di Anna Lo Piano
“Il passato è sempre una dimora”. Con queste parole, che suonano come un verso di poesia, Mario Benedetti apre un articolo pubblicato su El Paìs dal titolo “Variazioni sull’oblìo”. Siamo nel 1987, lo scrittore uruguaiano è da poco tornato in patria dopo un lungo allontanamento per motivi politici, e questo percorso a ritroso è così denso di significati da spingerlo a creare un termine specifico per nominarlo: desexilio. Se l’esilio è l’uscita straziante dal suolo a cui si appartiene, il prefisso des- implica un processo di disfacimento di quello strappo, non una guarigione. Il filo che riavvolge sul gomitolo non tornerà mai liscio e compatto come prima. Come sa bene Ulisse, l’eroe del Nostos, per tornare non basta rimettere i piedi sulla terraferma. Le case vivono immutate solo nel ricordo, e chi se ne allontana nel tempo si trasforma, e come un naufrago porta addosso le concrezioni dei mondi e delle lingue con cui è venuto a contatto. Riaprire la porta implica un riconoscimento reciproco da parte della casa e di chi l’abitava, una mutua riconquista.
Nel 1992, qualche anno dopo quell’articolo sulla memoria, Benedetti pubblica Fondi di caffè (La Nuova Frontiera, tradotto da Elisa Tramontin), un romanzo che come suoi altri si muove tra finzione e autobiografia, e il cui primo capitolo porta il titolo emblematico di Traslochi. “La mia famiglia traslocava di continuo.”, racconta Claudio, il protagonista. Le ragioni di questo muoversi continuo non erano mai serie, si affretta a spiegarci, ma andavano cercate in una inquietudine interiore dei suoi genitori, una impossibilità a stare fermi. Era l’orizzonte divergente dei loro desideri - le strade trafficate del centro, la presenza di vicini disponibili per la madre, la tranquillità delle periferie e l’assenza di vicini impiccioni per il padre – a spingerli a cambiare, o forse qualcosa di più profondo. In ogni caso la stabilità era ogni volta precaria, apparente, e prova ne erano gli abiti e le suppellettili lasciati nelle cassapanche e nei bauli, pronti per un nuovo trasloco, che mi hanno ricordato le valigie ingombranti di un racconto di Igiaba Scego, Dismatria, in cui la protagonista racconta con ironia come la parola armadio in casa fosse tabù, come “erano tabù la parola casa, la parola sicurezza, la parola radice, la parola stabilità” .
Il tema dell’esilio è uno dei fili conduttori di questo romanzo che si compone di frammenti, come una memoria da ricostruire. Molti personaggi sono raccontati nella loro ricerca di casa, nei loro traslochi. Il padre troverà nell’albergo di cui è direttore, metafora della non appartenenza, il suo vero luogo stabile. Con la famiglia di Claudio, dopo la morte della madre, verranno a vivere alcuni stranieri, tra cui Juliska, immigrata montenegrina raccolta sulla strada dove cercava lavoro, che mescola le lingue e le cucine.
Se per i genitori di Claudio ogni casa è un’illusione di stabilità, e non c’è differenza tra quelle in affitto e quelle proprie, per lui quella di Capurro è diversa, è l’unica che conta, perché “fu la prima che significò un mondo per me, uno spazio tutto mio”.
Se i suoi genitori, per orientarsi tra le sue stanze, al buio, hanno bisogno di una torcia, a lui basta il suo corpo, i piedi e le mani che sanno riconoscere gli oggetti, le superfici. La casa ha una qualità tattile e “un caratteristico aroma” che sa accoglierlo, al ritorno, “come una patria”.
Quello di Capurro è un microcosmo. Oltre le pareti della casa, si estende al quartiere, alle vie di Montevideo, ai suoi abitanti, agli amici, al Parco.
Andarsene, per volere del padre, equivale a una lacerazione con l’infanzia.
Al momento di salutarsi, Claudio e gli amici si ritrovano nel Parco. In tasca hanno tutti le chiavi di casa, segno della prima indipendenza, e si dicono che nulla cambierà, che si ritroveranno ancora, convinti che quel mondo rimarrà intatto. Ma quando si rivedranno, dopo anni, tutto sarà cambiato, loro stessi, il mondo, le relazioni.
Ancora in “Variazioni sull’oblio” Benedetti scriveva:
“Quando traslochiamo al presente, a volte alimentiamo l'illusione che chiudendo quella casa con tre serrature (diciamo perdono, ingratitudine o semplice dimenticanza)
ne saremo per sempre liberi.”
In realtà, come scoprirà a poco a poco Claudio, traslocare non è sufficiente. Una parte di noi rimane sempre nella “dimora del passato”, a “raccogliere gioie o risentimenti”, dove “gli eventi mummificati” si trasmutano in “delusioni, visioni o incubi”.
Per fare pace è necessario tornare indietro attraverso la memoria, stabilire un ponte con l’infanzia, perché “Se tagliamo i ponti con l'infanzia, possiamo condannarci a un'immaturità infinita.”
