Da 'Gli estinti', un testo di Donato Novellini

ctrl_v3_post_01-scaled-e1619528828379.jpg

Ne “Gli estinti” si trovano storie vere di persone e luoghi appartati o ribaltati, testimoni di un passato che non passa, profeti di un futuro che forse non sarà, nascosti anche quando ci stanno sotto gli occhi, violenti, fossili, dolci, sognanti, contraddittori.

Un indipendentista veneto; il toscano che ha ucciso Van Damme; l’asfalto di Bolzano, il cemento armato di Livorno, il petrolchimico di Siracusa. Lara Croft. Roma. Una piccola Italia (fallita) sul Pacifico. Un monaco pazzo. I dispersi. Gli alberi genealogici. Una medium, che parla coi defunti e, per lavoro, si occupa di accessibilità dei siti web per le persone non vedenti.

Segnali di vita, in mezzo alla vita sospesa.

Cattedrale vi propone il testo di Donato Novellini

*

Velocipede
di Donato Novellini

Paolo, si chiama così il vecchio misterioso e quando l’ho scoperto sono rimasto leggermente deluso perché ci avevo costruito sopra una storia monastica. Mi sarei aspettato quantomeno un Francesco, un Bonaventura, Bernardo, magari Giacomo o al limite Rocco (santi patroni dei pellegrini), congetture mie, voli pindarici, romanzate suggestioni da Il nome della rosa. Maggiormente rimasi stupito quando mio padre, che lo conosce bene, aggiunse il cognome: Bresciani, inequivocabilmente quello di una ricca dinastia di farmacisti del luogo. Blasone di caduceo ermetico, stemmi araldici appesi al caminetto, quattrini. Quando e dove nacque in me tanta curiosità per quell’uomo è presto detto; sarà stato il 2010 e al paesello, nella bassa lombarda, mi gingillavo come redento nella più amena mondanità. A quel tempo ne avevo le tasche piene di libri filosofici e film esistenzialisti, civette ragnatele e rituali esoterici, anzi proprio grazie a quei labirinti traditi compresi le virtù della superficialità, il famelico giganteggiare dell’ignoranza: più si legge meno si sa. Fu così che una sera d’estate uscii, dalla buia tana dove m’ero rinchiuso – mesi o forse anni dedicati al misticismo domestico – per fare una passeggiata all’aria aperta; come un astronauta, atterrato esattamente dov’era partito dopo un viaggio a vuoto, ritrovai i vecchi amici al bar – s’erano mai mossi da lì – e spontaneamente attaccammo a bagolare d’inezie, fumando e bevendo spritz Campari. Divenne piacevole abitudine quella dell’aperitivo tardo pomeridiano, siesta messicana nel plateatico fronte-strada cinto da vasi in granito, con le siepi rinsecchite e gli ombrelloni serigrafati Algida. Si guardava passare macchine e motorette pettegolando di minuzie locali, della gente a fine lavoro che stancamente tornava a casa, indolente traffico paesano delle 19.00. Una di quelle serate estive mi soffermai più del dovuto ad osservare il transito lento di una bicicletta arrugginita, sulla quale pedalava ricurvo un vecchio canuto. A colpirmi fu l’imponenza della figura, soprattutto il saio marrone scuro, come quello dai frati cinto in vita con una corda, nel quale era infagottata; ma anche i portapacchi anteriore e posteriore, sui quali, tra libri stretti dallo spago e altre cianfrusaglie indistinguibili, spiccava una grossa lanterna a petrolio. Una bicicletta che assomigliava ad un asino. Diogene, oppure un viaggiatore, rabdomante della notte.
La visione m’astrasse dai discorsi a tavolino, riflettei sul fatto che quella figura non mi era completamente ignota, fuoriusciva da qualche parte oscura della visuale, esulava dal solito paesaggio, come un’immagine ricorsiva e seppure misconosciuta mnemonicamente, restava in qualche modo collocata nella retina, in ciò che si vede ma non si guarda. Il sospetto d’essere visti, pupille invase da un profeta cieco. Chiesi lumi ai compari e quelli all’unisono sentenziarono, scuotendo il capo: «Quello è matto». Tutti ghignarono, con la forza balorda e crudele del gruppo al cospetto del solitario. Pavidamente tacqui. Cagnara da bar. Eppure, di lì a qualche giorno, accadde qualcosa di buffo tra noi: nel gruppo WhatsApp della compagnia presero a circolare foto o brevi video che ritraevano il cosiddetto Monaco pazzo in sella alla sua bicicletta, in vari luoghi della campagna mantovana e cremonese; spontaneamente ognuno di noi si sentì in dovere di condividere quell’apparizione casuale, con didascalie via via sempre meno canzonatorie, piuttosto come se l’epifania servisse a giustificare piccoli eventi fatali del quotidiano, come se vi fosse una sorta di nesso con altre strane coincidenze: “Avvistamento! L’ho beccato oggi pomeriggio, alle 17.17 ed oggi è il 17 del mese!”, così ci affezionammo a lui.

