Viaggio nell’orrore di Shirley Jackson

di Shirley Jackson edizioni Adelphi Traduzione di Silvia Pareschi pp. 205 Euro 18

di Shirley Jackson
edizioni Adelphi
Traduzione di Silvia Pareschi
pp. 205 Euro 18


di Fabrizia Gagliardi

C'è un aspetto dell'orrore che da sempre affascina i suoi estimatori. Ed è la capacità di fondarsi su regole canoniche, per la maggior parte consolidate in una lunga tradizione narrativa, e di utilizzarle per trovare continuamente linfa vitale. Stephen King va a caccia dell'ipocrisia americana, l'aspetto più superficiale e rozzo, la paura dello straniero, la vera entità del male che non si abbina sempre col mostro ma è prodotta dall'odio umano. Il male cosmico che si rivela nella sua essenza incontrollata e che sfugge alla razionalità umana nelle storie di Lovecraft. La contemplazione del bello che si accoppia sempre con la tragicità della dipartita per E- A. Poe. Si noterà come non mi sono limitata ad elencare trame e personaggi, anche se è facile individuare un filo rosso che collega questi autori grazie a scenografie caratteristiche dell'orrore (il vampiro, il non morto, la casa infestata, l’atmosfera gotica o straniante), ma mi sono concentrata sul percorso personalissimo all’interno del già noto.

«Se fosse stata l’unica storia da me scritta o pubblicata ci sarebbero state persone che non avrebbero dimenticato il mio nome» così Shirley Jackson parlava di come ha concepito La Lotteria. Il racconto è comparso New Yorker il 26 giugno del 1948 e suscitò scalpore: la rivista ricevette numerose lettere di protesta e alcuni lettori minacciarono di disdire l'abbonamento per essere rimasti profondamente offesi dalla storia. Il clima benpensante della classe media veniva punto nel vivo, mentre il racconto preannunciava quasi quello che di lì a pochi anni sarebbe stata la caccia per il dilagare del comunismo. Lo scorcio del piccolo villaggio, ritratto nella sua quotidianità, si trasforma ben presto in un'atmosfera di indicibile violenza. Proprio ne La Lotteria sono racchiusi i punti cardinali della scrittura di Shirley Jackson e di un modo inedito di concepire l'orrore. L'accumulo di dettagli – i bambini che radunano i sassi, le chiacchiere del paese – crea un effetto straniane: l'adesione alle convenzioni umane, che da sempre si espleta in azioni socialmente condivise, costruisce un riflesso opposto dalle tinte macabre, in cui tutte le promesse di normalità conducono alla follia.
Lo si noterà anche in Paranoia, la raccolta di racconti da poco pubblicata da Adelphi con la traduzione di Silvia Pareschi. Qui, però, oltre a quattro racconti inediti si leggerà anche una Jackson impegnata nella vita famigliare e in saggi sull'arte dello scrivere. Vale la pena seguire i racconti della raccolta per ricostruire la parabola di Shirley Jackson all’interno dell’orrore.

 

L’orrore secondo Shirley Jackson

Paranoia è il racconto che apre la raccolta e immediatamente riconosciamo l’abilità con cui l'autrice dissemina la narrazione di dettagli descrittivi che diventano distintivi, per dare vita propria al personaggio: Mr Beresford conserva il suo contegno con una rasatura perfetta, i pantaloni stirati nonostante la giornata di lavoro e la convinzione di tornare a casa per ammirare la quotidianità movimentata dal compleanno della moglie. Tutto in ordine fin quando non si accorgerà della piccola inclinazione della realtà: un uomo misterioso e mai visto inizierà a pedinarlo, e seminarlo non sarà facile.

Lo stile della Jackson incamera nella sua semplicità un'osservazione maniacale dei dettagli. Il grido d'aiuto di molti dei suoi personaggi nasce dal desiderio d’inclusione in una sfera sociale per la quale s’agghindano con maschere forzate, fin quando saranno costretti ad affrontare la loro vera natura o l'entità distorta di tutto quello che hanno intorno. Se dovessimo definire uno dei temi principali dell'autrice questo sarebbe sicuramente l'emarginazione dapprima disperatamente negata poi anelata come unica oasi di stabilità, almeno apparente.
Accade anche nel racconto Mrs Spencer e gli Oberon in cui una donna, attenta alle apparenze, è assillata dalle manie di persecuzione per una famiglia che rischierà di vanificare l'educazione, le regole e le abitudini imposte dalla donna al marito e ai figli. La parte finale del racconto si avvicina pericolosamente a un sogno ricorrente in cui più si cerca di raggiungere una meta, più questa si allontana come se fosse un’entità evanescente presente solo nelle ossessioni del sognatore:
Se rimaneva immobile sentiva distintamente cantare «O mia cara, o mia caaara Clementina», e una voce – senz’altro quella di Irma– che gridava «Popcorn! Popcorn!». Dovrò tornare indietro di nuovo, pensò; non so come, ma deve essermi sfuggita. Le scarpe erano rovinate, lo sapeva, e per fortuna non aveva cambiato i collant; aveva le mani sudice e graffiate dallo steccato, i capelli inzaccherati e il rossetto sbiadito. Gli Oberon me la pagheranno, pensò. Pagheranno ogni minima cosa; domani dirò a Harry di cacciarli via dal paese; aspettate e vedrete, disse silenziosamente agli Oberon, aspettate e vedrete cosa vi farò.
Poche volte il soprannaturale sarà esplicitamente dichiarato. Le storie più riuscite sono quelle dove esso assume un significato nuovo e del tutto distante da quanto canonicamente "mostrato" in un racconto dell'orrore: il soprannaturale affiora come realtà altra dalla mente del protagonista.
Vale la pena citare L'incubo di Hill House, un gorgo oscuro che si allargherà non tanto per strane presenze e fantasmi quanto per il suo annidarsi nella mente umana. «Hill House è abominevole, è infetta: vattene subito di qui» penserà la protagonista, Eleanor Vance. Eppure qualcosa nella vicenda della ragazza spinge il lettore a costruire un legame simbiotico tra lei e la dimora infestata: Eleanor è libera per la prima volta dopo un rapporto asfittico con la madre, ormai defunta, è ferma a uno stadio infantile, sempre sognante; non è mai stata felice e riempie il suo percorso verso Hill House con fantasticherie di case dall'entrata maestosa, tazze di stelle e gatti bianchi. Il professor Montague l'ha convocata a Hill House perché lei ha vissuto un fenomeno di poltergeist quando era piccola, ma questo aspetto avrà poca rilevanza rispetto alle ramificazioni della mente di Eleanor.
Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant'anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.

Persino uno degli incipit più belli della letteratura horror, uno di quelli che ha ispirato Stephen King, raccoglie la sfida della narrazione classica delle case infestate: una sfida che non cede allo stereotipo, popolando la casa di voci, spostamenti sinistri e porte mai viste, ma è la progressiva perdita del senso di realtà che attecchirà proprio sulla più debole. «Non ho mai posseduto niente che avesse la minima importanza; puoi fare qualcosa?», «Sta cercando di formulare le frasi in modo da fare il più possibile buona impressione», il monologo continuo nella testa di Eleanor e le apparenze che cercherà di mantenere, creando uno sdoppiamento continuo. Anche per il lettore diventerà difficile discernere tra reale e soprannaturale.

Una moltiplicazione delle personalità in realtà c’era già stata con un romanzo precedente: Lizzie (traduzione di Laura Noulian, Adelphi, 2014).

Elizabeth Richmond, ventitré anni, non aveva amici, né genitori, né conoscenti e nessun progetto che non fosse sopportare l’ineludibile intervallo antecedente la sua dipartita.
Succube persino dello spazio vitale che occupa, la protagonista subisce tacitamente i soprusi della zia e il prosciugamento di ogni ambizione a fronte, però, di una vita interiore vivissima, estremamente ironica e intelligente. Tutte caratteristiche che si divideranno tra le diverse personalità di Elizabeth. Lei diventerà un mezzo potente per veicolare la condizione della donna insieme a una serie di pregiudizi sociali. Il dottore che l’ha in cura ricorda la pomposità delle spiegazioni psicanalitiche dell’Interpretazione dei sogni, senza che la razionalità dei suoi studi riesca a trovare un vero e proprio rimedio. È chiaro il contrasto velato di quell’amara ironia caratteristica della Jackson in cui la superficialità e il facile giudizio s’impongono sulla complessità umana.
Il muoversi ai margini di una cornice di cui sono malvolentieri protagonisti determina le stranezze dei suoi personaggi, lo straniamento dalla realtà e l’emarginazione che li collega a un mondo infantile. I bambini sono involucri misteriosi, della stessa sostanza delle fate, entità fantastiche che si collocano sempre tra l’innocenza e una vena demoniaca.
La dimensione favolosa che riserva un lato oscuro è rievocata anche nell’ultimo lavoro pubblicato. In Abbiamo sempre vissuto nel castello Merricat Blackwood è la voce narrante di una vita trascorsa nei confini della casa d’origine, lontano dagli sguardi sospettosi del paese. La protagonista, la sorella e lo zio sono gli unici superstiti di un misterioso avvelenamento che ha coinvolto la famiglia anni prima. L’equilibrio di Merricat si basa proprio su incantesimi ripetuti contro gli estranei, riti magici con lo scopo di allontanare ogni possibilità di contatto con l’esterno. Tutto, però, è vanificato dall’arrivo del cugino Charles che minerà l’equilibrio dell’ambiente domestico scagliandosi proprio contro Merricat.

La negazione della realtà e il rifugio nell’immaginazione, più che una fuga, costituiscono una reazione: mostrare la semplicità e la purezza di chi non ha rinunciato alla capacità di guardare il mondo con occhi diversi. La danza macabra che ossessiona la Jackson sta nel riporre nell’immaginario il nucleo fondante della persona, nel rimanere per gli altri profondamente inconoscibile ma facilmente incasellabile in luoghi comuni rigorosamente classificati dalla ragione.

 

Scrittrice, donna, moglie, madre

«Trovo molto difficile distinguere tra vita e finzione» ammette Shirley Jackson in Come scrivo, uno dei saggi sulla scrittura contenuto in Paranoia. Ed è strano sentirlo dire da chi si dedica a un genere che si alimenta della sospensione dell’incredulità pur rimanendo, nel suo caso, saldamente ancorato alle cose terrene. Se da una parte è inevitabile attingere a piene mani alle vicissitudini della realtà, dall’altra la Jackson ci tiene a rimarcare una distanza: «Detesto scrivere pezzi autobiografici: se il materiale è noioso non bisognerebbe infliggerlo a nessuno, e se interessante dovrei usarlo per un racconto» (da Pensamenti autobiografici contenuto in Paranoia). La creazione del narratore si configura come una dimora privata sprovvista di porte: un luogo a lui familiare al quale però si affacciano sconosciuti che arredano le stanze a proprio piacimento. La realtà del narratore, per quanto minuziosa e ben ammobiliata possa essere, deve essere predisposta al completamento che opererà il lettore. Per Shirley Jackson, come ho scritto, si trattava di prendere alcune debolezze umane che hanno a che fare col pregiudizio, l’emarginazione, una velata superbia borghese, e portarle alle estreme conseguenze. L’ambiente quasi sempre domestico delle sue storie ci dà un’idea della vita quotidiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Lei era completamente immersa nel ruolo di madre e amministratrice della casa senza celare l’ironia dietro la vita con i figli (in Paranoia ci sono i sipari della cena in Pericoli e gioie dell’uscire a cena con i figli, In lode del silenzio a tavola) e con il marito, Stanley Edgar Hyman, critico letterario.

Mio marito recensisce libri per mestiere, e io vorrei presentare un reclamo. So che è dura di questi tempi, con le ragazze pronte ad agguantare i buoni partiti appena escono dalle superiori, ma io non credo di essermi meritata un recensore di libri. Mia madre si aspettava qualcosa di meglio per me. Ora mi rendo conto, ripensando ai fatti degli ultimi anni, che la gente sposa i recensori con la speranza che si tratti di un lavoro temporaneo, che prima o poi il poveretto troverà un posto migliore, per esempio come venditore di aspirapolvere.
(da Un florilegio di florilegi, contenuto in Paranoia)

Negli scritti che raccontano la vita domestica non riconosceremo l’indizio della depressione o della dipendenza da alcol e sigarette, ma leggeremo della capacità di fare di ogni utensile da cucina, di ogni faccenda di casa, di ogni momento in cui i bambini sono a letto, un’occasione per raccontarsi storie. Shirley Jackson anche se a suo agio nella vita di donna di casa, si raccontava storie come se fosse una possibilità reazionaria, una delle libertà alla quale concedersi completamente senza costrizioni dettate dalle convenzioni. Si stupiva perché trovava simboli, piccoli indizi che disseminava nelle sue opere che creavano una eco costante di temi ricorrenti. Eleanor, un’eterna bambina, e la sua conquista di libertà a un prezzo molto alto, Merricat e il suo essere perennemente infantile, Lizzie e la frammentazione dell’io.

