Il rapido lembo del ridicolo, di Francesco Permunian

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di Andrea Cafarella

Una maschera che risuona dagli echi di un tempo che fu
Il rapido lembo del ridicolo e altri fogli sparsi riesumati dal faldone crepuscolare di Francesco Permunian

 

Da molto, non abitava tra noi uno scrittore posseduto da così violente ossessioni, da così tremende disperazioni, da così disumani furori: uno scrittore che vive continuamente sull’orlo dell’autodistruzione.

Pietro Citati  

 

La letteratura è solo una forma edulcorata della confessione, della testimonianza, che sono funzioni preliminari della preghiera.

Pierre Drieu La Rochelle

(in epigrafe a Chi sta parlando nella mia testa? di Francesco Permunian, Theoria, 2018)

Lavorare in una libreria al giorno d’oggi può concedere a un lettore attento diversi vantaggi: ovviamente impone di tenere lo sguardo sempre all’erta sulle novità, d’altra parte uno studio profondo dei cataloghi può essere uno strumento ancor più formidabile. Inoltre, il dialogo costante con i lettori è fonte di continuo arricchimento; un qualsiasi casuale avventore può aprire le porte di mondi sconosciuti. Per non parlare dei consigli – chiamiamoli così – dei diversi professionisti dell’editoria che, pur viziati dall’obiettivo ultimo di carattere puramente commerciale, spesso indicano dei percorsi ancora da battere. Strade nuove e tesori inattesi.
Un libraio accorto deve sapere muoversi nella complessa rete di suggestioni che arrivano da lettori di ogni foggia possibile.
L’altro aspetto che ho sempre trovato incredibilmente formativo – seppure a volte pericoloso – è la possibilità di conoscere personalmente gli scrittori (immaginate la tragedia che può consumarsi nel fare la conoscenza di un autore di un libro straordinario e scoprirlo una persona deplorevole, oppure l’esatto opposto, o ancora le ambigue sfumature di grigio tra questi due estremi. Questo: non ve lo auguro).
Di norma questo tipo di incontri in libreria si estinguono in alcune frasi di circostanza, poco più che quelle concesse a un normale spettatore della presentazione al quale l’autore è stato invitato.
A volte, però, molto di rado, può accadere la magia.
Ricordo pochissime occasioni di questo tipo. Anche se ognuna di esse mi rimane dentro, probabilmente idealizzata, nutrita dalla fantasia, ma non per questo meno importante.
Una fra tutte l’ho già in parte raccontata in un pezzo scritto ormai due anni fa. Si tratta dell’incontro con Francesco Permunian, per la presentazione del suo Costellazioni del crepuscolo (il Saggiatore, 2017). Un “dettaglio” che però non ho raccontato in quell’articolo è che a alla presentazione (purtroppo può succedere) partecipammo in cinque, di cui due librai. Francesco si mise comunque a sedere, mentre noi stavamo in cerchio attorno a lui. La libreria totalmente vuota e in silenzio. E si mise a parlare per un bel po’ di tempo. Rivolgendosi soprattutto ai più giovani di noi. Avendo capito trattarsi di possibili aspiranti scrittori si gettò a capofitto in una vigorosa invettiva delle sue: contro le false lettere, rimembrando i suoi maestri, le storie che lo avevano cresciuto. Aveva sempre in bocca Manganelli e Zanzotto e non si risparmiava nell’esprimere giudizi severi e onnicomprensivi verso gli scrittori della nuova generazione e tutto l’ambiente editoriale e letterario.
Quella sera lo accompagnammo fino all’alberghetto dove alloggiava e io tornai a casa estasiato. La presentazione era andata malissimo, chiaramente. E personalmente ci puntavo molto. C’era – è chiaro – una punta di amarezza e disappunto per l’assenza dei lettori, la disattenzione collettiva. Eppure, dentro di me sapevo che avevo avuto la fortuna di partecipare a un evento spettacolare e rarissimo, riservato a pochi. Organizzato per nessuno.

Incontrai nuovamente Permunian in quel di Chiari, per il festival della microeditoria, durante il quale presentava un suo lavoro sconosciuto ai più, e che ho il piacere di avere qui con me. Fortuna secondaria ma consequenziale, poiché seppi di questo evento proprio tramite la corrispondenza che mi ha legato a questo gigante della nostra letteratura per anni, e che continua ancora oggi. Altra fortuna che venne appresso – e grazie – a quella presentazione fallimentare. E che mi permise inoltre di lavorare, assieme a tutti gli altri autori, alla Piccola antologia della peste che Permunian ha curato per Ronzani durante l’anno appena passato.
Mi sembra incredibile, ricapitolando, quante piccole implicazioni possono verificarsi a seguito di una presentazione andata malissimo. O di un incontro andato molto bene – dipende da dove lo si osserva, da cosa reputiamo importante. 

