Gli immortali, storie dal mondo di Alberto Giuliani

Gli-immortali-350x485.jpg

Il Saggiatore (che ha gentilmente concesso la pubblicazione di un estratto) ha appena pubblicato Gli immortali. Storie dal mondo che verrà di Alberto Giuliani. 

Un libro inclassificabile, composito. Un libro di viaggio ma anche un memoir. Un libro che parla del suo autore, dei suoi affetti, delle sue paure. Un libro di racconti, in un certo senso. Alberto Giuliani ci narra, per episodi, il pellegrinaggio che ha fatto alla ricerca di chi sta lavorando per scoprire il segreto dell'immortalità. In questo libro scopriamo le storie di chi si occupa di criogenesi, della vita su altri pianeti, di clonazione, di bunker contro l'apocalisse, di bolle trasparenti nelle quali conservare pezzi del nostro pianeta, per salvaguardarli. 
Dietro queste storie si nasconde la storia dell'Uomo. La storia dell'ossessione più grande che l'umanità abbia mai avuto e che ha mosso da sempre i nostri passi. Possiamo rintracciarne le prove a partire dall'Odissea per finire con gli ultimi studi in ogni campo del sapere. Ed è una cosa che accomuna tutti noi, da sempre e in ogni istante del nostro quotidiano.
Giuliani ci racconta queste storie – e così: La Storia – a partire da se stesso. Dopodiché, il suo sguardo curioso si sofferma, con grande intelligenza, sulle esperienze minime delle persone che ha incontrato, raccontandone il vissuto nel particolare, puntando l'occhio sul dettaglio, quello che illumina il tutto, rivelandolo. 
Il risultato è un cammino spirituale e filosofico e esistenzialista all'interno dell'animo umano, delle nostre paure e dei nostri desideri. 
Leggendolo è possibile scoprire e ricordarci una cosa essenziale: il motivo per cui siamo a questo mondo, il significato della nostra vita – e quindi della nostra morte.

Pubblichiamo un estratto del primo episodio del viaggio di Giuliani, in cui racconta di quando, una sciamana in Siberia prima e un bramino indiano poi, gli predirono una morte prematura e violenta, che dovrebbe avvenire l'anno corrente. Gli episodi, cioè, che hanno dato l'abbrivo a questo viaggio e alla semplice quanto splendente rivelazione cui conduce il suo autore, ovvero: il viaggiatore. L'uomo.

Andrea Cafarella

*

La profezia
di Alberto Giuliani

Ho sempre amato arrivare prima agli appuntamenti. Il tempo che intercorre tra ciò che abbiamo smesso di fare e ciò che faremo è privo di ansie: non devo e non posso fare altro che attendere. Finalmente smetto di inseguire il mondo, e in quei momenti mi sembra di riuscire a osservarlo davvero, evocando fantasie e speranze – che sono quasi sempre più dolci della verità. È come un viaggio: inizia nel momento in cui lo si immagina e quasi sempre ci porta, nella fantasia, in molti più posti di quelli che riusciremo davvero a visitare. A volte penso che dovrei sedermi e aspettare tutta la vita, anziché rincorrere le cose e perdermi, per riparare ai guai dell’andare. Se fossi su un pianeta lontano, basterebbe un istante. Dicono che lassù il tempo si dilati, strappato dalla gravità. Un sospiro nel cielo vale quanto un anno sulla Terra. Allora forse sarei già a casa, sano e salvo. Invece continuo ancora a girarmi tra le dita lo stesso anello che mi accompagna da vent’anni. Tozzo, con gli angoli smussati e uno zaffiro color miele affogato nell’oro ormai opaco. Dovrei tenerlo sul dito indice, invece lo porto all’anulare della mano destra, perché mi sembra stia meglio. Quando lo indossai per la prima volta ero dall’altra parte del mondo e in un’età nella quale si desidera che ogni esperienza lasci un segno sul corpo, per sembrare grandi contro la precarietà della vita. Fosse un bacio o una cicatrice. O un anello, appunto, che ora mi ricorda di questa storia iniziata molto tempo fa. L’ho portato sempre con me perché mi aiutasse a cacciare la paura. Ma dopo tanto tempo, quella mi è venuta a prendere per trascinarmi in questo viaggio. Non ha certo fatto fatica a portarmi via perché, da che ho memoria di me stesso, andare è sempre stata la medicina contro ogni male. Quando le situazioni non funzionano più, prendo le mie cose e me ne vado, senza clamore. Non si tratta