Era un modo per la Jackson di disseminare il sé e rivisitarlo continuamente, come a voler lasciare una traccia distintiva. In questo troviamo il nucleo della sua teoria sulla scrittura: riportare anche scrivendo la sua vita o la realtà così com’era avrebbe creato solo un’altra gabbia. Lei ha, invece, attivato un meccanismo di sublimazione in grado di riporre nell’orrore una giustizia, una sorta di adeguata conclusione al sottile confine dove l’immaginazione, per una volta, ha la meglio sulla realtà.

jackson.png

Ovunque sulla terra gli uomini, di Marco Marrucci

di Marco Marrucci Racconti edizioni Illustrazioni: Marina Marcolin  pp 117 Euro 14

di Marco Marrucci
Racconti edizioni
Illustrazioni: Marina Marcolin
pp 117 Euro 14

di Roberto Galofaro

Ha il fascino della parola forbita e ricercata, del giro di frase complesso, la prosa di Marco Marrucci, il nuovo autore italiano pubblicato da Racconti edizioni.
I dieci racconti che compongono Ovunque sulla terra gli uomini spaziano, per ambientazione, dalla Mongolia al Giappone, dalla California alla Tessaglia, da Firenze a Melbourne, da Marrakech a Uppsala, a San Salvador. In questa varietà, va osservato che il contesto spaziale è appena accennato, le coordinate sono tracciate, tanto nei racconti in prima quanto in quelli in terza persona, con pochi tratti essenziali: sulla geografia non è mai calcata la mano. Perché a Marrucci interessano gli uomini più che i luoghi. Forse la costanza dell’umano a tutte le latitudini è l’ideale sotteso a questo “Atlante degli uomini” (come recitava il titolo originariamente scelto dall’autore).

L’attitudine di Marrucci è evidente già nell’incipit di Il diario di Manuelita, il primo della raccolta. Tra nomi e toponimi dal sapore sudamericano (siamo a San Salvador), ci troviamo gettati di fronte a una rievocazione, al gioco dei ricordi che fanno capolino dal silenzio del passato o che affollano la memoria della protagonista: ecco, io parlo per luoghi comuni, pescando le frasi alla buona e senza vaglio. Marrucci invece lavora di fino e nella sua officina, che sembra un’oreficeria, cesella parole come monili con la creatività e l’attenzione dell’artigiano di metalli preziosi:

Quando ripenso a ciò che accadde sette anni fa la prima immagine che si affaccia dal bordo della vita trascorsa, l’aspo e il globulo di trina su cui posso riavvolgere i fili inquieti dei ricordi e districarne le linee di colore (qui c’è il verde, poi il rosso, subito dopo l’azzurro),
è mamma che piange.

Ferinità e fiducia sono i temi del primo racconto, che ha il gemello nell’ultimo, con il quale crea una sorta di cornice: il legame misterico che unisce un uomo a un animale (la fanciulla Rema alla volpe Estrella, quasi uno spirito guida) ha la stessa natura indefinibile che ha il legame tra uomo e uomo. Nel secondo leggiamo un’allegoria dell’amore che diventa mito. Il quarto allude alla metamorfosi kafkiana di un cuoco – qui l’orrendo rumore che produce il corpo della blatta sotto la suola (quanta maestria nello scarto rispetto al più frequentato “scarafaggio”) diventa il mezzo di un rivoltante contagio e insieme la via della follia, la contaminazione. Nel quinto un turista pavido si affida a due giovani berberi e affronta la paura di come andrà a finire. L’ottavo è la ricostruzione – assai parziale – di un delitto. Il più poetico, il nono, Le notti sopra la Tessaglia, ha l’andamento di certi dialoghi delle operette morali leopardiane, ed è il racconto di un nonno al nipote sul segreto alternarsi del dì e della notte nella sfera celeste.

Non serve farne l’intera disamina, perché non è nelle trame e nella loro risoluzione la sostanza di questo libro. C’è una costante, ed è chiaramente la tensione della lingua. Una lingua ordinata, la cui scaturigine sembra quasi esercizio più che slancio; l’aggettivo colorito trovato con cura, la varietà nemica della ripetizione, la laccatura formale, la scelta degli avverbi che accompagnano i verbi. Marrucci, va detto a scanso d’equivoci, non è barocco, non gli interessa l’affabulazione costellata di metafore e ingombra di segni oscuri, quasi elementi di una litania orfica, addensati in una pozione che vuole evocare la magica connessione tra il mondo materiale e il mondo immateriale, creando per accumulo una verità finzionale che si collochi in bilico tra i due mondi. No, Marrucci ricerca proprio la ricchezza della descrizione, non ha paura dell’accumulo, il suo ideale di chiarezza non è lo stupore ma l’abbondanza moderata dalla limatura, lo sforzo per conseguire la precisione.
Qualche volta la perizia della nomenclatura e dell’aggettivazione finisce per dare spago a un eccesso di verbosità, in cui la parola vorrebbe farsi metafora, da esatta descrizione che era o voleva essere. Non è uno stridore, è più un crepitare: è il caso di Bocca d’Arno, in cui è in scena una Firenze stradale, quasi surreale con il morto che parla, da sotto le acque dell’Arno, ubriaco. Dove va questo racconto? È interessante: qui come altrove le storie si dispiegano con grande libertà. Qualche volta però ci si trova a chiedersi: non sarebbe stato meglio evitare qualcuno dei dettagli? (Si veda un’espressione sfuggita alla censura come: “Bicchieri disseccati”). La verbosità è il limite del coraggio di Marrucci, si potrebbe dire; qualcosa da dirozzare c’è, insomma, ma sono piccole stonature, accordi che non tornano, una manciata di aggettivi di troppo, minuzie. E si vede la gran cura del togliere, del limare: è un ottimo inizio, un indizio di potenzialità.

Non è affatto necessario, ma sembra giusto che alla recensione di Ovunque sulla terra gli uomini faccia seguito una noterella sulle circostanze che precedettero la sua pubblicazione, prendendo le mosse dal solo dato biografico sull’autore che, ad eccezione della data e del luogo di nascita (San Miniato, 1985), è stato riportato in bandella: «Marco Marrucci ha inviato un manoscritto che adesso è il suo libro d’esordio».

Questo accadimento ha del prodigioso, se si prendono per veri i resoconti degli editor delle case editrici, le più disparate, di ogni ordine e grado, sul numero di proposte editoriali ricevute quotidianamente e quotidianamente accatastate, alle quali spesso per necessità ma più spesso per ragioni di efficienza, si dedicano pochi minuti (il tempo della lettura di alcune pagine, trenta al massimo) e un silenzio che diventa il sigillo del rifiuto.

Non serve insistere sulle proporzioni da leggenda metropolitana che a questa situazione alcuni attribuiscono, né sulle descrizioni polarizzate che certi fanatici assurdamente danno di questa necessaria selezione, come di un strumento di esclusione di massa ai danni di tanti, troppi, scrittori presso sé stessi che meriterebbero la pubblicazione, la fama, lo Strega, il Nobel, la sepoltura a Santa Croce.

Il fatto è che nell’epoca della (presunta) disintermediazione, che spesso è l’autostrada per il self publishing, è più che mai necessario il filtro di mediatori specializzati nell’accesso alla pubblicazione: agenti, lettori, scout. Ma anche, e soprattutto, l’attività delle riviste, insieme banco di prova e prima vetrina. Perciò stupisce che Marrucci non abbia mai “provato” la sua voce, prima dell’esordio: questa la ragione dell’interesse intorno alla vicenda. Non ha scritto recensioni o racconti per nessuna delle tante e vivaci riviste della “scena fiorentina” e del resto d’Italia né cartacee né online, non ha un blog, non ha creato una corte di follower con le sue storie sui social. Era, insomma, invisibile ai radar fino al momento dell’invio del suo manoscritto. Ecco, Marrucci ha vissuto un’avventura editoriale degna di una favola, da ciò lo sottolineatura dell’editore (e nostra): un bell’esempio di virtù premiata, di meritocrazia, di successo partito dal basso. Chiamatela come volete, è una bella storia da raccontare, e fa onore al lavoro di Racconti edizioni.

È impossibile non sorridere, Animali in salvo di Margaret Malone

di Margaret Malone NN Editore Traduzione di Gioia Guerzoni pp. 144   Euro 16

di Margaret Malone
NN Editore
Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 144 Euro 16


di Marina Bisogno


Siamo imperfetti, con i nostri modi di essere, le nostre ossessioni, le nostre paure, le nostre insicurezze. La maniera per uscirne e non restarci sotto è trovare la propria voce, affrontando questo groviglio pazzesco con l’autoironia e il senso del ridicolo, un ottimo contrappeso. Questo pensiero descrive il senso di Animali in salvo, la raccolta di racconti di Margaret Malone, pubblicata in Italia da NN editore, traduzione di Gioia Guerzoni. In America People like you (titolo originario del libro) è stato pubblicato nel 2015, riscuotendo un notevole successo. La scrittrice di Portland è stata acclamata e paragonata a Miranda July ed a Raymond Carver: nel mezzo di questo accostamento, c’è lo stile della Malone, sostanziale, zero orpelli e la tendenza a sdrammatizzare, anche quando la situazione è compromessa. È impossibile non sorridere leggendo Animali in salvo: ci si immedesima negli eventi, si entra in una serie di sketch umani, quelli che ogni giorno ci coinvolgono, si svolgono sotto i nostri occhi e ai quali le serie tv degli anni Novanta ci hanno reso avvezzi. Nora Ephron, sceneggiatrice delle migliori commedie di quel periodo (Insonnia d'amore, Harry, ti presento Sally, ecc.) apprezzerebbe il tiro della Malone, l’estrema consapevolezza che ha del dolore, del compromesso, della disperazione, della loro relatività nel moto perpetuo degli eventi. Avrete inteso che nei nove racconti della Molone (tutti pezzi di uno stesso puzzle, alcuni più di altri) accade niente più della vita: coppie impacciate, incomunicabilità, uomini apprensivi e mammoni, donne inceppate e ansiose che si rifugiano in un bicchiere di gin con un sorriso ebete stampato sulla faccia. Prendiamo Bert e Cheryl, ad esempio. Compaiono nei racconti Gente come te, Sono sempre il tuo uomo e Benvenuti nel Samsara. Sono i personaggi chiave, in qualche modo. Attraverso il loro sguardo, i loro pensieri, ci conducono al cuore del libro. Non è un caso che il racconto che apre la raccolta e quello che la chiude abbiano come protagonisti i due coniugi. Anche se non lo sanno, Cheryl e Bert - che si sentono soli e distanti da conoscenti ed ex amici, imbrigliati nel desiderio irrealizzabile di avere un figlio – non sono così diversi dagli altri personaggi della raccolta. Da ragazzina Cheryl potrebbe essere stata come Sylvie - voce narrante de L’unico, il secondo racconto del libro - alla prese con la separazione dei suoi e la scoperta della propria sessualità, con tutti gli imbarazzi che ne derivano. Ma Cheryl è vicina anche alle altre donne messe in scena dalla Malone. Potrebbe essere quella che accetta la proposta di matrimonio di Chuck in Vuoi sposarmi?, incapace di smarcarsi dallo sguardo inquisitore di sua madre Gladys, terzo incomodo e giudice irreprensibile. Proposta che la coglie di sorpresa e che, col tempo, lascia spazio a dubbi e domande, tipo questi:

Sono preoccupata, ma non perché penso che là fuori possa esserci un uomo migliore di Chuck. Il mondo è pieno di uomini migliori e peggiori. Non è questo.
Il problema è se, dopo, decido che non voglio essere sposata con nessuno
”.

 Si srotola tra dramma e beffa anche Animali in salvo, il racconto che dà il titolo alla raccolta nell’edizione italiana. Ha al centro le disavventure di Mindy, una ragazza spenta ma in fondo simpatica, che vive con i suoi genitori e dipende in toto dai capricci del suo capo, Barb, una donna sull’orlo di una crisi di nervi. Barb si affeziona ad un’anatra, assidua frequentatrice del laghetto artificiale del posto dove lavora e questa simpatia diventa ben presto una fissazione. La stizza per non riuscire a legare a sé l’anatra, induce Barb ad una serie di stramberie, alle quali Mindy non riesce a sottrarsi. Conosciamo uomini e donne che sono caricature di sé stessi, personalità buffe che hanno trovato un antidoto (discutibile, certo) alla crudezza del reale. Sono bloccati nelle loro abitudini e non riescono a provare interesse per quel che accade oltre il loro naso. E non è cinismo, ma totale incoscienza. Un’incoscienza dettata dall’essersi trincerati dietro un recinto emotivo così a lungo da non riuscire a scavalcarlo. Ed è Cheryl a darci la lettura complessiva di questo teatro:

Non è che le persone non mi piacciono. Mi piacciono.
Semplicemente non ho mai capito come funziona.
Fanno tutti finta, come ho sempre sospettato?
”.