«La fama di un letterato può durare anche diversi anni, dipende dalle mode, dai giornali, dai compilatori di antologie e almanacchi vari. Poi scompare, inevitabilmente». Riporto queste parole dall’ultimo libro di Permunian, appena pubblicato dalla Italo Svevo nella splendida collana «Biblioteca di letteratura inutile» con il manganelliano titolo Il rapido lembo del ridicolo.
Queste parole mi ricordano ancora di quell’unico pezzo che scrissi parlando di un suo testo; l’articolo si concentrava su uno strano libro “marginale”, dedicato alla figura di Bruno Schulz, ovvero uno dei tanti autori maledetti, genitori e fratelli del nostro Permunian. Scrittori messi «in disparte dall’indifferenza delle nuove generazioni». Cioran, Kafka, Bernhard, il suo adorato Manganelli, e molte altre voci, più o meno celebri, sempre tormentate, sempre forgiate nell’ossessione. E sempre a un passo dall’oblio, misconosciuti durante la loro vita, pazzi, poveri, e simili altre categorie da riservare ai più sfortunati di noi. I dimenticati, che superano la prova definitiva del tempo per divenire eterni.

È difficile riassumere in poche righe la parabola editoriale di Francesco Permunian – provo a tracciarne un abbozzo. Nasce poeta, e approda alla prosa quasi cinquantenne con un romanzo deflagrante: Cronaca di un servo felice (Meridiano Zero). Un romanzo che non capì nessuno, tanto era diverso da tutto quanto fosse disponibile in quel momento storico. Lo ricorda benissimo Salvatore Silvano Nigro nella prefazione a Costellazioni del crepuscolo, il libro che contiene e ripropone, dopo molti anni di assenza dalle librerie, Cronaca di un servo felice e Camminando nell’aria della sera (il suo secondo romanzo), assieme a una selezione di testi dall’immenso faldone che costituì le fondamenta di entrambi i libri, e che era stato intitolato proprio Costellazioni del crepuscolo. Ovvero: la fucina, il pozzo pieno di voci dal quale Permunian evoca i propri fantasmi, travestendoli da pupazzi di carne per i lettori, o lasciandoli nudi, spettri, voci. Nella straordinaria prefazione di questo libro (che, tra l’altro, sento un po’ come il libro della consacrazione di Permunian) Silvano Nigro ripercorre i commenti della critica che si approcciò alla prosa di Permunian in occasione dell’uscita del suo primo romanzo, nel ‘99. E sottolinea con grande intelligenza filologica come, a volte, il senso di certi capolavori, di alcune voci, così sconvolgenti da essere inizialmente incomprensibili, lo si può carpire solo dopo molti anni, solo dopo tutti gli altri libri, che retroattivamente illuminano l’opera, nella sua interezza. E questo è proprio l’intento di Costellazioni del crepuscolo, far rivivere l’intera letteratura di Permunian tramite la rilettura (dell’autore, del curatore e infine del lettore) dei suoi primi libri, riscoprendo la grandezza di questo autore grazie a una spaventosa visione d’insieme fantasmagorica.
Quando il secondo romanzo di Permunian arrivò a Rizzoli, seguito dal suo terzo, Nel paese delle ceneri, ancora nessuno aveva capito davvero di cosa si trattasse, cosa fosse questo ronzio di voci spettrali che è la prosa di Permunian. Tuttavia l’autore continuò a scrivere e pubblicare: Il principio della malinconia (Quodlibet, 2005, libro cardine, nucleo di senso di tutta l’opera, del quale parleremo ancora), Dalla stiva di una nave blasfema (Diabasis, 2007, con postfazione di Fabio Pusterla), e poi i tre libri pubblicati per Nutrimenti: La Casa del Sollievo Mentale (2011), Il gabinetto del dottor Kafka (2013), La polvere dell'infanzia e altri affanni di gioventù. Frammenti di un fotoromanzo popolare (2015). Per arrivare, infine, al Saggiatore con Ultima favola (2015).
Ho come l’impressione che da quel momento – dalla pubblicazione nel 2017 di Costellazioni del crepuscolo – sia cambiato qualcosa. Oltre alla pubblicazione di libri “nuovi”, come Sillabario dell’amor crudele (Chiarelettere, 2019), sono stati ripubblicati dalle edizioni Theoria i primi libri di Permunian, riletti dall’autore: Chi sta parlando nella mia testa? (2018, che è una riscrittura di Dalla stiva di una nave blasfema) e Nel paese delle ceneri (2020). Mentre nel frattempo altri classici continuano a essere venduti e ristampati. Credo che, lentamente, come spesso accade e come lo stesso Permunian ci fa notare, si stia finalmente riuscendo a capire la portata di quest’opera agghiacciante, dandogli il giusto spazio. E quei cinque lettori essenziali, felici di sedere intorno a lui per ascoltarne gli sproloqui e le ossessioni senza fine, saranno finalmente saziati, felicissimi di potersi abbeverare alla fonte di uno degli autori viventi più sconvolgenti che abbiano mai infestato le nostre librerie.

