Con La casa della fame, di Dambudzo Marechera, Racconti Edizioni lancia la nuova collana Scarafaggi, dedicata alle narrazioni che sconfinano dal racconto classico, inserendosi nella tradizione del racconto lungo e, più propriamente, nella novella.
La casa della fame, tradotto da Eva Allione, è una brutale rappresentazione della vita quotidianamente onirica in un paese dilaniato dalla carestia e dalla guerra, la Rhodesia di Ian Smith al nadir del dominio coloniale e segregazionista. Esistenze fratturate che si concentrano attorno a un bar scalcagnato e a una casa da cui per quanto si cerchi di sfuggire non si riesce mai ad allontanarsi abbastanza. Un mondo dove la violenza regola ogni rapporto e la follia prende lentamente possesso del protagonista, un io narrante che conduce le danze a un ritmo impenetrabile e allucinato, zigzagando tra i detriti e le macerie che chiamiamo Africa.
La casa della fame sarà in libraria dal 16 Maggio 2019, e Cattedrale ne anticipa l’uscita con un estratto.
*
Presi le mie cose e me ne andai. Stava sorgendo il sole. Non mi veniva in mente un posto dove andare. Mi incamminai verso il bar ma mi fermai al negozio di liquori a comprare una birra. C’era gente sparsa dappertutto nell’ampia veranda del negozio, a bere. Mi sedetti sotto il grande msasa dai rami che graffiano la lamiera ondulata dei tetti. Cercavo di non pensare a dove stavo andando. Non ero risentito. Ero contento che fosse andata com’era andata: non potevo restarci più in quella Casa della fame dove ti portavano via ogni boccone di sanità mentale come certi uccelli che strappano il cibo dalla bocca dei bambini. E poi gli occhi di quella Casa della fame ti seguivano come se ci fosse una qualche bestia indescrivibile pronta a saltarti addosso. Certo, c’era la ragazza. Ma che altro potevo fare, con Peter che gliele dava dalla mattina alla sera? E poi, il mio intervento non era stato disinteressato come avrei voluto. Sì, il sole sorgeva tanto in fretta che prima ancora di accorgerti quanto era alto sulle montagne già ti picchiava in mezzo agli occhi. Mi tolsi la giacca e me la ripiegai fra le gambe. Così com’erano andate le cose, nessuno avrebbe potuto incolpare qualcun altro per la fame della propria anima. La mia era già lì che ardeva polverosa sotto il sole del mattino e io non sapevo quale fosse, né se c’era, il modo per placarla. Ma di testa ero lucido: e quando i poliziotti neri si misero a sfilare e rendere omaggio alla bandiera e l’impiegato nero del ghetto si avviò disinvolto verso i camion della lager e un gruppo di scolaretti in divisa kaki e verde si lanciò a perdifiato verso la scuola grigia al suono della campanella ebbi come la sensazione di passare in rassegna tutti i dettagli dello stronzo fetido che era stata ed era ancora in quel momento la mia vita. I poliziotti furono congedati. Il sergente era un metro e ottanta d’arroganza, magro e affamato e furbo come un camaleonte che caccia una mosca. Quel camaleonte lì alla Casa della fame di preoccupazioni non ne aveva ancora date. Di spiacevolezze ce n’erano state eccome però. C’era stato il vecchio, che era morto in quel brutto incidente ferroviario e che una volta si era ficcato nei guai per accattonaggio. E poi Peter, finito dentro per aver accettato una stecca da una spia della polizia. Una volta scarcerato non riusciva a farsela passare. Continuava a parlare dei bianchi di merda; quella frase, «bianchi di merda», sembrava cuocergli il cervello, e gli scontri in cui si ficcava terrorizzavano tutti al punto che non ce n’era uno sano di mente che osasse contraddirlo. E se ne andava in giro furioso e in cerca di uno scontro che di fatto non c’era. E siccome di quello scontro aveva fame, la gente glielo leggeva in faccia, e perciò lo apprezzava. Il che peggiorò la situazione, finché la sua donna rimase incinta e l’ispettore scolastico disse che in quello stato non poteva insegnare, e Peter minacciò di prendere il cielo e farne polvere e si rifiutò di sposarla perché voleva essere «libero». Fu durante quello scandalo che nostro padre si prese qualcosa di tossico e cominciò a star male davanti