La risposta non c’è. La lente del sarcasmo minimizza e amplifica al contempo, cosicché l’esistenza di questi protagonisti, un poco sgangherati, assomiglia a una commedia, di cui gli americani sono maestri, dalla narrativa al cinema. La Malone non fa eccezione.

margaret-malone.jpg


Bar, la scrittura miracolosa di Donato Novellini

Di Donato Novellini Edizioni Giometti & Antonello  pp. 124 Euro 16

Di Donato Novellini
Edizioni Giometti & Antonello
pp. 124 Euro 16

Bar, un sigillo della volontà nel fiume dell’irrilevanza
Sulla scrittura miracolosa di Donato Novellini

 di Andrea Cafarella

«Beck’s Bud Ceres e Corona». La graziosa signorina ripete la litania meccanicamente, come a memoria la poesia delle birre tristi. («Sulla provinciale»)

 Bar è un libro spiazzante.
Per diversi motivi, e prima di affrontarli uno per uno, secondo me, in questo caso è importante aprire un discorso preliminare sull’edizione.
Giometti & Antonello è una casa editrice sui generis. I libri che pubblicano, il modo in cui lo fanno. Fondata due anni fa da Gino Giometti (filosofo, co-fondatore e co-direttore per vent'anni della casa editrice Quodlibet) e Danni Antonello (poeta, comparatista, e creatore della libreria antiquaria Scaramouche di Macerata, scomparso l’anno passato), pubblica una decina di libri l’anno che vengono distribuiti in pochissime copie in alcune librerie fiduciarie. Questo perché i due si sono posti un obiettivo molto alto, difficile, ma preciso: «Proveremo a selezionare quei testi che, in tutta la tradizione scientifica e letteraria, trovano proprio oggi – e forse per la prima volta, e forse all'oscuro dei più – il loro momento privilegiato di leggibilità». Libri senza tempo che debbono esistere adesso e qui, ripescati nell’oscurità dell’abisso dei dimenticati. «Scritti che sfuggono di mano al loro autore, pagine postume, anche se “pubblicate in vita”, lettere e diari, “appunti sparsi e persi”, e tutti quei frammenti di scrittura che puntellano le rovine della moderna letteratura d'Occidente». Nel solco di questa dichiarazione troviamo libri imperdibili, come gli scritti di Kurt Wolff (non a caso) Kn di Carlo Belli o Stelle Tardive, la raccolta di versi e prose di Arsenij Tarkovskij. Ma c’è anche il carteggio Jünger-Hofmann come le prose di Milena Jesenská, preziosissime. E ogni libro ha una cura maniacale, raffinata, dalla squisita sensibilità estetica, fin dalla cartotecnica del libro.
Dentro questo catalogo, dentro questo progetto culturale, prima che editoriale, troviamo da oggi anche Bar di Donato Novellini. Autore vivente, anzi, anche abbastanza giovane (classe ’73) – e già sarebbe un’eccezione del catalogo – ed esordiente nel mondo della narrativa. Per di più Bar è un libro di racconti «classico» (se possiamo azzardare questo aggettivo riferito a questo libro) in cui le prose sono legate da un tema unico e seguono un percorso coerente. Devo ammettere che quando ho letto la bandella ho sussultato. Sapevo di trovarmi davanti a un’eccezione, a un’anomalia, e così è stato: Bar è un libro sconcertante, per certi aspetti. La prosa di Novellini è estremamente originale e incisiva e musicale, espressiva. La sua voce è unica e il modo che ha di costruire questi brevi racconti è davvero ineguagliabile, sopraffino. Donato Novellini è un artista mantovano, scrive per diverse riviste e i suoi pezzi già nascondono gli indizi di una padronanza, quantomeno estetica, che avrebbe dovuto insospettire i più. Tuttavia il livello stilistico di questo libro supera di gran lunga le aspettative. La capacità descrittiva e la consapevolezza lessicale, il gusto dell’ascolto del suono e della ricercatezza delle parole. L’amore per l’inconsueto. «Anice stellato nel buio, ora nevica» questo è il tipo di frase che incontriamo leggendo Bar. Che, vero è che si tratta di un libro sui bar, precisamente, senza mai uscire dal fossato, ma prima di tutto è un libro fatto di bella scrittura, al modo di Landolfi, Manganelli, Parise; Novellini, al suo libro d’esordio, scrive già come uno di quei grandi e assurdi maestri italiani che avrebbero potuto parlare di qualsiasi cosa (mi viene in mente Norme per la redazione di un testo radiofonico di Gadda, appena pubblicato da Adelphi) lasciando comunque al lettore un senso di profonda bellezza estetica. Così il bar diventa quadro da dipingere con la prosa. In questo senso anche l’uso d’immagini pittoriche – citazioni come pennellate – è sempre fine e coscienzioso, alla Tabucchi, mi viene da dire: «Femmina diversa, acquitrinosa, antica donna sfuggevole, enigma. Un po’ Bernini e un po’ Hopper (ecco), civetta distante, smaliziata principiante, distrattamente snob». («La doppia vita di Elena»).
E le donne, le donne sono il secondo centro di questo libro. Se è vero che questo è un libro sui bar, è vero anche che vi troviamo al suo interno un’immensa ode spassionata e svestita dal velo barocco – che vuole troppo spesso trasformarle in eroine scintillanti – alle donne, le donne dei bar. Che in qualche modo rappresentano pure la crudezza, stimolano la violenza dello sguardo di Novellini. Il mondo è rappresentato da una prosa nobile che, però, scruta le ombre, gli angoli lordi al lato dei bagni, dove è nascosto il rigurgito che crea quell’olezzo disgustoso sparso nell’aria. È lì che scruta e scava la scrittura di Novellini, con delicata indolenza.

«A me piacciono le puttane, le zoccole, le troie. Non gli uomini. Non è questione di pagare, né di bisogni fisici, ma di affinità, sovente morali, ma anche estetiche, nei pressi dei confini, dei margini barocchi della vita. Per me le puttane sono l’umanità, la commedia rivelata di questo triste allegro deambulate nel mondo e, al contempo, qualcosa che lo oltrepassa. Poesia. La verità della finzione. Culi e tette dati ad intendere. Forse è quella l’ultima donna che vuole farsi bella per davvero, per sedurre se stessa e l’altro come specchio, per organizzare un mai più (solo adesso, qualcosa che finisce in un attimo), un baratro d’addio. Con la puttana parlo di filosofia senza annunci ridondanti, non di weekend in spiaggia. Simuliamo una complicità che deraglierà in coriandoli. Poi con la puttana c’è un patto, un accordo, i ruoli a teatro. Lei mi consegna il diploma da uomo, mentre io la guardo svanire alle spalle. Nella dimenticanza». («Assenzio»)

(questa è la risposta che dà, a un amico/conoscente che sta confidando la propria omosessualità, il protagonista di questo racconto; una voce che si riverbera per tutto il libro, costantemente, come se fosse di un personaggio unico; che sia dell’autore stesso?). La cosa davvero straordinaria, a livello strutturale, complessivo, di questo libro è che l’immagine del bar non è puro sollazzo edonistico o divertissement chiuso in uno stile eccelso. L’immagine del bar diviene simbolo e si apre alla filosofia e alla mistica. C’è un’idea e uno spirito che trapassano dalle pagine, venendoci a cercare. Fin dalla premessa, Novellini ci dice: «La vita da adulto non è altro che segreto desiderio di corruzione, piacere dilazionato in posticipi e uscite strategiche, sfregio, dissimulato in abitudini, per l’infanzia perduta». E questa è la sua filosofia. «Rimpianto attivo e inquieto, che sovente trova verità nella menzogna, sostanza nella forma, gioia in quel “dolore al fianco”». Questa invece è la mistica. «Qual è il momento magico che sfugge ai famelici appetiti di Kronos? Si chiama attesa, sipario prima delle marionette, lapislazzuli senza anelli, tirocinio di fiori. Soprattutto gin e consunto mestiere nel berlo, anche senza pubblico, anche senza tonica. M’apparecchio il desco, come facendo cerimonia d’auto-sabotaggio. Non sono giunto qui per vederla, ma per attenderla». Ed è nell’attesa (l’attività fondativa del bar – «bastione d’inerzia», come lo chiama l’autore) che si nasconde il «momento magico», il momento mistico e spirituale. Ce lo dice chiaramente. L’attimo in cui la verità si palesa a noi sotto forma di bugia, di visione, di sogno. Nell’oscurità notturna: «Domani, in questo lembo di notte, ancora non esiste. L’inganno è ciò che ti piacerebbe essere, nel posto dove vorresti stare». («Piano Bar») E questa è anche la struttura stessa del libro, il movimento che descrive, la linea che disegna: inizialmente aspettiamo, ci guardiamo intorno, fissiamo le tette della barista, chiacchieriamo con gli avventori, con l’amico con cui avevamo appuntamento; succede di tutto nei bar. Poi, a notte fonda, accade l’inatteso. (In questo senso «Spiriti arcani» è un racconto esemplare). Le bizzarrie del bar si mischiano al viaggio sciamanico e rituale che il bere stesso rappresenta. E il bar diventa un santuario. Nel bar avviene il rito, sociale e spiritico, dell’abbandono e della rivelazione, dell’estasi e dell’ebrezza. Nel bar tutto nasce come una preghiera sommessa che si fa miracolo. Una preghiera fatta di lunghi sorsi trasbordanti e singhiozzi isterici.
Nell’ultimo racconto, «Poste cinesi», troviamo il lascito di Novellini, la sua postilla, il suo epitaffio alcolico: un bar che si tramuta in “ufficio postale”, dove spedire la parola, la lettera d’amore o questo stesso libro; con quella raffinatezza così estrema e penetrante che lascia tra le righe il significato profondo dei segni e delle azioni, perché l’occhio del lettore attento e sensibile possa scovarlo. Non rigonfia la bellezza di silicone, ma vela le sue beltà supreme di menzogne merlettate di miele, e così avviene il miracolo, la magia. «Che importa se andrà o meno a ritirarlo?» qui ci viene da pensare: sta parlando con noi? Non importa. «Importa il gesto rilasciato, l’atto abbandonato assieme all’oggetto, il sigillo della volontà nel fiume dell’irrilevanza». («Poste cinesi») e a questo punto riscopriamo il significato segreto di ogni racconto di questa raccolta, di ogni verso della liturgia. Guardiamo nuovamente attorno a noi le bottiglie incastonate nel tabernacolo come statue di santi. Le etichette hanno simboli esoterici che ci riportano, trascinandoci inermi striscianti sul pavimento, dentro l’ombra, finalmente verso un’umanità antica, una sensibilità estatica che, proprio oggi, vale la pena riscoprire, preservare, omaggiare e celebrare, come la stessa vita dei bar. Simbolo che si fa carne e sangue, vino e ostia.

«Lo Sputnik non è solo bar, bensì l’ultimo presidio di socialità in loco, bastione d’inerzia e approdo frugale per transfughi: un accumulo di modernità abortite e prime necessità assortite, come detersivi in polvere, cartoleria per genetliaci e condoglianze, gratta e vinci d’appallottolare sul sagrato, videopoker in anfratti bui prima dei servizi igienici in fondo a destra, riviste e quotidiani, giocattoli gonfiabili del secolo scorso, tabacchi basilari, liquori e beveraggi della tradizione. Montenegro, Ramazzotti, Glen Grant, grappa Nonino. Uggia degli ultimi giorni d’inverno, neve sporca gas di scarico ghiaia, all’interno un clan di cacciatori in divisa mimetica siede a gambe divaricate sentenziando di politica, tra loro un comiziante detta ancora la linea sperando nel domani. Era ieri». («Lo Sputnik»)
 

«Penso che nelle ore seguenti farò perdere le mie tracce, diluendole in vino di stelle, sempre dritto tra due fossati d’ombre».