 

Tant’è che, qualche anno più tardi, quando presi la balzana decisione di partire per un pellegrinaggio di 2000 km a piedi, da Lourdes alla Galizia fino alle scogliere della terra continentale, fu a Paolo che mi ispirai. Equivocando probabilmente, giacché quei suoi spostamenti su due ruote non avevano natura spirituale, bensì più prosaicamente, senza telefono e automobile, affrontati per inderogabili commissioni, per approvvigionarsi del necessario. Prima di partire per quel lungo viaggio ebbi modo d’incrociarlo, cercai maldestramente di fermarlo per annunciargli la mia decisione, auspicando una legittimazione al viatico, ma egli tirò dritto sorridendo. Seppi poi che osservava una sorta di calendario del silenzio, potevano passare mesi senza che proferisse parola.

 

Sempre più incuriosito chiesi ulteriori delucidazioni a mio padre, il quale annaspando nella memoria cavò fuori un ritratto che lì per lì mi parve assai romanzato, ma avendolo registrato posso riportarlo fedelmente: «Paolo mi ha raccontato di essere originario di una zona non meglio definita nei pressi di Brescia (dato il cognome probabilmente una delle famiglie autoctone o comunque molto antiche). In effetti molti alberi genealogici della nostra zona sono originari di là, forse dall’epoca della peste del 1300, quando qua era borgo franco e si dava ospitalità a sfollati, spesso delinquenti... Torniamo a Paolo, contemporaneamente sosteneva d’essere discendente di Pico della Mirandola, ma non so fino a che punto possa essere affidabile questa affermazione, perché in effetti la sua dimora signorile è la stessa appartenuta alla famiglia dei Pico, notoriamente imparentati coi Gonzaga, ma fu acquistata dai Bresciani molto dopo. È la casa più grande del paese, l’ingresso principale è più o meno in una via vicina alla zona delle valli paludose, ma poi si estende fino all’imbocco dell’argine che dà sul ponte della bonifica; era usata dai Gonzaga come luogo di villeggiatura estivo, da qui la storia del “pozzo dei tagli” ossia una sorta di buca nel terreno, dove il Marchese Gianfrancesco avrebbe gettato i cadaveri delle sue amanti locali, ma non so, ci si chiede il perché avrebbe dovuto farlo, visto che era consuetudine dei signori avere delle dame di compagnia. Altra leggenda, alla quale Paolo certamente crede, è quella relativa al tunnel sotterraneo che avrebbe unito casa sua con l’Oratorio di S. Pietro, antica pieve romanica. Questa è assai più verosimile, non solo perché è risaputo l’uso di cunicoli per far fuggire i Signori in caso di pericolo, ma anche perché negli anni Sessanta una famiglia di allevatori perse una vacca. Avevano le bestie libere al pascolo, giù dall’argine, ad un certo punto gli allevatori udirono muggire disperatamente, la terra aveva ceduto e la bestia era sprofondata in una fossa, che poi si scoprì essere un lungo cunicolo; per paura che i bambini del paese cadessero dentro l’ingresso fu bloccato con una colata di cemento e ricoperto nuovamente di terra. Paolo s’era convinto (per certi suoi “studi”, come dice lui) che l’ingresso del cunicolo si trovasse nell’androne principale di casa sua, perciò i marocchini e negri che vivevano da lui – sempre avuto gente del genere in casa negli ultimi anni, che faceva sgobbare in cambio di vitto e alloggio , un po’ come il Bert[1] ma senza fini economici o di altra natura – si misero a rompere, sotto sua istruzione, il pavimento d’ingresso, aprendo voragini per scoprire appunto questo fantomatico ingresso, ma non so se l’abbiano mai trovato».