Proprio in questi giorni, dicevamo, è stato pubblicato dalla Italo Svevo di Alberto Gaffi un libro di raro splendore oscuro, soprattutto per coloro i quali s’interessano di libri strani, obliqui, liminali. Frammentari, intimi e raffinati.
«Questo libretto contiene una selezione di note e appunti da me scritti e riscritti nel corso del tempo, in periodi diversi, correggendo e variando all’infinito sempre gli stessi temi. Le stesse ossessioni», ci avverte Permunian nella nota che conclude il prezioso volumetto (curato graficamente da Maurizio Ceccato). Tutti i suoi scritti, abbiamo scoperto leggendo le Costellazioni, provengono da uno stesso grande faldone ricolmo delle sue ossessioni perpetue. Alle volte Permunian ce le mostra rivestite, giustapposte in una trama, in una storia o almeno in un brandello di storia; altre volte invece ce le presenta nude, magari riordinate tematicamente – come in questo caso – ma comunque prive di un tessuto narrativo atto a coprirle di una storia più o meno coerente. Una struttura in grado di creare l’illusione della finzione.
Tuttavia, anche quando Permunian ci permette di leggere alcuni brandelli dei suoi Quaderni – potremmo dire cioranamente – lo fa con una cura e un’attenzione al particolare che puntano al perfezionamento assoluto, lirico e stilistico; minuziosamente rivede le sue prose e le affina con mano ferma, giorno per giorno, davanti al suo amato lago. I frammenti che leggiamo ne Il rapido lembo del ridicolo sono disarmanti, in ogni senso, ma prima di tutto quanto a perfezione stilistica. Non hanno l’immediatezza del Diario – kafkianamente, stavolta – eppure conservano quell’ardore, anzi lo sublimano, lo epurano.
«In tutta onestà e mettendomi una mano sulla coscienza – ammesso e non concesso che io abbia una coscienza – davvero non saprei che consiglio dare, o quale avvertenza suggerire a un lettore intenzionato a sfogliare qualche pagina di questo diario», men che meno io saprei come indirizzarvi nella lettura di questo grimorio. Poiché la prosa di Permunian è irreprensibile e pervasiva come le ripetizioni martellanti nei vertiginosi lunghi periodi di Thomas Bernhard, potete dunque immaginare che effetto possa fare frugare nelle sue pagine “private”. Può essere straziante, e può farsi sgradevole. Può farci vergognare e trapassarci il costato in un lampo inaspettato di crudeltà.

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Gli echi di un tempo che fu

Sono, diciamo così, i miei luoghi dell’anima. I quali variano a seconda delle stagioni ma, soprattutto, a seconda di cosa sto scrivendo.
In pratica, a ogni angolo del Garda corrisponde uno spunto narrativo, sia esso una piazza, un castello, un golfo, una limonaia, oppure il vicolo sassoso di un piccolo borgo.

