Lot, di Bryan Washington

Autore: Bryan Washington Titolo: Lot Editore: Racconti Edizioni Traduzione: Emanuele Giammarco pp. 226  Euro: 18

Autore: Bryan Washington
Titolo: Lot
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione: Emanuele Giammarco
pp. 226 Euro: 18


di Debora Lambruschini

Stratificato. La prima parola che mi viene in mente pensando a Lot, di Bryan Washington, è “stratificato”. Tanti sono gli spunti, le chiavi di lettura con cui potersi confrontare nel corso della lettura, fino ad arrivare idealmente allo strato primario, al cuore di questo libro dalla forma ibrida, tra romanzo e raccolta di racconti, un centro della narrazione che riassumo ancora in una parola, identità. Lot è un esordio narrativo che è valso al suo autore numerosi premi e riconoscimenti e che è arrivato in Italia grazie a Racconti edizioni, da sempre attenta a dare spazio alle voci più innovative, sperimentali, vibranti, della narrativa breve. Ed è un testo che si muove al confine tra due forme letterarie, riassumendo in sé caratteristiche di entrambe, piegando la narrazione alle necessità della storia, delle voci che la compongono, quel mosaico di esistenze che, più di ogni altra cosa, sono la parte viva e pulsante di questo libro: dal romanzo deriva lo slancio verso una narrazione ampia, lo sviluppo di una vicenda che sovrasta le altre voci del libro e ne è il filo conduttore; dal racconto – da un certo tipo di racconto, almeno – Lot ricava l’interesse per il frammento, l’istante, la fotografia letteraria di momenti precisi di innumerevoli vite che, si diceva, compongono il mosaico di questa narrazione, con le loro sporadiche epifanie e rivelazioni, lampi che squarciano la pagina. E, ancora, quel desiderio di lasciare ampi spazi vuoti nella narrazione che sarà compito del lettore colmare, con la stessa libertà con cui ci si concentra su un’immagine, un oggetto, un sapore – la narrazione è ricchissima di riferimenti al cibo – per trovare la propria personale chiave di lettura. Washington, con una lingua priva di orpelli e artifici, ma che a tratti sa farsi quasi lirica, compone un mosaico di esistenze ai margini, raccontando gli Stati Uniti delle minoranze, nella Houston dei quartieri popolari, di quelle stesse zone che danno il nome a ogni capitolo, degli immigrati. E forse la cosa più sorprendente è la capacità di maneggiare una materia tanto attuale e complessa senza restare invischiato nella retorica, senza cedere a sentimentalismi o banali semplificazioni. Eppure in Lot il tempo storico è solo un dettaglio marginale, conta molto di più lo spazio preciso entro cui queste esistenze si consumano – termine che non scelgo per caso – quasi a suggerire l’idea che un certo tipo di conflitto, di difficoltà, sono in fondo sempre le stesse, da un decennio all’altro, perché mai risolti. È il colore della pelle, l’appartenenza a una certa minoranza (soprattutto neri e latinoameicani), a determinare a quale America si appartiene. Un Paese che viaggia su due binari e, non a caso, è proprio vicino a essi che queste vite si svolgono. La narrazione quasi sempre in prima persona maschile, la scrittura cruda, infarcita di slang e richiami culturali, con cui la traduzione di Emmanuele Giammarco ha dovuto fare i conti per restituire al lettore italiano quella complessità linguistica che è specchio di una moltitudine di esistenze, un melting pot linguistico e culturale ben reso sulla pagina.
In questa Houston di case popolari, macchine scassate, quartieri di droga e degrado, periferia di una città che sembra lontanissima, Bryan Washington non cala i suoi personaggi su un ideale sfondo narrativo, piuttosto è come se fotografasse quegli uomini e quelle donne colti nella realtà del proprio quotidiano, senza edulcorare nulla o, al contrario, regalare al lettore improbabili catarsi. C’è poca consolazione in queste storie, ma c’è molta umanità, che l’autore racconta svincolata da intenti di riflessione politica e sociale, verso cui, semplicemente, proietta il lettore. Manca l’urgenza e la forza politica di Colson Whitehead, James Baldwin, Angela Davis, Ta-Nehisi Coates, solo per citare alcuni tra i più importanti intellettuali che si sono confrontati ognuno a modo proprio con la questione razziale, eppure anche il testo di Washington, pur svincolato da tali intenti, non si sottrae alla situazione civile, restituendola con il racconto dei fatti.  

Tornando alla narrazione pura, ciò che l’autore calibra magistralmente sono i silenzi: le parole che mancano, le distanze, l’incapacità di comunicare. Alcuni silenzi sono così ingombranti e assoluti che sembrano farsi corpo:

Riempivamo gli angoli con il nostro silenzio. E questo filtrava nel corridoio. Avresti detto che eravamo sereni. Ci avevano costruito accanto un centro commerciale, e le cantilene degli ubriaconi squillavano attraverso le finestre. Ma in generale era più il silenzio. Di quelli che ti sigillano le orecchie.
 (“610 North, 610 West”, p. 42)

I silenzi di figli che non sanno come venire a patti con la propria identità o colmare quella distanza generazionale in cui sono avvolti; i silenzi dentro cui si cela la solitudine, la disperazione per l’abbandono, la paura che attraverso la parola quello che siamo diventi davvero reale e rompa definitivamente quei fragili equilibri su cui poggia un’esistenza; la parola ha un potere straordinario, da forma e dignità alle cose o può distruggerle. Il nome stesso del protagonista che fino alla fine non viene pronunciato – e mi ricorda in questo, fra tanti, “Il nome della madre” di Roberto Camurri, una mancanza così totalizzante da non riuscire a farne il nome, fino alla fine – e il senso di intimità che ne deriva, lo svelamento, scoprirsi nudi e vulnerabili quando il nostro nome scorre sulla bocca di un altro.
I silenzi sconcertati, per un abbandono che non doveva sorprendere più di tanto forse, eppure quando infine si concretizza davvero lascia ugualmente basiti, a pezzi:

Quando nostro padre si era defilato per sempre, si era portato con sé ogni suono della casa. Mamma non avrebbe parlato per un altro paio di settimane, almeno non con noi; così le ultime parole che gli aveva dedicato erano le uniche ad aleggiare nell’aria.
(“Lot”, p. 110)

Ecco, insieme ai silenzi, alle parole mancanti, sono le assenze l’altro grande perno della narrazione: famiglie che si disgregano, un pezzo dopo l’altro, fantasmi che aleggiano tra le stanze di cui si conserva ancora, ostinato, il ricordo. Uomini che fuggono dalle proprie responsabilità, padri assenti; figli che si allontanano, per sopravvivere, per mettere una distanza con il luogo d’origine; uomini incapaci di restare perché vorrebbe dire svelarsi, completamente, e rendere concreta una possibilità.

 

Ecco quanto è facile andarsene da una vita. Me l’ero sempre chiesto, e ora lo sapevo.
(“Navigation”, p. 145)

 

C’è, a tratti, un vago senso di possibilità che pervade questo romanzo-racconto; possibilità effimere, fugaci e troppo fragili per il luogo cui appartengono da poter essere considerate davvero. Ci si ripiega su se stessi, allora, si affonda ogni giorno un po’ di più, mentre tutto intorno sembra cambiare – si badi bene, non per forza migliorare. Cambia il quartiere, che inizia a popolarsi di bianchi e di nuove case e negozi, cambia la città, le macerie dell’ultimo uragano (Harvey, nel 2017) ben evidenti, ma, ancora una volta, anche il mutamento corre su due binari diversi, in una città che ben esemplifica le contraddizioni di una società tutta:

Houston sta cambiando muta. […] Ma dopo la tempesta ci hanno sbattuti fuori anche a noi: se non puoi permetterti la ricostruzione, allora te ne vai. Se hai prosciugato il tuo conto per ricostruire, allora non puoi rimanere. Se non puoi permetterti di andartene, e non puoi permetterti di rimettere a posto la tua vita, allora quello che devi fare è restare a guardare il tuo quartiere mentre cresce via lontano da te.
(“Elgin”, p. 207)

 

E così quello di Washington è un canto disperato, illuminato da squarci di possibilità e cambiamento. È storia di un luogo e di individui, di comunità e famiglia. Di una periferia che somiglia a un ghetto, raccontata con cruda onestà, per quello che è, senza false mitizzazioni o eccessi romantici, ma in tutta la sua brutale realtà.  Di un protagonista senza nome, che cerca di venire a patti con se stesso, con la propria sessualità, con il disgregamento di quello che conosceva, in una sorta di Bildungsroman feroce, ma non privo di bellezza, perfino di ironia e lirismo. È fuori dal tempo e, allo stesso modo, attualissimo, perché tali sono gli spunti della narrazione. Ma, soprattutto, Lot è ricerca della propria identità, nelle varie accezioni del termine: identità come individui e cittadini che cercano di mediare fra due culture, identità come giovani che faticano a trovare un posto nel mondo, identità come scoperta e accettazione della propria omosessualità.

Giorni terribili, di A. M. Homes

Autore: A. M. Homes Titolo: Giorni terribili Editore: Feltrinelli Traduzione: Maria Baiocchi e Anna Tagliavini pp. 256   Euro 17,00

Autore: A. M. Homes
Titolo: Giorni terribili
Editore: Feltrinelli
Traduzione: Maria Baiocchi e Anna Tagliavini
pp. 256 Euro 17,00

di Debora Lambruschini

È settembre, e per quanto abbia finito di studiare da decenni, il calendario accademico ancora esercita il suo fascino, si sente invadere dalla voglia di nuovi inizi. È la stagione dell’abbondanza: i meli carichi di frutti, l’erba alta sul ciglio dell’autostrada. Il vento investe gli alberi. Ogni cosa respira a fondo, il sospiro di fine estate della natura. Nel giro di un paio d’ore si scatenerà il temporale del tardo pomeriggio a ripulire l’aria.
(p. 31 “Giorni terribili”)

Settembre è finito da poco, le immagini reali ben sovrapposte a quelle letterarie suggerite da questo breve passo tratto da Giorni terribili, il racconto di A. M. Homes contenuto nella raccolta omonima di recente pubblicata da Feltrinelli. Di immagini e atmosfere, di silenzi e parole che mancano è attraversata tutta la raccolta: dodici racconti in cui la voce dell’autrice statunitense sa farsi ora nostalgica, ora ironica, a tratti cinica, per poi aprirsi alla compassione verso i suoi personaggi e quelle vite che appena emergono dalla pagina. Chiariamo subito un punto: è una raccolta molto bella, per tematiche e spunti, per lo sguardo diretto e la parola misurata resa dalla traduzione puntuale di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini. Ma non è perfetta, le aspettative non vengono pienamente soddisfatte. O forse, più semplicemente, ci siamo lasciati ingannare da titoli e stralci di commenti che etichettavano anche questo nuovo lavoro di Homes come l’ennesimo esempio di quella voce tagliente, innovativa, originale, grazie alla quale ha ricevuto premi e pubblicazioni sulle principali riviste culturali del Paese. Perché questi racconti sono belli sul serio e, spesso, la scrittura sa spogliarsi di convenzioni e reticenze per mettere a nudo contraddizioni e meschinità del mondo contemporaneo e degli individui; uomini e donne di cui Homes rappresenta con cruda onestà gli equilibri fragili, le mancanze, le quotidiane cattiverie, non priva talvolta di compassione verso questi piccoli esseri umani. Allo stesso tempo sono racconti meno sperimentali e audaci di quanto ci si aspettasse. Messo da parte “l’equivoco”, restano quindi dodici storie ben costruite, che si aprono a spunti interessanti a partire da tematiche riconoscibili, familiari, in cui, come si diceva, l’ironia si fonde allo sguardo più malinconico, doloroso, ma anche ai piccoli, fugaci, squarci di luce, fino ai toni surreali e fantastici che arricchiscono efficacemente la narrazione.  
Quello che, vividissimo, traspare dalla pagina, da ogni racconto, è il ritratto di una società dolente, di esseri umani vulnerabili, meschini, un universo narrativo caro ad Homes di cui già aveva dato prova di pregio nella raccolta d’esordio, La sicurezza degli oggetti, in cui imperava lo sguardo dissacrante a distruggere pezzo dopo pezzo ipocrisie e finto perbenismo della società contemporanea. In “Giorni terribili” ritorna la stessa tipologia di personaggio, che, stavolta, sfoga nell’alcol, nelle droghe o nelle manie alimentari per far fronte alla propria infelicità; coppie che non sanno più come comunicare senza cedere alla rabbia; uomini e donne che si muovono in equilibrio precario sull’abisso. Questo senso imminente di qualcosa che sta per implodere, pervade tutta la raccolta, come se Homes mettesse a nudo la debolezza di ogni cosa intorno ai suoi personaggi: gli oggetti, i rapporti, la società stessa. Quella che tratteggia sulla pagina sono gli Stati Uniti del terzo millennio, eppure questi racconti non appaiono così strettamente ancorati alla realtà, al contemporaneo, per gli spunti di surreale verso cui talvolta virano, per una certa tendenza alla dissolvenza, alla sospensione, che ne sfumano i contorni.
Come sfumano e si dissolvono i legami. I personaggi di Homes si perdono dentro famiglie disfunzionali, distanze che il tempo dilata sempre di più, antichi segreti e rivalità tra fratelli, tradimenti e un senso di estraneità che colpisce proprio dove non ci aspetteremmo di trovarla: in quei legami che per sangue o per scelta dovrebbero essere famiglia, comprensione, dialogo. Ecco, il dialogo, le parole che mancano: le distanze sono amplificate da antichi traumi che non si sanno colmare. Le parole, spesso solo sussurrate, non sembrano mai quelle giuste, costruite in dialoghi taglienti che da soli valgono tutta la raccolta e che, a tratti, risolvono un’intera scena.

Si erano sedute nella stanza di Billy e avevano parlato di com’era strano che nessuno parlasse di niente. Abigail era la custode dei sentimenti; ci si aggrappava.
La mamma diceva: “Porti i sentimenti come fossero gioielli”.
(Se n’è andata, p. 228)

Come se i sentimenti andassero repressi, vissuti nel proprio intimo e non mostrati al mondo. Le manie, le ossessioni, prendono il sopravvento, sono l’unico modo possibile per ottenere una parvenza di controllo su una vita che altrimenti rischia di andare in pezzi.

«Sei sotto farmaci?» chiede lei.
«Un po’. E tu?»
«Moderatamente» dice lei.
«Non è facile essere depressi da queste parti» dice lui. «È un paradiso».
(Hello Everybody, p. 75)

Per tentare di arginare il vuoto, l’alcol diventa la panacea per tutti i mali; oppure il rifiuto del cibo attraverso cui sperimentare il controllo almeno sul proprio corpo, sfinirsi ancora e ancora fino a scomparire davvero. Può succedere che il ricordo di una stagione più felice, prima che tutto cambi per sempre, possa risultare la distrazione più attraente per allontanarsi dai fallimenti e paure dell’età adulta.
Resta, alla fine della lettura, la sensazione di una manchevolezza, di attese non pienamente soddisfatte, cosicché molti racconti scivolano via senza lasciare poi molto al lettore; ma, d’altra parte, ce ne sono almeno un paio che si insinuano sotto pelle, e le domande con cui ci troviamo a confrontarci vanno ben oltre il tempo della lettura. Racconti come “Giorni terribili”, “Hello Everybody”, “La grande fiera degli uccelli da gabbia”, “Punto Omega”, reggono la raccolta, con la profondità degli spunti, le sperimentazioni narrative, la complessità dei personaggi, l’equilibrio tra ciò che è espresso sulla pagina e l’abisso del non detto che si insinua fra gli spazi bianchi. Che siano brevi lampi o narrazioni più distese, è comunque innegabile che Homes sappia cogliere l’anima del personaggio e le contraddizioni della società entro cui si muove, spiazzando il lettore più nella riconoscibilità del mondo e degli individui, che negli spunti immaginifici. Le dinamiche che mette a nudo, specie nei racconti sopracitati, sono familiari, anche nella loro crudeltà. Spogliate di ambiente ed elementi accessori, appaiono alla fine in tutta la loro brutale onestà: un flirt che allevia il dolore per una distanza sempre più incolmabile con il proprio partner e la tensione di un lavoro emotivamente impegnativo, l’esplorazione dei corpi che diventa una lotta, la rabbia che si riversa in un incontro fugace; la familiarità di una vecchia amicizia, i ricordi comuni, le ferite; la scoperta delle proprie radici e i vecchi segreti di famiglia a minare un equilibrio già precario; le parole che finalmente fluiscono libere, ma solo perché protette dall’anonimato della rete, dalla distanza, la terribile meraviglia di mettersi a nudo con un estraneo, l’amicizia che nasce in una bolla di sospensione momentanea dalla realtà della guerra o della solitudine.
E forse, alla fine, è proprio in questo che consiste l’audacia di A.M. Homes e il pregio della raccolta: lo svelamento di un mondo che riconosciamo, l’umorismo graffiante che talvolta riesce a farsi capace di commozione e tenerezza, lo sguardo penetrante dell’autrice che spinge anche il lettore a scavare oltre la superficie e colmare gli spazi vuoti perché è proprio lì che si insinua la storia.

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The New York Stories, di John O'Hara

Autore: John O’Hara Titotlo: New York Stories Editore: Bompiani Traduzione: Maurizio Bartocci pp. 480  Euro 16,00

Autore: John O’Hara
Titotlo: New York Stories
Editore: Bompiani
Traduzione: Maurizio Bartocci
pp. 480 Euro 16,00

di Debora Lambruschini


Lo scrittore del futuro saprà intonarsi alla voce di Lincoln a Gettysburg, e sentire il rumore dei boccali di peltro alla Sirena, ma non conoscerà mai il senso di soddisfazione che si ha quando si cambia il nastro della macchina da scrivere. Uno scrittore appartiene al proprio tempo, e il mio è il tempo passato. Nei giorni o negli anni che mi rimangono, mi dedicherò alla contemplazione del mio tempo, lasciandomi ammaliare dal modo in cui le cose si uniscono fra loro, l’una con l’altra.

(Amici di nuovo)

John O’Hara è stato uno scrittore perfettamente radicato nel suo tempo e lui e le sue storie vi appartengono. Un tempo e un luogo - New York dagli anni Trenta agli anni Sessanta - fissati sulla pagina ma di cui ancora forte riconosciamo l’eco, le contraddizioni, i vizi e le inquietudini. Leggiamo i trentadue racconti di The New York Stories tra la nostalgia per un mondo che non è più, e il riconoscimento di istinti, fragilità, insoddisfazioni, che esulano dal tempo e dallo spazio. Non sono certa che in Italia i racconti di John O’Hara abbiano avuto finora il riconoscimento che meritano, quantomeno fuori dall’ambito editoriale, eppure qualcosa si sta muovendo negli ultimi tempi, e questa raccolta edita da Bompiani – traduzione di Maurizio Bartocci del volume Penguin del 2013 curato da Steven Goldleaf – è senza dubbio un ottimo mezzo per addentrarsi nella scrittura di O’Hara: riconosciuto dalla critica come uno dei maestri del realismo americano, questi racconti rappresentano senza dubbio un esempio eccellente, non solo della sensibilità letteraria dell’autore ma anche di quel canone “New Yorker” che ha contribuito a definire.