(«Residuati civili»)

 

Antirazzismo e umanità nei racconti di James Purdy

di James Purdy                                 Traduzione di Floriana Bossi                                 pp. 228  Euro  17,00

di James Purdy
Traduzione di Floriana Bossi
pp. 228 Euro 17,00

di Marina Bisogno

Di che cosa parliamo se parliamo di James Purdy? Di narrativa, certo, di short story, ma anche di jazz, di night club, di antirazzismo, di umanità. Il pretesto per ricordare questo scrittore troppo poco conosciuto viene da Non chiamarmi col mio nome, raccolta di racconti pubblicata da Racconti edizioni (traduzione di Floriana Bossi), che riporta all’attenzione dei lettori e del mercato editoriale un autore che ha fatto del non detto la sua cifra stilistica, a prescindere dai personaggi che tratteggia. Ricorda un certo minimalismo di Hemingway e l’ironia di Toni Cade Bambara, James Purdy descrive scene popolari: relazioni di coppia sfrangiate o minate da un segreto, abitudini e chiacchiericci nei quartieri afro, partenze e separazioni, passioni pulsanti e incontenibili. Per Purdy la vita è una scarica di energia: egli vi si immerge, e ne insegue i lampi nelle esistenze altrui. L’abilità con la quale descrive particolari dei corpi e degli ambienti, spostando il punto di vista dall’emotività dei suoi protagonisti verso il circostante, fa parte di quell’eredità che gli consegna l’amicizia con Gertrude Abercrombie, pittrice surrealista, regina degli artisti bohemienne, organizzatrice di jam session a cui prevendevano parte i più grandi jazzisti di tutti i tempi, da Dizzie Gillespie a Charlie Parker. La Abercrombie è il fulcro dell’esperienziale di Purdy: è frequentando la casa di lei che amplia le sue conoscenze, che viene a contatto con una cultura altra, che si mescola con linguaggi artistici ed espressivi. Una contaminazione vincetene, decisiva per la sua sensibilità e il suo sguardo. Sono i primi anni Quaranta in America, James Purdy non è riuscito ancora ad affermarsi come scrittore. Per mantenersi insegna lingue, viaggia molto, arriva in Messico e a Cuba. Legge Shakespeare ma anche l’Antico Testamento. La curiosità, la benevolenza verso i suoi personaggi affondano le radici nel suo background. Lo vediamo con Lafe che, nel racconto Marito e moglie, non riesce a comunicare alla donna che ha sposato la sua omosessualità o con Maud, la signora che in Una donna buona, discetta con la sua amica Mamie di una giovinezza sfiorita e del senso della vita (“Maud, sei felice? sospirò Mamie. Maud non rispose. Non aveva mai pensato molto alla felicità, era Mamie che le ricordava sempre quella parola”). La nostalgia per il tempo che scorre, le aspettative verso una vita di coppia scintillante - poi mutate in pazienza e silenzio - sono come ossessioni per Purdy. In Non chiamarmi col mio nome, il racconto che dà il titolo alla raccolta, la trama è incentrata sul complesso di Mrs Klein, che, nel bel mezzo di un party, con drink alla mano, vaneggia sul cognome del marito, che non sente adatto a sé. Questa fissazione è la spia di un’insofferenza più profonda, che il subconscio restituisce in un’occasione festosa. Un racconto magistrale, che, come altri nella raccolta, manifesta una rara padronanza del dialogo (quasi tutte le storie si evolvono in un botta e risposta). Non chiamarmi col mio nome è anche il racconto che favorisce la carriera letteraria di Purdy: sul finire degli anni Cinquanta, Andreas Osborn, uomo d’affari e impresario, ne resta folgorato. Inizia così a sovvenzionare Purdy e a spingerlo nel perseverare con gli editori, nonostante i rifiuti. Anche Edith Sitwell, poetessa inglese, intanto, si convince che James Purdy sia un ottimo scrittore. È a questo punto che Purdy tenta il tutto per tutto, dedicandosi a tempo pieno alla scrittura. Si trasferisce a New York, tessendo altre amicizie determinanti, come quella con Paul Bowles e Dorothy Parker. In questo tempo di soddisfazione, Purdy scrive il racconto Color of Darkness tradotto in Italia con il titolo di 63: Palazzo del Sogno, in chiusura della raccolta targata Racconti edizioni. È la storia di un’amicizia, ma soprattutto di Fenton Riddleway, che di colpo è attratto da un uomo. Dentro ci sono la smania di successo, l’impazienza giovanile, l’impetuosità dei sentimenti. Non chiamarmi col mio nome è un lavoro editoriale considerevole: assembla i racconti di un autore che si sentiva l’urgenza, anche sociale, di rispolverare. La capacità di Purdy di scandagliare le relazioni, di aprire parentesi sulla condizione della popolazione americana ai margini, di calarsi, all’occorrenza, tra i fantasmi che agitano la mente umana lo rendono uno scrittore di riferimento oltre il tempo. Lo sforzo dei tipi di Racconti edizioni è pregevole ed arricchisce i lettori curiosi, a caccia di racconti di razza.

purdy-hero.png


L'equilibrio è una lotta continua, nei racconti di A. Igoni Barrett

di A. Igoni  BarrettEdizioni 66ThA2ndTraduzione di Michele Martinopp. 256  Euro 16

di A. Igoni  Barrett
Edizioni 66ThA2nd
Traduzione di Michele Martino
pp. 256  Euro 16

 

di Alfredo Zucchi

I nove racconti di L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto (66thand2nd, 2018, traduzione dall’inglese di Michele Martino) dello scrittore nigeriano A. Igoni Barrett, si muovono in un quadro in cui l’ordine è sempre a un passo dal crollo, in cui la violenza e la barbarie covano sottotraccia, come humus, e basta poco, un accidente minimo, perché si scatenino in superficie. L’equilibrio è una lotta costante, e l’unica forza in grado di sostenere e nutrire questa lotta è l’amore – quella forza, quel legame che prescinde dalle strategie e dalle soluzioni razionali, che si dà, che unisce e basta.

È il caso del racconto che dà il titolo alla raccolta, in cui il personaggio principale, il poliziotto Eghobamien Adrawus, dopo una serie di eventi brutali si ritrova, in casa, di notte, a tu per tu con la moglie, con cui pure aveva avuto una lite furiosa poche ore prima. Il contatto che si ristabilisce tra loro prescinde dalla parola e la supera, è fatto di gesti e di sguardi prima di tutto.

«Che c’è?» disse lei.
«Niente» rispose, e cominciò a parlare. Le parlò della rabbia che l’aveva portato a colpire un uomo in faccia con una zampa di mucca. Le parlò degli stivali troppo piccoli e del male che aveva ai piedi, della puzza della prigione che lo svegliava al mattino, della paura sul viso di una donna che ha capito che sarebbe stata violentata.
Le parlò dell’uomo in bianco che profumava come un vaso di fiori ed elargiva denaro come se comprasse favori per il diavolo.

Parlò così in fretta che spruzzò saliva dalle labbra, poi così lento, e a voce così bassa, che la moglie dovette piegarsi in avanti per afferrare le sue parole. Stava ancora parlando quando lei lo prese per un braccio e lo condusse alla poltrona reclinabile, quando si chinò su di lui per sbottonargli la camicia, quando gli tolse tutto tranne le mutande, con le mani che lavoravano con la destrezza dell’abitudine. Parlò finché la sua voce non divenne un bisbiglio in fondo alla gola. Parlò finché non cadde addormentato. E a quel punto lei gli intrecciò le mani sulla pancia e si tirò su per guardarlo. Non disse niente. Non aveva niente da dire. Eppure il suo sguardo era così intenso che quando lei, alla fine, si voltò, lui sorrise nel sonno, si accoccolò meglio sulla poltrona e sussurrò: «Bene».
(“L’amore è potere, o gli somiglia molto”, p.109-110)

Gran parte dei racconti sono ambientati nella città immaginaria di Poteko, in Nigeria. I contrasti – tra lusso e miseria, vita e morte, verità e menzogna – sono vividi e sono resi dall’autore in modo asciutto, ironico e ellittico. L’unico testo a uscire da questo registro, tendendo al comico, è “Il mio problema dell’alito cattivo”: in questo caso l’autore fa parodia di quegli stessi contrasti e l’equilibrio fra gli opposti, che è la forza principale della raccolta, viene meno.

Il lavoro di Igoni Barrett intorno alle sequenze narrative – la disposizione delle scene, i tagli e le ellissi, e, in ultimo, le chiuse – merita un’analisi a parte. In linea con una tradizione molto radicata nel racconto moderno, soprattutto nella letteratura nordamericana, i tagli, i salti da una scena all’altra, svolgono una funzione dinamica fondamentale e parlano da soli (“show don’t tell” diventa qui “hide don’t tell”: nell’ambigua relazione tra “show” e “hide” si trova, probabilmente, il segreto del metodo Hemingway). Questa maniera ellittica di raccontare, che evita quasi sempre il giudizio e il commento da parte del narratore (con l’eccezione di “Il mio problema dell’alito cattivo”, in cui però l’intrusione del narratore ha funzione parodica), è funzionale all’equilibrio tra i contrasti e tra gli opposti, ed è la cifra stilistica saliente della raccolta. Questo stesso approccio informa il modo in cui l’autore conduce i finali: sempre aperti e sospesi; a volte molto riusciti : “Trophy”, “Una storia di tira e molla a Nairobi”; altre volte meno: “Godspeed e Perpetua” e “La ragazzina con i seni in boccio e la risata di gomma da masticare”, in cui la sospensione finale è più un’espediente per venire fuori da un’impasse che non un finale vero e proprio.

 

BUKOWSKI, STORIE DI (STRA)ORDINARIA FOLLIA

3854676_251573.jpg

 

di Antonio Tedesco

Rileggere Bukowski. Oggi che le parole sembrano perdere peso e valore e le idee, e spesso anche le manifestazioni artistiche e letterarie, sembrano appiattirsi e omologarsi nella pigra ricerca di una facile commerciabilità e riconoscibilità, i testi di questo scrittore colpiscono come una scudisciata l’animo del lettore offuscato da un comodo e pacificato conformismo.
 Storie di ordinaria follia, (pubblicato per la prima volta in Italia da Feltrinelli nel 1975) fin dal titolo, epurato in italiano di alcuni termini espliciti (Erections, Ejaculation, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness, è il titolo originale) è stato come una sorta di presentazione, il biglietto da visita che ha fatto conoscere Bukowski fuori dalla ristretta cerchia dell’underground americano. Grazie anche al film, dallo stesso titolo, che ne ha tratto un regista (non a caso anticonformista e ribelle) come Marco Ferreri, nel 1981.
La definizione “raccolta di racconti” è corretta, ma non esaurisce tutte le sfumature di questo libro. Composto da quarantadue “pezzi di scrittura” che comprendono, appunto,  racconti, ma anche frammenti, fulminanti riflessioni al limite fra narrazione e saggio. Illuminati a tratti da lampi di lirismo e squarci inattesi di poesia. Improvvisi e abbaglianti quanto più sembrano scaturire dagli infimi e sordidi bassifondi dell’esistenza meticolosamente setacciati dall’autore. Il tutto a costituire un insieme, tematico e stilistico di grande compattezza e coerenza. Bukowski si è espresso in maniera forte anche attraverso i romanzi, che quasi sempre rielaborano esperienze autobiografiche (Post office, per dirne uno), ma in questa sua prima raccolta si può trovare un vero e proprio compendio che racchiude tutta la sua arte narrativa. A suo modo “un’opera-mondo”, al pari di certi grandi romanzi che per la loro ampiezza e complessità si fregiano di questo titolo.  Un mondo nel quale si può accedere in libertà, scorrendo il lungo indice. E scegliendo tra i titoli più intriganti e promettenti da che parte cominciare ad esplorarlo.