Il rapido lembo del ridicolo si apre con un capitolo intitolato «Patrie». Nel quale troviamo alcuni testi dedicati ai luoghi che hanno ospitato Permunian durante la sua vita, come aveva già fatto, per esempio, nello stupendo catalogo del fotografo Pino Mongiello In certi luoghi dell’anima. Il Garda, il Polesine, il Gargano. D’altronde, ci dice Permunian, «gli unici viaggi che mi appassionano sono quelli tra le pareti della mia mente. E nella mia mente io so che si rispecchia il mondo intero». Non si tratta di essere sedentari o morbosamente attaccati alla propria terra. O comunque, di certo non è solo di questo che si tratta. Permunian si è spesso definito uno scrittore di provincia, nonostante sia stato giustamente e inevitabilmente individuato da molti critici come uno degli scrittori italiani più “europei”. Proprio perché si riferisce evidentemente a una tradizione d’oltralpe. Tuttavia è pur vero che molta della sua letteratura è intrisa dell’odore del polesine, sua patria natale; e dei venti che spirano sul lago di Garda, sua patria adottiva. E in questo libro, come in altri (quelli più nudi), ce ne regala frammenti di inestimabile valore, traboccanti di nostalgia. Come nell’ultima sezione del libro: torniamo a quel «viale di ippocastani, sotto la cui ombra» il piccolo Francesco giocava da bambino, e scopriamo insieme all’autore che quel viale «porta dritto al cimitero».
«Me ne accorgo soltanto ora che ritorno al paese per il funerale di mia madre», scrive. E qui rievochiamo quel prezioso libro che andai a recuperare alla rassegna di Chiari: s’intitola Autunno, ed è un testo brevissimo e lacerante, dedicato proprio a sua madre. Ed è esattamente da questo genere di rimandi che si comprende la forma – o meglio, le forme – faldone-zibaldone nella quale si esprime l’opera sconvolgente e buia di Francesco Permunian. Un misto tra Gombrowicz e Cioran. Difatti, «Ho l’anima anticlericale e un cuore da monaco» è la frase del Diario di Renard che lo stesso Permunian rivolge a sé stesso. Sottolineando anche questo suo rigetto verso l’istituzione clericale cattolica (alla quale è dedicato anche un intero capitolo de Il rapido lembo del ridicolo, «Settore cattolico») e basterebbe leggere il Sillabario dell’amor crudele per comprendere fino a che punto può spingersi questa sua avversione, fatalmente legata alle sue patrie e alla sua infanzia. Fatalmente legata alle voci spettrali che parlano nella sua testa.


Di penne e pennini, santi e manichini

Lontanissimo dalle trasgressioni plastificate imposte oggi dalla cultura dei media e dalla vacuità della società letteraria, egli non ha nulla a che fare con la figura oggi corrente del narratore: affabulatore scatenato, non è un paziente e compiaciuto centellinatore di “storie”, ma viene a porsi piuttosto come scardinatore di ogni illusione romanzesca, immerso in uno sterminato bric-à-brac di situazioni di vita e di letteratura che si incastrano, si combinano, si confondono, si distruggono l’una l’altra, sotto il segno di una rabbiosa passione per il mondo e per la sua futilità, di un beffardo risentimento verso i modelli intellettuali correnti, verso i pedestri idoli del mercato mediatico.
(Dalla postfazione di Giulio Ferroni a Il rapido lembo del ridicolo)

L’altro aspetto davvero intrigante di questo libello corrisponde a una faccia della prismatica personalità di Permunian cui ho già accennato. La sua posizione rispetto alla patria delle lettere.
Mi sembra che Permunian sia piuttosto un esule, nascosto in un paesello insieme alla sua amata: Madama Letteratura. Tuttavia infelice, continuamente perseguitato dai suoi fantasmi e dalle loro voci, chiaramente. Costretto a misurarsi con una società delle lettere (come la chiamerei io) che lo repelle e lo respinge, quasi quanto Permunian respinge viceversa chiunque della suddetta società gli si faccia incontro.
«L’unico merito di Eco, se di merito si può parlare, è di aver spalancato la strada verso il genere romanzesco a centinaia e centinaia di altri colleghi accademici», Il rapido lembo del ridicolo è costellato di sentenze come questa, spesso espresse in modo più generico o aneddotico, ma non meno tagliente; sono altrettanti, però, gli omaggi ad autori amici e affini, primo fra tutti il Manga: «Non ho mai capito il perché, però devo confessare di aver sempre subito il fascino di Manganelli. Un’attrazione discreta e vagamente morbosa, tant’è che non so ancora che cosa veramente mi attragga», questa è una dichiarazione totale di affinità elettiva scritta alla maniera di Permunian, espressa tramite una serie di storielle grottesche; come quando in sogno si figura il Manga riemergere dalla tomba, «brandendo il suo grande fallo a mo’ di bastone», per minacciarlo e deriderlo per le dimensioni del suo «pennino».
Straordinarie le pagine dedicate ad Alda Merini e ad Amelia Rosselli, come anche i frammenti per Sergio Quinzio. In uno di questi confessa che «Quinzio è stato l’unica persona – l’unico intellettuale italiano – con il quale riuscivo a parlare dei morti (sia dei miei che dei suoi) come se fossero ancora vivi, visto che per lui il confine tra i due mondi era alquanto labile e aleatorio, se non addirittura inesistente».

