di Debora Lambruschini
Per voi è ovvio che, mentre scrivo queste parole, non sono morto. Ma forse lo sarò quando le leggerete.
(Trionfo sulla morte, p. 113)
Ci sono numerose chiavi di lettura con cui attraversare La generosità della sirena, l’ultima antologia di racconti di Denis Johnson pubblicata da Einaudi. La prima, per esempio, è considerarla il suo testamento letterario e, anche, leggerla in parallelo alle opere che l’hanno preceduta, soprattutto Jesus’ son, che contiene alcuni dei suoi racconti migliori.
Questi cinque racconti – nell’ottima traduzione di Silvia Pareschi – sono infatti la lettera d’addio di Jonhson al suo pubblico, e chiudono una carriera letteraria segnata da alti e bassi, pur sempre nel rispetto di molti colleghi che nella scrittura di Johnson hanno trovato un modello e una fonte di ispirazione, da George Saunders a Zadie Smith. La generosità della sirena contiene gli ultimi racconti su cui ha lavorato prima di spegnersi per un cancro a sessantotto anni e, inevitabilmente, sono pervasi dallo spettro della morte, della vecchiaia, della riflessione su rimpianti e rimorsi con cui i personaggi si ritrovano a fare i conti. Eppure, nonostante questo fil rouge, gli antieroi di Johnson, questa umanità ai margini sconfitta dalla vita, dalle scelte sbagliate, dal tempo, conservano un’ostinata speranza che è un lampo di luce proprio perché tanto inaspettata. È una lettura dolorosa a tratti e la scrittura di Johnson, così asciutta, diretta, intima, priva di artificio, contribuisce ad avvicinare il lettore a questo mondo di disgraziati, alle loro solitudini, senza mai cedere al giudizio o a facili moralismi. Ci racconta la vita, nelle sue sfumature più tragiche e quotidiane, si confronta con il dolore e la sconfitta e costringe il lettore stesso a farlo lasciando fuori ogni giudizio. Attraverso un delicato umorismo nero, che è un po’ la sua cifra stilistica, e l’uso della prima persona in tutti e cinque i racconti, contribuisce ad avvicinarci ancora di più alle storie, a partecipare al dolore ma anche ad avvertire più intimamente quella scintilla di speranza che ogni volta, ostinata, si accende. Non ha paura di sporcarsi le mani Johnson, di indagare tra le pieghe più oscure del quotidiano e dell’animo umano, rivelando le debolezze dello spirito e del corpo: racconta la dipendenza, l’alcol e la droga, il delirio, la caducità dell’uomo, il decadimento fisico e la vecchiaia, la perdita della lucidità. Indaga le ossessioni, il confronto con la morte e, soprattutto, il peso della solitudine, da un lato all’altro della scala sociale.
Ne “Lo starlight sulla Idaho” la narrazione – frammentaria, sempre più delirante – indaga la dipendenza di un uomo ricoverato in un centro di recupero e i deliri indotti da un farmaco contro l’alcolismo. Il vago desiderio di liberarsi dei propri fantasmi e quello di ricostruire la propria vita in modo da riuscire un giorno a «guardare le persone negli occhi», sembra impossibile perfino da immaginare. Come per il protagonista di “Bob lo strangolatore” e dei suoi compagni di detenzione, in una piccola prigione di provincia dove ognuno di loro paga il prezzo della propria colpa. Stare ai margini determina la loro solitudine, rinchiusi ciascuno con i propri fantasmi ed errori, costretti a confrontarsi con altri derelitti, con la violenza, con la brutalità.
Lo spettro della vecchiaia, del decadimento fisico, della morte, attraversa tutto il racconto “Trionfo sulla morte”, nel quale il protagonista si trova più volte a confrontarsi con essa, con la perdita di persone conosciute, a partire da una telefonata casuale che lo mette a conoscenza della scomparsa di un vecchio amico. La narrazione è irregolare, rincorre pensieri e flashback del protagonista, ne insegue i ricordi di piccoli episodi del passato, talvolta banali, per lasciare spazio subito dopo a profonde riflessioni sui legami e sulle connessioni umane, sull’incidenza delle nostre vite nelle persone che incontriamo e, infine, sulla caducità dell’uomo. È un narratore interno a raccontarci questa storia, che osserva con intima partecipazione quanto riportato sulla pagina, ma ancora una volta abbandonando ogni giudizio o sentimentalismo. Osserva e descrive la vita, che fugge e diviene ricordo.
Allucinato e a tratti oscuro è il racconto che chiude la raccolta, “Doppelgänger, poltergeist”: storia di un’ossessione delirante: un poeta e accademico affermato che per tutta la vita rincorre il mito di Elvis Presley e della sua misteriosa morte. E mentre immagina congiure, scambi di persona, rituali oscuri, la vicenda si colora di tinte sempre più fosche, le atmosfere richiamano racconti di Shirley Jackson e Angela Carter, mentre, per contro, la scrittura si fa limpida, puntuale, misurata. Apparentemente un racconto che stona entro i confini di questa raccolta, eppure nell’insieme funziona, grazie anche ad alcuni spunti appena oltre la superficie che si ricollegano alle altre storie.