Autore di romanzi e racconti, O’Hara resta ancora oggi, con duecentoquarantasette short story, lo scrittore più pubblicato sulla rivista The New Yorker di cui, appunto, ha delineato lo stile. Il riconoscimento di critica e pubblico, ricchezza e lusso, non hanno mai del tutto alleviato il senso di frustrazione per non aver frequentato l’Ivy League e il Nobel mancato, che unito a un carattere decisamente difficile gli hanno inimicato buona parte dell’ambiente culturale del tempo, di cui restano leggendarie le baruffe, i malumori, le liti con gli editor. Inquietudine e insoddisfazione, seppur per ragioni e in forme diverse dal dato biografico, attraversano tutte le storie riunite in questa raccolta, una sorta di fil rouge che lega i trentadue racconti. Prima mi si permetta però un appunto: pur apprezzando la scelta di proporre al pubblico italiano una ricca selezione dei racconti di O’Hara, si avverte la mancanza di un apparato critico bibliografico adeguato, anche semplicemente una semplice prefazione, pratica, editoriale che purtroppo sembra andare scomparendo. Sull’ordine dei racconti la casa editrice si è riferita alla versione inglese del testo curato da Goldleaf sulla base delle scelte editoriali delle ultime raccolte di O’Hara, non ordinate cronologicamente ma per titolo; un ostacolo facilmente aggirabile, perché ogni racconto è per fortuna datato e per il lettore è quindi possibile scegliere il percorso più congeniale.
Fatte le dovute premesse, resta, ovviamente, tutta la potenza della scrittura di O’Hara, le influenze dell’ambiente culturale entro cui si muove e quella sua stessa pressione esercitata sugli scrittori a lui contemporanei o che, in qualche modo, hanno tentato di raccoglierne il testimone, tra short story e romanzo. È quel realismo americano di cui si accennava in partenza, che assume nel corso del Novecento sfumature e forme differenti, ma a partire da una base comune, di cui i racconti newyorkesi di O’Hara sono esempio ideale. Si dispiega davanti al lettore una città di contraddizioni, sogni infranti, alcool, frustrazioni e miserie quotidiane, da un lato all’altro della scala sociale. Ecco, in questo O’Hara è senza dubbio un maestro: raccontare gli uomini e le donne da un estremo all’altro, non con intento di denuncia sociale, ma da un punto di vista “umano”, per restituirne, quindi, un ritratto privato di solitudini e di ordinaria insoddisfazione. Laddove sembra mancare l’impegno per la denuncia sociale, per così dire, O’Hara risponde con la fotografia di un mondo cinico, in cui l’ironia resta l’unica forma di difesa possibile, e la felicità una meta difficile da raggiungere indipendentemente dalla propria collocazione sociale. Non impossibile, ma senza dubbio difficile. Umanissimi, inoltre, sono i personaggi che compongono queste storie, perché pieni di imperfezioni, vizi, fragilità, a prescindere dall’appartenenza a un gruppo sociale o all’altro, perfino al tempo o allo spazio. Non fa sconti, con la sua inforcatura di sguardo durissimo proprio verso i suoi personaggi: O’Hara non da mai l’idea di amarli o anche solo di provare empatia nei loro confronti, esseri umani difettosi ma mai davvero crudeli, malvagi o per contro totalmente positivi. Sono uomini e donne che si muovono negli ambienti più differenti, di cui l’autore riesce di volta in volta a restituirci l’essenza: delinquenti, attori – per lo più vecchie glorie cadute in disgrazia – , scrittori, giornalisti, uomini d’affari, pubblicitari; O’Hara riporta uno spaccato ricchissimo di dettagli del mondo dell’editoria, dello spettacolo – fra Broadway e sogni hollywoodiani – della comunicazione e, soprattutto, delle crepe sulla facciata, che sono da sempre l’aspetto più interessante di un certo sentire letterario. Quelle stesse crepe che raccontano un matrimonio, in cui lo scrittore svela il crollo di qualsiasi velo di conformismo:

Era quel che si poteva definire una situazione famigliare americana, nella quale la moglie si trovava senza granché da fare, e il marito era talmente preso dal lavoro da non trovare il tempo per cambiare le cose prima che peggiorassero.

(La cervellona)

Le donne, all’interno di queste relazioni, pagano lo scotto della solitudine, cadono nella dipendenza per mancanza di comprensione, o di una propria identità definita, di un posto, di un ruolo che si scolli da quello della canonica moglie.

Cosa sono? Non ho mai combinato niente. Non sono mai stata niente.

(A vita privata)

Colpisce, di alcuni passaggi, la capacità di certe tematiche di trascendere il tempo e la collocazione geografica, a partire dall’incomunicabilità dentro certi rapporti, le solitudini che lentamente uccidono. Ecco, le parole, quelle giuste, che mancano, la superficialità di certi rapporti, le menzogne, l’immagine che di noi diamo al mondo, i silenzi, la frustrazione: mutano forma, ma sono ancora terribilmente riconoscibili. Come la sensazione, terribile, di estraneità, proprio con qualcuno che si suppone dovrebbe esserci riconoscibile:

 

Conoscevo quest’uomo benissimo, e con il suo permesso, ma non l’avevo mai sentito fare una dichiarazione d’amore tanto schietta nei confronti della moglie; e tornando a casa, ho capito che fino a quel momento, non l’avevo conosciuto poi tanto bene. Non fu quella scoperta a lasciarmi sgomento. Cosa sapeva lui di me? Cosa sappiamo, veramente, gli uni degli altri, e perché dobbiamo dare tanta importanza alla solitudine se è ciò che è in serbo per tutti noi? E cosa sarebbe l’amore, senza solitudine?

(Amici di nuovo)

È lo spettro, ancora una volta, della solitudine, contro cui non smettiamo, sempre, di combattere.
In una produzione ricca e variegata come quella di O’Hara e, di conseguenza, in questa specifica raccolta, non tutti i racconti hanno lo stesso valore letterario eppure, ogni storia, anche quella meno significativa o riuscita, riesce ad aprire squarci. Storie non prive di difetti, ma in cui riconoscere O’Hara: per le tematiche ricorrenti nella sua produzione letteraria, per l’attenzione ai dialoghi – insieme al sesso, l’aspetto tecnicamente più complesso da scrivere e verso la quale l’autore dimostra sempre di possedere un orecchio straordinario – , per la schiettezza con cui si presenta il racconto, che a tratti sembra farsi cronaca, e quella cifra peculiare di spostare il racconto altrove, in una zona di narrazione inaspettata per il lettore.

Si diceva, appunto, dell’universalità di certe tematiche e spunti qui ritrovati e, come sempre, di quelle personali chiavi di lettura da cui ognuno di noi sceglie – consapevolmente o meno – per osservare una storia: per me, dei racconti di O’Hara, sono le cadute e le miserie di questi uomini e queste donne, la loro malinconia per qualcosa che è sfuggito, forse perduto per sempre o mai davvero conquistato, l’illusione della felicità, le solitudini dentro certe relazioni. E, non da ultimo, il mondo degli uomini nello sguardo femminile, osservato da chi è riuscita con fatica e determinazione a farsi strada in un ambiente oltraggiosamente maschile: La macchina del nulla è una storia che, come in molti casi di questa raccolta, parte da un’idea per poi spostare l’attenzione del lettore verso qualcosa di altro, ma aprendo qui e là alla riflessione su tematiche interessanti e solo all’apparenza estranee alla narrazione. A colpire di questa storia è la protagonista femminile, con il racconto della sua scalata al successo, in un mondo dominato dagli uomini, la fatica per conquistarsi di diritto il proprio posto:

Tutto quello che aveva, se lo era guadagnato con il lavoro, aveva combattuto per averlo, combattuto sporco se era stato necessario. Aveva attraversato gli anni in cui dicevano cose terribili sul suo conto, e lo sapeva; era acqua passata, ormai; la posizione che aveva raggiunto imponeva l’altrui rispetto […].

(La macchina del nulla)

 

Ai poli opposti della realizzazione di sé: le due donne protagoniste di La macchina del nulla, la vicepresidente di un’agenzia pubblicitaria, e A vita privata, con la moglie infelice e alcolizzata che non ha avuto opportunità e coraggio per essere qualcun altro. In entrambi i casi, intuiamo le crepe sulla superficie: nel mondo di Judith Huffacker, sono l’amarezza di essere sempre e comunque inquadrata come una donna, a cui un estraneo può permettersi di rivolgere domande scomode, e intime:

Ho lavorato con gli uomini per moltissimi anni, e con un discreto successo, da pari a pari. Non mi piace quando un uomo fa il tipo di domande che non farebbe a un altro uomo.

(La macchina del nulla)


Personalmente mi mancano nella scrittura di O’Hara la disperazione e il sarcasmo di Dorothy Parker – inarrivabile nei suoi ritratti femminili e nel raccontare lo snobismo della società newyorkese tra le due guerre – la tensione narrativa di dramma imminente e la parola scelta con precisione chirurgica di Richard Yates – lui, a mio avviso, sempre il più grande maestro del realismo americano – ma, è innegabile, i racconti di O’Hara rappresentano un tassello imprescindibile nella costruzione del patrimonio letterario del novecento americano, capace ancora oggi di sorprendere e affascinare il lettore.

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Tra corpo e anima, di Ludmila Ulitskaya

Autore: Ludmila Ulitskaya Titolo: Tra corpo e anima Editore: La nave di Teseo Traduzione: Margherita De Michiel  pp. 240   Euro 18,00

Autore: Ludmila Ulitskaya
Titolo: Tra corpo e anima
Editore: La nave di Teseo
Traduzione: Margherita De Michiel
pp. 240 Euro 18,00



di Marina Bisogno

Ludmila Ulitskaya, scrittrice russa tradotta in tutto il mondo, è nota soprattutto per i suoi romanzi. Una storia russa, ad esempio, si incastra bene nella tradizione della letteratura degli Urali: un testo denso, ambizioso, che ripercorre cinquant’anni della società sovietica attraverso le esistenze dei personaggi che provano a sfuggire alle limitazioni del KGB. La Nave di Teseo propone invece la Ulitskaya come autrice di racconti e pubblica con la traduzione di Margherita De Michiel Tra corpo e anima, una raccolta che ha al centro soprattutto personaggi femminili. Questa attenzione da parte di Ludmila Ulitskaya, non solo come stato esistenziale ma anche come ricettacolo di discriminazioni e soprusi, è nota. Nel 2011 la Francia le consegna il premio Simone de Beauvoir riconoscendole un lavoro di esplorazione sui diritti e sulla condizione delle donne. I suoi testi sono definiti politici e lo sono nella misura in cui ci consegnano una visione dello stare al mondo che assomiglia a un impegno, come faceva Grace Paley, sebbene la lingua delle due scrittrici sia differente. Ludmila Ulitskaya non conosce il minimalismo, la sua scrittura ha una componente arcaica, un che di antico che rende le sue frasi inestricabili, per niente scivolose. C’è una solennità in questi racconti che li allontana dalla sfera della finzione più pura per avvicinarli alla verità delle favole esopiche, con ragionamenti su vita vissuta e tanto di insegnamento. Succede nel racconto Alice acquista la morte: Alisa, la protagonista, rifugge l’innamoramento per non finire come sua madre, con il cuore a pezzi per un uomo e suicida sotto un treno nello stile di Anna Karenina. Alisa è una perfezionista, finché ha un malore. Si convince di avere i giorni contati e si organizza per evitare sofferenze, tenendo a portata di mano alcuni dosi di sonnifero. Contro ogni previsione, a sessant’anni suonati si innamora e si sposa, ma offusca la gioia dell’amore con la certezza di dover morire a breve. Poi, avviene un fatto che le dimostra che nulla può essere dato per scontato e che l’esistenza ha più fantasia di noi.

La paura di cadere sotto il potere altrui era più forte di ogni altro femminile timore: di restare sola, di non avere figli, di finire in miseria

(da Alice acquista la morte).

 

Altrettanto spaventata, anche se apparentemente smargiassa, è Vera Ivanna, uno dei personaggi de La straniera, racconto incentrato sull’ossessione di lei di maritare sua figlia Lilja che a sposarsi neanche ci pensa. Tuttavia, per seguire i desideri della madre, la ragazza si ritrova in una vita che non ha immaginato, con le conseguenze del caso.

 

Ottobre volgeva al suo mezzo. Lilja si sentiva mortificata, ingannata; soprattutto non mandava giù di aver dato alla luce un essere che adesso le legava le mani. Guardava smarrita la bimba,
non vedeva il senso di averla concepita

(da La straniera).

 

Zenja, la protagonista di Animali o anime, rievoca con il suo temperamento certe esperienze della stessa Ludmila. È una donna anticonvenzionale, figlia degli anni Sessanta, dedita a un’occupazione scientifica, che rifiuta i tacchi a spillo per la praticità di scarpe basse, adatte a lunghe camminate a piedi.  “Zenja non era una donna che si sforzasse di seguire la moda: tuttavia, sapeva cogliere il flusso generale con lieve anticipo sul gusto comune”. La conosciamo sicura di sé e la lasciamo in preda alla frustrazione e al disgusto per essersi ritrovata, per lavoro, in un laboratorio dove ammazzano gli animali. La vista del sangue, il fetore diffuso la mandano in crisi e si convince dell’impossibilità di una carriera come ricercatrice.

Nei racconti di Ludmila Ulitskaya respirano madri e figlie, sorelle, amiche, donne mature o acerbe che accarezzano l’inconscio del lettore, riflesso nella loro fragilità costellata di finte certezze e continue esposizioni a traumi e cambiamenti. Sono personaggi tremanti, che provano a resistere, a difendersi dagli imprevisti. In altri casi, sono donne reattive, con il cuore e la mente aperti. Gli uomini risalgono i perimetri emozionali tracciati da queste eroine moderne, universali, a volte attoniti e spaventati, altre solo innamorati. Il sentimento dominante nel libro lo esprime il titolo: è un disarmo, un’arrendevolezza difronte a certi avvenimenti che richiedono allineamento dei sensi ed esercizio di consapevolezza per la salvaguardia del corpo, della salute. Come sostengono le filosofie orientali, non c’è una separazione netta tra il fuori e il dentro, quello che conta è come interpretiamo ciò che viviamo.  
Mosca è molto presente nella raccolta, come è presente nella biografia della scrittrice. Qui studia genetica ed entra all’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica, da dove viene licenziata con l’accusa di diffondere libri proibiti. Come Zenja, Ludmila si scontra con una mortificazione che la getta in una crisi profonda. Negli anni Ottanta, però, le viene offerto di dirigere il teatro ebraico di Mosca e inizia a scrivere sceneggiature e romanzi. La sua fama tocca gli Stati Uniti, l’Europa e quindi la Russia, che non si accorge subito del suo talento autoriale. In questi racconti, d’altronde, ci sono molti riferimenti al teatro, ma anche alla medicina, alla biologia: è il lascito di una formazione variegata, umanista e scientifica insieme. Il filo conduttore di Tra corpo e anima non è solo l’interesse per le donne, che sono al centro degli eventi con le loro personalità, decisioni, solitudini, passioni, ma anche l’esperienza dell’esistere, dell’incoerenza che ne è alla base. La scrittrice conosce l’amore e il suo contrario, la nostalgia, il trasporto, la spontaneità. Con queste storie brevi non si pone l’obiettivo di srotolare politica, ideali, costumi: nessuna epica, solo osservazione dell’umano, con personaggi tormentati, in mezzo alle correnti dei giorni, figli dell’acume di un’autrice internazionale ma profondamente radicata in patria.

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Olive, ancora lei

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di Debora Lambruschini


Qualche anno fa, a settembre del 2017 per la precisione, ho avuto il privilegio di incontrare Elizabeth Strout, in un evento a porte chiuse organizzato dalla casa editrice Einaudi, il suo più recente editore italiano.
Come lettori ci leghiamo a un autore o una storia che arriva a noi in un momento particolare e ci si rivela a livelli di umana connessione che ogni volta sono un piccolo miracolo: per me Strout sarà sempre questo, un incontro pieno di grazia e generosità in un momento particolare della mia vita, il sincero interesse per le persone sedute intorno a quel tavolo e la curiosità di una scrittrice per la quale sono appunto gli altri a catturare l’attenzione, ben più della storia. E, coerentemente con questo, anche l’ultimo libro di Strout è arrivato esattamente quando doveva, aiutando a fare ordine nel caos del mondo in pieno lockdown, per ritrovare una dimensione intima, umana, di connessioni possibili, meraviglia e bellezza. 

L’estate era cominciata e, pur facendo ancora fresco a metà giugno, il cielo era sereno e affollato di gabbiani nella zona del porto. C’era gente a spasso, molti giovani con bambini e carrozzine, e sembravano tutti presi a conversare. Il fatto la colpì. Con quanta disinvoltura davano per scontato l’essere insieme, il parlarsi tra di loro!
(L’arresto, p. 3)

Olive, ancora lei, tradotto da Susanna Basso, è un rientro a casa, tanto per i suoi lettori che per la stessa autrice, a conferma di un legame fortissimo con i propri personaggi su cui ritorna a più riprese – vedi, per esempio Lucy Barton, protagonista di due libri – perché c’è ancora qualcosa da raccontare, personaggi e storie da cui non è disposta ad allontanarsi del tutto, e noi con lei. Olive ritorna dopo più di dieci anni da Olive Kitteridge appunto, dal premio Pulitzer, dal successo internazionale di critica e pubblico, da una scrittura sempre più consapevole eppure fresca, vitale. C’è un’altra ragione del tutto soggettiva per cui amo così tanto i libri di Strout ed è quella forma di “romanzo per racconti” con cui spesso affronta le sue storie, un ibrido fra romanzo e short story che ritorna anche in questo ultimo lavoro. Una struttura particolare, che sembra derivare il meglio da entrambe le forme, per costruire la propria narrazione: del romanzo c’è l’ampio sguardo, la tendenza all’universalità, le ricorrenze; del racconto sono gli spazi bianchi, il particolare minimo che si carica di senso, il frammento, la parola misurata e puntuale. Un attento lavoro di sottrazione, frutto di anni di esperienza e di scrittura che in quest’ultimo libro si rivela in tutto il suo potenziale.
E a distanza di un decennio, si diceva, il lettore ritrova Olive Kitteridge, più vecchia ma non ammorbidita; tutto osserva e sente, umanissima in ogni difetto e mancanza, irrisolta, la stessa donna schietta e umorale dei primi racconti. La stessa eppure diversa, più incline alla riflessione e a un certo grado di autoanalisi, consapevole del tempo, delle perdite, delle distanze e delle fratture cui ormai sembra impossibile porre rimedio. Intorno a lei, ancora una volta, il microcosmo di Crosby, l’immaginaria cittadina sulla costa del Maine entro cui si muovono personaggi più diversi, ognuno con il proprio carico di desideri, solitudini quotidiane, assenze, traumi, vite che Olive non può limitarsi a osservare da lontano ma a cui prende parte in qualche modo, cercando di trovare un punto di connessione, che sia anche una parola brusca, per non arrendersi, per riconoscere che in fondo siamo ancora lì, forse non del tutto interi, ma ci siamo ed è possibile salvarsi.

 

E pensava a sua madre che era sempre stata una donna assente e che adesso aveva un lavoro part-time in uno studio dentistico in paese; non pareva avere un granchè da dirle la sera, e questo molte volte a Kayley faceva male; si sentiva proprio una piccola onda di dolore attraversarle il torace, e pensava: Per questo si dice ferire i sentimenti delle persone, perché fanno proprio male come una ferita.

(Pulizie, p. 47)

Sono le persone, si diceva, a interessare Strout, non la storia, ed è evidente come non mai nei racconti di Olive, di dieci anni fa e di oggi, su cui l’occhio della scrittrice si posa privo di ogni forma di giudizio ma solo di umanissima partecipazione e grazia. Anche quando il racconto scava negli angoli più bui, nelle mancanze e nelle colpe che non possono essere perdonate, anche quando l’indicibile prende forma, Strout squarcia la pagina con lampi di bellezza abbagliante. Olive stessa è manchevole, imperfetta, contraddittoria e volubile e in queste complessità e sfaccettature risiede la meraviglia del personaggio, con le sue ombre e inadeguatezze. Una madre distante, anafettiva a tratti, incapace di comuni gesti di tenerezza e pazienza, verso il figlio ormai adulto, verso i nipoti, eppure non priva di cuore e affetto. Olive non ha mai le parole giuste, perde la pazienza, sbotta e pronuncia frasi che feriscono come lame, alza muri fra lei e le persone che ama. Forse a certe cose, a certe mancanze, non si può porre rimedio, sulla pagina che ricrea così perfettamente la vita.
Non leggiamo Elizabeth Strout per trovare ordine nel caos dei rapporti reali, per trovare risposte sui meccanismi che fanno funzionare le relazioni, le famiglie; leggiamo Strout perché ci riconosciamo in quelle mancanze, perché scacciamo il fantasma delle piccole solitudini quotidiane che uccidono, perché riconosciamo la bellezza di un mattino di primavera di una qualsiasi cittadina costiera; per quel senso di possibilità, speranza, umanità e grazia di cui è intrisa ogni parola sulla pagina. Perché non abbiamo bisogno di grandi epifanie e verità universali, ma di sottintesi, di tante piccole rivelazioni per provare a dare un senso a questo caos che è la vita.
Innumerevoli spunti di riflessione e tematiche a colpire in maniera del tutto soggettiva la sensibilità del singolo lettore, pur con alcune evidenze strutturali che riconosciamo come cuore della narrazione: la riflessione sul tempo che passa, che nonostante tutto si lega a un desiderio inesaurito di vita e possibilità, la paura della solitudine, appunto, le connessioni con gli altri. Ecco, quest’ultimo punto spiega la ragione per cui accennavo in apertura alla capacità di Strout di arrivare con le sue storie sempre nel momento ideale, anche stavolta: le distanze dei primi giorni di lockdown ci hanno colti del tutto impreparati, ci siamo scoperti fragili e per alcuni la solitudine si è fatta quasi materia; chiusi nelle nostre case, al sicuro, abbiamo osservato il mondo fuori rinascere nella primavera in arrivo, attenti come non mai ai silenzi e ai suoni cui troppo sbadatamente non si presta attenzione in tempi “normali” e, soprattutto, abbiamo riscoperto il valore assoluto delle connessioni umane, quei legami che non sono le sterili parole della burocrazia a poter definire, ma sono sangue, cuore, pancia, affinità. Ecco, come Strout ho desiderato ancora di più riconoscere la bellezza, le possibilità. Riconoscere gli altri, immaginarmi nella loro pelle, «raccontami come ci si sente a essere te» dice Olive a una giovane infermiera musulmana, per infrangere il vetro delle innumerevoli solitudini che ci portiamo dentro.