di fuggire. Credo piuttosto che abbia a che fare con un istinto nomade e col rispetto della felicità. Se i prati sono esausti è sterile restare, perché poi viene solo il buio e il freddo, come d’inverno. Mentre vado invece, i ricordi corrono fuori dal finestrino, col vento, insieme al paesaggio. E nella luce dei nuovi incontri, nella nostalgia per il passato, ritrovo i sentimenti. A volte mi basta salire su un treno o guidare qualche ora per sentirmi meglio, altre volte invece non mi fermo e ciò che lascio rimane per sempre alle mie spalle, nella memoria, bello come il ricordo di un’avventura. La passione per il viaggio nasce da mia madre, e suonò alla porta di casa in un pomeriggio d’estate dei miei otto anni. Andai ad aprire col gatto in braccio e i piedi scalzi. Un signore sulla sessantina, cappello da sole e camicia celeste intrisa di sudore, se ne stava seduto su un motorino davanti a me, con il portapacchi pieno di giornali. Altri li aveva impilati tra le gambe, e in diversi sacchetti appesi alle manopole del manubrio. Era l’edicolante della piazza e mi diceva che la nostra raccolta di viaggio era conclusa e che restava da pagare. Corsi a chiamare mio padre, che lavorava in uno studio ricavato nella mansarda, con la scrivania rivolta alle finestre sul giardino. Sapevo che non amava essere disturbato, così restando sull’uscio gli dissi sottovoce che c’era un signore alla porta che voleva venderci delle cose. Mio padre non era un uomo tirchio, ma la miseria vissuta nell’infanzia della guerra gli aveva insegnato a essere parsimonioso e a vivere l’essenzialità come un valore. In questo era l’opposto di mia madre, che per riscatto dalla stessa miseria spendeva ciò che poteva e aveva una particolare ossessione per i libri di viaggio o qualsiasi cosa le raccontasse di paesi lontani. Era stata lei a chiedere all’edicolante sotto il suo ufficio di tenerle da parte le uscite di una enciclopedia a fascicoli, salvo poi dimenticarsene quando la compagnia telefonica per la quale lavorava fu spostata fuori città. Lasciando la scrivania, mio padre brontolò qualcosa tra sé ma poi non aggiunse nulla, e mentre io portavo i giornali sul tavolo del soggiorno, lui pagò un anno e mezzo di arretrati senza obiettare. Sapeva che quei giornali erano importanti anche se nessuno li avrebbe mai sfogliati. Le mappe del mondo erano per mia madre l’atlante dei ricordi, dove ricostruiva i pezzi di una famiglia polverizzata dalla geografia e dal bisogno, fatta di emigranti e malinconia. Nelle pagine dei suoi libri di viaggio riusciva a guardare l’Argentina e a trovarci suo padre, che l’aveva lasciata per un campo di polvere e cipolle in Patagonia. Tra le vie simmetriche e ortogonali di Buenos Aires cercava un cimitero di periferia dove era sepolta sua sorella e nelle fotografie dei pescatori sul Rio Paraná trovava la loro infanzia. Sognava di andare in Canada, dove quello zio con le mani ruvide da muratore aveva sposato una stilista di moda e che poi, poveretto, aveva finito i suoi giorni in un manicomio. Immaginava il Kenya, dove si erano trasferiti i cugini, compreso quello che si era innamorato della cinese e si era perso chissà dove. Rimasta sola, a quattro anni mia madre fu affidata alle cure di una zia adottiva e cominciò a guardare l’orizzonte come un naufrago. Voleva proteggere le radici, perché tutti avevano promesso di tornare un giorno. Il tempo, invece, ha rarefatto ogni rapporto e reso la sua vita simile a un esilio. Lei non ha mai voluto partire, per paura che il mondo facesse perdere anche lei, ma in quei volumi incellofanati e muti come tombe aveva trovato la forza per andare avanti. Compresi quella sua nevrosi solo da grande. Nell’infanzia invece, mi sedevo ai piedi delle librerie e aprivo un volume a caso con la stessa curiosità con cui si apre un baule in soffitta. Amavo l’odore della carta patinata, il rumore che facevano le pagine e gli sbuffi con cui ricadevano le une sulle altre. Iniziai a viaggiare così, con la fantasia, strappando da quei libri le figure che più mi piacevano e ficcandole in uno zaino nascosto sotto al letto. Fingevo di essere stato in un posto diverso ogni giorno, di aver