Il rimpianto, lo spettro della solitudine, la dipendenza, le ossessioni, la morte: sono alcune, si diceva, della tematiche ricorrenti nei cinque racconti di cui si compone l’ultima raccolta di Johnson, questo testamento umano e artistico di un autore come pochi altri capace di raccontare un mondo di reietti e sconfitti, senza cedere a paternalismi, senza condannare né assolvere i suoi protagonisti ma semplicemente consegnandoli al lettore in tutta la loro umana debolezza. È il ritratto di un’America dolente e lo sguardo dell’autore si sofferma anche sul mondo medio borghese, restituendo ancora l’immagine di una simile sofferta solitudine e sconfitta, come nel caso di “La generosità della sirena”, il racconto di apertura e, a mio parere, il migliore di tutta la raccolta. Nella disperata solitudine del protagonista, un pubblicitario di successo prossimo alla pensione, c’è tutta la tradizione letteraria da Yates e Saunders, la fine del mito borghese e di un ideale di perfetta felicità, che si infrange nella superficialità dei rapporti descritti, nei silenzi e nelle incomprensioni coniugali, nella sfilata di volti e legami senza importanza. In questo racconto è racchiuso tutto il mondo di Johnson, la sua poetica e sensibilità artistica e umana, e il senso dell’intera raccolta:
Considero di avere ormai vissuto più a lungo nel passato di quanto possa aspettarmi di vivere nel futuro. Ho più cose da ricordare che da aspettare. La memoria si indebolisce, del passato non rimane molto, e non mi dispiacerebbe dimenticarne parecchio di più. […] Poi a volte mi alzo, mi infilo l’accappatoio ed esco nel nostro quartiere silenzioso in cerca di un filo magico, di una spada magica, di un cavallo magico.
(La generosità della sirena, p. 31)
C’è un uomo che fa i conti con le proprie scelte e con la memoria che si oscura. C’è la superficialità di un mondo dorato in apparenza ma privo di contenuti. C’è l’arroganza di un uomo che confonde le sue due ex mogli e ne sovrappone voci e storie. C’è la solitudine all’interno di un matrimonio, che dura da venticinque anni e forse è stato felice, forse soltanto è durato, che ormai osserva quasi con distacco:
Sono strisciato fuori dai miei vent’anni lasciandomi dietro un paio di matrimoni brevi e infelici, e poi ho trovato Elaine. Venticinque anni lo scorso giugno, e due figlie. Ho amato mia moglie? Siamo sempre andati d’accordo. Non abbiamo mai pensato di congratularci con noi stessi. Sto per compiere sessantatré anni. Elaine ne ha cinquantadue ma ne dimostra di più. Non per l’aspetto, ma per l’atteggiamento appagato. Manca di entusiasmo. Sembra che le interessino soprattutto le nostre figlie. Si mantiene in stretto contatto con loro. Sono entrambe adulte. Sono cittadine innocue. Non sono né belle né intelligenti.
(La generosità della sirena, p. 31)
A mio avviso, una delle chiavi di lettura più interessanti di questo racconto e dell’intera raccolta è il discorso sulla scrittura, forse il più forte fil rouge che l’attraversa. In “Trionfo sulla morte”, per esempio, Johnson in un solo passaggio scardina tutte le credenze da corsi di scrittura creativa e consegna al lettore la sua personale interpretazione del mestiere di scrivere:
Scrivere. È un lavoro facile. L’attrezzatura non è costosa, ed è un’attività che si può svolgere ovunque. Decidi tu gli orari, gironzoli per casa in pigiama, ascolti dischi jazz e bevi caffè mentre un altro giorno scappa via. Non devi essere particolarmente efficiente, anzi, in genere non devi esserlo affatto. […]
(Trionfo sulla morte, p. 79)
Come a dire che non c’è niente di più facile, devi solo metterti davanti alla macchina da scrivere e iniziare a sanguinare, lo diceva anche il buon vecchio Ernest. E, ancora, Johnson ci regala tra le migliori descrizioni del peso, della pressione, dell’altalenanza di favore, con cui convive uno scrittore:
Si vivono periodi di povertà, ansia, debiti spropositati, ma niente dura per sempre. Sono andato dalle stalle alle stelle e ritorno, e più di una volta. Qualunque cosa ti succeda, la metti sulla pagina, le dai una forma, la interpreti in un certo modo. Di fatto non è molto diverso dal riprendere una sfilata di nuvole in cielo e definirlo un film – anche se bisogna ammettere che le nuvole possono venire giù, trascinarti via e portarti in posti di ogni tipo, alcuni terribili, e poi per anni e anni non riesci a tornare indietro.
(Trionfo sulla morte, p. 79)
Quei posti terribili in cui le nuvole lo hanno trascinato, Johnson li aveva vissuti sulla propria pelle, altri li aveva immaginati sulla pagina, eppure entrambi reali e concreti, dolorosi nello stesso modo. È questo, il testamento artistico di Denis Johnson e della sua ultima grande lezione di scrittura.