 

Affascinato dal resoconto paterno raccattai altre informazioni in giro. Delle varie opzioni per la missione investigativa scartai subito la parrocchia dopo che il prete, visibilmente contrariato, definì Paolo “una pecorella smarrita”. Assai meglio andò in coda alle Poste, nella sala d'attesa dell'ambulatorio medico, al minimarket, dal barbiere. In quelle enclavi del pettegolezzo, covi delle più funamboliche dicerie, gettai coll'atteggiamento dello sprovveduto le mie esche estorsive; vaghe constatazioni sul meteo – «han messo pioggia, chissà se quel vagabondo che gira sempre in bicicletta se la caverà» – rivolte alla massaia in coda e al pensionato con gli incartamenti in mano. Così, semplicemente lasciando discorrere la gente, venni a sapere che Paolo ha una sorella e un fratello, emigrati in città, ha studiato Veterinaria (pare non si sia mai laureato) fino a quando ha deciso di cambiare totalmente stile di vita, probabilmente radicalizzando certe predisposizioni, seguendo le orme di Francesco; alcuni dicono in seguito ad una forte febbre che gli avrebbe preso un po’ la testa, altri invece sostengono a causa di un amore perduto, ma qui si entra in una mitologia piuttosto nebulosa. Cercando di fare la tara fra detrattori («è impazzito») e apologeti («un sant'uomo»), scopro anche che è vegetariano da molto prima che diventasse moda. Sempre annotando le cronache del gazzettino paesano: fino ad un paio d’anni fa abitava solo nella casa familiare ma nonostante il cospicuo patrimonio viveva in povertà, con il suo gregge di pecoroni – animali che gli avrebbero creato alcuni guai negli anni della vecchiaia – che portava al pascolo traversando il paese come un pastore sceso dai monti o proveniente da un altro tempo. Una volta gliene sfuggì uno, di quei montoni, mentre per la via principale transitava una mesta processione funebre; la bestia prese di mira il corteo generando gran trambusto, due o tre persone rimasero contuse cadendo nella fuga precipitosa. In seguito a quell’episodio, come a voler dimostrare alla comunità che l’animale s’era ravveduto, Paolo presenziò a tutti i cortei diretti al camposanto, standosene però in disparte, immobile col caprone nero a fianco divenuto mansueto. Quella presenza ieratica, simile a una visione fiamminga, suscitò dapprima inquietudine, poi la gente ci fece l’abitudine considerandola in qualche modo parte del rituale. Forse per questo motivo il parroco non ha voluto raccontarmi niente su di lui, cianciando genericamente di pecora smarrita, mica era una metafora. E poi, parere unanime in paese, gatti tantissimi gatti, tutti quelli che trovava e anche quelli che avevano già una dimora, perché una delle sue fisse era il randagismo, perciò aveva in casa questa enorme colonia di mici che però, nonostante ne avesse le capacità, non voleva sterilizzare (forse per questioni religiose), perciò divideva in camere separate i maschi dalle femmine, nutrendoli amorevolmente con piselli cotti e ricotta. Quando qualcuno smarriva il gatto, s’andava da Paolo, glielo si descriveva bene, lui negava di averlo mai visto, ma un paio di giorni dopo il gatto rientrava magicamente a casa. Era la prassi. Gatto smarrito, Bresciani.

