Topografia dell’opera di Martin Pollack

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di Andrea Cafarella


Ormai sono passati lunghi anni
da quando affermavo con certezza che esiste una sola persona
dalla quale ci si può veramente allontanare, andar via,
che si può veramente abbandonare. Ma non è facile.

 Sylvie Richterová

Spesso mi viene da dire che non mi interessano le storie – o le trame, quando si parla di narrativa. E questo è vero e non è vero.
Di sicuro mi interessa molto di più come viene raccontata una storia, sia essa di fantasia o tratta dalla “realtà”; differenza che mi sembra assolutamente secondaria, benché interessante come discrepanza da indagare tra diversi modi di raccontare.
In ogni caso, il come viene raccontata una storia non è mai a sé stante, e per toccare il lettore deve avere una certa concordanza, sia essa armonica o disarmonica, con l’oggetto descritto dal linguaggio, che riverbera nelle parole e le fa suonare.
Potrei dire che questo mi interessa, innanzi tutto, nei libri che vado leggendo: il significato profondo del mondo espresso dalla letteratura. Pertanto, non mi hanno mai impressionato le etichette: “storia vera”, “autofiction” o “testimonianza”, eccetera. Che comunque vanno sempre di moda.
Soprattutto, probabilmente per ragioni anche anagrafiche, ho spesso pensato – e so che sto per dire qualcosa di politicamente scorretto – che stesse diventando quasi stucchevole la reiterazione ossessiva del racconto del grande trauma storico della Seconda Guerra Mondiale e di tutti i diversi fenomeni a essa legati. Bisogna però ammettere che, in qualche modo, l’effetto collaterale di questo avvenimento catastrofico e unico nella Storia è l’aver generato una grande quantità di opere d’arte incredibilmente potenti.
E perciò, inevitabilmente, sono legato a opere, letterarie e non, che parlano della Seconda Guerra Mondiale. Direi meglio: l’intero Occidente è segnato da questo episodio e quindi gran parte della cultura europea, tra le quali (seppure meno di altre) quella italiana è definitivamente segnata da quel periodo, forse per sempre, di sicuro per lunghi anni ancora a venire.
Eppure, comunque, come lettore, non cerco questa storia – almeno non in senso didascalico, non me ne frega assolutamente nulla. Credo che basti leggere i racconti di Bruno Schulz per rievocare quei fantasmi. 

Nonostante quanto detto fino a ora, c’è un autore che sovverte completamente questi miei “pregiudizi” (chiamiamoli così): Martin Pollack. Scrittore e giornalista austriaco nato nel 1944. La sua vita lo ha quasi costretto a scrivere quello che scrive. E scrive propriamente di Storia. Non potrei dirlo in modo più semplice e conciso, anche se profondamente limitato.

Sappiamo che il terreno sul quale ci muoviamo qui nella Mitteleuropa è fragile, che la Storia drammatica del secolo scorso ha aperto ovunque abissi che sono stati chiusi alla meno peggio. In questo modo si sono spesso formate delle cavità nascoste, come miniere abbandonate che possono crollare senza preavviso, così che ci vedremmo di colpo confrontati con il mondo dei nostri padri, con i relitti del passato che avevamo sperato non sarebbero più affiorati.  

