È in libreria Non devi dirmi che mi ami, di Sherman Alexie, pubblicato da NN Editore. Un libro che è molte cose: raccolta, memoir, in cui prosa e poesia si fondono in una scrittura incantatoria e ammaliante, lungo il percorso di vita dello scrittore nato e cresciuto nella riserva indiana di Wellpinit.
Per gentile concessione dell’editore, Cattedrale vi propone uno dei racconti accompagnato dalla nota introduttiva della traduttrice Laura Gazzarrini.
Libertà
Nel febbraio 1979 tornai a casa dalla scuola della riserva e dissi ai miei genitori che dovevo andarmene. Volevo andare al college e diventare un pediatra. E non sarebbe mai potuto succedere se fossi rimasto nel sistema scolastico della riserva.
Erano anni che cercavo di fuggire da lì. Voglio dire, le riserve indiane sono state create dai bianchi per funzionare come campi di concentramento rurali, e credo che l’intento primario sia ancora questo. Così, è ovvio che fossi scappato di casa già in terza elementare. Avevo riempito uno zaino con fumetti, panini con il burro di arachidi e occhiali da vista e camminai per più di tre chilometri prima che mia madre mi trovasse.
Da quel momento, mi ha ripetuto spesso: «Junior, sei nato con la valigia in mano». Senza dubbio un complimento per un nomade. Peccato che la mia tribù non sia nomade da più di un secolo.
Quando tornai a casa in quel gelido giorno d’inverno del 1979 e chiesi ai miei genitori il permesso di lasciare la scuola della riserva, non sarei rimasto sorpreso se me lo avessero impedito. Avevo appena dodici anni e stavo chiedendo di abbandonare la tribù per diventare un rifugiato indigeno a Reardan, un paese di contadini.
«Posso andarmene?» chiesi.
E loro, consci del fatto che stavo voltando le spalle a migliaia di anni di tradizioni tribali per andare a vivere in mezzo ai bianchi, mi dissero: «Sì».
I miei genitori, così feriti e fragili, ebbero la forza e il coraggio di darmi la libertà.
Credo sapessero che non sarei più tornato, né con il corpo né con lo spirito, ma mi amavano troppo per costringermi a rimanere.
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Laura Gazzarrini
Sherman Alexie lo dichiara più volte: Non devi dirmi che mi ami è un memoir. Il suo primo, vero, memoir. Certo, la faccenda si complica quando capiamo con che tipo di narratore abbiamo a che fare: alcuni capitoli si allungano per diverse pagine, altri sono composti da una poesia o magari soltanto da un paio di righe. Ricordi che cercano di seguire un ordine cronologico (si parte da inizio anni Settanta e si arriva ai giorni nostri) vengono intervallati da approfondimenti sulla storia della comunità tribale degli Spokane, in cui Alexie è nato e ha vissuto fino all’adolescenza, o da salti indietro e in avanti che riportano alla luce avvenimenti e aneddoti a volte divertenti, molto più spesso cupi e dolorosi. E poi, sarà tutto vero quel che ci viene raccontato?
Per l’intero libro, comunque, si percepisce chiaramente la difficoltà che Alexie ha provato da ragazzino, e prova ancora oggi, a essere diviso fra il mondo occidentale, dei bianchi, in cui spesso si ritrova a essere l’unico nativo americano e quindi a essere guardato e trattato come un animale raro, e la riserva Spokane in cui ancora vive gran parte della sua famiglia: lui è l’indiano che ha deciso di abbandonare la riserva e le sue tradizioni per inseguire fama e denaro, lui è l’indiano senza più “indianità”.
In Non devi dirmi che mi ami si parla di molti componenti della famiglia Alexie: dei fratelli e delle sorelle di Sherman, dei cugini, degli zii e dei nonni, ma appare chiaro fin da subito che la figura centrale è quella di Lillian Alexie, sua madre, scomparsa nel 2015. Un esempio perfetto di quella “scrittura come terapia” a cui Sherman accenna diverse volte nel corso del libro. Proprio come era stato per la morte del padre, avvenuta nel 2003 e raccontata nelle pagine di Danze di guerra (NNE, 2018), Alexie cerca di superare il dolore e il senso di colpa facendo quello che sa fare meglio: scrivere. Ci troviamo così davanti a una vera e propria cascata di parole che si ripetono, si ripetono e si ripetono, donando all’intera opera un’idea di circolarità, di eterno ritorno. Come riconosce lui stesso, la struttura di Non devi dirmi che mi ami ricorda quella delle trapunte che sua madre ha cucito per tutta la vita: quadrati di stoffa “ad infinitum” che seguono schemi precisi e si incrociano formando sempre gli stessi pattern.
Dal punto di vista traduttivo, le sfide sono state parecchie. Ogni capitolo è caratterizzato da giochi di parole, rime e assonanze che costituiscono parte fondamentale della cifra stilistica di Alexie e che spero di essere riuscita a rendere al meglio, per una lettura scorrevole e senza intoppi.
Per quanto un lettore italiano possa sentirsi distante da un mondo fatto di powwow, capanne sudatorie, orsi e salmoni, sono sicura che nel corso di queste quasi cinquecento pagine riuscirà a immergersi e, forse, anche a immedesimarsi, nell’intricata relazione fra Sherman e Lillian; un figlio e sua madre, un sopravvissuto e un fantasma.