Bukowski è un autore la cui scrittura va studiata e apprezzata al di là dell'apparente, finta, sciatteria, con venature sperimentali che, (come dice Fernanda Pivano in un suo saggio sullo scrittore in Pagine Americane – Frassinelli, 1995) resta concentrata soprattutto all’interno del suo primo periodo e potrebbe, dapprincipio, suscitare avversione e fastidio.
In realtà la scrittura di Bukowski è "energetica", trasmette stimoli vitali. 
Ciò che maggiormente è interessante, in lui, è il modo in cui è riuscito a trasformare in letteratura le esperienze della propria vita.
Come, in pratica, abbia fatto della sua esistenza, tribolata e travagliata, vagabonda e sregolata, una fonte di ispirazione letteraria. Non è l'unico, è vero, basterebbe citare Fante o Kerouac e tutta la generazione "beatnik", ma nel suo caso la letteratura non solo aderisce perfettamente alla sua vita ma ne diventa una dimensione metaforica e in un certo senso anche astratta, un paradigma paradossale attraverso il quale il velo sottile, ma ostinato, che copre le cose si squarcia, rivelando tutta la sua misera e ridicola (in)consistenza. A questo scopo è riuscito a sublimare in letteratura anche e soprattutto gli aspetti più sordidi e miserevoli della sua esperienza umana. Riscattandoli. In certi casi, addirittura,  "santificandoli" attraverso il processo della scrittura.
Pur conservando uno stile perfettamente riconoscibile Bukowski varia spesso sulle forme. Alcuni racconti sono tesi, essenziali, espressi con una scrittura asciutta, secca, in una maniera (letteraria) tipicamente americana. In altri si concede delle digressioni (mai degli svolazzi), con un periodare più articolato, disteso. In un certo senso si potrebbe dire che fa riferimento, in questo ultimo caso, a un modo più europeo di utilizzare la scrittura.
Ogni brano risponde, comunque, a un'esigenza espressiva propria, interiore, e va ad aggiungere un tassello a questa sorta di epopea "in minore", stracciona e vagabonda, che Bukowski ha trasformato in una mirabolante metafora non solo dell'America contemporanea, ma dell'uomo, in generale, scaraventato in un mondo di cui non può né controllare, né tantomeno comprendere i meccanismi. Un mondo che lo attrae e lo respinge al tempo stesso, con uguale violenza. Fino a lasciarlo stordito, interdetto, in balia di impulsi, passioni, necessità, sentimenti contrastanti e vergognosi di manifestarsi, a se stessi, e soprattutto agli altri. Un mondo in cui bisogna stordirsi per andare avanti. E bere, e fumare, e andare alle corse dei cavalli. Scopare, al limite. Per ingannare il tempo, e la propria stessa vita. E quella perdita di senso, che altrimenti ti precipita in un abisso senza fondo.
Bukowski, come un Kafka immorale e sboccato, scrive di questo mondo illusorio e inconoscibile reinventando la realtà, accentuandone i suoi aspetti più inspiegabili e grotteschi, rimanendo spesso attonito di fronte ad essa, però cercando anche, in qualche modo (a differenza di Kafka), uno spiraglio, una via d'uscita.

I racconti di Bukowski sono frammenti, schegge di un'autobiografia in divenire. Nei quali la forma “aspra”, il linguaggio poco accomodante, sono solo la scorza esterna che racchiude (e protegge, verrebbe da dire) una visione sofferta e dolorosa dell’esistenza. In cui è implicita una dura e acuta critica alle strutture fondanti su cui l'intero edificio della vita sociale si tiene. Ne è un esempio lampante Il giorno in cui parlammo di James Thurber, racconto in cui viene preso di mira, in maniera molto diretta, l'establishment culturale e letterario.
Quasi un piccolo trattato di critica (alla società) letteraria e dove si parla, in apparenza, di scopate omo ed etero sessuali, di necessità fisiologiche e, manco a dirlo, di bevute.
La metafora è lampante. La sudditanza psicologica e intellettuale alle forme e ai modi dell'essere "artista", viene qui smontata pezzo a pezzo e mostrata in tutta la sua vuota futilità.
L'artista è un nano superdotato e, guarda un po’, parla francese. Vive in una bella casa, pulita e ordinata, dove riceve i suoi amanti di entrambi i sessi. Tra una scopata e uno degli innumerevoli "necessari" riti che scandiscono il suo quotidiano, compone pagine di "alta" poesia. Scopandosi, ancora, seppur in maniera simbolica, o figurata, pubblico e critica. Incarnati nelle figure dei componenti della piccola corte che lo circonda, sempre disponibile e adorante.
Così, Bukowski che, come quasi sempre, è protagonista diretto del suo racconto, per un equivoco di interposta persona si trova a ripercorrere l'esperienza del Grande Poeta, scopandosi una coppia di ragazzi, (maschio e femmina) venuti a rendergli omaggio. Ma parlano anche di letteratura. E bevono vino. Godono reciprocamente. Si usano per il rispettivo piacere. Fisico e intellettuale (ma forse non c'è differenza). Però senza empatia. Nessuna reale comunicazione. Dopo resta il vuoto.
Bukowski passa come una schiacciasassi. Travolge ogni manierismo. Ogni usurato, eppure ancora troppo frequentato e accreditato, luogo comune. Dietro i sui racconti restano solo macerie. Eppure, incredibilmente, in mezzo a queste macerie si intravede sempre uno spiraglio di luce.  Bukowski non perde mai completamente se stesso.  Ci va molto vicino. Giunge a livelli di degradazione impensabili. Ma uno spiraglio, seppur piccolo, in fondo, c'è sempre. "E il mio talento non s'era ancora esaurito" sono le ultime parole di questo racconto. Nonostante tutto, pare di sentire, non detto. 
La descrizione della sua lotta e del suo disagio-degrado è quella di un vero artista in un mondo di caproni che si muovono coi paraocchi, asserviti a sistemi che li disumanizzano ma che, malgrado ciò, continuano a sostenere e a difendere, un mondo dal quale lui non può che autoemarginarsi, contro il quale non può far altro che protestare. E lo fa bevendo, fregandosene delle convenzioni e delle apparenze, offrendo di sé la figura e la personalità trasgressiva dell'ubriacone con la quale mette in dubbio (e in crisi) i cosiddetti valori di una società tanto corrotta e malata quanto ipocrita, nascosta dietro il mellifluo perbenismo delle regole.
Bukowski è una forza dirompente che, come tutti i veri grandi profeti visionari, da Cristo a Kafka, incrina le altrui certezze acquisite passando attraverso la mortificazione e la sofferenza del proprio corpo.
Bukowski è una mina vagante dotato di un esplosivo potenziale eversivo che ancora una volta l'establishment sociale e letterario ha cercato – riuscendoci solo in parte - di ridimensionare. Non potendolo imbavagliare ha cercato di trasformarlo in una specie di fenomeno da baraccone.
Ma senza considerare che il "baraccone" nel quale il "fenomeno" si è prodotto e manifestato è proprio quello messo su e animato dallo stesso sistema.

Sei pollici, pur restando in apparenza attestato su un piano di strenuo realismo si manifesta, invece, come una sorta di racconto metafisico che apparenta definitivamente (insistiamo su questo solo in apparenza incongruo parallelismo) Bukowski a Kafka.
É la storia di un uomo che, dopo il matrimonio, messo a drastica dieta dalla moglie rimpicciolisce fino a ridursi  a un minuscolo esserino che la donna utilizza spudoratamente per i suoi trastulli sessuali. Facendo fuori, così, in un botta sola l'ipocrisia che presiede all'istituzione sociale del matrimonio e quella ad essa direttamente collegata dell'amore coniugale.
La donna, bella e sessualmente compiacente, che qualcuno gli ha già indicato come "strega", si rivela una trappola che svuoterà il consorte di ogni sostanza e, in definitiva, di se stesso, della sua personalità di uomo.
Due gli elementi da sottolineare nello svolgimento di questo processo.
Il primo: l'illusione di un margine di autodeterminazione e di conservazione del "principio del piacere" (la donna, pur privando il suo uomo a poco a poco di ogni cosa, acconsente a lasciargli bere la birra, le cui dosi, ovviamente, si riducono proporzionalmente al ridursi delle dimensioni dell'uomo, fino a giungere a un ditale come recipiente). Che diventa, ovviamente, un'arma a doppio taglio per "perfezionare", proprio là dove sembra che ceda, il controllo sull'uomo.
Il secondo: il processo di recupero effettuato dall'uomo una volta liberatosi dalla moglie-strega. Che avviene prima rubando cibo agli animali (un gatto), poi insediandosi in un supermercato e recuperando poco a poco peso e dimensioni attraverso cospicui banchetti notturni e fornendosi di denaro prima di andar via (una volta recuperate dimensioni accettabili), attingendo all'incasso depositato in cassaforte. Recuperando quindi, in maniera, solo in apparenza, paradossale, le sue risorse vitali a spese di quel sistema che, attraverso alcune delle sue più celebrate istituzioni (la coppia, il sesso,  il matrimonio) l'aveva ridotto in quelle condizioni.
Una sorta di riscatto che qualifica ancora una volta  Bukowski (e la sua opera) come un irriducibile  combattente (o resistente) ribelle ed eversivo.
Il protagonista del racconto, infine, in una pensioncina modesta, ma dignitosa, mentre in lontananza, nel suo sguardo, si staglia la collina di Hollywood, verrà baciato dalla luce “del Signore” che benedice e accompagna la sua (ri)crescita.

Ed è in questi finali, a volte presenti nei racconti di Bukowski, dove pur dalla più cupa oscurità, si intravede in lontananza un barlume di luce, che la personalità dell'artista americano sembra differenziarsi maggiormente da quella, così diversa e così affine a un tempo, di Kafka. Si tratta, infatti, di due outsider che seppur in forme diverse hanno espresso lo stesso disagio esistenziale (non va dimenticato, a questo proposito che Bukowski era nato in Germania nel 1920, anche se solo due anni dopo la sua famiglia si trasferì in America). Per lo scrittore praghese alla fine de La Metamorfosi (ma anche di Il Processo La condanna) non resta altra possibilità che la distruzione di sé.
Bukowski, invece, a volte risorge. Resiste contro tutto e tutti, anche contro se stesso. E in un modo o nell'altro, rotto, acciaccato, pieno di ferite, umiliato, cerca sempre di venirne fuori. Aiutandosi anche con una buona dose di autoironia. E, tutto sommato, senza crederci fino in fondo.
Ma non gli va di darla vinta così, senza combattere, a tutta quella merda che lì fuori, arrogante e fetida, sembra estendersi a dismisura e prolificare su se stessa.
Ma cos’è l’esistenza, anzi La vita in un casino del Texas (?)
Ancora una volta, abbrancato tenacemente, come pare essere sempre, ad un realismo immediato, quasi brutale, Bukowski ci racconta, in realtà, un'altra storia surreale. Un'altra spiazzante metafora. Una sintesi folgorante, dove in poche pagine condensa ed esprime l'essenza profonda (la teoria e la pratica, verrebbe da dire) dell'America, nei suoi principi fondanti, nelle sue linee guida di sviluppo e di espressione. Dove lui, stralunata, donchisciottesca, impavida e suonata figura di scrittore, sembra essere una sorta di cartina al tornasole, un reagente al contatto con il quale la realtà non può che manifestarsi nella sua essenza più vera e più profonda. Senza maschere, né orpelli, né abbellimenti o edulcorazioni di nessun tipo.  Come una sonda calata in una realtà multiforme e incomprensibile a contatto della quale tutte le contraddizioni vengono alla luce ed esplodono. C'è la violenza quotidiana, che si esprime in molte forme. C'è una storia edificante, ma che si qualifica come degna di essere tale solo nel contatto, divulgatore e falsificatore ad un tempo, dei mass media. C'è la realtà delle cose e l'ipocrisia che l'ammanta. Il vuoto dietro i colori brillanti delle facciate. La cruda verità e la falsità che nasconde.
Il Texas. Un casino. La vita.
Il titolo è già tutto.

 E così, scorrendo l’indice, ci si può fermare su qualunque racconto a colpo sicuro.  Fica a stufo e Il principiante, per esempio. Due testi in cui lo scrittore fa un uso magistrale del  linguaggio. Asciutto, diretto. Nella migliore tradizione americana del Novecento (hemingwayana, direbbe la Pivano).
Eppure, specie nel primo, dietro l'usuale, spietato, realismo, sembra di assistere ad una pièce di Pinter o di Beckett, nella quale due spiantati fanno mirabolanti sogni di gloria, ma senza riuscire neanche per un istante a sganciarsi dalla loro misera condizione umana e morale. Sembrano rimirare in lontananza un miraggio che, cosa della quale sono entrambi ben consapevoli,  mai potrà diventare realtà. Basterà una donna incontrata casualmente a gettare fra i due - in maniera sommessa, ma non per questo meno pericolosa - il seme della discordia. L'ambiente, intorno, altrettanto squallido e miserabile, è tratteggiato con pochi, sapientissimi tocchi. Un ubriaco riverso sulle scale davanti all'ingresso secondario dell'albergo (al quale, uno dei due, pur conoscendolo, fruga nelle tasche rammaricandosi, però, di essere arrivato troppo tardi), una rivendita di liquori in fondo a un vicolo, lo squallido alberghetto dove la gente sta in canottiera e tiene la porta aperta per difendersi dal caldo, bevendo vino in quantità.
Un sabato sera a Los Angeles, una delle città più crudeli del mondo, è detto nelle prime righe del racconto.
É questo il luogo, che comprende anche Hollywood e dintorni e che ha risonanze mitiche - il Cinema -  in cui sono ambientate per la gran parte le storie di Bukowski.
Ma non è mai la facciata luccicante e tirata a lucido del bel mondo quella che si vede nei suoi racconti. É, piuttosto, il suo lato oscuro, sotterraneo, probabilmente il più vero, il meno ipocrita, quello di cui Bukowski scrive.
Più vicino alla Hollywood-Babilonia di Kenneth Anger che alla mirabolante "fabbrica dei sogni" divulgata dai mass-media.