 

E capì che non bisogna mai prenderla alla leggera, la profonda solitudine della gente, che le scelte fatte per arginare quella voragine di buio esigevano molto rispetto.
(Esuli, p. 176) 

In tutto c’è grazia e bellezza, è la mia personale chiave di lettura per ogni pagina di Strout. Anche questa, anche stavolta.

 

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Il buio e altre storie d'amore, di Deborah Willis

Autore: Deborah Willis Editore: Del Vecchio Traduzione: Paola Del Zoppo, Costanza Fusini, Michela Sgammini pp. 304 Euro 18

Autore: Deborah Willis
Editore: Del Vecchio
Traduzione: Paola Del Zoppo, Costanza Fusini, Michela Sgammini
pp. 304 Euro 18

di Marina Bisogno

Se Alice Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013, si prodiga per sostenere un’altra scrittrice, noi non possiamo che prestare attenzione alla fortunata. Deborah Willis, classe 1982, canadese, è già nella lista delle autrici di narrativa breve più promettenti, e non solo in patria. In Italia la sua ultima raccolta di racconti Il buio e altre storie d’amore è stata tradotta da Paola Del Zoppo, Costanza Fusini e Michela Sgammini per Del Vecchio Editore ed ha appassionato i lettori e la critica. È un lavoro denso, variegato, composto da dieci racconti più tre in appendice che compongono “Steve e Lauren: tre storie d’amore”. La gestazione ha richiesto anni e il risultato è un progetto editoriale che - se fosse nato in Italia - probabilmente sarebbe stato stroncato sul nascere, complice il proverbiale timore di investire in racconti che non potrebbero essere mascherati da romanzo. La Willis delinea un gran numero di personaggi e costruisce situazioni differenti tra loro, ricorrendo anche ad atmosfere eterogenee. Il filo conduttore è l’interesse della scrittrice per gli esseri umani, per il grottesco e l’ironia come codici espressivi, sebbene anche questo non sia sempre vero. Il primo racconto della raccolta, ad esempio, “Il buio” è una storia di formazione raccontata attraverso lo sguardo di Jessica, la voce narrante, e di Andrea, una ragazzina esuberante e indomita che movimenta una noiosa vacanza al campo estivo, coinvolgendo Jessica in gite notturne al chiaro di luna. L’estate è la metafora di una stagione della vita, fatta di amicizie totalizzanti.

 

“La nostra amicizia non finì. Continuammo a passare tutti i giorni insieme, prendendo il sole con le altre ragazze, partecipando alle partite di basket e alle passeggiate nella natura e ai lavoretti. L’estate seguente eravamo di nuovo nella stessa baita, ma ognuna di noi aveva una nuova migliore amica”
(da Il buio)

 

La stessa profondità si ritrova in “Valuta di scambio”, il racconto dell’esperienza di uno scrittore russo, emigrato negli Stati Uniti, che si reca nei luoghi dove è cresciuto per rievocare una parte di sé stesso, senza riuscire a capire perché in Russia non riesca ad affermarsi, nonostante il successo in America. Questo dispiacere incrementato dall’orgoglio ferito si dissolve nella nostalgia di un’altra età, fatta di abbracci, accoglienza e cose semplici.

 

“Invece lì sentiva l’acqua fredda che gli colpiva la testa, niente a che fare con il piacere delle mani si Sylvia. Era così che sua nonna gli lavava i capelli quando era piccolo. Lo faceva prima di andare a letto, si toglieva la maglietta, si chinava sul lavandino della cucina, un lavandino che perdeva sempre, una goccia lieve che scandiva tutti i giorni e le notti passate a casa di sua nonna”

(da Valuta di scambio)

 

Tutt’altro registro in “La mia ragazza su Marte” o “Todd”, che si sviluppano intorno a situazioni da sit-comedy: in uno c’è un ragazzo che non si capacita che la sua compagna si sia organizzata in gran silenzio per partecipare ad una missione spaziale su Marte. La decisione di lei manda in crisi la coppia, concentrata a sbarcare il lunario coltivando nell’appartamento piantine di cannabis. La missione sul pianeta rosso è un obiettivo stravagante, ma diventa il pretesto per allungare lo sguardo su altalene sentimentali che assomigliano ad implosioni silenziate dalla routine.

 

“Amber e io eravamo un punto fermo, una stella nel centro di una galassia, si girò verso di me e sorrise. E quel sorriso letteralmente illuminò la stanza: la luce tornò con un ronzio”

(da La mia ragazza su Marte)

 

Nell’altro, c’è un padre che prova a rimettersi in piedi dopo un periodo confuso e a riscostruire, seppure a distanza, il rapporto con la figlia, finché nella sua solitudine fa irruzione un uccello. Il volatile gli piomba in casa e tra i due si sviluppa, se possibile, un’amicizia, a riprova del fatto che può esserci comunicazione anche tra un umano e un pennuto, fino all’epilogo. Deborah Willis assume, a seconda delle circostanze, le vesti di adolescenti in rivolta, di padri ammaccati dagli eventi, di madri rampanti, di scrittori sperduti, di uomini e di donne fragili, alle prese con disavventure e pene emotive o piccoli segreti che contengono la chiave di un’esistenza. Sceglie una porzione di realtà, una crepa, anche minima, e osserva i suoi personaggi. È una scrittrice visuale, immaginifica. Lei stessa ha rivelato in un’intervista al Prism International, osservatorio sulla narrativa canadese e non solo, di scrivere a partire da un’immagine. Nella mente le si imprime una visione e la insegue utilizzando lo strumento del racconto. Questa inconsapevolezza in partenza rispetto al plot e all’evolversi della trama, implica una disposizione di tempo e di pazienza. L’attitudine a ricorrere all’esagerazione, alla farsa, per esprimere la complessità delle relazioni umane deve averla alimentata da bambina, quando si divertiva a comporre sceneggiature e a riscrivere il finale delle novelle che la emozionavano. Le sue protagoniste sono ostinate, non del tutto rassicuranti per chi vive loro accanto. Gli uomini che tratteggia, al contrario, appaiono disordinati, in contemplazione o in attesa di approvazione. Guardano con sospetto ed estraneità verso le loro compagne, mogli, figlie, così beffarde e irrefrenabili. Possono esserci molteplici versioni di uno stesso fatto e ogni personaggio della Willis ha la sua: ciascuna è plausibile, prendersi troppo sul serio è un rischio, un macigno da evitare. La sua scrittura è un lampo: saette di parole, essenzialità nello stile, nella voce. Una osmosi con gli elementi naturali è parte integrante delle storie che propone: il cielo, il lago, le stelle, la vegetazione, gli animali, persino altri pianeti. Non si sfugge a madre natura e questa coscienza o prospettiva è un cardine delle pagine di questa raccolta della scrittrice.

A chi le ha fatto notare un femminismo di ritorno, la Willis ha risposto che i suoi personaggi sono ex adolescenti degli anni Novanta, sessualmente più consapevoli delle loro nonne e delle loro madri. Le donne, poi, sono state essenziali nella sua carriera letteraria. Ispirandosi a Alice Munro, a Margaret Atwood e a Miriam Toews, Deborah Willis ha realizzato di poter fare la scrittrice e si sa, potere è diverso che volere. Questa autrice ci piace perché è spiritosa, riflessiva, vigile, un sismografo sull’esistente. Scrive racconti che sembrano favole esistenzialiste, pregne di modernismo, ma anche del desiderio di una dimensione diversa rispetto a quella in cui siamo (o eravamo, chissà) confinati. Il privato è un punto di partenza: anche secondo Deborah Willis si finisce, in ogni caso, a fare i conti con il mondo e la sua complessità.

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L’INTERSEZIONE DI VIE, TEMPO, IDENTITÀ NEI RACCONTI DI ZADIE SMITH

Autore: Zadie Smith Editore: Mondadori Traduzione: Silvia Pareschi pp. 240 Euro 19,50

Autore: Zadie Smith
Editore: Mondadori
Traduzione: Silvia Pareschi
pp. 240 Euro 19,50

di Debora Lambruschini

Tutto è ispirazione letteraria. Per Zadie Smith, tra le scrittrici più iconiche della sua generazione, la capacità di osservare la realtà e darle forma letteraria, in vent’anni di scrittura si è tradotta in romanzi, saggi, ibridi e racconti, accomunati dallo sguardo lucido e attento di un’interlocutrice che trae spunto da ogni cosa la circondi, accostando tra loro elementi talvolta diametralmente opposti e che lei riesce in qualche modo a far dialogare. Vent’anni di carriera letteraria e insegnamento durante i quali si è messa più volte alla prova con la forma breve: suoi racconti sono apparsi sulle più prestigiose riviste internazionali, da The Paris Revies al New Yorker, e da cui ora, per la prima volta, è nata una raccolta di racconti, pubblicata in Italia da Mondadori ancora una volta nella puntuale traduzione di Silvia Pareschi, mantenendo il titolo originale, Grand Union. Diciannove testi, fra racconti e scritti vari, alcuni già apparsi su rivista e altri inediti, a comporre la prima raccolta organizzata dell’autrice londinese, cui era preceduta qualche anno fa la pubblicazione di un singolo racconto, L’ambasciata di Cambogia, sempre per Mondadori.
Grand Union, con tutte le sue potenzialità e debolezze, è Zadie Smith nella sua essenza: è la vivacità intellettuale che traspare da ogni pagina e mescola forme, tematiche e spunti, sperimenta e osserva le contraddizioni dell’uomo e della società in cui si muove. Ecco, il contemporaneo, ciò che fin da principio è sempre stato al centro della riflessione intellettuale di Smith, un presente conflittuale e problematico su cui concentrare lo sguardo nel tentativo di costruire l’identità dei personaggi. Identità e razza, conflitto di classe, relazioni e desiderio, maternità, luoghi e cultura, sono i poli intorno a cui ruota tutta la narrazione di Zadie Smith, ogni volta caricata di nuove sfumature o punti di vista inusuali. Grand Union è, di conseguenza, una raccolta ricca e variegata, per tematiche e forma, specchio di una società altrettanto eterogenea, contraddittoria, complessa. È l’ultimo libro da cui consiglierei di partire per avvicinarsi a questa scrittrice, ma è allo stesso tempo la sintesi ideale del suo stesso essere scrittrice e intellettuale, come lo era in certa misura – e con le dovute differenze date dal genere letterario scelto – Feel Free, la raccolta di saggi vari uscita lo scorso anno per Sur. Se nel romanzo, infatti, Zadie Smith domina la pagina con un microcosmo perfettamente ordinato di personaggi, trama, considerazioni e spunti con cui spingere il lettore a confrontarsi e domande a cui non è sua intenzione fornire risposte, ogni volta inquadrando perfettamente le urgenze del periodo in cui la storia prende vita, è nei suoi articoli e nei racconti che la vivacità intellettuale di questa scrittrice pare rivelarsi pienamente, libera da costrizioni formali. D’altra parte, è nell’essenza stessa della forma breve una maggior possibilità di sperimentazione – linguistica, tematica, strutturale – che al romanzo è concessa fino a un certo punto, intrappolato in una tradizione da cui è difficile affrancarsi davvero. Ecco, nei pensieri sparsi di Feel Free e nei racconti di Grand Union, la libertà di Zadie Smith di osservare, riflettere, interrogarsi, si esprime al suo meglio e con buona probabilità saranno proprio queste le sue opere che meglio reggeranno alla prova del tempo.
Il tempo, appunto, che è a mio avviso una delle chiavi di lettura più interessanti della raccolta in questione, con cui l’autrice si confronta da punti di vista differenti: è il tempo della narrazione, che talvolta si fa sfumato in racconti in cui gli appigli temporali sono scarsi e confusi, a sottolineare problematiche e motivi che trascendono il tempo e lo spazio; è il tempo del ricordo, di eventi passati osservati da una certa distanza e che assumono così nuove sfumature, significati, ma che si velano anche di una malinconia sottile per qualcosa di irrimediabilmente perduto; è il tempo storico di narrazioni che alternano racconti costruiti su un reale pienamente riconoscibile a forme distopiche e società apocalittiche; è il tempo che si comprime e si dilata, un attimo che sembra racchiudere una vita, una vita che scorre in un istante; è il tempo che scivola e sfugge, mentre ci si interroga sulle strade che non sono state percorse, sulle possibilità che restano, un po’ attoniti per quanta vita sia già dietro le spalle; è, infine, il tempo costruito e fissato nell’immagine virtuale che scegliamo di mostrare di noi stessi e delle nostre vite, il tempo della società contemporanea che rivela un egocentrismo ai massimi livelli, online quanto nel mondo reale, in cui sembriamo tutti sempre in scena, dove «non esiste il dietro le quinte, solo il palco».

Pensò alle varie indicazioni del tempo della sua vita, a come si erano svolte con quell’uomo sentimentale, come un brano musicale di cui loro stessi erano stati le note. Un trotto regolare all’inizio, rallentato moltissimo nel primo anno di matrimonio, quando aveva confessato a sé stessa la mancanza di attrazione fisica. Dopodiché tutto era diventato veloce – orribilmente, gioiosamente veloce, quasi inafferrabile – perché non c’era modo di rallentare i figli, né gli anni della sua vita che i figli avevano stretto nei loro pugnetti sudati. ( da Settimana intensa).

Ritornano in questi scritti, si diceva, molte delle tematiche care a Zadie Smith, a partire dalla riflessione su identità, questione razziale – su tutti, magnifico “Kelso decostruito”, che trae spunto da un terribile fatto di cronaca –  e famiglia , esplorate talvolta in modo convenzionale e caricate del pathos che ci si aspetta di fronte a storie di soprusi, discriminazione, violenza, altre– che, neanche a dirlo, sono gli esperimenti più interessanti – raccontate da punti di vista differenti, brevi frammenti che illuminano in maniera inaspettata una storia, pensieri che si liberano dal peso delle costrizioni per fluire privi di argini. Pensieri violenti, talvolta, che contrastano con scene di ordinaria tranquillità come nel finale del racconto d’apertura, “La dialettica”, o la cruda onestà con cui una donna pensa al suo ruolo di madre lontanissimo da quelle rappresentazioni di illuminate, sante, sempre amorevoli. Le madri e le figlie di Zadie si scontrano, non si comprendono, celano ostilità e un certo grado di insoddisfazione e accusa reciproca, sono madri di sangue o ne assumono il ruolo per qualche istante, sono custodi di tradizioni e luoghi remoti, sono fantasmi, sono donne che si osservano e si trovano inadeguate, confuse.

Possibile? Era davvero andata a letto con tre persone in dodici ore? Cosa non infliggiamo al nostro corpo, da giovani! E poiché non si può ricordare in avanti, avrebbe dovuto aspettare molto, molto tempo per trovare una debole eco futura di tali eccessi: allattare un figlio e poi, qualche ora dopo, sdraiarsi accanto a un altro figlio per farlo addormentare; poi svegliarsi in una terza stanza – tutto nel giro di una sola notte – e spingersi indietro contro l’amato per annullare la sua carne nella propria, e viceversa.
(da Educazione sentimentale).

Nel suo gioco di sperimentazione, Zadie Smith piega a suo piacere il racconto realista e la distopia, la satira, l’allegoria e la metafora, l’analisi sociale. Costruisce mondi dai confini labili, in cui l’ambiguità è della narrazione stessa sospesa fra narrativa e testi ibridi, una rete che avvince ma anche genera un certo grado di straniamento. Ci sono passaggi di perfezione narrativa e acute osservazioni sul presente e le sue contraddizioni, che si scontrano con racconti che scivolano via privi di slancio adeguato o confusi dal gioco di sperimentazione e libertà immaginifica. Ne scaturisce una raccolta imperfetta, ma che funziona, abbondante di forme e spunti, un vortice in cui è facile restare intrappolati e confondersi per poi trovare appiglio in brevi istanti di pura maestria narrativa, in un paio di pagine appena che compongono un racconto come il già citato “La dialettica”; è la conclusione di una “Settimana intensa” che nel finale devia da quanto fino a quel punto narrato e si illumina di profondità in quelle domande che restano senza risposta; o, ancora, nel brano che chiude “Educazione sentimentale”, il corpo, il tempo, il desiderio, la maternità, che si intrecciano a indagare il significato.

[…] la vita di una donna appare spesso dettata dal tempo: tempo biologico, tempo storico, tempo personale. Pensavo alla mia amica Sarah, la quale una volta scrisse che una madre è una sorta di orologio per il bambino, perché il tempo della vita del bambino viene misurato in relazione al tempo della madre. La madre è lo sfondo sul quale si svolge la vita del bambino. Forse è comprensibile che una creatura così oppressa dal tempo fatichi a consentire al piacere di annullare completamente il tempo. (da Per il re).

Zadie Smith è mescolanza di tradizioni, influenze letterarie che vanno da Forster a George Saunders, Vonnegut, Eggers, che si intrecciano all’osservazione del presente tra New York e Londra, a registrare le manie degli uomini e delle donne di oggi, le complesse dinamiche sociali e la difficile conciliazione con la propria identità, qualunque essa sia. È osservazione e domande, cui non mira a fornire risposte ma a porre gli interrogativi necessari. Poiché proprio questo, in fondo, è il ruolo dello scrittore.

 

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Il posto dove muoiono gli uccelli di Tomás Downey

Autore: Tomás Downey Editore: Gran Vìa Traduzione: Olga Alessandra Barbato pp. 120 Euro 13

Autore: Tomás Downey
Editore: Gran Vìa
Traduzione: Olga Alessandra Barbato
pp. 120 Euro 13



di Fabrizia Gagliardi



Una letteratura in grado di stare al passo coi tempi sublimandone continuamente il significato: è il processo che coinvolge da anni la letteratura sudamericana contemporanea. A volerla immaginare non esiteremmo a scegliere un fiume che riserva a ogni ostacolo del percorso, tronco d’albero o roccia che sia, un’erosione mai uguale a se stessa. Il fiume rappresenterebbe una terra come l’Argentina, gli ostacoli sarebbero il procedere della storia attraversata da profondi cambiamenti politici, uno stato di povertà che coinvolge un terzo della popolazione e un equilibrio sociale costantemente a rischio. A farsene carico, in modo del tutto inedito, sarebbero correnti differenti: lo stile degli autori argentini come Samanta Schweblin, Luciano Lamberti, Mariana Enríquez, Marcelo Cohen che stanno raccontando il mutamento. Ognuno di loro, in maniera del tutto inedita, ha raggiunto la libertà stilistica per rappresentare con tinte surreali e a tratti gotiche sia l’esperienza collettiva della crisi, sia la solitudine della vita umana.



In caso di penuria, c’è sempre qualcuno che offre per poi ricevere quando non ha. Ma persino questa solidarietà ha un sapore rancido, la gente regala cibo come se se lo togliesse di bocca. E quelli che non ne hanno lo ricevono senza averlo chiesto, quasi come una zavorra.



Anche Il posto dove muoiono gli uccelli di Tomás Downey e tradotto da Olga Alessandra Barbato, entra a far parte del catalogo Gran vía e aggiunge un tassello distintivo alla letteratura sudamericana.
Ogni storia è percorsa dallo strano e dall’inquietudine che non fanno immediatamente identificare il genere di appartenenza. Non che questo costituisca la priorità della lettura, ma l’azzardo di una narrazione dai contorni sfuocati fa sì che l’effetto corale componga uno stato d’animo che si muove tra la curiosità del fantastico e l’intuizione del perturbante. Lo si nota in racconti come Sorelle in cui il gioco di tre bambine apparirà gradualmente come un rito magico volto a eliminare il padre.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta sono ancora una volta i bambini a nascondere, dietro l’innocenza del divertimento e un ambiente famigliare problematico, un baratro di orrore.