ai nostri occhi e smise di parlare anche se sapevamo che sapeva che sapevamo che era tutta una sua mossa per spingere Peter a sposarsi. Dopotutto lei era tenera e dolce e rigonfia del suo sperma e a noi non ci sembrava vero che Peter fosse così fortunato. Fu proprio in quei giorni che la mia classe come le altre dell’ultimo anno si riversò in strada per protestare contro le discriminazioni salariali e io come tutti gli altri passai qualche ora in gattabuia – e impronte digitali e fotografie e qualche buffetto sulla guancia perché «devi mettere giudizio», anche se il preside tenne a freno la bile e si limitò a farci una filippica che prima di degnarsi di alzare le barricate uno deve prendersi almeno il diploma. Allora avevo un’estrema fame di autoconoscenza ed ero curiosamente convinto di trovarla nella «coscienza politica». Tutti noi giovani neri avevamo questa sete. Non c’era oasi di pensiero che non prosciugavamo a furia di leccate – a parte le oasi che ci avevano vietato, che se le bevevi ti portavano in galera o altre seccature del genere. Avevo smesso di struggermi per l’irraggiungibile Julia, che mi era stata affidata dal mio migliore amico. Ero arrivato al punto in cui non aveva più senso stare lì a tormentarsi se trovare o meno dei soldi e sfidare gli ignoti terrori delle malattie veneree – magari con l’aiutino della dagga. Li avevo già affrontati in una notte tempestosa, e solo per uscirne pentito. Peter naturalmente aveva capito tutto. «Finché non ci passi non sei un vero uomo» disse. E io confermai e feci un sorriso suadente perché lui sapeva dove trovare la cura, o almeno dove andare per farsi le iniezioni con una certa discrezione. Quell’esperienza mi lasciò un irriverente disgusto per le donne che non mi ha più abbandonato. Mai più avrei sofferto con tanto trasporto per una donna. Ma non tutti erano disposti a grattare la schiena al prossimo. All’università ci furono arresti di massa e altri arresti ancora quando in sciopero ci si misero i lavoratori. Gli arresti facevano talmente parte del companatico che nessuno batté ciglio quando una mattina giustiziarono due guerriglieri e lasciarono i cadaveri in bella mostra davanti a un gruppo di scolaretti. C’era tuttavia un tumulto dello spirito che ci spingeva tutti quanti a vagare in cerca di quell’irraggiungibile elisir a cui la nostra irrequietezza preludeva. Ma era una ricerca vana, perché sembrava che l’elisir fosse sotto il nostro naso e al tempo stesso non ci fosse. La libertà che bramavamo – come si brama la dagga o la birra o le sigarette o l’aldilà – questa libertà era così viva nel nostro respiro e nelle nostre dita che ne venivamo intossicati ancor prima di averla effettivamente scovata. Come un uomo che si lecca le labbra sognando un banchetto; una donna che danza sognando un carnevale, o il vecchio che corre al passo della gazzella anelando ai giochi funebri della sua gioventù. E però il banchetto, la festa e i giochi in realtà non c’erano. Era questo il paradosso che una volta scoperto ci lasciava turbati, infurbiti e nel migliore dei casi dolenti perché consci che non ci saremmo mai più sentiti così. Non c’erano addii consapevoli all’adolescenza, perché il vuoto si era già insediato in fondo alle nostre budella. E sapevamo che di fronte a noi se ne spalancava un altro con un appetito da lupo, e di cose vive. La vita si dispiegava come una serie di baracche rosicchiate dalla fame dispiegata all’infinito verso l’orizzonte. La mente si trasformava in quelle stanze lerce, le ragnatele polverose dove i minuti scheletri della nostra infanzia restavano per sempre intrappolati in quella presa aracnea che si estendeva a includere non soltanto le pietre stesse su cui si camminava, ma le stelle che scintillavano indistinte sul fetore della nostra vita. Torcibudella, ecco cosa diventavi col tempo. E quali che fossero gli insetti del pensiero a ronzarti in quella latta che ti ritrovavi al posto della testa, quando t’accovacciavi sulla sua latrina, il sole continuava comunque a innalzarsi più veloce che mai e la notte cadeva rapida sulla terra com’era caduta negli anni andati.