Ma come si recupera la memoria? Non basta un archivio, milioni di valigie a contenere quell’ “antologia di essenze preziose” di immagini, parole, “segni di identità”, che si sono accumulati. L’infanzia non si sfoglia come un album di fotografie ma bisogna scoprire, decifrare, in un movimento continuo tra i tempi, tra chi eravamo e chi siamo. Anche per questo, forse, la forma del romanzo si spezza e si frammenta in singoli quadri. La voce narrante passa dalla prima persona, dov’è Claudio che racconta, a un noi generazionale, fino a una terza persona esterna. E in qualche punto si insinua la voce del padre che scrivendo nel suo diario racconta la sua versione.
“Perché scrivo questi appunti? Quando gli anni si accumulano cominci a essere consapevole che il tempo passa in fretta e forse per questo motivo alimenti l’autoinganno che scrivere di tutti i giorni può essere un modo, per quanto primitivo, di frenare quella catastrofe. Non la freni, ovviamente. Niente e nessuno è in grado di trattenere il tempo.”
La scrittura da sola forse non basta a trattenere il tempo, ma attraverso la scrittura è possibile tornare indietro a rivivere, indagando, ciò che rimane oscuro, incompreso. Come quando Claudio ritorna da solo nella radura dove lui e i suoi amici hanno trovato il corpo del Dandy, in quel “chiaro del bosco” che messo così, tra virgolette nel testo, non può non farmi pensare ai “chiari del bosco” di cui parla María Zambrano.
“Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite” dice la filosofa spagnola, nel primo saggio di Chiari del bosco che dà il titolo al libro. Per capire, bisogna sospendere la domanda, arrendersi a un tipo diverso di comprensione, affidarsi alle parole che “risaltano diafane” , “fattrici di pienezza”.
La pace che ha trovato nel bosco, però, Claudio non la ritroverà per molto tempo. La sua domanda di senso prende forma nella figura di Rita, la bambina che arriva in camera sua arrampicandosi sull’albero del vicino, per consolarlo della morte della madre. Rita apparirà in varie forme in diversi momenti della sua vita, lasciando tracce nei numeri, 3 e 10, e nell’immagine dell’albero che Claudio continua a vedere in ogni fondo di caffè, e a riprodurre in ogni suo disegno. Ogni volta che Rita ritorna sembra che il tempo faccia una curva intorno a lei, si pieghi in una spirale, risucchiandolo verso un dolore antico.
Il mistero di Rita si svela a poco a poco, nonostante lei stessa dissemini indizi, dita fredde, una voce senza consistenza, e alla fine gli dica la verità su se stessa:
«La morte non è così grave, Claudio.» «Tu come te la immagini?» «Io la concepisco come un sogno ripetuto, ma non un sogno circolare, piuttosto una ripetizione in spirale. Ogni volta che rivivi uno stesso episodio lo vedi da più lontano e questo te lo fa capire meglio.»
Ma lui non è pronto a capire. Bisognerà che arrivi in quel punto della vita in cui bisogna avere il coraggio di fare un salto di fede nei confronti della vita, scegliere tra la fascinazione del Nulla di una Rita che oscilla tra fughe e apparizioni e l’Aldiquà di Mariana, che è corpo e presenza.
Bisogna arrivare al momento in cui si ha la forza di immergersi nell’infanzia, accogliere tutto quello che la vita ha dato senza cedere alla tentazione dell’amnesia. Il momento della prima maturità, quell’affacciarsi su un futuro che è come un gioco d’azzardo, dove ci si arrende al desiderio di radici. Il momento in cui capisci, come spiega bene a Claudio lo zio Edmundo,
“che il mondo è enorme ma che il tuo mondo è minuscolo, lì cominci a recuperare l’equilibrio, be’, quel po’ di equilibro che ci è toccato nella spartizione e che non bisogna sprecare» .
Questo mondo minuscolo, individuale, si realizza attraverso scelte concrete, le uniche che sono nelle nostre mani, si costruisce attraverso i sensi. È un diario di bordo dei sensi che il padre scrive, è con i sensi che il cieco Matteo concepisce la realtà, e ancora con il tatto, con gli odori, che Claudio ha reso la casa di Capurro davvero sua.
Con la vita si danza una melodia di tango, che passa dalla geografia del corpo, come nel primo incontro tra Claudio e Mariana. Un tango è la musica del Dandy, è la canzone che ascolta Juliska quando, superata la menopausa dell’esilio, si adatta alla nuova patria, e il suo spagnolo si libera a poco a poco delle tracce del serbo-croato. Un tango è quello che ancora sente Claudio nel momento in cui, sul punto di decidere di sposare Mariana, di costruire con lei una casa che come dice suo zio “non è solo un bene materiale, ma un rafforzamento spirituale”, fa uno strano sogno, in cui rivede la propria vita in un movimento a spirale, fino a quando si rompe lo specchio che gli riflette addosso la maschera del nulla, e vede che al di là c’è il corpo nudo di Mariana:
“e lui riuscì ad appoggiare le braccia su quei fianchi meravigliosi, intimi, caldi, e riuscì anche ad avvicinare gli occhi a quell’ombelico unico, di tango e di goduria, di lavoro e svago, di gioco e sfida, di con-solazione e amore, e ci guardò dentro come chi spia da una serratura. E da quel carnale, splendido buco poté finalmente vedere il mondo, le strade e le praterie del mondo, un mondo con Nagasaki ma senza Rita, che era già qualcosa. E quando la serratura ritornò a essere l’ombelico di Mariana, ci appoggiò la fronte e bisbigliò: «Mariana e basta.»