Tomás Downey si serve di uno stile essenziale ripulito da ogni metafora: un inno alla semplicità della frase e alla priorità della sequenza immaginifica e narrativa. Ai racconti che hanno come protagonisti i bambini si affiancano altre dinamiche dell’umano che interessano fasi della vita individuale e collettiva. La morte aleggia nel comportamento spavaldo di un anziano che mostra per la prima volta la vulnerabilità al nipote ne Il primo sabato del mese; la perdita insegue una vedova di guerra facendole rivivere per un tempo indefinito la notizia della morte del compagno nel racconto Gli uomini vanno in guerra; ne La pelle sensibile la presenza taciturna del defunto ragazzo accompagna la vita privata di una donna. Neanche la coppia e la famiglia si salvano completamente nella visione di Downey: l’unità familiare e il sentimento amoroso non arriveranno mai a comporre un quadro unitario perché saranno frammentati da individui che scavano sempre di più nella solitudine in maniera ossessiva. Lo leggiamo in Variabili, uno dei migliori racconti della raccolta, dove una donna impegnata in calcoli statistici tenderà a dedicarsi al lavoro e non più alla cura personale e del suo bambino.



Il primo non l’abbiamo seppellito molto in profondità. Pochi giorni dopo siamo tornate e aveva mezzo corpo fuori; pieno di formiche che gli camminavano sulle piume, tutto gonfio. Lo abbiamo annusato e ci è venuto da vomitare. La pala era lì, nella casa abbandonata. Ora le buche le faccio io. Castro non ci riesce. Nel posto dove muoiono gli uccelli ci sono più alberi che nel resto del bosco, i rami si aggrovigliano e il cielo quasi non si vede.



Nessun elemento soprannaturale è necessario a creare la tensione straniante che soggiace alle storie. Al mondo di Downey bastano atmosfere claustrofobiche e universi alternativi prodotti dalla più profonda normalità della quotidianità. Cogliere il momento in cui il sovvertimento diventa la norma, lascia al lettore la libertà d'interpretazione e un immaginario che non costituisce mai la fine della storia. A quel punto sarà difficile discernere con certezza il bene e il male: questo è l'incantesimo di Thomas Downey.


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LA GENEROSITÀ DELLA SIRENA, di Denis Johnson

Autore: Denis Johnson Editore: Einaudi Traduzione: Silvia Pareschi pp. 168 Euro 18

Autore: Denis Johnson
Editore: Einaudi
Traduzione: Silvia Pareschi
pp. 168 Euro 18

di Debora Lambruschini

Per voi è ovvio che, mentre scrivo queste parole, non sono morto. Ma forse lo sarò quando le leggerete.
(Trionfo sulla morte, p. 113)

Ci sono numerose chiavi di lettura con cui attraversare La generosità della sirena, l’ultima antologia di racconti di Denis Johnson pubblicata da Einaudi. La prima, per esempio, è considerarla il suo testamento letterario e, anche, leggerla in parallelo alle opere che l’hanno preceduta, soprattutto Jesus’ son, che contiene alcuni dei suoi racconti migliori.

Questi cinque racconti – nell’ottima traduzione di Silvia Pareschi – sono infatti la lettera d’addio di Jonhson al suo pubblico, e chiudono una carriera letteraria segnata da alti e bassi, pur sempre nel rispetto di molti colleghi che nella scrittura di Johnson hanno trovato un modello e una fonte di ispirazione, da George Saunders a Zadie Smith. La generosità della sirena contiene gli ultimi racconti su cui ha lavorato prima di spegnersi per un cancro a sessantotto anni e, inevitabilmente, sono pervasi dallo spettro della morte, della vecchiaia, della riflessione su rimpianti e rimorsi con cui i personaggi si ritrovano a fare i conti. Eppure, nonostante questo fil rouge, gli antieroi di Johnson, questa umanità ai margini sconfitta dalla vita, dalle scelte sbagliate, dal tempo, conservano un’ostinata speranza che è un lampo di luce proprio perché tanto inaspettata. È una lettura dolorosa a tratti e la scrittura di Johnson, così asciutta, diretta, intima, priva di artificio, contribuisce ad avvicinare il lettore a questo mondo di disgraziati, alle loro solitudini, senza mai cedere al giudizio o a facili moralismi. Ci racconta la vita, nelle sue sfumature più tragiche e quotidiane, si confronta con il dolore e la sconfitta e costringe il lettore stesso a farlo lasciando fuori ogni giudizio. Attraverso un delicato umorismo nero, che è un po’ la sua cifra stilistica, e l’uso della prima persona in tutti e cinque i racconti, contribuisce ad avvicinarci ancora di più alle storie, a partecipare al dolore ma anche ad avvertire più intimamente quella scintilla di speranza che ogni volta, ostinata, si accende. Non ha paura di sporcarsi le mani Johnson, di indagare tra le pieghe più oscure del quotidiano e dell’animo umano, rivelando le debolezze dello spirito e del corpo: racconta la dipendenza, l’alcol e la droga, il delirio, la caducità dell’uomo, il decadimento fisico e la vecchiaia, la perdita della lucidità. Indaga le ossessioni, il confronto con la morte e, soprattutto, il peso della solitudine, da un lato all’altro della scala sociale.

Ne “Lo starlight sulla Idaho” la narrazione – frammentaria, sempre più delirante – indaga la dipendenza di un uomo ricoverato in un centro di recupero e i deliri indotti da un farmaco contro l’alcolismo. Il vago desiderio di liberarsi dei propri fantasmi e quello di ricostruire la propria vita in modo da riuscire un giorno a «guardare le persone negli occhi», sembra impossibile perfino da immaginare. Come per il protagonista di “Bob lo strangolatore” e dei suoi compagni di detenzione, in una piccola prigione di provincia dove ognuno di loro paga il prezzo della propria colpa. Stare ai margini determina la loro solitudine, rinchiusi ciascuno con i propri fantasmi ed errori, costretti a confrontarsi con altri derelitti, con la violenza, con la brutalità.
Lo spettro della vecchiaia, del decadimento fisico, della morte, attraversa tutto il racconto “Trionfo sulla morte”, nel quale il protagonista si trova più volte a confrontarsi con essa, con la perdita di persone conosciute, a partire da una telefonata casuale che lo mette a conoscenza della scomparsa di un vecchio amico. La narrazione è irregolare, rincorre pensieri e flashback del protagonista, ne insegue i ricordi di piccoli episodi del passato, talvolta banali, per lasciare spazio subito dopo a profonde riflessioni sui legami e sulle connessioni umane, sull’incidenza delle nostre vite nelle persone che incontriamo e, infine, sulla caducità dell’uomo. È un narratore interno a raccontarci questa storia, che osserva con intima partecipazione quanto riportato sulla pagina, ma ancora una volta abbandonando ogni giudizio o sentimentalismo. Osserva e descrive la vita, che fugge e diviene ricordo.
Allucinato e a tratti oscuro è il racconto che chiude la raccolta, “Doppelgänger, poltergeist”: storia di un’ossessione delirante: un poeta e accademico affermato che per tutta la vita rincorre il mito di Elvis Presley e della sua misteriosa morte. E mentre immagina congiure, scambi di persona, rituali oscuri, la vicenda si colora di tinte sempre più fosche, le atmosfere richiamano racconti di Shirley Jackson e Angela Carter, mentre, per contro, la scrittura si fa limpida, puntuale, misurata. Apparentemente un racconto che stona entro i confini di questa raccolta, eppure nell’insieme funziona, grazie anche ad alcuni spunti appena oltre la superficie che si ricollegano alle altre storie.
Il rimpianto, lo spettro della solitudine, la dipendenza, le ossessioni, la morte: sono alcune, si diceva, della tematiche ricorrenti nei cinque racconti di cui si compone l’ultima raccolta di Johnson, questo testamento umano e artistico di un autore come pochi altri capace di raccontare un mondo di reietti e sconfitti, senza cedere a paternalismi, senza condannare né assolvere i suoi protagonisti ma semplicemente consegnandoli al lettore in tutta la loro umana debolezza. È il ritratto di un’America dolente e lo sguardo dell’autore si sofferma anche sul mondo medio borghese, restituendo ancora l’immagine di una simile sofferta solitudine e sconfitta, come nel caso di “La generosità della sirena”, il racconto di apertura e, a mio parere, il migliore di tutta la raccolta. Nella disperata solitudine del protagonista, un pubblicitario di successo prossimo alla pensione, c’è tutta la tradizione letteraria da Yates e Saunders, la fine del mito borghese e di un ideale di perfetta felicità, che si infrange nella superficialità dei rapporti descritti, nei silenzi e nelle incomprensioni coniugali, nella sfilata di volti e legami senza importanza. In questo racconto è racchiuso tutto il mondo di Johnson, la sua poetica e sensibilità artistica e umana, e il senso dell’intera raccolta:

Considero di avere ormai vissuto più a lungo nel passato di quanto possa aspettarmi di vivere nel futuro. Ho più cose da ricordare che da aspettare. La memoria si indebolisce, del passato non rimane molto, e non mi dispiacerebbe dimenticarne parecchio di più. […] Poi a volte mi alzo, mi infilo l’accappatoio ed esco nel nostro quartiere silenzioso in cerca di un filo magico, di una spada magica, di un cavallo magico.
 (La generosità della sirena, p. 31)

C’è un uomo che fa i conti con le proprie scelte e con la memoria che si oscura. C’è la superficialità di un mondo dorato in apparenza ma privo di contenuti. C’è l’arroganza di un uomo che confonde le sue due ex mogli e ne sovrappone voci e storie. C’è la solitudine all’interno di un matrimonio, che dura da venticinque anni e forse è stato felice, forse soltanto è durato, che ormai osserva quasi con distacco:

Sono strisciato fuori dai miei vent’anni lasciandomi dietro un paio di matrimoni brevi e infelici, e poi ho trovato Elaine. Venticinque anni lo scorso giugno, e due figlie. Ho amato mia moglie? Siamo sempre andati d’accordo. Non abbiamo mai pensato di congratularci con noi stessi. Sto per compiere sessantatré anni. Elaine ne ha cinquantadue ma ne dimostra di più. Non per l’aspetto, ma per l’atteggiamento appagato. Manca di entusiasmo. Sembra che le interessino soprattutto le nostre figlie. Si mantiene in stretto contatto con loro. Sono entrambe adulte. Sono cittadine innocue. Non sono né belle né intelligenti.
(La generosità della sirena, p. 31)

A mio avviso, una delle chiavi di lettura più interessanti di questo racconto e dell’intera raccolta è il discorso sulla scrittura, forse il più forte fil rouge che l’attraversa. In “Trionfo sulla morte”, per esempio, Johnson in un solo passaggio scardina tutte le credenze da corsi di scrittura creativa e consegna al lettore la sua personale interpretazione del mestiere di scrivere:

Scrivere. È un lavoro facile. L’attrezzatura non è costosa, ed è un’attività che si può svolgere ovunque. Decidi tu gli orari, gironzoli per casa in pigiama, ascolti dischi jazz e bevi caffè mentre un altro giorno scappa via. Non devi essere particolarmente efficiente, anzi, in genere non devi esserlo affatto. […]
(Trionfo sulla morte, p. 79)

Come a dire che non c’è niente di più facile, devi solo metterti davanti alla macchina da scrivere e iniziare a sanguinare, lo diceva anche il buon vecchio Ernest. E, ancora, Johnson ci regala tra le migliori descrizioni del peso, della pressione, dell’altalenanza di favore, con cui convive uno scrittore:

Si vivono periodi di povertà, ansia, debiti spropositati, ma niente dura per sempre. Sono andato dalle stalle alle stelle e ritorno, e più di una volta. Qualunque cosa ti succeda, la metti sulla pagina, le dai una forma, la interpreti in un certo modo. Di fatto non è molto diverso dal riprendere una sfilata di nuvole in cielo e definirlo un film – anche se bisogna ammettere che le nuvole possono venire giù, trascinarti via e portarti in posti di ogni tipo, alcuni terribili, e poi per anni e anni non riesci a tornare indietro.
(Trionfo sulla morte, p. 79)

Quei posti terribili in cui le nuvole lo hanno trascinato, Johnson li aveva vissuti sulla propria pelle, altri li aveva immaginati sulla pagina, eppure entrambi reali e concreti, dolorosi nello stesso modo. È questo, il testamento artistico di Denis Johnson e della sua ultima grande lezione di scrittura.

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FUTURE. IL DOMANI NARRATO DALLE VOCI DI OGGI

Autore: AA.VV A cura di : Igiaba Scego Editore: effequ pp. 224 Euro 15

Autore: AA.VV
A cura di : Igiaba Scego
Editore: effequ
pp. 224 Euro 15

di Debora Lambruschini

«Fino a quando dovremo provare la legittimità delle nostre esistenze?»

(Alesa Herero, “Eppure c’era odore di pioggia”, p. 156)

 

C’è un termine abusato, nell’ambito della critica letteraria, in cui prima o poi rischiamo tutti di inciampare: “necessario”, in riferimento a un testo, un autore, il cui valore appare assoluto ma che, appunto, l’abuso del termine – come già qualche anno fa la formula “onestà intellettuale” – ha reso meno efficace e da cui, personalmente, cerco sempre di tenermi alla larga. Ecco, nel caso dell’antologia Future, edita da effequ, “necessario” è esattamente il termine che cerco e devo usare: perché le undici voci, le undici donne, che firmano queste storie, aprono uno squarcio nella letteratura contemporanea e nella società in cui viviamo, mostrando, con la forza delle loro parole, l’Italia e gli italiani da un punto di vista originale, mai esplorato prima in questo modo. Per la prima volta, undici autrici afroitaliane si confrontano con tematiche fondamentali quali razzismo, patriarcato, radici, migrazione, cultura, dando voce alla propria personale esperienza, a quanto osservato e vissuto: un coro polifonico che a partire dall’oggi si interroga sul futuro possibile.
Nell’ambiguità del titolo, “Future”, c’è già buona parte del senso di questa antologia: il futuro (prestito dall’inglese), ma anche la connotazione femminile a rimarcare il fatto che a prendere la parola sono tutte donne, giovanissime, per le quali interrogarsi sul futuro è un’urgenza.
La giovane età delle autrici è semplice dato anagrafico, perché i racconti e le testimonianze qui riunite – nell’ottima curatela di Igiaba Scego che ha progettato l’antologia e cercato le scrittrici da coinvolgere – denotano una generale confidenza con la parola scritta, talvolta con risultati stilisticamente molto interessanti, in racconti che hanno valore sociale e letterario. Il libro diviene quindi un faro su una realtà su cui quasi mai ci siamo confrontati o quantomeno non tanto da vicino, e, allo stesso tempo, una piacevole esperienza di lettura di storie ben congeniate. Da quando l’antologia è stata pubblicata, le autrici si trovano a portare in giro, da sole o in piccoli gruppi, questo piccolo gioiello, come è capitato anche a Genova quando le abbiamo incontrate in occasione di Book Pride. Un incontro che ha sicuramente arricchito la lettura appena conclusa e che è stata l’occasione per addentrarsi più nel profondo di questi testi, grazie alla generosità e alla genuina emozione delle due scrittrici coinvolte: Marie Moise (autrice di “Abbiamo pianto un fiume di risate”) ed Esperance H. Ripanti (“Lamiere”), con cui ho avuto il piacere di dialogare prima dell’incontro pubblico alla libreria Bookowski; per riflettere insieme sul significato e sul valore di un progetto come questo, sulla comune responsabilità che condividono, sulle tematiche al centro dei racconti e, in generale, sul futuro che immaginano.
La scrittura diviene il mezzo per fare i conti con il proprio passato, come nel caso di Marie Moise, che grazie ad essa ha compiuto un viaggio simbolico e concreto nella storia della sua famiglia, alla ricerca di quelle «radici recise», fino ad Haiti. Un luogo immaginato, perché «Haiti non si trova sui libri», alla scoperta di una terra che ha tantissimo da raccontare e una storia famigliare di lotta politica, di negazione, di abbandono. Marie ha voce delicata, ma le parole che usa sono precise, crude: «ho tanta rabbia per la vita che mi è capitata, sono donna e sono povera. Per me ha placato la rabbia scoprire di non essere sola, scoprire che la mia rabbia è quella di tanti altri simili a me anche se ha provenienze e ragioni diverse»
La rabbia è un sentimento che ritorna, più volte, nel corso della lettura, e con cui ci siamo confrontati direttamente con le due autrici conosciute. Per Esperance H. Ripanti, discendente ruandese, «La rabbia è quella provata nell’estate 2018 di fronte all’impossibilità di sentirmi al sicuro nel posto dove io sono cresciuta». Sono parole che pesano come macigni, che escono dalla letteratura, dalla fiction, per farsi vita, quotidiano. Come per Haiti, anche della storia del Ruanda e del terribile genocidio del 1994 non si trova traccia sui libri di storia, se non brevi accenni, e la ricerca delle proprie radici diviene quindi, anche per Esperance, uno studio difficoltoso, talvolta frustrante. Il razzismo con cui si scontra Esperance è immediato e feroce: «volevo essere come gli altri ma non potevo esserlo, perché tutto di me, fuori, dimostrava il contrario», mancano i punti di riferimento in quella piccola comunità dove è cresciuta, dove gli adulti intorno a lei non assomigliano all’immagine che vede riflessa nello specchio. E la questione razziale, crescendo, si fa sempre più urgente, la rabbia per la discriminazione e quel senso perenne di paura viene incanalata nella scrittura, nell’attivismo, nella presa di posizione.

«Questa storia è partita da un incubo che ho fatto, che mi ha perseguitata per un anno intero e non è stato per niente facile raccontarla», rivela Esperance, ricordando quel crescendo di rabbia e violenza razziale che si percepiva chiaramente nell’estate del 2017, ma di fronte a cui ancora ci si interrogava: «È davvero così grave la situazione o me lo sto immaginando io?»

I fatti vengono rielaborati da Esperance nel racconto distopico “Lamiere”, in cui il confine tra fiction e realtà si fa sempre più labile e la società rappresentata, il clima di paura e la violenza crescenti sono un incubo che a un certo livello, purtroppo, è reale:

 

Alla tv si sono sentite novità assurde; censimenti, controllo dei documenti, convocazioni in questura per chi fosse di origine straniera, revoca di cittadinanze senza motivazioni ben precise e strade affollate di corpi spaventati e sperduti. È successo così in fretta che non ce ne siamo resi conto. È successo così piano che non abbiamo nemmeno pianto.
(Esperance H. Ripanti, “Lamiere”, p. 205)

 

 

[…] quando mi lamentavo ad alta voce per quei vecchi viscidi che mi davano della puttana negra e mi volevano portare a letto. E gli dicevo che quando sei una ragazza nera e scendi dal pullman, che tu abbia uno zaino, una borsa o un bambino, quei vecchi uomini in macchina si avvicinano come dei coccodrilli che spiano una preda da ore, ti fissano con uno sguardo losco e vorace, ti osservano con insistenza, e quando ti giri e i vostri sguardi si incrociano, gesticolano. Abbassano i finestrini. Muovono la testa, invitandoti. (Leaticia Ouedraogo, “Nassan tenga”, p. 110)

 

 

Questo è il mondo in cui stiamo vivendo, e questo libro ci pone dinanzi alla concretezza di fatti e di sentimenti che non possiamo più ignorare.

«L’editoria è mettere in circolo qualcosa, farsi venire delle idee sufficientemente politiche perché così deve essere», ha sottolineato Francesco Quatraro, editor Effequ che insieme a Silvia Costantino ha ideato il progetto. «Volevamo fare un’antologia che parlasse di futuro - non distopia o fantascienza, ma le generazioni, le storie – e di un inespresso potente. Volevamo delle voci nuove. A noi interessa la nuova narrazione e la possibilità di incrociare voci che si riconoscano a vicenda e si crei una nuova storia e proseguano». Di Igiaba Scego la decisione di affidarsi alla scrittura di undici giovani donne, «che è un ulteriore posizionamento politico», conferma Silvia Costantino. Attraverso quelle voci, si compone un’antologia polifonica, nello stile e nel sentire, in cui a tematiche e spunti condivisi – radici, discriminazione, razzismo, misoginia, famiglia, sradicamento – si aggiungono di volta in volta punti di vista nuovi, esperienze e vissuto differente, approccio alla scrittura. 