Il secondo racconto parla dell'iniziazione al mondo delle corse dei cavalli. L'ambiente dell'ippodromo. La tensione delle scommesse. La delusione di quando si perde, il piacere di vincere. Un modo come un altro per tenersi occupati. Per sfuggire alla mania (liberatoria) di ubriacarsi in ogni momento libero. E un nuovo piccolo, grande universo che si apre. E uno sguardo cinico verso la propria donna, alla fine, quella che in questo mondo - quello delle corse - lo ha introdotto e gli ha fatto da guida. Una donna che, proprio grazie a questa scoperta, forse, lui riuscirà a lasciarsi dietro.

E si potrebbe continuare così per tutti gli altri racconti (segnaliamo almeno Vita e morte all’ospedale dei poveri e Addio Watson, tra i più belli e toccanti), che costituiscono questo libro che acquista col tempo la forza di un classico. Una violenta sferzata al conformismo letterario nel quale da decenni siamo immersi. E che in un'epoca di parole vuote si erge, intriso di orgoglio e dolore a un tempo, a contrastare l'ipocrita e autolesionistica mania del “politicamente corretto”. Senza ostentazione o pedanteria. Con una scrittura che è narrazione e (nelle sue forme) critica letteraria “viva”, allo stesso tempo. Frutto di uno sguardo lucido, penetrante, disincantato. Che non fa sconti a nessuno, e prima ancora a se stesso. Qualcosa di cui oggi più che mai sentiamo di avere  grande bisogno.

copertina-17-900x425.jpg

 

 

Tutti i cadaveri squisiti di una Mattina d’inverno

Il Saggiatore Traduzione di Dóra Várnai pp. 328 Euro 22,00

Il Saggiatore
Traduzione di Dóra Várnai
pp. 328 Euro 22,00

 

Chi diavolo è László Darvasi?

Tutti i cadaveri squisiti di una Mattina d’inverno

di Andrea Cafarella

 

Ponetevi nello stato più passivo, o ricettivo, che potrete. Fate astrazione dal vostro genio, dalle vostre doti e da quelle di tutti gli altri. Ripetetevi che la letteratura è una delle strade più tristi che conducano a tutto.

André Breton, «Manifesto del surrealismo (1924)», Manifesti del surrealismo (Einaudi, 1966)

 

Io non conosco László Darvasi. Onestamente, l’unico László di cui so qualcosa ha un cognome impronunciabile (Krasznahorkai) e ha scritto un libro straordinario – Santantango (Bompiani, 2017) – da cui un altro compaesano (stavolta dal nome semplice e sicuramente anche molto più conosciuto: Béla Tarr) ha tratto un film monumentale, difficile, lento, che supera i quattrocento minuti in poco più che centocinquanta inquadrature (così ha dichiarato il regista) e del quale qualcuno ricorderà l’incipit: la celeberrima «scena delle mucche»: il primo ostacolo, la prima fatica che apre il lungo e sfiancante cammino tra le meravigliose immagini in movimento di questo film: un’opera dalla complessità rivelatrice, dalla lentezza chiarificante.

Insomma, conosco già due autori ungheresi: uno, molto conosciuto, legato all’altro da questo film leggendario. L’altro, invece, è semplicemente un omonimo del mio Darvasi, ma sembra non averci assolutamente nulla a che fare.

Continuo a cercare, scorro i nomi di altri autori ungheresi, rumeni, polacchi. Li conosco, li conoscono tutti, ma sembra che nessuno conosca László Darvasi. Chi diavolo è?

 

Ho trovato il suo libro sul bancone della libreria dove lavoro. Più correttamente: ho trovato le bozze, non corrette, che a volte gli editori mandano in anteprima perché i librai possano leggere in anticipo le novità che saranno tra gli scaffali nel giro di qualche mese. Più spesso le bozze rilegate in omaggio arrivano contemporaneamente alla pubblicazione del libro. Nella maggior parte dei casi non arrivano, anzi, non vengono spedite, oppure bisogna chiederle per vie traverse, e solo se il libraio (più o meno lo stesso sistema potremmo applicare a giornalisti e recensori) ha un interesse particolare per un libro in attesa di pubblicazione. In due anni non credo sia mai successo che un’anteprima arrivasse con due mesi d’anticipo. Invece siamo a febbraio e sul libro – le bozze – che ho davanti, c’è scritto «in libreria dal 19 Aprile». Il volume non ha bandelle e le due righe di testo sul retro della copertina, che raccontano l’autore, sono inutili, insufficienti; una brevissima biografia striminzita che dice: «László Darvasi è giornalista, scrittore, drammaturgo e poeta. È la voce più significativa [il corsivo è mio. Ci torneremo più avanti] della letteratura ungherese contemporanea.» Allora, penso, qualcuno lo conosce. Anzi, in Ungheria sarà famosissimo, anche più del suo omonimo dal cognome arzigogolato come le vicine scogliere croate. Mi viene in mente la Croazia, poi Budapest, Bucarest, Bratislava, mi spingo fino a Praga, Vienna, Sarajevo. Di quei posti, più di tutto ricordo i muri dei palazzoni di mattoni rossi, che ancora mostrano i fori abnormi delle pallottole di fucili e mitraglie, la cui presenza è un’emanazione lugubre, come la mano che passa distratta su una cicatrice impossibile da dimenticare. L’odore rimasto della polvere da sparo si percepisce ancora per le strade. Anche a Vienna o a Praga – che, rispetto alle sorelle dell’Est, sembrano intatte, eleganti, principesche – si nasconde quel sapore nostrano di sangue. Quell’oscuro mistero rannicchiato negli angoli bui, che si è annidato a nord della Transilvania. L’odore di morte dell’Europa dell’Est. Come se la Germania e l’Austria facessero da portone infero al deserto senza Dio che precede la fredda steppa russa, infinita, silenziosa e distesa fino ai confini del mondo, dove la vita è un concetto flebile e perso, solo, nel freddissimo nulla.

«Il nostro mercato è come il paradiso. Ovunque guardi, c’è di tutto. E quello che non c’è, si può immaginare. E io so bene che per poter immaginare le cose si deve essere liberi, dev’essere la libertà ad avere in mano il cuore della persone. Perché dove c’è schiavitù c’è solo desiderio. Non è mica un caso se racconto tutta questa storia». («La caduta»)

 

Ricominciamo da capo: chi diavolo è questo László Darvasi? Questo bastardo dalla penna lorda che mi tiene da giorni appeso alle sue parole. Ho preso questo libro dal bancone della libreria e non ho potuto più leggere altro. Avevo voglia di parlarne in continuazione. Lo leggevo alla mia compagna, inserivo pezzi di trama dei racconti, come storie vere, nelle discussioni. Parlavo al telefono con mia madre e le descrivevo una scena del libro per rispondere alle sue domande; recitavo un pezzo a un amico, ai miei coinquilini distratti, per riempire il silenzio di casa. Forse László Darvasi è semplicemente un uomo libero. Uno scrittore libero. E per questo è riuscito a stregarmi – ammirazione. Oppure è un essere totalmente schiavo, che nella letteratura si libera. E allora è questo che mi attrae misteriosamente – compassione. Non lo so. Il fiuto, però, mi dice che sto cercando nel posto giusto...

Per capirci, questa è l’ambiguità sconvolgente insita nel concetto di «libertà» della letteratura di László Darvasi: nel racconto da cui proviene l’estratto riportato qualche riga sopra, chi racconta è un padre, caduto da una scala nel tentativo di rimettere a posto una tegola e rimasto immobile, per sempre. Il mercato di cui ci parla è il luogo in cui suo figlio lo venderà perché impossibilitato economicamente a mantenerlo in vita accanto a sé.

E poi la storia si dipana e si riversa nei mondi surreali, si dispiega nel fantastico: nella libertà concessa dall’atto di immaginare. Esplode nella potenza creatrice della Letteratura.

 

«Spesso non si vedeva oltre la staccionata, perfino il noce secco era ormai inghiottito dal grigiore. L’uomo stava seduto accanto alla finestra della cucina, fissava il paesaggio che si inzuppava sotto la pioggia. Era una di quelle piogge che non si smuovevano l’aria. Tendeva fili grigi tra la terra grigia e il cielo grigio.

– Vedi, la pioggia – disse». («Fiore»)

Il primo racconto della raccolta, «Fiore», è un dialogo assurdo e surreale tra un “uomo” e un “ragazzo” – evidentemente padre e figlio. Inizialmente il padre nomina le cose («Vedi, la pioggia»), come per spiegarle al figlio ­– e nominandole è come se le creasse, come se lui stesso evocasse le cose del mondo. Finché il ragazzo improvvisamente indica un fiore e dice «Chestolcesomotea». Una parola senza senso, detta con assoluta non curanza – almeno così farebbe supporre il fatto che il racconto finisce con il ragazzo che confessa distrattamente di non ricordare nemmeno di averla detta. «Chestolcesomotea» è davvero una parola senza senso?

«Fiore», è anche il primo racconto della sezione che Darvasi intitola «Dio». Mi viene quindi da chiedermi e chiederci: quella che ho appena descritto è solo una scena onirica, dalla bellezza delicata e abbagliante, oppure dietro questo lampo di genio si nasconde un ragionamento, una filosofia, un’intuizione? Non penso che abbia alcuna importanza – rispondere, decifrare – e che contemporaneamente abbia tutta l’importanza del mondo – cogliere, ascoltare, riflettere.

C’è qualcosa nella prosa di László Darvasi che sembra racchiudere tutto in un istante di ebrezza ascetica, in un minuscolo baluginare della Verità. Non sapere chi sia è un vero peccato, eppure, sembra impossibile scoprirlo, da qui. E forse non ha neppure importanza, dal momento che nei suoi testi non c’è niente di reale, eppure è tutto vero; posso supporre che anche lui non sia reale perché vero, come pochissimi uomini al mondo e come quei rarissimi casi di autori visionari che riescono a sfiorare con la parola il senso di ogni cosa, «il significato» – da questo punto di vista descriverlo come il più significativo degli scrittori del suo paese inizia ad avere senso e a dirmi e dirci qualcosa di più.

 

Invasione di spettri. Dall’Europa dell’est

Inizio a innervosirmi. Non trovo informazioni utili, non ne parla nessuno: chi cazzo è questo László Darvasi? Avevo scritto sul mio taccuino, poi mi sono arreso. Anche se ho continuato a chiedere, nei giorni, quando per esempio ho incontrato Vera Gheno o Bruno Mazzoni (traduttori eccezionali, rispettivamente dall’ungherese e dal rumeno). Ricevendo sempre risposte vaghe. Non esiste una risposta alla domanda su chi sia questo spettro famelico, questo demiurgo macabro, che mi sa un po’ di Edgar Allan Poe, un po’ di Ligotti, un po’ di Kafka, un po’ di Joseph Roth. Uno scrittore che mi riesce difficile incasellare: un Carver col cuore di Lovecraft? Non saprei proprio come descriverlo pienamente in maniera esaustiva. Perché nei racconti di Darvasi c’è tutto il dolore causato dallo sfortunato destino novecentesco di un’area geografica cui finalmente sembra essere approdata anche la nostra editoria. Quella più lungimirante, di editori piccoli e medi, editori così detti «di ricerca». Perché in Darvasi c’è la disperazione di Max Blecher, rumeno morto a 29 anni, nel 1938, dopo averne passati dieci di totale immobilità. Nella prosa di Darvasi ritroviamo le voci di Magda Szabó e di Sándor Petőfi, ma sono echi lontani, distorti, anneriti e dall’aspetto macabro. Puzzolenti. Sembra che siano stati filtrati nei bucherelli delle parole di Emil Cioran, altro illustre rumeno la cui voce suona come un brontolio cavernoso, un brusio molesto proveniente dalle macerie di un manicomio.

Ho cominciato a leggere Cuori cicatrizzati (Keller, 2018) di Blecher la sera stessa in cui ho terminato Mattina d’inverno con cadavere e mentre scrivo queste righe non riesco a non pensarci, quando chiacchiero non riesco a non parlarne. Ed è lo stesso effetto che mi ha fatto il libro di Darvasi: come un richiamo forte, interiore, che ti rapisce l’anima: un patto con Satana. Ecco, se vogliamo, László Darvasi è uno degli ultimi esponenti di quel branco di diavoli, dalla cui penna maledetta sgorga sangue nero, raffermo, che ribolle di cattiveria fredda, di cinico odio; un groviglio di cadaveri immobili stesi per le strade. 