In questo libro di appunti grotteschi troviamo quindi – rara presenza nell’opera di Permunian – diverse annotazioni di carattere più squisitamente critico. Ovviamente, come abbiamo potuto saggiare, tutte scritte alla sua maniera, non certo delle recensioni simili a quelle del Manga che lo stesso Salvatore Silvano Nigro ha raccolto in Concupiscenza libraria (Adelphi, 2020). Eppure, in qualche modo simili. Se (come ho cercato di mostrare in questo scritto) le recensioni di Manganelli erano escrescenze della sua macchina letteraria e facevano parte del complicato mondo messo in piedi dalla sua prosa, evocato in ogni movimento della sua opera, allora anche alcuni degli scritti di Permunian dedicati “ai libri degli altri” (proviamo a dirlo semplicemente così) o comunque “agli altri”, all’interno de Il rapido lembo del ridicolo e altrove, sono l’espressione più “analitica” oppure “critica” della sua opera multiforme. E, devo dire, riescono a mettere in luce dei dettagli oscuri e bizzarri, che non avevo e non avrei mai potuto considerare, e che Permunian esprime con la sua consueta raffinatezza, ma sempre con un ghigno malsano a deturparle, il bieco sorriso marcio che contraddistingue la sua prosa crudele e mostruosa.

Ciò nonostante, malgrado sia costretto a convivere con tali bestie oniriche, io mi ostino a parlare ancora di poeti e di romanzieri imprecando amaramente contro tutto e tutti.
Contro il mondo dei vivi e quello dei morti, incapace di arrendermi al fatto che ben presto anch’io sarò un’ombra che litiga con altre ombre.


Le voci dei morti

 «Cos’è questo strano e fastidioso parlottio che da giorni mi ronza nelle orecchie? C’è qualcuno in grado di dirmi, con ragionevole approssimazione, chi sta parlando e sparlando nella mia testa?» citando il titolo di uno dei suoi libri che abbiamo già nominato, Permunian sottolinea, anzi: riverbera – come farà per tutto lo scorrere del libro, e di tutti i libri che ha scritto – la sua ossessione più grande: le voci dei morti, il sussurrare degli spettri.
«In sostanza, non faccio che parlare dei morti» confessa Permunian in uno dei frammenti della sezione forse più potente, intensa e vissuta del libro, intitolata «Stigmate».   

Uno sciame di voci mi bisbiglia all’orecchio, ho la netta impressione che qualcuno sussurri nel buio. Odo i morti che sospirano sottoterra: «Resta ancora un po’ qui con noi», mi dicono. «Ora che te ne vai, sappi che noi continueremo a parlarti anche quando tu sarai lontano».
Se avrete il coraggio di leggere questo libro sarete continuamente puntellati dalle allucinazioni di Permunian, dal continuo brusio delle voci che non vogliono smettere di bisbigliare al suo orecchio – e quindi al nostro. Incubi, spettri e soprattutto le voci dei morti lontani perseguitano ad perpetuam rei memoriam il nostro Permunian. Le stigmate sono quelle di un vecchio apparso in sogno: un vecchio «ricoperto di orribili grinze» supplica «una bellissima fanciulla di concedergli le sue grazie». «Mi svegliai inorridito allorché mi accorsi che la ragazza, completamente nuda, stringeva tra le mani un sudario da cui sgorgavano delle gocce di sangue». Una serie di immagini cruente, disgustose, sgradevoli, s’intrecciano in un incubo che attraversa la dimensione onirica per penetrare la realtà. «L’incubo del vecchio e della fanciulla mi perseguita» continua Permunian. I mostri braccano continuamente l’autore e i suoi sogni. «Ho sognato di vagare tra le mura di una casa in rovina, dove riecheggiava il pianto di una bambina abbandonata», prosegue ancora nello stesso frammento. Il sogno nel sogno che si schiude nella realtà tramite le voci e le allucinazioni presenti anche in stato di veglia, quegli spettri che lo minacciano di continuare a parlargli, quello sciame di voci che non se ne andranno mai. Non lo lasceranno mai in pace se non dopo la fine di tutto.

Le confessioni

Eccomi ancora qua a frugare come un ossesso tra le sudatissime pagine di questo zibaldone che, più passano i giorni, più io temo possa sfuggirmi di mano riducendosi a un confuso gnommero informe. Oppure, ben che vada, a un arruffato e sgangherato garbuglio proliferante di voci e confidenze.