È difficile, in pagine tanto dure, trovare un messaggio positivo, eppure, a mio parere, c’è, chiaro e forte: la speranza sta tutta in quella parola scelta a dare il titolo alla raccolta, un futuro che va costruito oggi, giorno per giorno.

Che cosa vi aspettate quindi dal futuro, chiediamo alle due autrici incontrate? Per Esperance il futuro «è qua, io lotto per quello che c’è adesso, perché il futuro si costruisce». Attraverso la scrittura, attraverso la presa di posizione e l’attivismo. Perché «ogni forma di lotta di oggi è uno spazio di liberazione», risponde Marie, «lottare, fare attivismo è liberatorio e mi fa stare bene, fa scoprire persone e sentirsi in una rete. Se ce l’hanno fatta degli schiavi a liberarsi da catene vere non vedo perché non dovremmo riuscirci noi a cambiare questa società».
C’è un bambino che ha seguito paziente tutta la presentazione, con la sua famiglia; ha la pelle scura, avrà cinque anni al massimo. E mi chiedo se un giorno ricorderà qualcosa di questo incontro, in una piccola libreria nel cuore di Genova.

 

Storia ragionata della sartoria americana nel secondo dopoguerra

di Stefano Domenichini Editori Riuniti pp. 107 Euro 14

di Stefano Domenichini
Editori Riuniti
pp. 107 Euro 14

Questo articolo è comparso il 19/08/2019 nel blog di Gianni Montieri di HuffPost, che ringraziamo per la concessione.


di Gianni Montieri

Ci sono bivi fondamentali nelle nostre vite. Solo che capitano in giorni qualunque, quando siamo raffreddati o cerchiamo di distrarci seguendo un corso per subacquei; voglio dire, sarebbe diverso se la cosa fosse ufficiale, se venisse a suonarci a casa un ambasciatore dicendo: “oggi lei è a un bivio cruciale”, o se i giornali contenessero un’apposita rubrica dove ogni giorno vengono elencate le persone chiamate ad assumere decisioni vitali.
Si eviterebbero tentennamenti, logoramenti.

Storia ragionata della sartoria americana nel secondo dopoguerra″ (Autori riuniti, 2019) è il piccolo gioiello scritto da Stefano Domenichini, al suo interno di storie ne contiene tre, una più bella e divertente dell’altra, ma andiamo per ordine.
Domenichini è uno scrittore bravo e originale, scrive però molto poco secondo me, i lettori di racconti lo ricorderanno per lo stupendo ”Acquaragia” (Perdisa Pop, 2010), ha uno stile che si muove tra il surreale e il comico, naviga sempre sulla soglia del dramma, ma lo fa entrare nelle storie dopo averlo ripulito, o meglio dopo averlo rivestito di una grottesca timidezza. Non fa altro che prendere il vero che c’è, la famosa realtà e la riveste di fantasia.
Domenichini la realtà la reinventa, rendendola più semplice da gestire e da mostrare, ovvero la dice per quello che è, una cosuccia quasi sempre ridicola, perché così siamo noi che la attraversiamo, credendo di determinarla: un po’ ridicoli, vagamente imbranati, molto spesso imbarazzanti.

Il Sarto era nato a Kovel’ nel 1905. Kovel’ sta in una provincia dell’Ucraina chiamata l’Oblast di Volinia. Nel 1873 costruirono una linea ferroviaria che collegava Kovel’ con le città di Brest-Litovsk e Rivne. L’intero paese si ubriacò, per tre giorni festeggiarono come pazzi. Poi quando si ripresero, cominciarono a domandarsi: ma noi che cazzo ci andiamo a fare a Brest-Litovsk?

L’inutilità della Torino – Lione spiegata bene, viene da pensare, ma è un pensiero laterale, la storia dello scrittore di Reggio Emilia dice altro. 
La vita di un sarto d’origine ebraica, nato in Ucraina incrocerà per un brevissimo istante quella di John Kennedy, precisamente gli ultimi minuti di vita del presidente. Domenichini lascia quell’avvenimento a margine e inventa la vita di un sarto, con le scelte condizionate per molto tempo dalla religione e dalla madre, la storia del suo lavoro a New York, il primo grande amore sfiorato e perduto, la moglie scelta dalla madre, un altro grande amore sottrattogli dalla Cia, il trasferimento a Dallas, un nuovo socio, il successo nel suo mestiere, oggi lo chiameremmo stilista, l’invaghimento per una collaboratrice, con il nostro sarto che si trattiene, la pensa ma la tiene distante, lei si chiama Marilyn, non a caso o per caso, ma a chi importa?
Importa il modo in cui Domenichini inventa una vita, delle vite, racconta un po’ di storia d’America, e quindi del mondo, ci fa sorridere e riflettere. Osserviamo con lui un uomo che non sceglie mai veramente, non sceglie nemmeno di comprare la telecamera, che comprerà. La telecamera che gli cambierà la vita, un giorno del novembre del 1963.

”Prendi per esempio il lanciatore di coltelli,” dice l’ottico Salvatore, “è uno di cui le donne si fidano, eppure lui conosce solo il loro contorno”.

La seconda si intitola ”Storia ragionata delle lenti a contatto”una vicenda più intima, se vogliamo, ma vicina a noi così come quella del sarto. Si leggerà il funzionamento delle lenti a contatto e si leggerà il funzionamento dell’animo umano, di come agiamo nei pressi del panico, di come stiamo seduti accanto alla solitudine. Vedere bene, naturalmente, non vuol dire vederci benissimo. L’uomo delle lenti a contatto, così come fanno in molti, si affida agli ottici e agli oculisti con frequenza inversamente proporzionale al reale bisogno. Andiamo spesso dai medici quando siamo ansiosi, quando altre paure ci accompagnano, quando ci sentiamo soli. L’uomo delle lenti a contatto troverà un degno compagno di solitudine nell’oculista che lo salva, ma lo salva davvero? E chi salva l’oculista?

Un uomo tornò in albergo in uno stato di euforia adolescenziale. Aveva visto Tronchetti Provera. Da quella notte il mondo non fu più lo stesso.

L’uomo si chiama Ravaioli e la sua vita attraversa il terzo racconto del libro ”Storia ragionata degli anni Ottanta”.Qui Domenichini ci mostra il nostro Paese – ridicolo più che mai – i suoi cambiamenti recenti, la corsa verso la ricchezza, la facilità delle cose, la superficialità, la vacuità, il famoso edonismo, il pressapochismo, il populismo (che non ci ha mai più abbandonati). Ravaioli è un personaggio fantastico fin dal nome, dipinto benissimo, così vicino da metterci un po’ di paura, ci guardiamo allo specchio sperando di non somigliargli.

Tre racconti densi di fantasia, di ragionamenti, di riflessioni, scritti bene, senza paura di sfuggire al periodo lungo, alle subordinate. Domenichini – quando scrive - è ingenuo come un bambino e saggio come il migliore dei nonni. I suoi racconti rimandano al buon tempo che si passa nei libri di Ugo Cornia e in quelli di Paolo Nori. Sono perfetti per l’estate ma non ho dubbi sul fatto che vadano bene anche per l’inverno. 

Gli occhi vuoti dei santi, di Giorgio Ghiotti

di Giorgio Ghiotti Hacca edizioni pp. 192 Euro 15

di Giorgio Ghiotti
Hacca edizioni
pp. 192 Euro 15


di Roberto Galofaro

La nuova raccolta di racconti di Giorgio Ghiotti (Hacca, 2019) ha un titolo felicemente ambiguo: Gli occhi vuoti dei santi si riferisce alle cavità nelle sculture lignee o marmoree, dove al negativo l’artista ha scavato la materia lasciando allo spettatore l’impresa di colmare l’opera con l’immaginazione? Oppure si riferisce proprio alla natura subdola, colpevole, annichilente della santità? Il frutto autolesionista dell’ascesi, che svuota l’io dell’umanità e del desiderio, privandolo infine dello sguardo stesso? Quest’ambiguità è ricercata, così come nei testi la santità è a un tempo ricercata e fuggita.
Il libro si inserisce nel solco dei due precedenti di Ghiotti, la raccolta Dio giocava a pallone (nottetempo, 2013) e il romanzo breve Rondini per formiche (nottetempo, 2016), tanto da costituire un corpus omogeneo. Alcuni temi ricorrono: il rapporto tra padri, madri, figli, figlie; la virtù della giovinezza guardata con rammarico e con invidia dagli anziani, il risentimento verso gli adulti, con le loro oppressioni e le loro incomprensioni; il desiderio, specie quello omosessuale, vissuto con disagio, intorbidato dal senso di colpa, dal senso del dovere, dal desiderio eterosessuale; l’insistenza con cui sono dichiarate le ascendenze letterarie di immagini, scene, sentimenti. Ma è soprattutto lo stile a costituire una costante. La scaturigine della prosa di Ghiotti sembra essere una fascinazione per le immagini, per la capacità evocativa di certe situazioni o scene, portata all’estremo da una tensione della lingua verso la liricità (Ghiotti è anche autore di una silloge di poesia, Estinzione dell’uomo bambino, Giulio Perrone, 2016). Conseguenza di ciò è una sorta di sollecitazione continua della scrittura, un passaggio insistito dal dettato realistico a quello poetico, si direbbe. La scrittura di Ghiotti è un gioco di rimandi metaforici, una rincorsa che passa per una selva di somiglianze, paragoni, similitudini, come e come se.
Nel primo racconto di Dio giocava a pallone era già presente un certo precipitare delle parole, una propensione alla definizione emblematica, non tanto per circoscrivere la realtà ma per farne esplodere il senso. E poi i finali aperti, che scagliano quel senso di realtà verso la potenziale negazione di quanto affermato, rivelando tutta la provvisorietà di ogni situazione, nessuna mai ultima davvero. Anche lì la santità era in lotta con il peccato, con la colpa, con il tradimento: con il desiderio. Anche lì la lettura era semplicemente maestra di vita o suscitatrice di interrogativi.
Nel romanzo Rondini per formiche era ritratta la vita di due adolescenti problematici e della loro madre emotivamente bambina. A fare da fondale erano Rora, la città di provincia, il luogo in cui la vita è inerzia, e Roma, la capitale, dove la vita accade con energia e iniziativa. Un tentativo di inserire accenni agli eventi storici suonava alquanto stonato: non si accordava il tempo e il modo della narrazione intima con quello della notazione realistica, che finiva per suonare giustapposta, non appieno integrata. Perché tutta la vicenda è interiore, ed è la macerazione e il conflitto tra desideri opposti in tutti i personaggi.
La religione, chiamata in causa da Ghiotti in tutte e tre le opere, è un incombere minaccioso di simboli, è un’ansia. Così i simboli si macchiano (letteralmente: è il caso degli angeli sull’asciugamani macchiato di mestruo, in una scena madre del romanzo Rondini per formiche) oppure, come nel titolo dell’ultima raccolta, mostrano le orbite cave, gli occhi vuoti, incapaci di guardare alla condizione umana.
La santità è lo stato-limite di perfetta liberazione dagli istinti, dalla naturalità animale e, soprattutto, dal desiderio. Ma l’affrancamento si ottiene solo al prezzo del sacrificio di sé, è un faticoso acquisto che passa per la privazione. E la privazione è, sovente, impossibile all’umano.
È il negativo del desiderio: perché la scrittura di Ghiotti cerca molto i corpi, si vuole carnale, esalta il desiderio quanto più esso è negato o rifiutato, eppure nello stesso identico movimento, con la grazia della parola, cerca di elevare spiritualmente quei corpi, di traslarli in una dimensione simbolica, trasfigurando il desiderio concreto in desiderio ideale, ciascun corpo in una fantasia totalizzante del corpo umano.

In È permesso? le storie dei personaggi di una famiglia (allargata) si incastonano tra loro, trapassando ininterrottamente dal presente al passato, dal ricordo all’evento, dall’oggetto all’individuo. Gli eventi accadono sempre fuori, spesso sono secchi, ma il significato che se ne ricava si riassume in una frase all’indicativo, in una apodittica formulazione di soggetto, copula e un predicato nominale:

 

Un giorno (Gregor ha quindici anni) si sveglia e non c’è più Dio. Se ne è andato con discrezione. Con eleganza. Che mistero. Dio è una creatura meravigliosamente semplice.

 

È costante nella scrittura di Ghiotti, si diceva, questo genere di puntualizzazioni quasi sapienziali, come dei paletti teorici nei quali l’emozione cerca sostegno, dei punti fermi o delle pietre miliari poste a segno dell’esito di un ragionamento vissuto e sofferto.
In altri casi il risultato ricercato è quello di una voce ingenua e meravigliata, che avanza a tentoni tra i ricordi delle morti dei padri (Mio padre), che cerca nella memoria le ragioni e le colpe di un triangolo di corpi e non d’amore (Noi due), che condensa eventi tragici in un dettato più delicato (Erbacce):


A me piace molto qui, anche se certe mattine il grigio delle case si mischia con il cielo e sembra un unico immenso scarabocchio di matita. Non è vero che qui c’è solo il grigio: c’è la piazzetta e lì il colore è il verde, il verde delle erbacce che i giardinieri sradicano ogni mese ma tanto ricrescono sempre,
sono testarde e cercano il cielo.

 Padri e figli si confrontano come stagioni dell’età in conflitto: la giovinezza è determinazione e forza, è energia espansiva, movimento; la maturità è l’epoca del rimpianto, è ripiegamento interiore, contemplazione. Sono padri assenti, colpevoli o incolpevoli, sono padri incastonati nella distanza siderale di un ricordo, stelle fredde la cui luce arriva quando è già estinta.
In Mattatoio è una madre non più giovane a ricercare una rinascita nell’amore per una donna più giovane, ma la ciclicità della vicenda terrena non si può interrompere e la tragedia è lì a ricordarcelo.
In La casa di via Bolivares una mente bambina (ingenua, ancora una volta) metabolizza il trauma in una dialettica tra oblio e memoria, celebrando la fantasia miracolosa dell’infanzia:

Non abbiamo compiuto miracoli perché i miracoli non esistono.
C’è la fantasia dei bambini a separare la verità dalle sue menzogne.

 Spesso Ghiotti nomina i suoi santi, ovvero i suoi scrittori di culto. Mentre in Che cosa sono i padri ci si chiede se la visita alla casa di D’Annunzio sia stato il marchio di una vocazione, in è Il nostro Sur, che non è propriamente un racconto quanto un album di ricordi letterari, un frammento di un’amicizia coltivata per il tempo di un corso di letteratura sudamericana: a scandirla, le suggestioni ricavate da Cortázar, Gabriel García Márquez, Onetti e altri, puntualmente annotate. La circostanza ben descritta è la premessa di un distacco imperfetto, un’azione che non si celebra e non si compie.
Manca forse un equilibrio tra il dettato didascalico e la vocazione lirica, che si accende fulminante soltanto a tratti. Non tutti gli episodi che Ghiotti vorrebbe esemplari e significativi, infatti, hanno le stigmate della rivelazione, non tutte le immagini sono icone.

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A casa e ritorno, di Chris Offutt

di Chris Offutt minimum fax Traduzione di Roberto Serrai pp. 121 Euro 16

di Chris Offutt
minimum fax
Traduzione di Roberto Serrai
pp. 121 Euro 16


di Debora Lambruschini

 

L’America rurale, brutale e selvaggia, i luoghi da chiamare casa con tutto ciò che il termine implica, fra desiderio di allontanarsene e nostalgia per ciò che meglio si conosce, solitudini, violenza, isolamento: c’è tutto il mondo di Chris Offutt in A casa e ritorno, un’intensa raccolta pubblicata di recente da minimum fax, a due anni dall’edizione italiana di Kentucky Straight (Nelle terre di nessuno) i racconti con cui lo scrittore statunitense esordì nel ’92. Due raccolte che si intrecciano, per ambientazione e tematiche, in cui avvertiamo chiaramente il mutamento dello stile che si fa, in questa seconda prova, ancora più essenziale e diretto, la parola misurata, i dialoghi al minimo e folgoranti.
Protagonisti assoluti, anche in questo caso, i luoghi: il Kentucky più selvaggio, fuori dal tempo e dalle mappe, con i boschi, le colline e le pianure, le poche case sparse in una terra da cui è difficile scappare. A casa e ritorno, andare e restare: sono le due facce della stessa medaglia, il desiderio di allontanarsi da un mondo opprimente a tratti, da un isolamento – geografico, culturale, economico – che schiaccia, ma è anche la terribile malinconia che riporta sempre lì, alle proprie radici. In fondo è proprio di questo che si tratta, sempre, di radici, dell’inspiegabile attrazione verso quelle terre da cui sembra impossibile staccarsi del tutto. Perché a quella terra si resta aggrappati, nonostante tutto, nonostante i chilometri e gli anni intercorsi, resta in un certo modo di vedere il mondo, in quel senso di isolamento da cui non si esce mai del tutto, nell’essenzialità del linguaggio. Un dualismo – andare/restare – che pervade tutta la raccolta, con echi differenti in ogni personaggio e storia che la compone. Il peso, talvolta opprimente, della familiarità dei luoghi, di un quotidiano faticoso e limitante, il desiderio di fuga, di sondare altre possibilità:

 

Scese dal pick-up e aspettò. Era tutto come sempre: la casa, gli alberi, le persone. Riconobbe le foglie e il profilo dei rami contro il cielo. Sapeva come cadeva la luce, dove sarebbero scese le ombre. L’odore dei boschi era familiare. Sarebbe rimasto così per sempre. Di colpo, come gli avessero tirato una secchiata d’acqua, capì perché Ory se n’era andato.

(p. 22 finale racconto “A casa e ritorno”)

 

Allo stesso tempo, il ritorno, la malinconia, la rassicurante sensazione di sapere esattamente quale sia il proprio posto, la propria vita.
C’è, nelle storie di Offutt, pochissimo spazio per la speranza, il lirismo e la bellezza a fare da contraltare alla brutalità delle scene, come avviene per esempio nella celebre trilogia della pianura di Haruf, lo straordinario cantore dell’America rurale, o nei racconti e romanzi di Nickolas Butler: è un sentire differente, la parola quasi del tutto priva di lirismo, ma perfettamente adattata alla narrazione. Offutt rappresenta un mondo, il suo mondo, restituendolo in tutta la sua brutale realtà ed è il luogo, ancora più degli uomini, a farsi protagonista di ogni storia. Gli uomini – e le donne – possono solo cercare di adattarsi alle regole che lo dominano, in continua tensione fra desiderio di fuga e radici piantate troppo a fondo per potersene liberare completamente. Non è, quindi, il mito della campagna, della provincia americana più profonda, che Offutt restituisce al lettore, ma i lati più oscuri e selvaggi di un mondo fuori dal tempo, atavico, in racconti dove si intrecciano il grottesco e l’elemento magico, cifra stilistica dell’autore. La brutalità di certi brani quasi respinge, la violenza ordinaria, il confronto praticamente quotidiano con la morte, aprono spiragli su una realtà difficile per i più da immaginare, che Offutt evoca sulla pagina privandola, appunto, di inutili lirismi. Violenza e morte fanno parte della quotidianità come, in altri luoghi, il cibo e l’aria, e trovano perfettamente il loro spazio in queste storie proprio perché parte integrante della realtà raccontata: Offutt non vi indugia per il piacere fine a se stesso, ma quali elementi costitutivi, essenziali, di quel mondo evocato. L’alcool, la violenza, la morte, la ruvidità della vita, sono parte integrante di queste storie perché parte integrante del mondo stesso da cui affiorano.
Dico spesso che di fronte allo stesso libro, ognuno di noi ne fa una lettura diversa, perché colpito nel bene e nel male, da aspetti, tematiche, spunti, differenti per l’uno o per l’altro. Ecco, per la mia sensibilità, gusto letterario e chissà quali altre ragioni, a colpirmi profondamente nei racconti di Offutt vi è, oltre a quanto detto, la riflessione sul rapporto padre-figlio e sui legami famigliari in genere, di cui i racconti di entrambe le raccolte sono intrisi appena sotto la superficie, soprattutto questa seconda. Certo l’elemento essenziale, la tematica centrale nei racconti di “A casa e ritorno” – ma più in generale nelle storie tutte di Offutt – è appunto l’America rurale, con i suoi codici, le vite ordinarie di uomini e donne alle prese con un quotidiano spesso privo di slanci e possibilità di riscatto, il rapporto con il luogo da cui proveniamo. Un intreccio di spunti e riflessioni che pervadono tutti i racconti, aprendo a differenti punti di vista e che, nella forma perfetta della short story e di quell’istante raccontato, trovano lo spazio ideale per concedere al lettore di sviluppare la propria interpretazione. Ma è nella rappresentazione del rapporto padre/figlio che personalmente ho trovato spunti particolarmente interessanti. È proprio lì, appena sotto la superficie, quando credi che la storia sia incentrata su un certo aspetto e la narrazione proceda in una determinata direzione, che tale elemento ribalta la prospettiva di lettura.
C’è un uomo, tornato a casa dopo il divorzio dalla moglie, che cerca il modo di entrare in connessione con il proprio padre, un legame in cui le parole o i gesti affettuosi sono sempre mancati:


Mentre girava intorno all’auto, Ray si rese conto che non aveva mai toccato suo padre. Da lui non aveva mai ricevuto un abbraccio, non gli aveva nemmeno mai messo una mano sulla spalla.