 

Altra sua ossessione esoterica era quella del colore nero, forse mutuata dalla nigredo putrefatta dell'opera alchemica, che sarebbe una sorta di manifestazione del maligno, perciò al negozio di alimentari apriva l’uscio, poggiando la sua manona unta di feci caprine sul vetro piuttosto di toccare la maniglia nera della porta. La titolare sostiene che non entrava mai a fare la spesa. Spingeva la porta e appoggiava una sorta di sportina di vimini intrecciato con all’interno un bigliettino di carta, scritto a matita cancellato riscritto cancellato riportante dei rebus o delle parole crociate di sua invenzione, enigmi che la stessa bottegaia doveva risolvere per potergli preparare il necessario; in serata sarebbe poi passato a ritirare la cesta piena di vivande, che per ore se ne stava a terra fuori davanti all'ingresso del negozio; nessuno ha mai rubato niente da lì, anche perché il contenitore puzzava di caprone e spesso all’interno si notavano delle palline nere che non erano praline di cioccolata. La sua spesa tipica consisteva in candele, ricotta o formaggini morbidi, pane, latte, legumi in scatola, piselli, fagioli e ceci. Con tutti quegli ovini in casa ci si sarebbe potuto aspettare da lui una produzione autarchica di latticini, invece nulla, probabilmente non era attrezzato per l'attività di casaro. Con la lana però si dava molto da fare, tosando con vecchie cesoie e arrotolando il vello in sacchi, per omaggiare qualcuno degno della sua gratitudine; doni che tuttavia, in epoca di piumoni pronti all’uso, venivano accolti dai beneficiari con una certa perplessità. Non aveva corrente elettrica in casa (perciò le candele) e si scaldava con la stufa a legna, si lavava in giardino con la canna dell’acqua che era collegata al pozzo, d’estate e d’inverno; in piedi, completamente nudo, lo si poteva facilmente vedere dalle finestre attigue, visto che mezzo paese ruota attorno al perimetro dei suoi possedimenti. Non indossava biancheria intima, solo il saio e una giubba screpolata imbottita di penna d’oca d’inverno. Sandali ai piedi o un tipo di strane scarpe chiuse a stivaletto d’inverno.
Dotato di un carisma sciamanico, circonfuso da un’aura ancestrale, Paolo era anche un gran esperto di erbe e medicamenti officinali. Ha curato le bestie di mezzo paese per una vita intera, difficile chiamare un veterinario con Bresciani in giro, anche perché era bravo, dotato di un’intelligenza brillante e intuitiva; non gli mancavano neppure ricette di decotti e tisane per malanni e dolori umani. Omeopata, dedurremmo oggi, ma egli probabilmente non apprezzerebbe il termine. Si dice non abbia mai visto un dottore, fino alla mezza gangrena del suo piede destro che poi lo ha portato alla casa di riposo dove tuttora risiede, perché non stava più in piedi. Fu a seguito di un incidente domestico, trauma che lo costrinse a malincuore a rivolgersi alla sorella. Praticamente, non si sa bene come, mentre stava coi pecoroni al pascolo un montone lo caricò e lui, cadendo, si fece del male; aveva di certo passato i 75 anni, a modo suo sempre lucido di mente ma non più autosufficiente per sostenere una vita medievale catapultata ai giorni nostri; durante la difficoltosa permanenza in ospedale (che si prolungò perché i dottori lo trovarono denutrito e in pessime condizioni) il fratello e la sorella vendettero a sua insaputa tutte le pecore; quando Paolo tornò a casa ci rimase molto male e se ne lamentò coi pochi che lo andarono a trovare, anche se effettivamente erano diventate bestie pericolose per lui, che ormai camminava a stento. Non lo vedemmo più in giro, di lì a poco la destinazione irreversibile prese la forma ergonomica di una sedia a rotelle, all’ospizio.