 Nella postfazione a Chi sta parlando nella mia testa? Andrea Caterini suggerisce l’idea che Il principio della malinconia sia il libro centrale, il testo che racchiude ed enuclea il senso profondo delle ossessioni di Francesco Permunian. Anche io l’ho sempre pensato. È sicuramente il libro che più amo di Permunian e quello che racchiude davvero il motivo segreto e definitivo della sua concupiscenza libraria, o meglio: letteraria e scrittoria.
Ci basti osservare come il primissimo verso, di questo esile e sfolgorante libro di poesie in forma aforistica, indichi «Era l’ora del crepuscolo» per ritrovarci nuovamente di fronte al libro che io indico come quello della sua consacrazione, le Costellazioni del crepuscolo, scoprendo che le stelle di Permunian altro non sono che «anime incappucciate», ovvero i morti.
E andando avanti ritroveremmo per esempio l’incubo del vecchio con le stigmate, come i tanti rimandi ecolalici all’Autunno.

Nelle pagine de Il rapido lembo del ridicolo Permunian torna a confessare la sua malinconia, i segreti che riguardano i defunti che lo hanno accompagnato. Appare la madre, lo abbiamo detto, e appare anche Lei. Nonostante l’autore si chieda se forse sarebbe il caso di non rivelare un aneddoto così «squisitamente privato», alla fine ci dice, ci sussurra quasi, di un muro della sua casa «(quello tra la cucina e il soggiorno) che conserva ancora intatto il calore del suo corpo. Il profumo della sua pelle». Potrebbe essere forse lo stesso muro che troviamo ne Il principio della malinconia: «Il muro, a cui ieri appoggiavo la schiena», scrive Permunian, «conserva ancora il calore degli ultimi bagliori del sole al tramonto».
«Assomiglia a me, che ti sedevo di fronte a testa bassa.
E che ti sentivo già lontana».  

Siamo arrivati senza dubbio al punto. Al fulcro, al nucleo centrale dell’opera di Francesco Permunian.
Cosa sarebbe allora «il rapido lembo del ridicolo»? Giorgio Manganelli suggerisce (Permunian farà usare questa frase a un caro amico scrittore – vagamente caricaturale –, intento a tenere una lezione di scrittura, trovando negli allievi un apatico menefreghismo all’udire le parole di Manganelli) che per conseguirlo, per raggiungere questo «rapido lembo» bisognerebbe «oscillare fino sull’orlo del tragico e distrarsene in tempo», barcollare disperatamente sul baratro che si apre sull’abisso, abitare il confine tra la vita e la morte, come si diceva di Quinzio, osservare le stelle al tramonto, stare di qua e di là, nell’aria della sera, nel paese delle ceneri, sulla stiva di una nave blasfema, nella casa del sollievo mentale o nel gabinetto del dottor Kafka, o più semplicemente nella testa del nostro caro Francesco Permunian, ascoltandone l’emanazione più accessibile: i suoi libri. Facendo attenzione a non cadere nel tragico, distraendoci per tempo con il «ridicolo», con il «risibile» insito negli incubi e negli spettri, nelle mostruosità delle sue cronache dell’amor crudele, nel sillabario delle sue malinconie, guardando pur sempre al cielo e alle costellazioni che s’illuminano al tramonto.

*

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il testo integrale di Autunno (il Buon Tempo, 2018). Con la convinzione di poter dare così al lettore la possibilità, attraverso questo frammento brevissimo ma di straordinaria importanza, di scorgere e forse di cogliere sineddoticamente il senso dell’intera letteratura della malinconia di Francesco Permunian.

 Autunno

A mia madre Anna

  

Un fruscio di canne nella sera,

talmente secche da generare

un lamento insopportabile, è tutto

ciò che rimane della calda estate.

Ricordi che si decompongono

come foglie sotto la pioggia

autunnale.

Autunno della memoria.

Novembre. A poco a poco l’aria

si oscura e i monti si dileguano

dietro le piogge autunnali,

mentre i morti sprofondano

in una lontananza inaccessibile.

Eppure, per quanto lontani e

remoti, io mi sento costantemente

osservato da loro, come se il loro

sguardo accompagnasse

dovunque i miei passi.

Come se le loro voci risuonassero

sempre nelle mie orecchie

per guidarmi, amorevolmente,

verso l’ultima meta. 

 

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