(p. 106, “Tiro al bersaglio”)

 

Le parole scarne, i gesti misurati, e che adesso mancano, quando forse più che in ogni altro momento della vita, entrambi ne avrebbero bisogno.
E, ancora, uomo, un padre (“Due-undici dentro e fuori”) dalla vita sgangherata, una vita da cui non è in grado di mettere in guardia il figlio, in cui le parole restano sospese, solo pensate. «Non gli ho mai dato niente. E ora non riesco a dargli nemmeno questo». Questo rappresenta il tentativo di salvezza dalla mediocrità, dalla miseria, dal fallimento. Ma è come se tutto fosse già deciso, la possibilità di riscatto sempre più difficile anche solo da immaginare.
In tutti i racconti, è incombente il peso di solitudini e silenzi impossibili da colmare: è l’incapacità di comprendersi, di dare voce ai sentimenti. Di salvare, di salvarsi.
La malinconia. Per un luogo che opprime, ma che in fondo resta sempre casa.

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Documento e invenzione: Il silenzio dei satelliti di Clemens Meyer

di Clemens Meyer Keller editore Traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero pp. 224 Euro 16,50

di Clemens Meyer
Keller editore
Traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero
pp. 224 Euro 16,50

di Alfredo Zucchi


La storia delle frizioni tra documento e invenzione è forse la storia stessa della letteratura, si diceva qui. Questo forse indica un orizzonte e un limite: è l’utopia del ruolo della letteratura in società; ed è la constatazione di un’evidenza, come un’autopsia: in questa frizione si trova la letteratura, niente di più.

Clemens Meyer, scrittore nato nel 1977 a Halle nell’allora DDR, sembra consapevole di entrambi gli elementi del dualismo: il limite e l’orizzonte. Ne Il silenzio dei satelliti, libro di racconti uscito in Germania nel 2017 e pubblicato in Italia da Keller nel febbraio 2019, per la traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero, emergono a più riprese, come leitmotiv ostinati e quasi involontari – come la voce insistente della realtà – temi legati alla crisi migratoria che ha investito l’Europa, e in particolare la Germania quale paese di destinazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, a partire dal 2013, e che ha coinvolto principalmente le popolazioni in fuga dal conflitto siriano.

Espressioni quali “stranieri del cazzo” e “i cazzo di stranieri, come li chiamavano noi” tornano in vari racconti; il tema dell’integrazione della comunità di fede musulmana nelle città tedesche, inoltre, informa il testo che dà il titolo alla raccolta. Il documento, dunque, prende la forma, in questo libro, di tensioni socio-politiche attuali.

“Aveva i capelli castani, né lunghi né corti, e il viso chiarissimo, anche la pelle delle mani era quasi bianca, per un attimo pensai che magari lavorava al centro di accoglienza dato che non aveva la carnagione scura degli “stranieri del cazzo” come li chiamavano i colleghi, certe volte usavo anch’io quell’espressione, quando bevevamo il caffè tra la fine del mio turno e l’inizio del successivo, appunto come capita di fare per non sembrare deboli, anche se io contro gli stranieri non avevo niente”
(“Vetri rotti nell’oggetto 95”, p.18).
 

In che modo queste tensioni investono la narrazione? Meyer non sfugge alla domanda, al contrario la tematizza:

“E che io pensi a lei, alle serate insieme sulle scale, al giorno che restava chiaro fino a tardi, allo spegnersi delle luci dei satelliti, alla mia occhiata dalla porta socchiusa della moschea femminile, a quella notte in particolare, non ha niente a che vedere col fatto che tutta ’sta questione religiosa, o comunque vogliamo chiamarla, sia tornata di colpo attuale. Cosa sarà mai attuale? L’attualità è una leggenda e un concetto radicalmente sbagliato, siamo sempre da tutt’altra parte, e so di cosa parlo perché gestisco un chiosco, in una casetta piatta con la tettoia che una volta era un distributore di benzina”
(“Il silenzio dei satelliti”, p. 130).

“L’attualità è una leggenda”: l’apparente irrefutabilità con cui le tensioni socio-politiche della contemporaneità entrano nei testi costringe, di volta in volta, il narratore a dare un passo di lato, a deviare lo sguardo. Il riposizionamento del narratore e dei personaggi del libro rispetto alle voci dell’attualità – aggressive e autoritarie come solo la sedicente evidenza può esserlo – produce uno scarto; in questo scarto il narratore scopre una dimensione intimamente vaga eppure familiare, al cui interno il suo sguardo non può fare a meno di sprofondare.

Ne “Lo spiraglio”, ad esempio, il personaggio principale, di ritorno in casa, constata di essere stato derubato. Tuttavia davanti all’insistenza del fabbro che gli sta rifacendo la serratura, il narratore rifiuta l’evidenza:

“Possibile che il fabbro non potesse starsene buono, sostituire la serratura e basta? Lui si era messo in corridoio, aveva chiuso tutte le porte ed era rimasto a guardarlo trafficare con vari attrezzi chino sulla soglia, prima alla serratura e poi allo stipite. «Se ha fortuna rispunta fuori qualcosa… Di solito però no. Non ci spererei». «Non manca niente» ripeté lui, ma il fabbro continuava a parlare. «Lei non è mica il primo, stanno facendo il giro del quartiere, di tutta la città. Gente di fuori, glielo dico io. Stranieri del cazzo». «Gliel’ho detto che… Li ho sorpresi. Non sono nemmeno riusciti a entrarci, in casa»”
(p. 85).

Il rifiuto dell’evidenza innesca un movimento che spinge il personaggio a esplorare una regione diversa: ambigua, ignota eppure stranamente riconoscibile.

“‘Bande organizzate’, aveva letto sul giornale, ‘Gente di fuori, stranieri del cazzo’, gli aveva detto il fabbro. […] Quando era sceso dall’autobus vicino al ponte ed era tornato indietro a piedi aveva incrociato quella strada larga con i binari che correvano dietro le file di case. “Che diavolo succede qui?” si era chiesto. Esplosioni di luce dalle porte aperte delle sale giochi, strisce di verde lungo la via con tizi sulle panchine che lo guardavano storto, e lui si era messo a correre. Perché a correre? E mentre correva, con la coda dell’occhio aveva visto un gabbiotto illuminato sul bordo della strada, accanto al marciapiede, con le pareti di vetro come la guardiola di un parcheggiatore, e dei tizi in uniforme dietro i vetri che scrutavano nella notte, in alto sul tettuccio la scritta bianca e verde POLIZEI. Perché non aveva cercato rifugio lì, si era chiesto più tardi, seduto sulle scale della vecchia casa cadente. Una specie di avamposto. Bande organizzate. «Stranieri del cazzo» disse forte sulle scale. Poco prima si era fermato davanti a un rigattiere credendo di riconoscere dentro il negozio la sua bicicletta. Tra le altre biciclette. Poi vedendo i due drogati secchi nel riflesso della vetrina aveva proseguito, loro erano scomparsi ed erano spuntati altri tizi che l’avevano incalzato, inseguito…
«Sei tu, bambino mio?»
Trasalì. Doveva essersi addormentato un momento. Sulle scale si erano accese le luci, sopra di lui era spuntata una donna anziana. Portava una specie di rete sui capelli e lo guardava ammiccando dietro grandi lenti affumicate. Lui non immaginava che nella vecchia casa cadente abitasse ancora qualcuno” (“Lo spiraglio, pp. 88-90).

 

I leitmotiv e le urgenze politiche del presente, ne Il silenzio dei satelliti, rappresentano un vettore di straniamento che innesca un movimento verso il basso, verso una regione ambigua in cui desiderio e memoria sembrano compenetrarsi e confondersi. Questo movimento di discesa ha una forte corrispondenza nelle strutture narrative dei singoli racconti: una volta innescato, infatti, esso genera una sovrapposizione e un mescolamento dei piani temporali. Questa sovrapposizione a sua volta produce l’apparizione improvvisa di frammenti testuali (per lo più dialoghi) provenienti da un tempo diverso da quello della narrazione – frammenti che, insinuandosi nel tessuto narrativo come se provenissero da un altro tempo o da un’altra dimensione, indirizzano e danno forma alla narrazione.

“Anche quella notte la tranvia attraversò i miei sogni. La linea aerea era congelata, piccoli lampi elettrici crepitavano tra il cavo superiore e il pantografo sul tetto del vagone. Sulla vettura vuota erano in tre: Karli, lei e il vecchio. La cosa strana è che lui restava vecchio anche nei sogni. Sembrava un po’ più alto, un po’ più robusto, ma la faccia era comunque vecchia. Viaggiavano con il vagone estivo, quello aperto, e tra noi soffiava un vento gelido. Sì, perché adesso c’ero anch’io sulla tranvia a mare, non la vedevo più dall’esterno come a volte si osserva e segue tutto nei sogni, quasi si fosse ubiqui. Ero salito a una delle fermate, segnalata da un cartello con l’orario delle corse piantato nella sabbia della spiaggia, e mi ero seduto in fondo al vagone a osservare gli altri tre. Lei all’inizio era dietro di lui e poi si spostava accanto al banco di guida, mentre il piccolo Karli correva per la vettura con l’uniforme troppo larga e le maniche rimboccate raccontando qualcosa, barzellette e battute di cui rideva lui per primo in continuazione. Sigarette e cioccolata. Mi faceva l’occhiolino da sotto la visiera blu del berretto, «biglietti prego, controllo biglietti!», e ricominciava a correre per il vagone fingendo di non vederci per via del berretto e di andare a sbattere contro i sedili, proseguiva barcollando, lo sentivo ridere e ridere.
«E sai perché me lo ricordo così bene?»
«Cosa?» chiesi. Eravamo di nuovo, o ancora, seduti al molo,
piovigginava, il cielo era coperto di nuvole che sfilavano sul mare raggomitolate nelle formazioni più strane, sebbene a riva il vento si sentisse appena”
(“L’ultima corsa della tranvia a mare”, pp. 70-71, i corsivi sono miei).

Solo allora, innescato questo movimento discendente, lo sguardo del narratore affonda nella regione in cui la temporalità diventa secondaria, in cui ciò che più conta è adeguarsi alla persistenza di una traccia: una volta giunti lì, abbracciare l’unità della traccia è più importante che provare a ricondurla a una causalità temporale ordinata e lineare. Il documento – la pressione dell’attualità, del presente – costringe l’invenzione a mostrarsi per quello che è: puro desiderio; e a mostrare il suo campo di gioco: la memoria e l’immaginazione.

Meyer esplora questa regione – ambigua e familiare, patrimonio di tutti e di nessuno – con maestria e delicatezza, adeguando lo sguardo alle fattezze dello spazio in cui la voce narrante di volta in volta sprofonda. Tuttavia, spesso, le chiuse dei racconti risultano forzatamente vaghe: i finali sospesi sembrano dichiarazioni di resa al carattere inafferrabile della regione che le voci narranti si trovano a esplorare. Due notevoli eccezioni sono rappresentate dai racconti “L’ultima corsa della tranvia a mare” e “Lo spiraglio”, in cui invece le barriere tra l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione, tra misurante e misurato, crollano del tutto, e l’ambiguità diventa la voce stessa della chiusa.

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Ragazzo d'oro, ragazza di smeraldo, di Yuyun Li

di Yuyun Li NN Editore Traduzione di Eva Kampmann pp. 256 Euro 17

di Yuyun Li
NN Editore
Traduzione di Eva Kampmann
pp. 256 Euro 17

di Roberto Galofaro


Una buona storia è il paesaggio interiore di un personaggio

In una breve lezione di scrittura creativa, Yiyun Li dice che bisogna evitare di scrivere drammi incentrati su un singolo evento significativo: una situazione, per quando drammatica, misteriosa e carica di conflitto, di per sé non costituisce una storia. Al contrario, una storia si rivela interessante quando ci offre una prospettiva nuova per mettere a fuoco un personaggio; quando, invece che concentrarsi su un unico, denso segmento temporale, la narrazione si dispiega facendoci intuire l’intera storia del personaggio chiamato in causa, mettendone in connessione presente e passato. Le interazioni tra i personaggi ne rivelano le intenzioni, ovviamente, ma anche le motivazioni: è quel che in genere si sintetizza brutalmente in «non esistono i personaggi ma le relazioni tra personaggi».
Li pronuncia una frase che può valere come epigrafe della sua stessa opera: «A good story is a character’s internal landscape». A questo precetto si conformano i racconti di Ragazzo d’oro, ragazza di smeraldo, raccolta uscita negli Stati Uniti nel 2010 e da poco pubblicata in Italia da NN editore, nella traduzione di Eva Kampmann.
I nove racconti sono tutti ambientati in Cina, una collocazione geografica che al lettore italiano contemporaneo, al pari di un qualsiasi lettore occidentale del 2019, risulterà inevitabilmente esotica così come esotici risulteranno i riferimenti storici e culturali qua e là evocati. Sotto questo profilo, poco o nulla delle situazioni narrate è familiare, e tuttavia, questo è assolutamente irrilevante. Sì, leggiamo di scambi di email, di siti internet, persino di una maternità surrogata. Ma leggiamo anche di un anno di servizio militare obbligatorio, imposto dal regime comunista per rinsaldare la disciplina dei giovani dopo il massacro di piazza Tienanmen. Leggiamo anche di donne che combinano matrimoni e di uomini che vengono pestati a sangue dalle Guardie Rosse. Leggiamo di cibo razionato e persino di preservativi razionati. Siamo coinvolti, emozionati, turbati dalla lettura, dalla peculiare capacità di Li di raccontare nove paesaggi umani, mettendone in scena l’esistenza come conflitto con il proprio melodramma: non l’esito comico o tragico, non l’intreccio, non la trama, non la soluzione cerebrale, razionale, fattuale di un conflitto. La pura manifestazione dell’emotività, del sentimento. Irrisolvibile, e irriducibile.

 

Drogata di fatalismo

Yiyun Li è nata a Pechino nel novembre del 1972, ha studiato in Cina e, dopo un anno di servizio militare obbligatorio, si è trasferita negli Stati Uniti per specializzarsi in Immunologia. A quel punto, però, ha scelto di abbandonare la carriera medico-scientifica e di dedicarsi alla scrittura, abbandonando definitivamente anche la lingua madre cinese per l’inglese, e ha conseguito un Master of Fine Arts in Creative Nonfiction presso l’Università dell’Iowa.
Ha esordito nel 2003 sul «New Yorker», che in seguito l’ha segnalata tra i venti scrittori sotto i quarant’anni da tenere d’occhio, mentre la sua prima raccolta di racconti, Mille anni di preghiere, è uscita nel 2005 (in Italia per Einaudi nel 2007, nella traduzione di Eva Kampmann). Ha ricevuto premi prestigiosi come il PEN/Hemingway e una MacArthur Foundation fellowship. Oggi insegna a Princeton, dove vive con il marito e i figli.
Ma c’è ancora una notizia biografica, assai intima, che colpisce e che potrebbe sembrare apparentemente pettegola, forse eccessiva nel dettaglio, tanto che sulle bandelle e sul sito di Penguin non è riportata: Yiyun Li ha avuto un esaurimento nervoso nel 2012, dice la scarna nota biografica su Wikipedia, e ha tentato due volte il suicidio.
Nel 2017, dopo anni di riflessioni e di riscritture, ha raccontato se stessa e la propria vocazione e formazione letteraria a partire da quell’esperienza nel memoir Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua (uscito nel 2018 per NN editore, nella traduzione di Laura Noulian). Da questo libro è possibile partire per cercare le parole chiave, una luce, un’illuminazione sulla scrittura di Yiyun Li.
Non è un libro sul suicidio e sul tentato suicidio, non è né una difesa né una condanna del gesto estremo, né una ricostruzione puntuale della crisi e dei momenti difficili vissuti, anche se affronta tutti questi temi in una confessione intellettuale molto lucida. Yiyun Li accenna sì al difficile rapporto con la madre, che con i suoi ricatti emotivi era per lei quasi come una figlia,  racconta della sua tendenza al fatalismo, un fatalismo testardo e rassegnato. Ma il libro è, sorprendentemente, il racconto del suo apprendistato letterario, che ha origine con la lettura delle poesie in prosa di Turgenev e che prosegue con una passione per il massimo della scrittura autobiografica: i diari e le lettere di autori fondamentali per Li: Turgenev, Sweig, Mansfield, Woolf, Kierkegaard, Moore, Bowen e altri. È la storia di una persona che, scegliendo di cambiare lingua, ha azzerato o quasi i propri ricordi, il proprio passato – senza per questo ottenere una pacificazione («Quando ricordiamo in una lingua d’adozione, nella memoria c’è una linea di confine. Ciò che successe prima che adottassimo la nuova lingua potrebbe essere accaduto nella vita di un altro; potrebbe addirittura essere frutto della nostra fantasia»). È il racconto di una donna che da sempre si è negata l’affetto e l’amore altrui per timore di perderlo o di non meritarlo o, peggio ancora, per timore di esserne determinata, preferendo restare un “niente”, una reclusa. Coltiva un desiderio di invisibilità, autodistruttivo, e si sente malata di fatalismo, laddove fatalismo è «prendere a ogni svolta una decisione sprezzante e contraria al proprio intuito». Ma è anche accettare la sofferenza con apparente rassegnazione: «Essere drogata di fatalismo può farti apparire calma, capace, persino felice».
Al di là dei dati biografici, Caro amico è una miniera di riflessioni sulla creatività di Li. Mentre dagli affetti della vita reale vorrebbe tagliarsi via, deresponsabilizzarsi, per i personaggi dei suoi libri nutre un affetto e un’ossessione assoluti, perché rispetto ad essi può, senza timore di ritorsioni, sentirsi partecipe e ignorata: non le chiederanno mai conto, non si ripresenteranno se non sarà lei ad andarli a rievocare, non la dimenticheranno perché non l’hanno mai neanche conosciuta, e il filtro della memoria, che distorce per rassicurare, non la sfiorerà mai.
Yiyun Li dice di non essere e non voler essere una scrittrice autobiografica: detesta usare la parola “io” in inglese; in un altro passaggio dice di ritenere da sempre indegna di racconto la propria vita. E tuttavia, più avanti afferma: «Scriviamo parlando di ciò che ci ossessiona. Sotto questo profilo, nessuno può evitare di essere autobiografico».
Nel raccontare il suo proprio paesaggio emotivo, Yiyun Li sembra riconoscere, controvoglia, che da esso scaturisce l’attenzione per i suoi personaggi. Come può una persona allegra e vitale come lei aver pensato al suicidio, le chiedono i lettori, indiscreti. «Non mi sono mai messa a scrivere di proposito di malinconia, solitudine, sconforto. Io mi tengo per me, e non sono io a stabilire il destino dei miei personaggi; con loro sono riservata come lo sono nella vita».
Quali sono dunque le ossessioni di Yiyun Li, forse le sue principali ossessioni? Il fatalismo, il melodramma, la memoria.

 

Memoria e melodramma

È possibile scrivere una raccolta di racconti improntati a situazioni minime e vite sul crinale della disperazione, destini di sconfitti, rassegnati (ma non disperati), senza per questo indulgere nella negatività? Raccontare queste vite e commuovere? Raccontare esperienze del genere e far sorridere di compassione?
Yiyun Li è capace di farlo, grazie a una scrittura sempre moderata, nonostante l’altissima temperatura emotiva.
In Caro amico leggiamo:


«Tutto considerato, direi che la memoria ha due forme, nessuna delle quali è esente da distorsioni: una è il melodramma, l’altra il ricordo riveduto e corretto. Ci aggrappiamo a quest’ultimo perché il melodramma non ci riduca la vita in macerie.
Ma, decurtata dal melodramma, cosa ci resta se non una vita vuota, fatta di impegni?».