incontrato gli indigeni o navigato con le balene. Non sapevo se avrei mai avuto il coraggio di partire davvero, fino a quando l’adolescenza prese il sopravvento e tutto ciò che mi circondava divenne noioso. Avevo tredici anni, in Cina i ragazzi occupavano Piazza Tienanmen, a Berlino abbattevano il muro e io passavo le mie giornate tra l’algebra e gli antichi egizi, con pessimi risultati in entrambe le cose. Mi vergognavo del mio corpo troppo esile e lo annegavo in felpe troppo larghe. Avevo sempre un cappuccio a coprirmi il volto e pedalavo su una bicicletta scassata per andare agli allenamenti di basket, dove l’unico canestro che feci durante una partita fu un auto-canestro. Mi sentivo inutile e tutto mi sembrava senza senso: cominciavo a pensare seriamente che me ne sarei dovuto andare davvero. Quell’autunno, per il mio compleanno, mio padre mi regalò una macchina fotografica. Disse che così avrei potuto immortalare i momenti belli, ma se fosse servita per quello avrei potuto tranquillamente lasciarla nella scatola. Invece me la misi al collo e cominciai a fotografare ogni cosa. Non lo facevo per fermare il tempo, semmai al contrario. Sentivo che mi spingeva oltre i miei limiti, che mi faceva crescere. Quell’apparecchio tra le mani mi dava un ruolo agli occhi degli altri, riscattava la mia inadeguatezza facendomi stare al centro dell’attenzione e, cosa più importante di tutte, si metteva tra me e il mondo facendomi sentire protetto. Fu così che la macchina fotografica diventò il passaporto per ogni mia insolente curiosità, fu il viatico del mio viaggiare e divenne presto anche il mio lavoro. Finita la scuola cominciai a partire senza dire a nessuno dove sarei andato né quando sarei tornato. Volevo vivere ogni cosa, essere tutto e come nessuno, senza troppe domande sul futuro, perché a quell’età mi sembrava semplicemente eterno. Anche quando un giorno, in Siberia, mi parlarono della fine della vita. Era l’ottobre del 1996 ed ero arrivato al lago Bajkal su commissione di un giornale tedesco. Mi avevano assegnato come interprete una ragazza di San Pietroburgo di nome Anna, giovane quanto me, con le gote rubiconde e lo sguardo lieto. Doveva essere un lavoro semplice, invece dopo due settimane non avevo ancora fatto una fotografia buona. L’arrivo dell’inverno aveva mandato all’aria ogni mio programma e la sfortuna mi stava convincendo a mollare il colpo. Seduto sul letto della mia camera d’albergo a Irkutsk, mi misi a contare i dollari che mi restavano. Anna se ne stava in piedi davanti alla finestra a guardare la prima neve e una mucca che pascolava in giardino. «Poco più di mille. Che facciamo?» «Hai visto che carina?» «Anna potresti lasciar stare la mucca e aiutarmi a capire cosa fare? Il treno per Mosca parte domattina e l’aereo non ce lo possiamo più permettere.» «Andiamo avanti.» «Dove?» «Non so. Aspettiamo. Se siamo qui ci sarà un motivo.» Il fatalismo era forse la qualità di Anna che più ammiravo, insieme alla sua caparbietà. Non mi sono mai rassegnato agli eventi, ma devo ammettere che in quel momento non vedevo alternative. In quella stanza d’albergo ricoperta di rose stampate su una carta da parati ingiallita dal tempo, tutto mi sembrava immobile. Come se nulla fosse mai accaduto e nulla mai fosse potuto accadere. Ma un viaggiatore ha bisogno di credere che il luogo in cui si trova abbia un significato così da acquisire un significato egli stesso. Perciò decisi di fidarmi di Anna, anche perché l’intuito delle donne a volte vede meglio della ragione. Arrotolai i soldi e li misi nel portadocumenti di camoscio che tenevo sempre appeso al collo. Mi infilai il cappotto e porgendole il suo le dissi che volevo uscire a camminare e che avevo fame. Le strade ottocentesche di Irkutsk scendono al fiume Angara tra facciate che sembrano coperte di glassa colorata. Un tempo la chiamavano la «Parigi della Siberia», e anche se il mio stato d’animo non era adatto a un simile romanticismo la dimensione modesta della città e la sua grazia sfuggente addolcirono le mie angosce. Alcune giovani donne passeggiavano a braccetto in una chiassosa baldoria, sotto la neve che ora cadeva a fiocchi grossi