Pollack si occupa della storia dell’Europa centrale durante un periodo ben preciso del Novecento. Attenzione, però: Pollack indaga specificamente «le cavità nascoste», non la Storia nella sua totalità ma quegli angoli che sono stati taciuti, dispersi nell’oblio per le più diverse ragioni. Riporta alla luce i relitti del passato e mi fa tornare in mente un’espressione linguistica che mi piace molto: «fare memoria», che non significa «ricordare», quanto rendere il ricordo presente. E allora raccontare quanto è stato dimenticato e occultato, significa compiere un’azione ben precisa su noi stessi e sul futuro che abbiamo di fronte, significa costruire.
Come un esercizio di catabasi Pollack si muove in mezzo ai traumi del passato, gli scheletri nell’armadio, fa i conti con la Storia tramite la sua storia e la sua infanzia, affronta i padri per sviluppare una consapevolezza che possa migliorare la condizione esistenziale di chi legge. Sì, leggiamo di fosse comuni di cui nessuno vuole parlare, di guerra e padri rivelatisi assassini, ma facciamo i conti con chi siamo davvero, con il nostro passato e i nostri fantasmi.  
Succede anche che i ricordi assomiglino a pericolosi campi minati, attraverso i quali ci muoviamo con timore, a tastoni, sempre pronti a imbatterci in immagini e rivelazioni terribili che minacciano di farci perdere l’equilibrio interiore. E poi viene da chiedersi se non fosse stato meglio lasciare stare il passato, che abbiamo disturbato con quei ricordi, e non mettere mano a quelle cose – anche se sappiamo bene che tacere e voltare lo sguardo, rifiutare e reprimere non fanno scomparire i problemi.Ormai più di dieci anni fa apparve in Italia, nel catalogo di Bollati Boringhieri, il libro più conosciuto di Martin Pollack, Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre. Poi più nulla. Fortunatamente dal 2016 Keller ha ben deciso di iniziare a pubblicare diversi suoi libri: Paesaggi contaminati, un breve ma densissimo reportage nei luoghi deturpati dalla guerra e dalle innumerevoli fosse comuni ancora sconosciute che modificano i paesaggi e la fisionomia di quei paesaggi; Galizia, forse il più letterario dei libri di Pollack, nel quale ci accompagna in un viaggio attraverso un paese scomparso, che rivive nelle pagine di grandi autori come Joseph Roth, Bruno Schulz e Paul Celan; una nuova edizione de Il morto nel bunker. Indagine su mio padre, dove appunto Pollack racconta la storia del padre naturale, sulla quale torneremo; e, infine, da qualche mese, Topografia della memoria, una eccezionale raccolta di saggi, articoli, discorsi e interventi vari che costituiscono una vera e propria mappa topografica della sua intera opera e ce la riconsegnano in dei lampi, dei frammenti, dei brevi racconti che hanno tutta la potenza della letteratura mitteleuropea e degli spettri che popolano i paesi di quella zona del mondo, dove gli alberi affondando le radici nella terra e nei cadaveri.

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Memoria e Fotografia

La memoria non funziona come una cinepresa, ma come una macchina fotografica. Che cosa sono i nostri ricordi se non fotogrammi le cui sequenze, spesso incontrollabili, ci lasciano di stucco? Per quale motivo la memoria sceglie di rendere un momento indimenticabile e di passarne sotto silenzio un altro? A causa della nostra razionalità? Delle nostre convinzioni? O piuttosto, il romanziere è un flaneur che obbedisce solo al suo imperativo estetico? Al suo senso della bellezza che lo spinge a camminare da un souvenir all’altro?

Massimo Rizzante ha scritto questa splendida intuizione su come funziona la memoria nella postfazione che chiude il volume di Topografia (appena ripubblicato da Rina edizioni), romanzo frammentario spettrale scritto da Sylvie Richterovà, un’altra perla dal valore inestimabile pescata dal fondale della letteratura novecentesca mitteleuropea.
Oltre i facili parallelismi che si potrebbero fare tra le due opere, mi colpisce l’intuizione di Rizzante: c’è una corrispondenza tra l’espressione della Memoria e il medium fotografico – come anche nello sguardo stesso del fotografo, aggiungo.
Tendenzialmente non sarei d’accordo nell’escludere il cinema dal ragionamento, anzi, mi piacerebbe includere qualsiasi forma espressiva. Nonostante ciò, capisco cosa vuole intendere Rizzante e perché sviluppa il discorso a partire dalla Fotografia e anzi proprio dalla macchina fotografica. Mi sembra come se si riferisse all’estetica che si è sviluppata a partire dai limiti del mezzo fotografico, soprattutto nei primi decenni. In questo senso, sì, la fotografia è fantasmagorica come la memoria umana.
«Ci ricordiamo di singoli incontri e situazioni, spesso casuali, di immagini che per qualche motivo hanno attirato la nostra attenzione e non ci hanno più lasciato» scrive Pollack in uno dei primi frammenti di Topografia della memoria, «Il viso di Jozef Parigal», nel quale ragiona intorno a certe dinamiche della fotografia a partire dalle capacità del noto fotografo Chris Niedenthal che lo ha accompagnato durante diversi servizi. Un vero e proprio omaggio, potremmo dire, che mette in luce diverse corrispondenze tra il modo che abbiamo di «fare memoria» – di nuovo – e fotografare. E a quel punto non ha importanza quando sia stata scattata una certa fotografia, il volto di un uomo può raccontare una storia millenaria, persino l’intera Storia dell’umanità.