Possiamo tenere queste parole come faro per l’interpretazione della raccolta Ragazzo d’oro, ragazza di smeraldo.
Sono parole che escludono l’assalto frontale all’esistenza, che configurano invece un ripiegamento. La memoria è il fondamento dell’identità dei personaggi di Yiyun Li ma, contariamente a quanto ci aspetteremmo, non in una funzione di rivendicazione ma di rassegnazione, un compromesso con la propria storia personale, anche se non pacificato.
L’adattamento, la rinegoziazione comportano l’infelicità sottotraccia, che sia riconosciuta come tale o no, che sia lamentata o no. Il crollo, se è avvenuto, è stato senza schianto. Quasi che la frana si sia svolta a un ritmo costante e lento, quasi coincidesse con il procedere del tempo: il fatalismo.
Così è per i due personaggi contrapposti del racconto che dà il titolo alla raccolta. Siyu, la trentottenne “ragazza di smeraldo”, è invitata a unirsi in matrimonio con il figlio dell’anziana professoressa Dai, il “ragazzo d’oro” Hanfeng. È un matrimonio impossibile, e il legante della pressione sociale, che imporrebbe le nozze per mettere compimento a una vita, è insieme trascinante e indifferente. Leggendo, diventa chiaro che nessuno dei tre ha una ragione sufficiente per compiere uno strappo, tuttavia, e alla fine Li scrive:

«Erano persone sole e tristi, tutte e tre, e non sarebbero diventate meno tristi grazie alle altre due, ma potevano, con molta cura, creare un mondo che avrebbe accolto la loro solitudine».

In Un uomo come lui, la madre del maestro Fei, novantenne, porta le tracce di un tempo in cui il regime comunista razionava il latte; Fei, sessantenne, insegnante d’arte in pensione, assiste la madre ogni mattina e ogni sera, ma passa i pomeriggi in un internet cafè a chattare e si chiede se, di lì a cinquant’anni, i ragazzini fonderanno la loro nostalgia su un mondo fallace che è esistito soltanto all’interno di un apparecchio. Passato, presente. Rimembranza, nostalgia. Il maestro è scapolo, annota le frasi pronunciate dalla madre quando sembrano massime di saggezza: «Non ho nulla da dire su questo mondo». Una frase di un fatalismo estremo, nonché l’ultima frase pronunciata dal padre del maestro, si scoprirà, prima di suicidarsi. Fei riconosce un’anima affine in un uomo coinvolto in uno scandalo familiare: lo cerca, lo segue, lo invita a bere. E lì, raccontando a questo sconosciuto lo scandalo di un’accusa ingiusta che ha segnato anche il suo passato, si prende il suo sfogo, liberando il rancore puramente nell’atto dell’esprimerlo.
In Prigione leggiamo di una coppia che dall’America torna in Cina per scegliere una madre surrogata nel paesino d’origine. Qual è la prigione del titolo? Non è solo la gravidanza ospitata per contratto, è il matrimonio stesso, è il desiderio condiviso e imposto, è la maternità, è il richiamo del sangue, è la rabbia? «Buona parte della complessità della vita sta nel fatto che in molti dei rapporti più importanti l’io si moltiplica», scrive Li in Caro amico. Una moglie non è mai solo una moglie, è anche una madre potenziale, una figlia, una donna più ricca di altre, un’emigrata che fa ritorno al piccolo paesino cinese in cui è nata. Ogni aspetto dell’io è un muro di quella prigione che è la vita.
La signora Jin, la protagonista del racconto La proprietaria, ha una bottega davanti al carcere, nella quale prende come lavoranti le mogli degli uomini incarcerati. A dare il via al racconto è l’arrivo di un’intervistatrice, interessata a conoscere e divulgare la storia di questa benefattrice. È curioso come questo espediente sia la vera e propria incarnazione narrativa della scrittura di Yiyun Li: concedere spazio e tempo ai personaggi perché raccontino sé stessi. Scopriamo che la signora Jin è stata scaltra ed è stata vittima della scaltrezza altrui, scopriamo che, dal suo passato, è rimasta come una scoria melodrammatica l’idea di ricambiare un antico gesto di gentilezza.
In Incendio domestico facciamo la conoscenza delle “Soccorritrici di case in fiamme”: un gruppo di amiche donne tra i cinquanta e i settanta che, fallito il tentativo di fare da sensali, fallita cioè la prospettiva di imparentarsi tra loro convincendo o forzando i propri figli e figlie ad accasarsi tra loro, si dedicano al salvataggio di matrimoni a rischio di infedeltà, e più precisamente si danno a soccorrere, come un’agenzia di servizi, altre donne che temono di essere tradite dai coniugi. Il matrimonio è un’esigenza sociale, interiorizzata nella forma del ticchettio di un orologio biologico che è un conto alla rovescia verso la solitudine, l’abbandono, il fallimento. «Un vecchio innamorato è come una vecchia casa in fiamme, prende fuoco facilmente e si riduce presto in cenere», è un battuta che circolava tra loro via sms: dunque non siamo in una premodernità arcaica e in un tempo remoto, siamo in un’epoca vicina al presente, se non coincidente con esso. Questo stridente contrasto di epoche e di culture non è portato in primo piano da Yiyun Li, non è mai il tema dei suoi racconti. È un dato acquisito. La vicenda del racconto porterà in luce un’amara consapevolezza. La verità non rende liberi ma prigionieri: prigionieri si è della menzogna, prigionieri si è della verità.
In Ricordo si fronteggiano, amaramente inconciliabili, la speranza folle di una giovane donna (l’amore per un ragazzo-eroe impazzito dopo le torture subite in seguito alle manifestazioni politiche a cui ha partecipato) e la speranza folle di un anziano vedovo (sedurre una giovane donna paragonandola alla moglie morta). Il correlativo oggettivo di questo sentimento è una scatola rosa di preservativi, richiesta dalla ragazza in farmacia e interpretata come una denuncia del suo status sociale di donna single. L’irrisione delle donne anziane al bancone della farmacia nasce dal fatto che agli uomini e alle donne sposate è il datore di lavoro a passare scatole di preservativi per il controllo delle nascite.
Non è un mondo di anime candide, quello evocato da Yiyun Li, tutt’altro. Questi personaggi, infelici, malinconici, rancorosi, sono vittime del destino. Ma la vita non è l’anticorpo di se stessa. Non avvengono perciò rivolte, né atti volontaristici. Avvengono adattamenti, posture che si modificano lentamente, assistiamo al lavorio del tempo, dei rovelli interiori, alla limatura costante delle loro esistenze. Anche chi alza la voce, sembra pronunciare sulla propria esistenza la frase-pietra tombale: «Non ho niente da dire».
 

Rinfilare il pulcino nel guscio

L’umanità raccontata da Yiyun Li è aggrappata a una speranza minima che spesso è ripiegata indietro, che non produce futuro ma sembra ricreare all’infinito il passato.
Per pochi istanti, minuti, ore, giorni, anni, per tutta la durata che rimane – queste vite non sono spezzate, non si spezzeranno, resteranno curve verso il punto in cui l’onda si è increspata. Cerchi concentrici immortalati in un fermo immagine.
«I nostri ricordi rivelano più l’adesso che il passato. Senza dubbio il passato è qualcosa di reale. Le prove non mancano: foto, diari, lettere, vecchie valigie. Ma noi selezioniamo e scegliamo da una sovrabbondanza di prove solo quello che si confà al momento presente», leggiamo in Caro amico.
A partire da un assunto simile è costruito il racconto Gentilezza. È l’unico della raccolta scritto in prima persona, ed è quello che più di tutti sembra autobiografico, perché la protagonista rievoca il suo passato in Cina e in particolare l’anno di servizio militare obbligatorio. Ad innescare la catena di ricordi è, in un primo momento, la notizia della morte della tenente Wei.
Da lì, a ritroso, l’io narrante descrive il rapporto conflittuale con la tenente durante la leva, l’amicizia superficiale con le altre donne del campo e, scavando nella memoria, l’infanzia e il rapporto con i genitori, un padre molto in là con gli anni e una giovane e indolente madre che passa le giornate a letto, e l’intervento salvifico dell’anziana professoressa Shaun, una guida spirituale e letteraria, poi rinnegata.
La protagonista si distingue nella vita in caserma per un atteggiamento cinico e distaccato. La tenente Wei vuole piegarla alla disciplina ma soprattutto, avendo intuito qualcosa di speciale in lei, di comprenderla, impegnandola in continue conversazioni, cercando di sondare le ragioni della sua solitudine, della sua evidente malinconia. Tra loro due è un gioco di forze, di tensioni, un tiro alla fune tra opposti desideri, fino alla massima amara: «Se non desideri nulla, nulla ti vincerà». Vincere è tutto. Appostarsi in trincea contro la sorte, buona, cattiva o pessima che sia, andare avanti senza cedere. È forse per questo, per una rivendicata fissità e coerenza con il proprio destino, che il racconto inizia nel presente con le parole: «Sono una donna di quarantun anni e vivo da sola nello stesso bilocale in cui ho sempre vissuto».
Dei genitori sappiamo che tra loro è perdurato il silenzio; il loro è stato un matrimonio riparatore molto particolare, che ha scampato alla moglie il manicomio: una consolazione, più che un motivo di rancore. Ancora una volta: il risentimento non è urlato, anzi sfocia nel silenzio. Yiyun Li sceglie di mostrarci la brace, non le fiamme delle passioni. Le passioni covate a lungo, a lungo rimugnate, indigeribili. Per sempre saranno insieme rabbia e rassegnazione, tumulto e quiete. Vivere allora è come sobbollire.
La madre della protagonista è una bella donna che si lascia sfiorire in balia di uno struggimento simile alla depressione. È una psicosi, la sua? È una nevrosi? Il dato clinico è irrilevante, non hanno peso le definizioni. Sono le azioni che definiscono e informano il mondo rappresentato da Yiyun Li. Le azioni e, appunto, il paesaggio interiore.
In uno dei ricordi – citato anche in Caro amico, proprio perché scambiato per autobiografico da molti lettori –, la protagonista racconta di aver ricevuto in dono da alcune signore una coppia di pulcini. Alla loro morte, avvenuta dopo pochi giorni, aveva preso due uova, le aveva aperte con delicatezza e svuotate e aveva tentato di rinfilarci dentro i corpicini esanimi dei due pulcini. Senza riuscirci.

«Allora imparai che la vita è così,
ogni giorno finisce come un pulcino che si rifiuta di farsi rinfilare nel guscio.
»

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Che vergogna, di Paulina Flores

di Paulina Flores Marsilio editore Traduzione di Giulia Zavagna pp. 234 Euro 16

di Paulina Flores
Marsilio editore
Traduzione di Giulia Zavagna
pp. 234 Euro 16

di Marina Bisogno

Ci sono dei momenti di irreversibilità nelle nostre vite. Colpa di un dispiacere, di una delusione, della corrente dei giorni che forza gli argini, scompone gli equilibri. Stare in mezzo a questo moto perenne vuol dire esistere, ed esistere comporta dei graffi sul cuore, talvolta di finire sul limite di una crepa. Dentro la crepa ci sono i ricordi, le eco di voci lontane, le visioni oltre la razionalità, ciò che siamo stati, quello che abbiamo amato. In piedi, sul ciglio, guardiamo l’essenza dell’essere umani. Paulina Flores, scrittrice cilena, classe 1988, che ha esordito con la raccolta di racconti Che vergogna (Marsilio editore, traduzione dallo spagnolo di Giulia Zavagna) scrive dei graffi sul cuore, delle crepe e di quello che ci finisce in mezzo. Un libro introspettivo, emotivamente maturo, cosciente, a tratti sarcastico, senza risposte, attraversato dalla meraviglia di chi non ha imprigionato la propria parte bambina e sa come interagirvi. Sono nove storie che, per quanto a sé stanti, condividono temi, stati d’animo. È come se ci fosse un narratore super partes a tenere le fila, e ogni racconto sostenesse un’idea più vasta, una specie di messaggio generazionale che stilisticamente mixa il mistero di Silvina Ocampo e la nitidezza espressiva di Lucia Berlin. Non a caso, con questo libro, la Flores si è aggiudicata il Premio Bolaño, attirando l’attenzione di pubblico e critica. Ci sono molti bambini tra le pagine. Crescono o sono cresciuti in periferia, in famiglie umili, e almeno una volta hanno sentito parlare della dittatura di Pinochet. Sono bambine, ad esempio, le sorelle del racconto che apre la raccolta e le dà il titolo.
In un’estate implacabile, accompagnano il padre a un colloquio di lavoro che si rivela una truffa, e anche il detonatore degli umori negativi che opprimono da un pezzo l’intera famiglia. La prima figlia, molto sensibile, ricordando i sorrisi e le attenzioni del padre, ormai intristito dalla disoccupazione, si dà da fare per trovare un annuncio adatto alla personalità del genitore. Il colloquio tradisce le aspettative non solo del capofamiglia, ma anche della bambina. Bellissimo e verosimile il passaggio in cui lei ricorda a memoria le battute de La sirenetta rievocando un periodo diverso, più spensierato. Sono continui, invero, anche negli altri racconti, i riferimenti ai cartoni animati, che puntellano il vissuto e l’immaginario di quanti pescano a piene mani dall’infanzia.
Oltre ai cartoni animati, tra le ancore di salvezza da traghettare dall’età dei giochi a quella adulta, ci sono i libri, come nel caso del ragazzo, voce narrante, di Ultime vacanze.

 

Attraverso la cugina Javiera, in campeggio, scopre il potere della lettura e delle storie Il piccolo rituale di leggere ogni sera iniziò a piacermi, e allora quasi aspettavo con ansia che la giornata in spiaggia finisse in fretta e che Javiera avvicinasse la luce della lampada e ci infilassimo nella tenda. Mentre leggevo accanto a lei succedeva qualcosa; si creava un’atmosfera diversa, una specie d’intimità.

 

La vacanza diventa iniziazione alla vita e la rivelazione, per il tempo a venire, che uno sguardo anticonvenzionale, alimentato dalla letteratura (chiarissimo il desiderio dell’autrice di omaggiare Čechov, citandolo ripetutamente nel racconto), può essere risolutivo in molte circostanze. Il racconto Zia Tata è invece interessante per la psicologia della protagonista, che, anche da adulta, resta la bambina che si nascondeva sotto il letto per trovarvi rifugio e protezione dal dolore per lo sguardo frettoloso della madre e le troppe baby sitter. Ma pure per l’elemento del tempo, che in poche pagine si dilata fino ad abbracciare venti anni di storia della voce narrante. Sul finale, da adulta, come in un circolo emotivo, la protagonista tende la mano alla sua infanzia e alla sua giovinezza e si lascia andare ad una riflessione amara, tuttavia consapevole:

 

Pensavo di poter abbandonare la mia famiglia, abbandonare chiunque fosse necessario, tagliare per sempre i ponti e ignorarne le conseguenze. Avevo la speranza di poter dimenticare. Desideravo la libertà di un’eroina, una vita tutta mia, felice.

All’epoca mi ergevo in modo ridicolo di fronte al mondo, convinta che avrei potuto batterlo e uscirne illesa.

 

L’illusione di crescere, di stare al mondo senza ridimensionarsi, compromettersi, è anche il motivo di Spirito americano. Due ex colleghe si ritrovano a distanza di anni nel posto dove hanno lavorato come cameriere. Ai tempi, sgobbare in un ristorante era sopportabile. La voce narrante, che studiava letteratura e non faceva che parlare di politica, poesia e cinema, aveva la certezza, sfacciata, di tagliare la corda e di non avere nulla in comune con quanti lavoravano nel locale con lei. La conosciamo adulta, incredula nei suoi panni, contenuta, senza quella spavalderia innocente che la rendeva scintillante. All’amica, che nel presente narrativo, le sembra soltanto una conoscenza circostanziata, tace l’insoddisfazione per ciò che non riesce a realizzare, mentre l’altra sfoggia i suoi traguardi, come se volesse sbatterglieli in faccia. Il non detto, i pensieri della voce narrante (che riesce ad essere franca con sé stessa, ma non con l’interlocutrice) sono l’impalcatura del racconto, che si chiude così:

 

Immagino che la nostra mente funzioni così. Non si tratta di essere ingenui, quello che facciamo è ingannarci. Ingannarci così bene da dimenticare, così bene, che un giorno le nostre azioni tornano e ci colgono di sorpresa, alle spalle. Almeno questo è quello che penso ora, mentre cammino di nuovo senza meta; devo aggrapparmi a questo, perché preferisco farmi passare per furba che non esserlo.

 

Cammina senza meta anche la protagonista di Dimenticare Freddy, che esce con le ossa rotte da una relazione amorosa, naufragata senza che lei se ne rendesse conto. Tiene un diario: è un momento difficile e di finire sotto il torchio di una psicoterapeuta che, nella migliore delle ipotesi ha letto la metà dei suoi libri, non le va. Scrivere è uno strumento di osservazione e di pulizia interiore. Riavvolge il nastro della sua storia mentre galleggia nella vasca da bagno, nella casa della madre. La vasca, l’acqua, simboli del doppio, diventano pretesti di autoanalisi. Saltano fuori segreti, immagini ricordi, paure, il rapporto con la madre, le insegnanti ai tempi della scuola. Tutto tace con la fine del bagno, l’acqua che scorre via e la vasca che si svuota.
L’interesse di Paulina Flores è per quello che si agita nei suoi personaggi, bambini o adulti. Tutti se ne vanno in giro con una ferita aperta: l'autrice la riconosce, sa cos'è e da dove nasce: per manifestarla al lettore ci va dentro e scava. Il linguaggio è immediato, cristallino. Non una scrittura nodosa, ma essenziale, magnificamente assemblata. Leggere Paulina Flores è un'esperienza duplice: la semplicità è solo apparente, è un fatto di espressione. Ogni racconto è una porta spalancata sull'inconscio. La consapevolezza che le sfumature della vita dipendano molto dallo sguardo e da come esse vengano raccontate ne alleggerisce la portata. I personaggi ci arrivano da sé, sviluppando una sorta di benevolenza verso i propri limiti e verso chi ha concorso a farli emergere dal pantano. Di percorsi facili non ne esistono. I cuscinetti della Flores sono quelli dei suoi personaggi: i libri, i film, persino i cartoni animati, in una parola le storie, quelle apprese e quelle ancora da scoprire.