 

Paolo mi è tornato in mente recentemente, andando al lavoro la mattina presto, in tempi di nebbie e gelo, nell’ora in cui il buio si trasforma in grigiore diffuso. Per strada, in macchina sulla provinciale, si possono notare a destra, tra fossi e carreggiata, gruppetti di stranieri in bicicletta, qualcuno anche a piedi con giubbotto catarifrangente, lavoratori del settore vivaistico, oppure bergamini diretti alle stalle, nelle grandi cascine lontane dai centri abitati. Uno di quei pendolari su due ruote è il pakistano della stazione di servizio, dove settimanalmente mi fermo per fare il pieno di GPL: procede solitario, a rilento in sella ad una Graziella troppo piccola e stretto dentro un giaccone sintetico color grigio metallizzato. Con la dovuta flemma è diretto al gabbiotto di lamiera, alla sua cella da benzinaio riscaldata da una stufetta a cherosene, posta in un angolo della grande spianata di cemento. Gran regno di pompe, erogatori e spazzole per autolavaggio, sagrato oleoso sormontato da scatole luminose serigrafate Total. Cascasse il mondo, alle sei e mezza del mattino le nostre strade s'incrociano sempre nello stesso punto, nei pressi di un cartello stradale triangolare biancorosso, segnalante pericolo caprioli stambecchi cervi daini. Transiti selvaggi in pianura padana. Tre anni ormai che faccio rifornimento da lui e s'è mai scambiata una parola, a parte frettolosi saluti, perché sta sempre a parlare al telefono, anzi all'auricolare, in vivavoce nel suo misterioso idioma. Al di qua del finestrino, nell'abitacolo, talvolta pare di intuire una parola italiana, un vago quesito posto al conducente, ma poi niente, l'olivastro in salopette scuote il capo, come a dire che il suo mantra intercontinentale non mi riguarda. Associazioni mentali e nulla più mi riportano a Paolo. Riapparso sotto mentite spoglie, come un fantasma nelle trasposizioni stradali, il monaco pazzo resta tuttavia recluso all’ospizio, prigionia alla quale deve aver ceduto dopo strenua resistenza. Sento il bisogno di incontrarlo, di udire una sua parola in grado di assecondare o confutare i miei teoremi, sicché spinto da nostalgia per l’immagine scomparsa, ricurva e schiva, come fosse un santino semovente impresso nella memoria, con improvvisato colpo di matto decido di andarlo a trovare presso la residenza sanitaria assistenziale, dov’è rinchiuso.

 

L’impresa però si rivela da subito fallimentare. Tempo di ascoltare la risposta sbrigativa di una infermiera al citofono: «A causa della pandemia tutte le visite di amici e parenti sono rigorosamente interdette». Fuori dalle alte lance appuntite del cancello, osservo il parco della villa ottocentesca adibita a ricovero per anziani; tappeto di foglie gialle e marroni, alberi nudi neri, sentieri di ghiaia, panchine vuote, al centro il busto in marmo del filantropo fondatore dell’opera di carità, con barba tuba e monocolo, scruta pensoso col mento appoggiato alla mano, il panorama fradicio dal quale salgono vapori: gli spettri delle suore della provvidenza, immagino fantasticando. Aspetto lì davanti, qualcuno prima o poi dovrà uscire.
Difatti dopo pochi minuti riesco a fermare al volo una giovane ragazza, bionda, pallida, carina. Straniera? Slava? Stanca. S’appiccia una sigaretta infreddolita, lasciandosi il cancello alle spalle. Smonta certamente dal turno di notte. «Scusa posso offrirti un caffè? Vorrei sapere come sta un ospite». Accetta con un cenno del capo, nonostante il sonno che palesemente la affligge. Sotto i portici, fuori da un bar poco distante, coi bicchierini di carta in mano, chiedo di Paolo Bresciani e lei, dopo lo scetticismo iniziale, si apre trasformando l’eloquio fin lì monosillabico in un fiume in piena: «Qua al ricovero all’inizio fu un po’ dura, non si faceva lavare o spogliare volentieri, ma coll’andare del tempo di qualcuno prese a fidarsi. Sempre gentile Paolo, con un’ottima padronanza di linguaggio anche se molti suoi termini risultano un po’ antichi, diciamo così, tipo quando si metteva a parlare da solo riguardo alle teorie del flogisto. Cerca sempre di fare tutto da sé, solo in caso d'urgenza chiede aiuto, ma non bisogna imporgli nulla. Spesso domanda la natura dei farmaci che gli vengono somministrati, talvolta esprime obiezioni, allora si chiama il medico per certe trattative, visto che vuole scegliere quali prendere a seconda delle sue auto-diagnosi; quando è obbligato a prendere tutte le medicine prescritte dalle infermiere, inizialmente fa buon viso a cattivo gioco, sostenendo di non voler essere guardato mente le ingolla. Perché altrimenti s’inibisce, dice. Difatti, puntualmente, noi OSS troviamo poi le pasticche disseminate nel letto e ci premuriamo di gettarle via; con sua somma soddisfazione visto che non gli sfugge niente, anche se molto silenzioso sorride spesso o ammicca al momento giusto, soprattutto quando scorge complicità da parte del personale».

