull’intuizione e sulla capacità di sentire e interpretare del consultante (nella prosa di Julio però, questa frase avrebbe l’accento su quanto suoni ridicola, con la grande autoironia che io non possiedo).
Il giro del giorno e Ultimo round sono libri preziosi e imprescindibili, che ci ricordano di quando eravamo bambini e di quando eravamo cronopios; che ci dimostrano, di nuovo che esiste la magia, che esiste l’anima; che c’insegnano a guardare con gli occhi di Van Gogh. Che ci sussurrano ancora, dal regno dei morti, che c’è «un’anima che combatte per farsi anima tua». Questi due libri sono un messaggio importante per tutti i cronopios: non smettiamo mai di cercare.

«Se, tra le cose che ho scritto, qualcuna è servita per mostrare l’altro lato delle cose ai miei lettori e ai miei amici, è facile intuire che ciò costituirebbe la più grande ricompensa cui possa ambire. Personalmente continuo ad avvertire la presenza di qualcosa che si trova dall’altra parte delle cose, per questo non smetterò mai di cercare».
(L’altra parte)