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Una rivelazione. A Bloomsbury e altri racconti, di Mary Butts

di Mary Butts Edizioni Safarà Traduzione di Giulia Betti e Cristina Pascotto  pp. 168 Euro 16

di Mary Butts
Edizioni Safarà
Traduzione di Giulia Betti e Cristina Pascotto
pp. 168 Euro 16

di Marina Bisogno

A venticinque anni, nel 1916, Mary Butts, scrittrice modernista, amica di Virginia Woolf e di Thomas Stearns Eliot, convive con una donna, una certa Eleanor Rogers, in un appartamento a Hampstead, Londra. Lo racconta lei stessa nel suo diario, senza sapere di essere destinata prima all’oblio e poi ad una riscoperta. Safarà editore ne pubblica per la prima volta in Italia A Bloomsbury e altri racconti (traduzione di Giulia Betti e Cristina Pascotto), operazione che riaccende l’attenzione sul coraggio delle case editrici indipendenti, sulla potenza del racconto come forma narrativa e su un’autrice della quale ci si è accorti solo negli anni Ottanta. La raccolta proposta da Safarà contiene sei racconti: la Butts ricorre a metafore, alle sue doti di sensitiva, scomoda la mitologia, come nel caso di Bellerofonte ad Antea, e confeziona scritti che si elevano a lezioni di vita. I suoi personaggi sono iconoclasti visionari: un passo più avanti degli altri, discettano di futuro, di bellezza e di essenzialità. Il suo stile è perfettamente in linea con i canoni espressivi del modernismo: l’agevolezza della narrazione è sacrificata in nome di temi e strutture, mentre sullo sfondo si alternano Londra e Parigi, due città che l’autrice ha amato profondamente. Racconta l’impercettibile, il fluido che attraversa tutte le cose, il risveglio della natura è metafora del ridestarsi delle menti e dei corpi. Nulla è esplicitato, ciò che è sotteso non è una sottotrama, ma un mistero esistenziale. Realtà ed irrealtà, concretezza e ascetismo sono la dualità che caratterizzano gli esseri umani e più in generale gli esseri viventi. L’infanzia in campagna, le conoscenze dei genitori, vicini a William Blake, incidono sul suo immaginario, arricchito da studi di storia che ritorneranno in alcuni dei suoi saggi. Negli anni Venti i racconti di Mary Butts incuriosiscono Jean Concteau: li trova ostici, aperti a diverse interpretazioni, per niente banali. Mary è a Parigi da qualche tempo ed è folgorata dalla città. Ha stretto molte amicizie, tra queste c’è anche Gertrude Stein. Il capoluogo francese vive una stagione dorata, con artisti e creativi provenienti da tutto il mondo, in fuga dagli orrori della Grande Guerra. In questo clima, Concteau accetta di illustrare il libro di Mary Imaginary letters. Di lei si chiacchiera molto e non solo per quello che scrive: ha relazioni sentimentali sia con uomini che con donne e soprattutto è una sostenitrice dell’occultista Aleister Crowley. È sposata con il poeta John Rodker, dal quale ha una figlia, Camilla, che però passa più tempo con la zia che con la madre. L’incontro con Rodker la spinge a rompere la storia con Eleanor, alimentando molti pettegolezzi sulla sua sessualità. E di pettegolezzi ne sa bene il personaggio femminile del racconto Brightness Falls, nella raccolta targata Safarà: il marito, rivolgendosi direttamente al lettore, confessa una certa preoccupazione rispetto ai comportamenti della consorte, presa da incantesimi, magie e stranezze teosofiche. La limitatezza dell’uomo è la stessa della società che etichetta la Butts, che, per tutta risposta, si adopera come co-autrice di Magick, l’opera più importante di Crowley, con riferimenti allo yoga, ai culti misterici orientali e l’alchimia. Mary segue Crowley e i suoi adepti in Sicilia, nell’abbazia di Thelema, un’esperienza che la segna, tanto che al ritorno in Inghilterra inizia a fare uso di oppiacei e a sostenere l’alterazione della mente con gli stupefacenti, per facilitare l’esplorazione di quanto non può essere compreso solo con la razionalità. L’attenzione per lo stile di vita di Mary è più intensa di quella per la sua attività di autrice, sebbene scriva saggi, racconti, romanzi, poesie, diari. La sua ultima relazione sentimentale è con un pittore inglese. Negli anni Trenta si stabiliscono insieme in Cornovaglia, dove Mary Butts muore nel 1937 a 46 anni per un’ulcera allo stomaco mal curata.
La tendenza ad anteporre le turbolenze biografiche della scrittrice alle sue opere muta con la pubblicazione dei suoi diari: dopo il via libera della figlia Camilla, la biografa della Butts, Nathalie Blondel – che alla fine degli anni Ottanta completa un dottorato all’Università di Liverpool - accede a tutto il materiale biografico  che era stato acquistato dall’Università di Yale. Ne deriva una rivalutazione della scrittrice in quanto tale, al netto della sua inquietudine e della sua insubordinazione, che le sono costate un generale scetticismo verso quello che componeva. Il suo ruolo dominante e al contempo controcorrente come donna di lettere è stato riconosciuto con una evidente fatica. La raccolta pubblicata da Safarà ricolloca anche in Italia la Butts tra le voci che hanno segnato la tradizione letteraria inglese nei primi anni del Novecento e ce la consegna com’è: tumultuosa, unica. Una rivelazione.

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Il potere e il consenso in Cat Person

di Kristen Roupenian Einaudi Stile Libero Traduzioni di Mennella, Pannofino, Balmelli pp. 256 Euro 17,50

di Kristen Roupenian
Einaudi Stile Libero
Traduzioni di Mennella, Pannofino, Balmelli
pp. 256 Euro 17,50

di Fabrizia Gagliardi

Margot, una ragazza poco più che ventenne, inizia a frequentare un uomo più grande. C’è una strana intesa che sembra essere forzata dalla volontà di lei di farsi piacere e dal vittimismo di lui nell’esercitare un certo ascendente. È nel momento in cui stanno andando a letto che Margot sperimenta la scissione tra il disgusto di doverlo fare, l’imbarazzo di rifiutare e la paura di ferire l’altro.

Guardandolo così, goffamente piegato, la pancia grassa e molle coperta di peli, Margot pensò: oh, no. Ma il pensiero di quello che ci sarebbe voluto per interrompere quello che aveva avviato era insostenibile; avrebbe dovuto metterci un tatto e una delicatezza di cui sentiva di non disporre. Non era per paura che lui cercasse di costringerla a fare qualcosa contro la sua volontà, ma che insistendo per fermarsi, adesso, dopo tutto quello che aveva fatto per arrivare fin qui, sarebbe sembrata viziata e capricciosa, come una che ordina qualcosa al ristorante e poi, quando arriva il piatto cambia idea e lo manda indietro.

È la trama di Cat Person, il racconto di Kristen Roupenian uscito alla fine del 2017 sul New Yorker. In poco tempo è diventato il secondo pezzo più letto sul New Yorker di quell’anno, l’autrice ha ottenuto un contratto di più di un milione di dollari per pubblicare due libri, sul web si è scatenato un dibattito per una storia che è considerata molto vicina all’autofiction. Un clima che ha creato un certo parallelismo con il presagio del maccartismo che si avvertiva ne La lotteria di Shirley Jackson. Il Washington Post ha riconosciuto l’unicità del racconto perché è orientato non solo al pubblico tipico della rivista, ma espande il suo raggio d’azione alle attuali modalità di comunicazione e di relazione, comuni ai nati negli ultimi venti anni. La tentazione è inserire il racconto nel contesto più ampio dello scandalo Weinstein (sotto i riflettori nell’ottobre dello stesso anno) e del movimento #metoo che innegabilmente ne hanno amplificato la diffusione. La confessione di massa sui social riguardo le molestie ricevute e taciute nel corso della vita di donne è una modalità che ha influito sulla ricezione di Cat Person da parte del pubblico: a molti, infatti, non è sembrato solo un racconto di fantasia.

I risvolti distopici e la radice esperienziale di un nuovo corso del movimento femminista sono stati abilmente recepiti dal mercato editoriale. (basti pensare ad alcuni libri che si sono susseguiti sulle librerie negli ultimi anni: Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, Ragazze elettrice di Naomi Alderman, Future Sex di Emily Witt, Parlarne tra amici di Sally Rooney). Appare tuttavia fuori luogo giudicare Cat Person come un testo femminista, perché non esaurisce e neanche affronta nuovi temi ed esigenze del movimento. Come ha spiegato l’autrice del racconto, il rischio è lasciarsi andare a interpretazioni che superano di gran lunga l’obiettivo della finzione: “Volevo che le persone potessero rivedere se stesse nella storia, identificarsi in modo che la sua struttura narrativa scomparisse. Ma, forse inevitabilmente, dal momento che la storia è stata condivisa ancora e ancora, spostandola sempre più lontano dal suo contesto originale, la gente ha cominciato a confondere me, l'autrice, con il personaggio principale”. È vero che ogni opera è legata al periodo storico in cui viene creata, ma se ci concentrassimo sulla sua letterarietà – e non esclusivamente sulla sua risposta a fatti d’attualità – potremmo comprendere se si tratta di un fenomeno isolato o una tendenza che in futuro potrebbe produrre risultati stilisticamente e tematicamente interessanti.

La pubblicazione della raccolta di racconti Cat Person da parte di Einaudi Stile Libero, con le traduzioni di Cristiana Mennella, Gianni Pannofino e Maurizia Balmelli, aiuta a distaccarsi dalla tentazione di circoscriverla in un fenomeno editoriale che sarebbe destinato alla dimenticanza.

I dodici racconti mostrano la capacità di cimentarsi in più generi letterari senza però sfaldare l’impianto tematico complessivo. Le storie sono incentrate su modalità relazionali consolidate al giorno d’oggi, ma che rivelano spaccature idiosincratiche destinate a rivelarsi fatali. L’esempio emblematico è un racconto che fa da contrappunto a Cat Person, tutto incentrato su una prospettiva maschile. Ne Il bravo ragazzo consoceremo la vita sentimentale di Ted, dalla sua adolescenza fino alla mezza età: una carrellata di situazioni in cui traspare una vena vagamente narcisista e anaffettiva, con evidenti problemi nel mostrarsi all’altro in un rapporto umano sincero. La scrittura di Roupenian sviscera l’intera vita del protagonista non con lo sguardo ossessivo compulsivo dei personaggi di David Foster Wallace ma con la freddezza di un chirurgo che sa mantenere le distanze dal paziente.

Arrivato a 35 anni, Ted riusciva ad avere un’erezione e a mantenerla per l’intera durata di un rapporto sessuale solo se immaginava che il suo cazzo fosse un coltello,
e che la donna con cui stava scopando lo stesse usando per infilzarsi.

Ted non era certo una specie di serial killer. Il sangue nella fantasia o nella vita reale non esercitava su di lui la minima attrazione erotica. Oltretutto, l’aspetto fondamentale di quello scenario era che la donna voleva infilzarsi: l’idea era che lei lo desiderava così disperatamente, era così follemente ossessionata da uno smanioso desiderio fisico del suo cazzo,
da essere disposta a impalarcisi sopra nonostante il tormento che le causava.

La puntualità delle osservazioni si avvicina a un’analisi antropologica percorsa da un’ironia che però si esaurisce nella verosimiglianza. Ed è uno degli aspetti più interessanti che caratterizza l’autrice: la capacità di alludere alla contemporaneità senza il bisogno di ricorrere esplicitamente a chat, procedimenti del pensiero ipertestuale tipico del web, e facendo assimilare tali aspetti al protagonista del racconto. Il giudizio superficiale sull’aspetto, tipico di un’era in cui l’immagine virtuale precede quella fisica, si concretizza, per esempio, nella paura di non essere apprezzati abbastanza, nella voglia di accontentare il desiderio altrui anche se molto lontano dal proprio essere. Tutto si risolve in menzogne raccontate per la paura di essere rifiutati, nella perentorietà di un no che non esiste e nelle relazioni in cui tutto è trasformato in una sfumatura di grigio che si muove tra l’incontro intimo e la freddezza riservata a un conoscente. In tutte le storie si delineano rapporti di potere e di dialettica del consenso, efficaci proprio perché non c’è bisogno di ricorrere alla descrizione esplicita dell’atto: si lascia tutto al ricamo circostante di meccanismi umani che portano molto vicini al rischio.

Che sia il racconto di una testimonianza in prima persona o uno sguardo eterodiegetico, il tono che unifica tutti i racconti è asciutto ed essenziale, non si lascia andare a particolari visioni liriche ma fa trasparire una iper-razionalità che sfocia nel grottesco. Ne è un esempio Ragazzaccio, il racconto che apre la raccolta, in cui una coppia visibilmente annoiata dal proprio rapporto decide di riversare le speranze coinvolgendo un amico nella vita sentimentale, ma ben presto si determinerà un rapporto tra dominatori e vittima. Lo specchio, il secchio e il vecchio femore, Sardine e Non avere paura anche se smorzano il ritmo della raccolta, sono tre esempi di come l’autrice sia in grado di usare l’allegoria per mostrare alcune storpiature. Il primo racconto è la fiaba di una principessa che non riesce ad allontanarsi dai propri desideri per scegliere un pretendente; Sardine e Non avere paura puntano sulla conclusione che sfocia nell’orrore per mostrare le conseguenze estreme delle disfunzioni relazionali.

Cat Person è una raccolta riuscita anche se non pienamente innovativa nello stile. I dodici racconti riescono ad andare oltre la denuncia sterile e anacronistica, per concentrarsi su un’analisi sociale e culturale e sulle metamorfosi della percezione del sé e dell’altro. In un tempo in cui la dissimulazione dell’immagine acquista importanza, altrettanta attenzione andrebbe posta alle nuove tendenze del consenso e del potere.

Più grande la paura, di Beatrice Masini

di Beatrice Masini Marsilio Editore Euro 16,50

di Beatrice Masini
Marsilio Editore
Euro 16,50

di Marina Bisogno

Che cosa rende buono un racconto? Beatrice Masini, editor, traduttrice editoriale e scrittrice, con la raccolta di racconti Più grande la paura, pubblicata da Marsilio, è riuscita a dare voce ai bambini senza essere mai stucchevole o artefatta. Nei setti racconti e nella novella che compongono il libro i protagonisti sono bambini e bambine che si sentono scollati dal mondo circostante, che stanno sperimentando una forma di solitudine, di esplorazione anche, checché ne dicano i grandi, soprattutto i loro genitori. C’è, ad esempio, la piccola del primo racconto che, in una giornata al mare, si ritrova testimone della solitudine e delle nostalgie del padre, alle prese con una ex ragazza senza cuore, in ghingheri anche in spiaggia e distratta da fusti ormai in pensione. C’è Achille, un bambino dall’intelligenza emotiva considerevole, che soffre per il fatto che, sulla battigia, un altro bambino si diverte a torturare pesci e stelle marine. E c’è la voce di una madre che parla direttamente a suo figlio, fuori dalla scuola, mentre lo lascia andare, assecondando il desiderio di lui di non farsi vedere accompagnato. E mentre il bimbo procede verso il cancello della scuola

torneremmo volentieri indietro, a casa, o faremmo dietrofront, sempre sospinti dallo stesso vento come un’enorme mano sulla schiena, e ci infileremmo nel bar a bere cioccolata calda, come se fosse un giorno di feste o anche solo già pomeriggio, e invece no, eccola là la scuola che ci aspetta,
con il suo portone che sembra una bocca spalancata

la madre apre una riflessione sull’essere genitore e sulla necessità di tenere a freno quell’amore sconfinato che sente e che potrebbe tramutarsi, senza volerlo, in una trappola. Indimenticabile è Nina, la protagonista della novella che chiude la raccolta e che le dà il titolo. Il suo nome, stringato, rievoca una celebre canzone di De André: il suo spavento, la sua sensibilità, impenetrabile e preclusa anche ai genitori, ne fanno un personaggio risolutivo, quasi che tenga insieme le fila di tutte le storie. Quasi che l’angoscia segreta di Nina sia quella di tutti gli altri. Una solidarietà tra piccini, accomunati da stati d’animo inaccessibili. La distanza che separa i piccoli dai grandi è un’isola dalla quale i primi osservano i secondi, temendone il giudizio. I piccoli si scherniscono o diventano aggressivi, aspettano un gesto, spesso di rassicurazione. Sono tanti gli atteggiamenti giudicanti degli adulti in questo libro, troppi, quando, al contrario, basterebbe l’amore per fare dei loro figli adulti fieri, capaci di affrontare la sfida di esistere, di stare al mondo. La novella è interessante anche perché contiene un omaggio a Claudio Lolli e alla sua Ho visto anche degli zingari felici e a Pier Paolo Pasolini. Sorprende come l’autrice sia riuscita a tessere insieme, in una trama essenziale, l’esperienza di Nina e riferimenti alla canzone d’autore e al poeta, scrittore nazionale, vituperato, massacrato a morte e tuttora senza giustizia. Lo stato di incomunicabilità in cui naufraga Nina è la riprova dell’estrema relatività di certe convinzioni, come quella che i bambini esagerano e che prima o poi verranno fuori dal loro bozzolo di domande emergenti, di reazioni non filtrate. La voce narrante eleva un pensiero di Nina a spunto di riflessione, una chiave di lettura per l’intero testo:

Se il mondo è diverso, anche solo un po’, secondo chi lo guarda, allora è impossibile capirsi.

 Lo sguardo della scrittrice è benevolo, accogliente. Il merito della Masini come narratrice sta nel rappresentare l’infanzia nella sua sconfinatezza, nelle intuizioni scevre da condizionamenti, nelle paure cosmiche, esagerate, verissime. Immedesimarsi e rievocare, dunque, schierandosi dalla parte dei protagonisti, con la consapevolezza di quel che sentono, con la memoria di chi è stata bambina e per fortuna, o per sfortuna, non l’ha dimenticato. Tanti bambini quanti sono i ricordi, le esperienze che ondeggiano nell’inconscio. Fare delle ossessioni, delle paure, di quel che ci colpisce materia letteraria e donarla agli altri. Poteva rivelarsi una ricerca a perdere, fallace, sentimentale. E invece il lettore si ritrova in racconti distinti. Le parole della Masini sono corpose ed evanescenti insieme, proiettate più verso l’io che verso l’azione. Non è una scrittura spoglia, al contrario è lirica, assestata alla perfezione, rigo dopo rigo, melodiosa nel suo riserbo. Questa padronanza del mezzo espressivo è il composto di racconti verbosi, spesso sfaccettati, che non si ergono sulla sottrazione, sul minimalismo, ma sul ragionamento. Si scandaglia, si va a fondo, si zooma su facce, espressioni del viso, modi di fare, di toccarsi i capelli, di impostare la voce. Ogni atteggiamento racchiude un destino, ogni sostantivo o verbo dipana matasse emotive, come se solo il raccontare potesse fare luce sulle fragilità e sui punti di forza di ogni personaggio. Una chicca.

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Con in bocca il sapore del mondo, di Fabio Stassi

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di Roberto Galofaro


Se la poesia è morta, facciamo parlare i poeti morti. Questo potrebbe essere stato l’innesco di Con in bocca il sapore del mondo di Fabio Stassi (minimum fax). L’autore non è nuovo a iniziative a cavallo tra erudizione e narrativa, dopo aver scritto un Libro dei personaggi letterari (2010, con altro titolo, e 2015) e dopo aver curato le edizioni italiane di Curarsi con i libri e Crescere con i libri di Ella Berthoud e Susan Elderkin. Questa sua nuova opera è quasi una Spoon River dei poeti italiani del Novecento. I testi che la compongono, ciascuno dedicato a un poeta, sono nati per un progetto televisivo andato in onda su Rai 5 (e ora disponibile su RaiPlay). Chi non volesse recuperare le puntate, può provare a immaginare la dizione piana, accorata dove serve, didascalica se necessario, degli attori professionisti chiamati alla lettura recitata. Alle esigenze del mezzo televisivo e al necessario porsi “fuori campo” delle voci, Stassi conforma la linearità del dettato e l’accorta misura dello stile. I dieci racconti in prima persona accompagnano alla perfezione le immagini di repertorio, i cimeli, le fotografie virate seppia, i girati dei luoghi d’origine e della vita dei dieci poeti: dal bellicoso vate D’Annunzio all’anziano e pacifico Montale, dal funambolico Palazzeschi all’incontentabile Cardarelli, dal mite Gozzano all’ambizioso Quasimodo, dallo schivo Saba all’uomo di pena Ungaretti, dal tormentato Dino Campana alla tormentata Alda Merini.

Stassi ne rievoca le biografie e le scritture, l’indole, le vicissitudini, le imprese. Ma è l’intenzione, a un tempo celebrativa e divulgativa, a dare l’impronta al progetto intero. Così, nell’insieme, le voci dei dieci personaggi narranti si somigliano e somigliano a un’unica voce, che attenua le differenze come attenua le passioni; ogni violenza ovattata nella dimensione di un ricordo nostalgico.

Già, perché la prospettiva è quella, post mortem, che consente di trovare il filo dell’esistenza, di riconoscerne i moventi, le tensioni e le linee di desideri e aspirazioni, e tuttavia di contemplare il passato con un certo distacco. Questo comporta una trasfigurazione dell’esistenza anche di fronte alla risacca delle passioni: c’è, sovente, un senso della disperante età che avanza e ghermisce ora la ragione (Campana) ora la mondanità (D’Annunzio) ora la possibilità di amare (Ungaretti). Ma non vi è nulla di gotico e di notturno, non c’è indugio nel pathos. C’è un sentimento del tempo trascorso che non è più tempestoso ma è reso leggero, un tirare le fila dopo che il filo è stato reciso dalle Parche. Dalla fine, così, Stassi può far raccontare ai suoi poeti il loro inizio, sempre avendo a cuore l’obiettivo della chiarezza. Anche quando la morte ha i connotati della burla, della beffa, dolorosa e tragicomica. Com’è la vita che si interrompe brusca, la vita quella vera, non quella editata, quella che non ha significato né scopo. Costellato, com’è ovvio, di citazioni dei versi, delle lettere, dei discorsi e degli articoli originali, il libro vale più come invito alla lettura che come opera narrativa autonoma, e forse in questo raggiunge il suo stesso scopo originario.

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