Ciò vale anche per alcune fotografie scattate allora, fotografie che evocano una realtà ben più vasta di quella espressa dalla situazione contingente. Ci commuovono e ci inquietano ancora oggi, benché gli eventi siano trascorsi da tempo, passati, qualche volta pressoché dimenticati, ma le emozioni e gli stati d’animo che trovano espressione in quelle immagini continuano a essere validi. Raccontano storie che non hanno affatto perso la loro attualità.

 

Lo Sconosciuto 

Per Martin Pollack il tema centrale – che è anche il motivo che risuona nel modo che ha di raccontare le sue storie – è uno dei più classici, forse il più esplorato e primigenio: i Padri.
Il padre naturale di Martin Pollack, che conobbe a malapena, era stato nelle SS, nell’SD e nella Gestapo, e la sua storia è raccontata nel libro già citato Il morto nel bunker e lo ritroviamo nella maggior parte dei suoi scritti; in Topografia della memoria a un certo punto appare un breve ragionamento intorno a questa figura che percorre costantemente le pagine di Pollack: «Mio padre, lo Sconosciuto». «Cosa significa per me questo padre che non ho mai avuto vicino, con cui non ho mai fatto una passeggiata, né un discorso, che non mi ha mai sgridato», si chiede Pollack, trascinandoci in una dimensione estremamente intima, dove la testimonianza si sostituisce all’indagine. E questo attaccamento, questa affezione all’oggetto della narrazione, ci restituisce l’immagine fotografica perfetta che ci colpisce tutti: «Mio padre fu un estraneo per me, ma rimane mio padre, e di questo devo prendere atto, che mi piaccia o no». Voglio dire: chi non ha dovuto affrontare la figura del padre – o meglio dei padri: di chi ci ha preceduto, dei nostri genitori in generale. Per Pollack l’immagine del padre – che si fa palesemente simbolo – è proprio la Storia, è proprio il passato, ciò che ci ha resi chi siamo oggi, il materiale su cui lavorare.

 Spesso nei libri di Pollack scopriamo una certa ritrosia, soprattutto delle amministrazioni ma anche delle persone comuni – pure quando vittime o parenti delle vittime – nel supportare l’operazione di scavo, di ricerca e riesumazione delle tragedie che hanno puntellato il cuore dell’Europa negli anni delle grandi guerre. Preferirebbero non sapere, chiudere il passato nel silenzio, allontanare i fantasmi ignorandone la presenza. «Credo invece che si debba affrontare il padre come si affronta la Storia, anche se può essere scomodo o doloroso», risponde Pollack.

 Per questo bisogna leggere i suoi libri. Non tanto per l’immane lavoro di ricerca e documentazione che porta avanti da tempo e che sicuramente rappresenta un preziosissimo reperto storico, oltre che una lezione magniloquente sul modo di compiere il lavoro sul campo. Può essere fondamentale anche in questo senso, questo è chiaro. Nonostante tutto ciò, il valore della letteratura di Martin Pollack si accosta a quello della grande letteratura di tutti i tempi, poiché ci riporta all’uccisione dei padri, all’affrontare una parte di noi con la quale bisogna inevitabilmente fare i conti, anche se ci sembra distante, anche se siamo nati nel 1989, il muro era stato distrutto e tutto sembrava poter essere lasciato alle spalle; basterà fare mente locale sui fatti che hanno accompagnato i decenni a seguire, ricordare magari i servizi sulla guerra in Jugoslavia, i nostri genitori preoccupati davanti alla televisione sempre accesa.

 Ricordare i nostri genitori: a tutti i livelli. Farne memoria. Quelli naturali e la generazione precedente in toto. Macrocosmo e microcosmo. Fare i conti con il passato, riprendere contatto con le radici, sprofondare negli antichi traumi per ricostituirsi e ricostruire il mondo. Questo può provocare una scrittura autentica, che non ha paura della morte, dei fantasmi, delle ossessioni, delle immagini oscure di ciò che è scomparso per sempre. Una letteratura senza misericordia.

 I padri non ci lasciano liberi, per quanto a volte lo desideriamo, si aggrappano a noi, con una presa che non riusciamo a scuoterci di dosso. Perché i nostri padri sono una parte di noi, siamo inseparabilmente legati a loro da infiniti fili invisibili. Questa scoperta può essere magnifica, ma anche terribile e minacciosa.

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