e bagnati. Gonna corta, passi lunghi e lucidi collant. Precedevano i nostri passi sulla via Marx, tra negozietti e chioschi che vendevano tutti le stesse cose. Erano arrivati i primi fast food e l’odore di patatine e pel’meni – i ravioli siberiani – si diffondeva nell’aria. Una coppia di cammelli attraversava la strada e da qualche parte a est, dietro le colline, si apriva il lago Bajkal. Il più profondo del mondo, il più grande, il più tormentato. Era un Mare Sacro per i nativi, che lo veneravano e lo temevano, perché si diceva che dal suo respiro nascesse il Sarma, una tormenta gelida e improvvisa, che aveva riempito il cimitero della città di giovani pescatori. Solo l’inverno portava una sorta di pace. I venti si sopivano, il lago gelava e la sua superficie si faceva tanto dura da diventare strada per i camion e campo di gioco per i bambini. Nell’aria sommessa di questa stagione camminammo fino al mercato principale della città, dove commercianti di pellicce, cercatori di minerali e contadini si ritrovavano ogni giorno per vendere le loro mercanzie, stese ordinatamente a terra come si usava fare cento anni fa. Nel periodo della corsa all’oro, i padri di questi piccoli commercianti fecero fortuna da un giorno all’altro e nelle notti debosciate dei night e delle bische clandestine persero ogni cosa, rimanendo intrappolati nel cuore dell’Asia e nella miseria, che con la caduta del comunismo aveva dato a Irkutsk i peggiori primati della violenza. Qui ogni sera i capifamiglia avevano l’abitudine di affacciarsi alla finestra di casa, sparare un colpo a salve in aria e poi andare a dormire. Tra un centro commerciale dalle vetrine sporche e le finestre di un palazzo abbandonato, si alzava l’edificio del telegrafo con l’intonaco celeste dipinto di fresco. In un angolo, un’insegna indicava l’ingresso di un fornaio, un caffè e un ristorante, dove secondo Anna servivano un ottimo tsuivan, cioè noodles fritti con carne di capra e cipolla. Seguimmo le indicazioni entrando in un corridoio spoglio, con un pavimento fatto di assi vecchie e marce. Sul fondo, una scritta dipinta sul muro diceva «Krasivyy i khoroshiy», belli e buoni. Quello era il posto di cui parlava Anna, un salone da ricevimenti che doveva aver goduto di gloria e fama, delle quali però non rimaneva che la decadenza. Al centro, un gradino più in basso del resto del locale, c’era la pista da ballo, con un pavimento sconnesso e polverosi festoni colorati appesi al soffitto. Tra i ripiani di una scaffalatura a specchio erano ancora conservati i trofei delle vecchie gare di ballo, con la falce e il martello incisi sopra. Un ritratto di Lenin li guardava da una cornice rotta, appoggiata a terra sotto l’ombra che il tempo aveva lasciato sul muro. Alcuni tavoli disposti in maniera disordinata erano l’unico segno capace di rammentare un ristorante. Erano apparecchiati con una tovaglia di raso bordeaux, un vaso di fiori finti e un cestino di plastica colorata per il pane. Sul lato opposto del salone invece, gli arredi della festa lasciavano spazio a un parrucchiere, con il casco per la messa in piega, una bacinella per lavare la testa e una sedia sistemata davanti a uno specchio ovale. Stupito per quello strano accostamento, non avevo notato una donna anziana che un po’ in disparte ci guardava, con occhi piccoli e aggressivi. Se ne stava seduta su una poltrona verde, rivolta verso una finestra. I capelli tinti di un biondo quasi giallo e il corpo robusto, in una tunica di velluto scuro coperta di ricami rossi. Sulle gambe reggeva un grande tamburo, sottile e rotondo, con il cuoio consumato dall’uso. Per un attimo pensai che quella donna fosse seduta lì dall’ultima festa. «Non mi sembra un gran ristorante» dissi ad Anna. Ma non feci in tempo a finire la frase che a passo di marcia lei stava già attraversando il salone. Si avvicinò alla donna e iniziò a parlarle. Dopo un istante di esitazione seguii i suoi passi ma, non capendo niente di quello che si dicevano, continuai a sorridere, annuire e volgere lo sguardo altrove con aria distratta. Finché l’anziana mi fece segno di avvicinarmi. Allungò un braccio verso di me e sfiorandomi i polsi mi