Ora, mentre continuo a cercare su internet informazioni su László Darvasi senza fortuna, né in italiano, né in inglese, spagnolo o francese, mi soffermo sull’unico dato che m’interessa davvero: il Saggiatore ha già comprato i diritti per il suo romanzo A könnymutatványosok legendája [La leggenda di giocolieri di lacrime - trad. mia]. E non vedo l’ora di leggerlo, di seguire le sue parole sporche, i suoi racconti putridi, di rovistare nel suo cadavere, ancora pulsante di vita, in cerca di qualche documento, qualche pagina, qualche oggetto, qualche brandello d’informazione che mi faccia finalmente capire, o comunque intuire, chi sia. So da dove viene, conosco alcuni tra i suoi fratelli, riconosco i nomi dei suoi personaggi perché vengono da lì, sono ungheresi anche loro. È importante, è molto importante il posto da cui si proviene. Specialmente quando parliamo di un demone che se ne va in giro come un afflato di vento freddo che sa di smog e di morte, il cui corpo, però, seppellito sotto migliaia di altri corpi putrefatti, si trova ancora – e di nuovo – in patria. Il cui alito sa ancora di gulasch e birra, nonostante la sua voce provenga dal nulla e nel nulla risuoni, «tra la terra grigia e il cielo grigio».

 

La morte e i morti

«Nessuno gli chiese cosa volesse, dove stesse andando lungo quel corridoio semibuio e gremito di morti. Il silenzio risuonava più stancamente, questa volta non avvertiva nemmeno i propri passi.» («Cornelia Vlad»)

Non c’è dubbio: Mattina d’inverno con cadavere è un libro sui morti, esattamente: un «corridoio semibuio e gremito di morti». I personaggi di Darvasi muoiono continuamente come mosche (attenzione, tenete a mente questo insetto) senza che questo costituisca alcun avanzare della narrazione, senza che questo abbia un’importanza cardine, maggiore o minore del grigiore del mondo che Darvasi dipinge nel primo racconto, «Fiore». La morte è il fulcro stesso della vita, dell’esistenza. Quindi, come l’aria, esiste ed è indispensabile, ma non possiamo vederla.

 

«L’uso parossistico della scrittura filosofica in Nietzsche, spinto costantemente al confine dell’inesprimibile, ci aiuta a oltrepassare questo strumento, a guardarlo dall’alto. [...] Il demone della scrittura, nella figura di tensione estrema, inappagata e tragica che assume in Nietzsche, ci mette in crisi dinanzi alla scrittura stessa».

Giorgio Colli, «Al di là della scrittura», Dopo Nietzsche (Adelphi, 1974)

 

I morti però, sono anche una provocazione, un’istanza filosofica che vuole metterci in crisi. Troviamo, per esempio, in uno dei racconti della raccolta, un personaggio che di mestiere brucia tutti gli oggetti appartenuti ai cari dei suoi clienti, dopo la loro morte. A prescindere dal percorso narrativo che segue il racconto, questa immagine, molto d’impatto, mi sembra nasconda, su un piano di riflessione più profondo, una sequenza di domande esiziali che si concatenano in una trama di questioni imprescindibili.

Attraverso i cadaveri disseminati nel libro, usati a mo’ di sacrifici votivi al Male stesso, Darvasi evoca «il demone della scrittura» di cui parla Giorgio Colli, «nella figura di tensione estrema, inappagata e tragica» che «ci mette in crisi dinanzi alla scrittura stessa». Non c’è mai un tentativo esplicito di costruire una spiegazione di quello che l’autore vorrebbe dirci e significare. Tutto è immagine e scrittura. Tutto è misterico e volatile. Lento e ostinato, pesante anche quando è ormai ridotto in cenere.

«Per esempio, spesso si aveva a che fare con oggetti che andavano avanti ad ardere nel calderone per giorni, roba che non riusciva ad andarsene, che non voleva volare via, che desiderava rimanere, fatta di materiali lenti e ostinati, pesanti anche quando erano ormai ridotti in cenere». («Màrta era stata in Asia»)

 

L’ambiguità delle mosche

Leggendo Darvasi mi è venuto in mente Dopo Nietzsche di Giorgio Colli perché, giustamente, dedica – in questo libro che risplende sull’opera dell’immenso filosofo tedesco ­ – un intero capitolo alla sua «scrittura» e alla potenza che le parole riescono a sprigionare attraverso l’ambiguità. L’ambiguità dell’aforisma, la perturbante incompletezza della prosa nietzschiana. Un periodare che sgomenta e che può spaventare, che provoca. Che provoca una reazione sostantiva, qualunque essa sia.

In Mattina d’inverno con cadavere Darvasi costruisce un sistema di simboli, d’immagini oscure, nascoste o invisibili. Richiami, giochi di specchi, urla grottesche la cui eco si riversa da un racconto a un altro. La morte è la mosca e la mosca è la morte. C’è questo insetto iconico che svolazza da un cadavere all’altro come se venisse da una dimensione altra, ulteriore rispetto alla nostra –come a quella della narrazione – e contemporaneamente è come se, seguendo la mosca, essa ci conducesse verso un altrove sconosciuto, per guardare a ciò che ci viene raccontato da un punto di vista diverso: dall’alto (cosa che – in termini diversi – anche Colli segnala nell’analisi della scrittura nell’opera di Nietzsche).

«Il tamburino estrasse il tamburo da sotto il corpo senza vita del trombettista, fece un gran sospiro: era intatto. Ritrovò anche le sue bacchette. Pulì il sangue dalla loro custodia. In mezzo ai morti vagavano galline sotto shock. Il camion che trasportava le galline si era scontrato frontalmente con il loro autobus. La struttura deformata del sistema di gabbie sembrava un occhio gigantesco, il cui sguardo era venato da centinaia e centinaia di fessure nere. Il tamburino si guardava intorno stringendo gli occhi. Chissà dove era finita adesso la mosca?» («Rullo di tamburo per i pazienti»)

 

L’autobus su cui viaggia una banda musicale, diretta a un manicomio per un’esibizione, si schianta frontalmente su un camion che trasporta galline. Ne esce vivo soltanto «Il tamburino», ovvero il suonatore del tamburo. Incurante della situazione recupera il suo strumento, «intatto», e si dirige al manicomio dove esegue la sua parte, da solo, davanti al pubblico ristretto dei pazienti.

Non so proprio cosa voglia dire Darvasi. Non sono sicuro voglia dire qualcosa di specifico ed esatto. Non credo ci sia un solo modo di interpretarlo, e nemmeno che ci siano uno o più modi per farlo. E lo stesso penso degli aforismi di Nietzsche. Però c’è qualcosa che mi turba, che mi mette a disagio. Ho bisogno di parlarne con qualcuno, a qualcuno. Sembra un po’ come la sensazione inspiegabile di malessere che ci porta ad andare da uno psicoterapeuta – o anche semplicemente che ci induce a sfogarci con un amico, a parlarne, ma è un sentore più intenso e costante. Come quando Max Renn tiene in mano la cassetta di Videodrome: la realtà si deforma, l’addome si spalanca, si fa voragine. E da quel momento ­– come stesse giocando a tranCendenZ – mette in dubbio la sua stessa percezione del mondo. Il mondo intero è messo in dubbio. La differenza tra reale e virtuale si assottiglia.

«Ehi tell me the truth. Are we still in the game?».

Ecco, in questo caso non siamo dentro una realtà virtuale, siamo dentro un incubo. L’incubo del demone scaturito dai sogni di Darvasi. (Per i lettori di Antoine Volodine che hanno letto Terminus Radioso (66thand2nd), sì, sembra di trovarsi nel mondo onirico di Soloviei, dentro quel kolchoz grottesco e insussistente, che però è materiale, corporeo; sentiamo che può torturarci e ucciderci in mille modi, e che l’effetto si riverserà in quello che consideravamo, prima, l’unico mondo reale).

E le mosche, il comunismo, i fiori, la kocsma sono i simboli: le porte che ci risucchiano in quest’incubo in decomposizione, giusto il tempo di dare uno sguardo e poi bisogna scappare via, tornare alla realtà, toccare delicatamente il legno levigato della scrivania, per rendersi conto di esistere, di essere tangibili e di essere sfuggiti a quel cunicolo di disperazione efferata e stravolgente.

«Mentre da lontano ascoltavamo il suono fiabesco del tamburo, il cui rullare era rivolto anche a noi, io raccontavo questa storia alla mia donna. E a lei non dispiaceva, anche se tra una parola e l’altra le nostre salive colavano e si mischiavano, e la mosca si posava ora su di me, ora su di lei. Girava sul suo viso la mosca, sul mio, ma non ci disturbava, perché rullava il tamburo, e noi non eravamo da nessuna parte, ed eravamo ovunque, perché stavamo scopando». («Rullo di tamburo per i pazienti»)

 

Dio, patria e famiglia

Una cosa che ho molto apprezzato ­– e che, verso la fine, mi ha permesso di smetterla di parlare ossessivamente di questo libro con chiunque mi stesse vicino per più di un tempo ragionevole perché mi distraessi e tornassi a pensarci – è la struttura complessiva del volume.  Che tra l’altro, secondo me, ripercorre un po’ anche il concetto che ho cercato di descrivere nel paragrafo precedente. Mi riferisco al modo in cui Darvasi ti prende per i capelli con rabbia e ti scaglia nel più orribile degli inferni o in un manicomio inconsistente: nell’invisibile ospedale psichiatrico immaginato da uno dei suoi stessi pazienti. Ma la cosa straordinaria è che poi Darvasi viene a recuperarti, ti riprende delicatamente per mano – già sapeva che saresti rimasto lì, catatonico, a quel punto, e che avresti avuto bisogno di qualcuno a guidare i tuoi passi verso l’uscita e la libertà. Darvasi è un narratore cattivo, che pretende uno sforzo e una dedizione fuori dal comune. Però non è un narratore egoista alla Karl Kraus o alla Raymond Roussel. Desidera immergerci la testa nell’acqua stagnante, come in un battesimo macabro, fino al punto di farci quasi svenire, ma non cala la sua mano sul nostro capo (come la mano di Killerino nel racconto «La caduta») per ucciderci, ma per proteggerci, in qualche modo. Da cosa non saprei, non credo che lo sappia nemmeno lui, forse non lo sa nessuno. Forse, al massimo, lo aveva capito Nietzsche, oppure qualche mistico di chissà dove. Oppure nessuno, mai. Non è questo il punto, il punto è che c’è qualcosa nascosto tra le pieghe della realtà che ci racconta.

La finzione in questo libro è dichiarata, spiattellata fin dal principio: il fatto stesso di rendere i suoi personaggi delle silhouette, nominandoli con nomi-bozza (tamburino, killerino) ne è un’indicazione. E la finzione è la chiave di tutto, degli strati più profondi della narrazione. Tuttavia il libro va avanti e affronta questioni di ordine più puramente sociale e personale. Sfocia nell’intimità più limpida e toccante, si amplia verso tutte le diverse sfaccettature della complessità dell’uomo e del mondo.

Mattina d’inverno con cadavere è diviso in tre sezioni: Dio, Patria e Famiglia. Il punto di vista resta quello che ho fino ad ora presentato, ma è come se a ogni sezione cambiasse filtro, materia, direzione dello sguardo. Uno sguardo – una voce – che spazia con grande intelligenza analizzando tutto: il sopra, l’attorno e il sotto. Io, voi, noi. Ed è qui forse ciò che rende questo libro speciale: il modo di comunicare che hanno tutti i racconti della raccolta: tra di loro; le sezioni, tra di loro e al loro interno; e i racconti, tra una sezione e l’altra, mantenendo una propria luce intrinseca e un tono specifico caratterizzato dalla sezione in cui sono collocati. In parole povere: ogni racconto ha un suo peculiare senso d’esistere, ma acquista ulteriori sensi, man mano che si naviga il libro e si accostano i racconti fra loro. A un certo punto iniziamo a riconoscere i vari Béla e Márta e János e il ragazzo e il padre e le mosche e ci chiediamo chi è stato comunista e chi no. Lo facciamo ascoltando voci molto diverse, provenienti da differenti bocche, ma non potremmo non sentire quella voce unica che collega, unisce e riempie tutto. Riempie tutto di cosa? Della maestosa luce dell’intimità e della fiducia, quando László Darvasi ci racconta di sé, della sua Ungheria, della sua famiglia, di suo padre; quando, tra gli aculei taglienti della narrazione, vediamo il fiore nascosto nel suo bocciolo: «Chestolcesomotea», il fiore della Verità.