 

Sta ancora mescolando lo zucchero nel caffè da asporto, l’operatrice sanitaria, quando le faccio notare con pedanteria che potrebbe essersi già raffreddato. Fumiamo una sigaretta, qualche minuto di silenzio, poi riprende: «Ora Il suo pensiero è lievemente rallentato dai farmaci o forse dall’età, ma quando si trova a dover discutere con qualcuno perché non vuole fare qualcosa o robe del tipo mettersi le scarpe, fa uscire con poche parole un’ironia pungente che sì e no certe colleghe colgono, poi però, come per le medicine, lascia correre e si fa vestire. Tanto di lì a pochi minuti si leva da solo gli indumenti che lo infastidiscono. Paolo non partecipa mai alle attività di animazione tipo la tombola o le feste di compleanno comuni degli ospiti, anzi i canti e gli schiamazzi lo infastidiscono; solitamente passa la giornata a leggere, con la sua lente d’ingrandimento, la Bibbia in un’edizione francese perché sostiene essere la traduzione migliore; anche ad alta voce non solo nella mente come di chi studia o medita, tant’è questa sua prassi non disturba nessuno. Da quando è entrato in struttura sta accanto ad una vecchietta, una tipa fuori di testa, afflitta da demenza senile avanzata, condizione che la porta a crisi depressive terribili, piange tutto il giorno e rifiuta il cibo. Be’, Paolo che gli stava vicino anche in refettorio, prima della pandemia, era l’unico che riusciva a tranquillizzarla e a farla mangiare. Ora devi immaginartelo questo omone, altissimo, tutto ricurvo sulla sedia a rotelle, che ha perso l’uso della sinistra, oltre a patire una lateroflessione a destra, controlla discretamente solo la mano destra, con la quale mangia, si versa da bere, regge la lente per leggere, insomma tutto con quell’arto. Prima delle disposizioni per il distanziamento era uno spasso osservarlo a pranzo, mentre fissava la tipa depressa senza dire una mezza parola, imboccandola delicatamente con la sua forchetta, facendo a metà del formaggio e della sua razione di mela cotta. Tieni conto che alla signora veniva somministrato il cosiddetto piatto unico (sorta di pappone omogeneizzato) perché non masticava e faceva girare il cibo in bocca per ore; ecco, con lui stava zitta e si mangiava tutto».

 

La ragazza, di colpo come ridestata dal flusso spontaneo del suo stesso racconto, mi guarda ora con un velo di sospetto negli occhi; effettivamente nemmeno ci siamo presentati, è bastato fare il nome di Paolo Bresciani per portarla a rivelare un sacco di informazioni riservate, i cosiddetti dati sensibili. Anticipo quindi prevedibili obiezioni e imminenti scrupoli tendendole la mano, presentandomi nel ruolo di pronipote. Ella, pur non pienamente convinta, adducendo a giustificazione il desiderio di tornare a casa dopo il turno notturno, conclude frettolosamente il suo monologo: «Paolo, pur a suo modo devoto, non ha mai partecipato alle messe nella cappella del ricovero, quando glielo si proponeva scuoteva la testa e poi sogghignava luciferino, con atteggiamento di sufficienza. Ma la sera prima di dormire cercava sempre, immancabilmente, il volontario M. per parlare di cose loro e pregare un po’, tipo quei 10 minuti prima di mettersi a letto. Talvolta li vedo bisbigliare, fitto fitto all’orecchio, teoremi segreti confessioni, chissà. Questo signore, molto legato a Paolo, è un ex gran puttaniere che di colpo ha avuto una sorta di illuminazione e ora, seppur non abbia mai preso i voti, sta tutto il giorno a sgranare un rosario e a pregare, oppure a fare volontariato per gli anziani in casa di riposo e in generale dove c’è bisogno. Cercalo, se vuoi sapere cose più precise di Paolo, ammesso sia veramente tuo zio. Altro da dirti non ho, ora devi scusarmi ma devo veramente andare». Scompare lesta sotto l’ombrello giallo, macchia di colore sempre più fioca inghiottita dal viale brumoso, lasciandomi in balia di altre domande, destinate a non trovare risposta.