invitò a inginocchiarmi. Anna annuì senza fiatare, mentre stendevo le braccia sulle gambe di quella donna, che ora teneva le mie mani tra le sue. Aprendole al cielo e stringendole sui fianchi, esaltò le pieghe del tempo che attraversavano i miei palmi. Su quelle rughe iniziò a far scivolare i suoi polpastrelli, come se dovesse togliervi un granello di polvere, come un cieco che ha bisogno di toccare per riconoscere. Al suo solletico provai a ritrarre le mani e lei le strinse con fermezza, senza distrarsi. Poi il suo sguardo si fece serio e dalla veste, vicino al cuore, estrasse un pugno di pietre bianche, piccole e rotonde come nocciole. Le posò sulla mia mano destra e mi ordinò di lasciarle cadere a terra. Non ho mai creduto a chiromanti e fattucchiere, alle quali riconosco solo mediocri capacità psicologiche e un sopraffino intuito truffaldino. Ma quando si è in viaggio le cose si mettono diversamente. Si ha del tempo da perdere e ci si sente più liberi. Per questo ci apriamo a cose che altrove rifiuteremmo e che alla fine ci fanno ritrovare diversi. Questo in fondo è il viaggio: un palcoscenico dove ci mettiamo in scena, davanti a un pubblico che non vedremo mai più. Lasciai cadere quelle pietre come la donna mi aveva ordinato e le guardai rotolare sul pavimento mentre si disponevano come pianeti nella galassia del caso. Nel loro movimento io vedevo solo le leggi della fisica che combattevano nella materia, per spingersi oltre quella venatura del pavimento o fermarsi su quella cicca di sigaretta schiacciata a terra. Invece, nelle stesse rotte quella donna leggeva il mio destino, e lo raccontava ad Anna in una lingua a me sconosciuta. «Anna ti dispiacerebbe tradurmi ciò che dice? Anche se sono cazzate sono curioso.» «Dice che viaggerai molto lontano.» «Bella fatica.» «E che avrai tre figli. Uno sarà più piccolo degli altri.» «Almeno conosce l’aritmetica!» Sussurrando parole, la donna si alzò dalla poltrona con gesti stanchi e si accovacciò vicino alle pietre rotolate più lontano. La osservavo divertito, aspettando solo che mi chiedesse dei soldi. Ma le cose presero una piega che non mi sarei mai aspettato. Irkutsk è un luogo caro agli sciamani, che sulle sponde del Bajkal hanno trovato i loro demoni e i loro dèi. Per secoli sono stati i custodi della memoria dei popoli, delle tradizioni e dei segreti tramandati. Vestiti di mantelli adorni di tintinnanti ornamenti e acconciati con piume o corna, invocavano il bene e il male. E dialogavano con la morte al ritmo di tamburi e mazzafrusti. La loro magia non mi aveva mai affascinato, ma pur non avendo una chiara idea di come potesse apparire uno sciamano di oggi, doveva certamente essere qualcosa di diverso da questa donna, che strisciava sul pavimento cercando chissà quale filo smarrito. Gli spiriti non potevano tollerare tanta volgarità. Questi pensieri furono interrotti da una sommessa risata di Anna che, portandosi una mano alla bocca, scambiò uno sguardo complice con la donna.
«Cosa dice?»
«Parla del tuo sesso.»
«Mi interessa.»
«È curioso.»
«Cosa?»
«Niente, lascia stare, è una sciocchezza.»
«Si ma visto che vi faccio ridere…»
«Lascia stare, poi ti spiego.»
Davanti a me Anna cambiò improvvisamente espressione. Si era fatta cupa, accigliata e muta, come chi non è certo di capire. Curvò la schiena e chinò il capo, porgendo l’orecchio alla voce della donna che tra le pietre sussurrava parole col ritmo di una nenia. Poi quella si alzò da terra e disegnando un cerchio nell’aria inspirò con soddisfazione un profumo che solo lei sembrava sentire. E tornò a sedersi sulla poltrona. «È finito il mio futuro?» chiesi con aria da sbruffone. Anna sollevò la mano per dirmi di aspettare. Scambiò qualche parola con la donna, poi mi chiese se volevo davvero sapere. «Cosa?» domandai. «Non è bello. Te lo devo dire?» «Vuole dei soldi?» «No. Dice che morirai.» «Sì, di fame, se non andiamo a mangiare in fretta.» «Prima di compiere quarantacinque anni…» Mi sembrò il colpo di scena finale di un film scadente. Avevo vent’anni e non credevo affatto che un giorno sarei morto. Diedi un ultimo sguardo alle pietre per terra, presi Anna sottobraccio e me ne andai.