di Debora Lambruschini
«Fino a quando dovremo provare la legittimità delle nostre esistenze?»
(Alesa Herero, “Eppure c’era odore di pioggia”, p. 156)
C’è un termine abusato, nell’ambito della critica letteraria, in cui prima o poi rischiamo tutti di inciampare: “necessario”, in riferimento a un testo, un autore, il cui valore appare assoluto ma che, appunto, l’abuso del termine – come già qualche anno fa la formula “onestà intellettuale” – ha reso meno efficace e da cui, personalmente, cerco sempre di tenermi alla larga. Ecco, nel caso dell’antologia Future, edita da effequ, “necessario” è esattamente il termine che cerco e devo usare: perché le undici voci, le undici donne, che firmano queste storie, aprono uno squarcio nella letteratura contemporanea e nella società in cui viviamo, mostrando, con la forza delle loro parole, l’Italia e gli italiani da un punto di vista originale, mai esplorato prima in questo modo. Per la prima volta, undici autrici afroitaliane si confrontano con tematiche fondamentali quali razzismo, patriarcato, radici, migrazione, cultura, dando voce alla propria personale esperienza, a quanto osservato e vissuto: un coro polifonico che a partire dall’oggi si interroga sul futuro possibile.
Nell’ambiguità del titolo, “Future”, c’è già buona parte del senso di questa antologia: il futuro (prestito dall’inglese), ma anche la connotazione femminile a rimarcare il fatto che a prendere la parola sono tutte donne, giovanissime, per le quali interrogarsi sul futuro è un’urgenza.
La giovane età delle autrici è semplice dato anagrafico, perché i racconti e le testimonianze qui riunite – nell’ottima curatela di Igiaba Scego che ha progettato l’antologia e cercato le scrittrici da coinvolgere – denotano una generale confidenza con la parola scritta, talvolta con risultati stilisticamente molto interessanti, in racconti che hanno valore sociale e letterario. Il libro diviene quindi un faro su una realtà su cui quasi mai ci siamo confrontati o quantomeno non tanto da vicino, e, allo stesso tempo, una piacevole esperienza di lettura di storie ben congeniate. Da quando l’antologia è stata pubblicata, le autrici si trovano a portare in giro, da sole o in piccoli gruppi, questo piccolo gioiello, come è capitato anche a Genova quando le abbiamo incontrate in occasione di Book Pride. Un incontro che ha sicuramente arricchito la lettura appena conclusa e che è stata l’occasione per addentrarsi più nel profondo di questi testi, grazie alla generosità e alla genuina emozione delle due scrittrici coinvolte: Marie Moise (autrice di “Abbiamo pianto un fiume di risate”) ed Esperance H. Ripanti (“Lamiere”), con cui ho avuto il piacere di dialogare prima dell’incontro pubblico alla libreria Bookowski; per riflettere insieme sul significato e sul valore di un progetto come questo, sulla comune responsabilità che condividono, sulle tematiche al centro dei racconti e, in generale, sul futuro che immaginano.
La scrittura diviene il mezzo per fare i conti con il proprio passato, come nel caso di Marie Moise, che grazie ad essa ha compiuto un viaggio simbolico e concreto nella storia della sua famiglia, alla ricerca di quelle «radici recise», fino ad Haiti. Un luogo immaginato, perché «Haiti non si trova sui libri», alla scoperta di una terra che ha tantissimo da raccontare e una storia famigliare di lotta politica, di negazione, di abbandono. Marie ha voce delicata, ma le parole che usa sono precise, crude: «ho tanta rabbia per la vita che mi è capitata, sono donna e sono povera. Per me ha placato la rabbia scoprire di non essere sola, scoprire che la mia rabbia è quella di tanti altri simili a me anche se ha provenienze e ragioni diverse»
La rabbia è un sentimento che ritorna, più volte, nel corso della lettura, e con cui ci siamo confrontati direttamente con le due autrici conosciute. Per Esperance H. Ripanti, discendente ruandese, «La rabbia è quella provata nell’estate 2018 di fronte all’impossibilità di sentirmi al sicuro nel posto dove io sono cresciuta». Sono parole che pesano come macigni, che escono dalla letteratura, dalla fiction, per farsi vita, quotidiano. Come per Haiti, anche della storia del Ruanda e del terribile genocidio del 1994 non si trova traccia sui libri di storia, se non brevi accenni, e la ricerca delle proprie radici diviene quindi, anche per Esperance, uno studio difficoltoso, talvolta frustrante. Il razzismo con cui si scontra Esperance è immediato e feroce: «volevo essere come gli altri ma non potevo esserlo, perché tutto di me, fuori, dimostrava il contrario», mancano i punti di riferimento in quella piccola comunità dove è cresciuta, dove gli adulti intorno a lei non assomigliano all’immagine che vede riflessa nello specchio. E la questione razziale, crescendo, si fa sempre più urgente, la rabbia per la discriminazione e quel senso perenne di paura viene incanalata nella scrittura, nell’attivismo, nella presa di posizione.
