Il buio e altre storie d'amore, di Deborah Willis

Autore: Deborah Willis Editore: Del Vecchio Traduzione: Paola Del Zoppo, Costanza Fusini, Michela Sgammini pp. 304 Euro 18

Autore: Deborah Willis
Editore: Del Vecchio
Traduzione: Paola Del Zoppo, Costanza Fusini, Michela Sgammini
pp. 304 Euro 18

di Marina Bisogno

Se Alice Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013, si prodiga per sostenere un’altra scrittrice, noi non possiamo che prestare attenzione alla fortunata. Deborah Willis, classe 1982, canadese, è già nella lista delle autrici di narrativa breve più promettenti, e non solo in patria. In Italia la sua ultima raccolta di racconti Il buio e altre storie d’amore è stata tradotta da Paola Del Zoppo, Costanza Fusini e Michela Sgammini per Del Vecchio Editore ed ha appassionato i lettori e la critica. È un lavoro denso, variegato, composto da dieci racconti più tre in appendice che compongono “Steve e Lauren: tre storie d’amore”. La gestazione ha richiesto anni e il risultato è un progetto editoriale che - se fosse nato in Italia - probabilmente sarebbe stato stroncato sul nascere, complice il proverbiale timore di investire in racconti che non potrebbero essere mascherati da romanzo. La Willis delinea un gran numero di personaggi e costruisce situazioni differenti tra loro, ricorrendo anche ad atmosfere eterogenee. Il filo conduttore è l’interesse della scrittrice per gli esseri umani, per il grottesco e l’ironia come codici espressivi, sebbene anche questo non sia sempre vero. Il primo racconto della raccolta, ad esempio, “Il buio” è una storia di formazione raccontata attraverso lo sguardo di Jessica, la voce narrante, e di Andrea, una ragazzina esuberante e indomita che movimenta una noiosa vacanza al campo estivo, coinvolgendo Jessica in gite notturne al chiaro di luna. L’estate è la metafora di una stagione della vita, fatta di amicizie totalizzanti.

 

“La nostra amicizia non finì. Continuammo a passare tutti i giorni insieme, prendendo il sole con le altre ragazze, partecipando alle partite di basket e alle passeggiate nella natura e ai lavoretti. L’estate seguente eravamo di nuovo nella stessa baita, ma ognuna di noi aveva una nuova migliore amica”
(da Il buio)

 

La stessa profondità si ritrova in “Valuta di scambio”, il racconto dell’esperienza di uno scrittore russo, emigrato negli Stati Uniti, che si reca nei luoghi dove è cresciuto per rievocare una parte di sé stesso, senza riuscire a capire perché in Russia non riesca ad affermarsi, nonostante il successo in America. Questo dispiacere incrementato dall’orgoglio ferito si dissolve nella nostalgia di un’altra età, fatta di abbracci, accoglienza e cose semplici.

 

“Invece lì sentiva l’acqua fredda che gli colpiva la testa, niente a che fare con il piacere delle mani si Sylvia. Era così che sua nonna gli lavava i capelli quando era piccolo. Lo faceva prima di andare a letto, si toglieva la maglietta, si chinava sul lavandino della cucina, un lavandino che perdeva sempre, una goccia lieve che scandiva tutti i giorni e le notti passate a casa di sua nonna”

(da Valuta di scambio)

 

Tutt’altro registro in “La mia ragazza su Marte” o “Todd”, che si sviluppano intorno a situazioni da sit-comedy: in uno c’è un ragazzo che non si capacita che la sua compagna si sia organizzata in gran silenzio per partecipare ad una missione spaziale su Marte. La decisione di lei manda in crisi la coppia, concentrata a sbarcare il lunario coltivando nell’appartamento piantine di cannabis. La missione sul pianeta rosso è un obiettivo stravagante, ma diventa il pretesto per allungare lo sguardo su altalene sentimentali che assomigliano ad implosioni silenziate dalla routine.

 

“Amber e io eravamo un punto fermo, una stella nel centro di una galassia, si girò verso di me e sorrise. E quel sorriso letteralmente illuminò la stanza: la luce tornò con un ronzio”

(da La mia ragazza su Marte)

 

Nell’altro, c’è un padre che prova a rimettersi in piedi dopo un periodo confuso e a riscostruire, seppure a distanza, il rapporto con la figlia, finché nella sua solitudine fa irruzione un uccello. Il volatile gli piomba in casa e tra i due si sviluppa, se possibile, un’amicizia, a riprova del fatto che può esserci comunicazione anche tra un umano e un pennuto, fino all’epilogo. Deborah Willis assume, a seconda delle circostanze, le vesti di adolescenti in rivolta, di padri ammaccati dagli eventi, di madri rampanti, di scrittori sperduti, di uomini e di donne fragili, alle prese con disavventure e pene emotive o piccoli segreti che contengono la chiave di un’esistenza. Sceglie una porzione di realtà, una crepa, anche minima, e osserva i suoi personaggi. È una scrittrice visuale, immaginifica. Lei stessa ha rivelato in un’intervista al Prism International, osservatorio sulla narrativa canadese e non solo, di scrivere a partire da un’immagine. Nella mente le si imprime una visione e la insegue utilizzando lo strumento del racconto. Questa inconsapevolezza in partenza rispetto al plot e all’evolversi della trama, implica una disposizione di tempo e di pazienza. L’attitudine a ricorrere all’esagerazione, alla farsa, per esprimere la complessità delle relazioni umane deve averla alimentata da bambina, quando si divertiva a comporre sceneggiature e a riscrivere il finale delle novelle che la emozionavano. Le sue protagoniste sono ostinate, non del tutto rassicuranti per chi vive loro accanto. Gli uomini che tratteggia, al contrario, appaiono disordinati, in contemplazione o in attesa di approvazione. Guardano con sospetto ed estraneità verso le loro compagne, mogli, figlie, così beffarde e irrefrenabili. Possono esserci molteplici versioni di uno stesso fatto e ogni personaggio della Willis ha la sua: ciascuna è plausibile, prendersi troppo sul serio è un rischio, un macigno da evitare. La sua scrittura è un lampo: saette di parole, essenzialità nello stile, nella voce. Una osmosi con gli elementi naturali è parte integrante delle storie che propone: il cielo, il lago, le stelle, la vegetazione, gli animali, persino altri pianeti. Non si sfugge a madre natura e questa coscienza o prospettiva è un cardine delle pagine di questa raccolta della scrittrice.

A chi le ha fatto notare un femminismo di ritorno, la Willis ha risposto che i suoi personaggi sono ex adolescenti degli anni Novanta, sessualmente più consapevoli delle loro nonne e delle loro madri. Le donne, poi, sono state essenziali nella sua carriera letteraria. Ispirandosi a Alice Munro, a Margaret Atwood e a Miriam Toews, Deborah Willis ha realizzato di poter fare la scrittrice e si sa, potere è diverso che volere. Questa autrice ci piace perché è spiritosa, riflessiva, vigile, un sismografo sull’esistente. Scrive racconti che sembrano favole esistenzialiste, pregne di modernismo, ma anche del desiderio di una dimensione diversa rispetto a quella in cui siamo (o eravamo, chissà) confinati. Il privato è un punto di partenza: anche secondo Deborah Willis si finisce, in ogni caso, a fare i conti con il mondo e la sua complessità.

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