 

Nevica da ore, sotto le coperte lo si può intuire dal silenzio magico e da una luce diversa che filtra da fuori, percepibile ancora prima di aprire le imposte. Così al mattino il solito tetro paesaggio di pianura, spettralmente decolorato nelle tonalità del grigio fradicio, si risveglia beato, si trasfigura lasciando al candore uniforme l'effimero compito di nascondere o inventare nuove rotte: quando tutto è indistintamente bianco, importa forse più la destinazione del tragitto cancellato dai fiocchi? Domanda oziosa epperò bastevole a spingermi fuori. M'incammino inebriato dall'albedo ovattato, per la via deserta, in direzione dell'abitazione di Paolo. Cassetta della posta satura di pubblicità, due grifoni marmorei sui pilastri montano la guardia al cancello dell'entrata principale, chiuso con catena e lucchetto; costeggio quindi il lungo muro di cinta giungendo sul retro, nel lato che dà sulla campagna imbiancata. Qui tra rovi e sterpaglie c'è il vecchio letamaio, accanto ad una porta completamente marcia, difatti forzando l'uscio il legno si sbriciola e mi resta in mano il catenaccio. Varcata la soglia mi ritrovo sotto una barchessa, da un lato della grande corte quadrangolare. A destra l'imponente magione, facciata settecentesca, al cui ingresso soprelevato si accede da due scalinate ricurve, abbellite da eleganti balaustre in ferro battuto. Mi guardo attorno spaesato, il sagrato innevato, abbacinante, contrasta coi colori giallastri della paglia che calpesto, col marrone delle travi che mi sovrastano. Tutto attorno è vuoto, sgombro, ripulito come se dovesse passare in visita qualcuno dell'agenzia immobiliare. Nulla, so nemmeno perché sono capitato qui e cosa mai pensavo di trovare, entrando furtivamente in una casa abbandonata da anni. Tornando deluso sui miei passi per guadagnare l'uscita noto, in un angolo coperta di ragnatele, la bicicletta di Paolo. Quella vecchia ferraglia dalle ruote sgonfie, buttata là contro il muro, conserva ancora intatto il suo carico: la lanterna a petrolio, sulla quale la polvere si è impastata coll'unto, ma soprattutto libri e taccuini accumulati sul portapacchi. In cima alla pila stanno i Pensieri di Blaise Pascal, edizione francese anni Trenta. Lo apro e, sfogliando le pagine ingiallite, tutte bucherellate, prendo atto del corrosivo quanto costante lavorio dei topi. “Les bêtes ne s’admirent point. Un cheval n’admire point son compagnon” sta scritto e sottolineato col lapis. Dai piccoli diari rilegati in pelle, invece, ben poco riesco a decifrare: alcuni numeri, astrusità pitagoriche, simboli schematici varianti della croce e una grafia minuscola sulla quale l'umidità – gonfiando la materia – ha sbrodolato le sue nebulose colature, macchiando la carta con informi pozze d'inchiostro, lasciandomi di conseguenza cieco di fronte alla grammatica delle cancellature, alla censura delle leggi del tempo.


[1] Bert è l’“Alieno della porta accanto”: la sua storia è raccontata ne Gli ultrauomini, il primo libro della Trilogia normalissima.