«Questa storia è partita da un incubo che ho fatto, che mi ha perseguitata per un anno intero e non è stato per niente facile raccontarla», rivela Esperance, ricordando quel crescendo di rabbia e violenza razziale che si percepiva chiaramente nell’estate del 2017, ma di fronte a cui ancora ci si interrogava: «È davvero così grave la situazione o me lo sto immaginando io?»
I fatti vengono rielaborati da Esperance nel racconto distopico “Lamiere”, in cui il confine tra fiction e realtà si fa sempre più labile e la società rappresentata, il clima di paura e la violenza crescenti sono un incubo che a un certo livello, purtroppo, è reale:
Alla tv si sono sentite novità assurde; censimenti, controllo dei documenti, convocazioni in questura per chi fosse di origine straniera, revoca di cittadinanze senza motivazioni ben precise e strade affollate di corpi spaventati e sperduti. È successo così in fretta che non ce ne siamo resi conto. È successo così piano che non abbiamo nemmeno pianto.
(Esperance H. Ripanti, “Lamiere”, p. 205)
[…] quando mi lamentavo ad alta voce per quei vecchi viscidi che mi davano della puttana negra e mi volevano portare a letto. E gli dicevo che quando sei una ragazza nera e scendi dal pullman, che tu abbia uno zaino, una borsa o un bambino, quei vecchi uomini in macchina si avvicinano come dei coccodrilli che spiano una preda da ore, ti fissano con uno sguardo losco e vorace, ti osservano con insistenza, e quando ti giri e i vostri sguardi si incrociano, gesticolano. Abbassano i finestrini. Muovono la testa, invitandoti. (Leaticia Ouedraogo, “Nassan tenga”, p. 110)
Questo è il mondo in cui stiamo vivendo, e questo libro ci pone dinanzi alla concretezza di fatti e di sentimenti che non possiamo più ignorare.
«L’editoria è mettere in circolo qualcosa, farsi venire delle idee sufficientemente politiche perché così deve essere», ha sottolineato Francesco Quatraro, editor Effequ che insieme a Silvia Costantino ha ideato il progetto. «Volevamo fare un’antologia che parlasse di futuro - non distopia o fantascienza, ma le generazioni, le storie – e di un inespresso potente. Volevamo delle voci nuove. A noi interessa la nuova narrazione e la possibilità di incrociare voci che si riconoscano a vicenda e si crei una nuova storia e proseguano». Di Igiaba Scego la decisione di affidarsi alla scrittura di undici giovani donne, «che è un ulteriore posizionamento politico», conferma Silvia Costantino. Attraverso quelle voci, si compone un’antologia polifonica, nello stile e nel sentire, in cui a tematiche e spunti condivisi – radici, discriminazione, razzismo, misoginia, famiglia, sradicamento – si aggiungono di volta in volta punti di vista nuovi, esperienze e vissuto differente, approccio alla scrittura.
È difficile, in pagine tanto dure, trovare un messaggio positivo, eppure, a mio parere, c’è, chiaro e forte: la speranza sta tutta in quella parola scelta a dare il titolo alla raccolta, un futuro che va costruito oggi, giorno per giorno.
Che cosa vi aspettate quindi dal futuro, chiediamo alle due autrici incontrate? Per Esperance il futuro «è qua, io lotto per quello che c’è adesso, perché il futuro si costruisce». Attraverso la scrittura, attraverso la presa di posizione e l’attivismo. Perché «ogni forma di lotta di oggi è uno spazio di liberazione», risponde Marie, «lottare, fare attivismo è liberatorio e mi fa stare bene, fa scoprire persone e sentirsi in una rete. Se ce l’hanno fatta degli schiavi a liberarsi da catene vere non vedo perché non dovremmo riuscirci noi a cambiare questa società».
C’è un bambino che ha seguito paziente tutta la presentazione, con la sua famiglia; ha la pelle scura, avrà cinque anni al massimo. E mi chiedo se un giorno ricorderà qualcosa di questo incontro, in una piccola libreria nel cuore di Genova.