 

«– Perché... – pensai un poco a quale espressione usare, e alla fine optai per questa – gli hai fatto del male, perché hai fatto del male a quell’uomo? – chiesi.

– Alla fine si era avvicinato molto – disse mio figlio.

Si era spinto con la faccia quasi completamente davanti alla sua, alla faccia di mio figlio. E parlava, parlava. E gli aveva anche strattonato la spalla, il braccio.

Adesso la faccia di quell’uomo non si vedeva più, disse mio figlio, ma tutto a un tratto si era reso conto di quanto mi assomigliasse. Per questo l’aveva fatto». («Mattina d’inverno con cadavere»)

 

Di sogno e pazzia

«Perciò, se il nostro compito terapeutico consiste nel riaccompagnare l’Io all’altro capo del ponte, nell’insegnare al sognatore a sognare, non possiamo usare questi termini per parlare del lavoro onirico. Dobbiamo invertire il nostro consueto procedimento, che traduce il sogno nella lingua dell’Io, e tradurre invece l’Io nella lingua del sogno. Questo significa applicare una sorta di lavoro onirico all’Io, farne una metafora, vedere in trasparenza la sua cosiddetta «realtà».»

James Hillman, Il sogno e il mondo infero (Adelphi, 2003) 

 

Il caro vecchio Hillman trova sempre le parole giuste per darci una direzione chiara, comprensibile, nell’esplorazione dei meandri più oscuri e irraggiungibili. Senza prenderci in giro, lasciandoci magari pensare che ci possa essere una luce alla fine, o almeno una finestra dalla quale farla entrare. No: per guardare nel buio non bisogna cercare una fonte luminosa, ma serrare le pupille e, pazientemente, soffermarsi sull’ombra, dapprima imperscrutabile, per svelarne un’ulteriore e più profonda oscurità. Occorre cambiare il modo in cui guardiamo e non quello che stiamo guardando. Così, per confrontarci con il mondo onirico, non possiamo cercare di decifrarlo, tradurlo nella lingua dell’Io, ma lavorare sul nostro Io interiore per riuscire a concepire il pensiero del sogno nella lingua del sogno stesso.

«L’uomo strinse gli occhi, fissando lo sguardo nella loro direzione, soffiò fuori il fumo. Accese un’altra sigaretta, diede un’altra sorsata alla birra. Scosse la testa. Non si rimise seduto, restò in piedi a scrutare la superficie dell’acqua. Ma non vedeva nulla, a parte l’infinito. Accanto ai suoi piedi si accumulavano le bottiglie vuote. Le campane della chiesa suonarono diverse volte. Si sentì l’urlo di una sirena». («Gli scalini di pietra»)

E così funzionano i racconti di Mattina d’inverno con cadavere. Sembrano dei sogni, o meglio: la realtà vista dagli occhi di un sonnambulo che sta ancora dormendo. Appaiono come quadri veristi (bell’intuizione, in questo senso, usare un titolo che rimanda palesemente al tono che potrebbe avere il titolo di un’opera pittorica: es. natura morta con teschi) raccontati dalla voce di un pazzo proveniente da chissà dove. E d’altronde sono tanti i pazzi che popolano le storie di László Darvasi, ma c’è un’unica voce, folle, che sovrasta tutte le altre voci: la sua. Ecco, forse László Darvasi è un pazzo. Questo posso dirlo con una pressoché assoluta certezza, e resterei parecchio sorpreso se si offendesse per questa mia affermazione. Secondo me avrebbe un moto d’esultanza. Mi abbraccerebbe, penso. Sì, secondo me ne sarebbe orgoglioso.

«Se fai spesso una cosa, ti sembra che sia permessa. Ti sembra che sia giusta. Falla più volte, ti ci abitui, andrà bene. O meglio, non è che vada bene, ma diventa naturale. Non smettere. Non arrenderti. Falla ancora e ancora. Segui il ritmo». («Il papà torna a casa») Esatto: la pazzia – la scrittura – per Darvasi è una forma di ripetizione patetica (nel senso di pathos) una reiterazione ossessiva che alla fine da senso alle cose, disvela un significato che prima era nascosto, misterioso, inaspettato (e qui, sulla ripetizione, ci sarebbe da fare un elenco di grandi maestri che ne hanno fatto il fulcro della loro letteratura: da Bernhard a Bolaño). E la cosa davvero interessante è che Darvasi lo dice palesemente: «Non è una cosa giusta» (nel racconto il protagonista prende a calci il padre ubriaco mentre lo riporta a casa trascinandolo su una carriola). A cosa si riferisce? Al picchiare il proprio padre? All’uccidere? Al sogno? Alla letteratura? Bè, sinceramente, lo sanno anche i bambini: sicuramente la letteratura – in generale: l’arte ­– non è una cosa giusta, è una cosa insensata. Fare letteratura, effettivamente, equivale a prendere a calci tuo padre.

«Diciamo che hai, giusto per fare un esempio, un colbacco. Ma ciò di cui ti occupi non è vedere come ti sta, decidere in quali occasioni infilartelo, come e perché e quando portarlo, bensì del fatto che tuo padre sparisce sotto un fumigante cielo di guerra, che muore tua madre, che si impicca tuo fratello, che ti amano, ma invece no, non ti amano. Passo. Ti occupi di come sopravvivere, come sopportare, come tollerare, eppure quante altre cose ti verrebbero in mente. Come fa, tra tutto questo ciarpame, a venirti in mente Dio? In fondo è una cosa sorprendente».  («E per dire qualcosa anche a proposito di letteratura»)

Leggendo Hillman che ci dice di fare una metafora dell’Io, onestamente, non ho potuto non pensare a Dio. Dio come metafora dell’Io. E questo lo dice anche Darvasi: in mezzo al «ciarpame» della vita, in questo groviglio inestricabile di dispiaceri ai quali dobbiamo necessariamente sopravvivere – o morire – Dio – l’Io – si manifesta. Con ciò si consuma l’allucinazione.

Da una condizione metaforica, in cui l’Io diventa propriamente onirico, surreale, si può arrivare a «vedere in trasparenza la sua cosiddetta “realtà”» e sconfinare nell’intimità più recondita dell’autore e, di conseguenza, di noi stessi.

«– Dov’è il colbacco? – mi ha chiesto mio padre, spingendo davanti a me un altro bicchierino di vodka.

Mi ha guardato con odio. Questa cosa, il suo odio per me, il fatto che in fondo si dispiacesse della mia esistenza, era una cosa interessante. Non è un tipo come me che lui avrebbe voluto. Non saprei dire che tipo di discendente volesse, ma sicuramente non uno così. Non come me».  («E per dire qualcosa anche a proposito di letteratura»)

Il modo in cui, in questo racconto, Darvasi racconta di sé e del suo rapporto col padre, specialmente in questo frangente, mi ha ricordato intensamente la Lettera al padre di Kafka. La disperazione che provoca quel senso d’inferiorità che può produrre l’«odio» – anche semplicemente supposto, proiettato – di nostro padre verso di noi. Un odio che è inadeguatezza, che è insicurezza, che si manifesta e vive esclusivamente dentro chi lo prova, che non esiste, a volte, se non in un patologico specchiarsi nelle paure altrui. Eppure esiste ed è un sentimento puro, che proviene da un’ammirazione profonda, da un’invidia sconfinata. D’altronde questo è uno degli archetipi di tutto il pensiero occidentale: «l’uccisione dei padri». In Mattina d’inverno con cadavere sono tanti i padri – simbolici o meno – che muoiono e che vengono uccisi. In questo libro, è vero, ci sono un sacco di temi e sotto-temi, c’è il sogno, la politica, la pazzia, la morte, l’attesa e l’azione. Ma, soprattutto, più di ogni altra cosa, ci sono i padri. C’è il padre. C’è Dio. C’è l’Io che si denuda svelando la propria fulgente verità. Vediamo lo scrittore nudo, nel quale ci specchiamo per vederci finalmente, nudi noi stessi.

 

Eppure ancora non sono sicuro, ancora non lo so: Chi diavolo è questo László Darvasi? Qual è il suo segreto maledetto?

Bè, proviamo a rispondere: di sicuro László Darvasi è uno di quegli artisti rari, che con una generosità spontanea, quasi innaturale, sanno mostrare il loro cuore spoglio di carne e sangue, ancora pulsante ma totalmente immateriale. Il suo segreto: darsi completamente al lettore. Succhiarci il sangue dal corpo, fino a quasi morire, per poi tagliarsi le vene e lasciarci bere il suo, direttamente alla fonte, per tornare a vivere – o non-vivere – totalmente cambiati, rinati. Iniziati al culto misterico del Male. László Darvasi è un vampiro. Uno stregone oscuro che, nel silenzio e nel freddo invernale ungherese, bofonchia formule arcane invocando i diavoli e l’apocalisse e spegnendo la luce del sole. Regalandoci, prometeoticamente, la capacità di guardare nel buio mortifero che sta dentro lo specchio, e aldilà della fine...

«Sono tornato a casa. Ho annaffiato le piante. Ho chiuso dentro gli uccelli, ho dato un calcio al pavone. Avevo del vino. Ho bevuto. Ho osservato il giardino, la mia fattoria, ho alzato lo sguardo fino al confine dei terreni, dove gli alberi si slanciano verso l’alto, scricchiolando, danzando, nelle mie orecchie risuonava ancora la musica dei galli che si fottevano tra loro. Più tardi ho provato il colbacco davanti allo specchio. Penso mi stesse bene. Ho pensato, già che ero arrivato fin lì, che forse sarebbe stato bello uccidere. Ma chi, se sono già morti?» («E per dire qualcosa anche a proposito di letteratura»)

 

Silvi e la notte oscura, di Federico Falco

di Federico FalcoEdizioni SurTraduzione di Maria Nicolapp. 170  Euro  16,50

di Federico Falco
Edizioni Sur
Traduzione di Maria Nicola
pp. 170  Euro  16,50

di Marina Bisogno

Silvi è un’adolescente. Sua madre, cattolica, concede l’estrema unzione ai moribondi per conto del parroco. Silvi le fa da assistente, finché in una estate bollente e umida, scopre di non averne più voglia e si dichiara atea. Per la madre è uno smacco insopportabile, per il padre una crisi tipica dell’età, nulla di preoccupante. Tra i richiami del corpo che cambia e prende forma, un innamoramento inaspettato e le prime esperienze sessuali, Silvi si ritrova, palpitante, a guardare il cielo. Silvi è uno dei personaggi che si incontrano nella raccolta di racconti Silvi e la notte oscura (Sur editore, traduzione di Maria Nicola) di Federico Falco, scrittore argentino di racconti e poesie, selezionato dalla rivista Granta come uno dei migliori in lingua spagnola. Falco era già noto ai lettori grazie al lavoro di Caravan edizioni che ha divulgato, qualche anno fa, nel Belpaese il progetto culturale Traviesa, un collettivo che coinvolge autori di Argentina, Cile, Uruguay, Guatemala, Bolivia, Messico, Colombia, Cuba, Perù e Spagna. La raccolta contiene cinque racconti: i paesaggi a volte brulli, altre rigogliosi, dell’America latina fanno da sfondo a storie quotidiane, lente, con al centro uomini e donne alla ricerca del loro approccio alle cose, spesso in rotta col pensiero dominante o emarginati per la loro visione, per il loro modo di stare al mondo. C’è il re delle lepri, un uomo silenzioso e impenetrabile, che vive lontano dalla civiltà, dedicandosi alla caccia, alla contemplazione della natura. Deve amarlo molto la donna che si inerpica sulle colline, in mezzo ai boschi, per andare a trovarlo ed assicurarsi che stia bene. E c’è l’ingegnere Bagiardelli che viene incaricato da un sindaco di realizzare in cima alla collina un cimitero ampio, accogliente, dove poter seppellire il padre. Bagiardelli, che, dapprima crede di aver ricevuto l’incarico più importante della sua carriera, comprende poi i limiti del progetto e non lo porta a termine. Ci sono Mabel e suo padre, scacciati da casa, intimoriti dall’avanzare di motoseghe impegnate nel disboscamento e in nuove costruzioni. E la signora Kim che passa tutto il giorno alla finestra a meravigliarsi per la neve e ad impicciarsi dei vicini, mentre la nostalgia per il marito defunto la indebolisce. Un isolamento non cercato, (a differenza del re delle lepri), non voluto (a differenza di Silvi, in rotta con i dettami familiari e delusa dal ragazzo di cui si è infatuata), ma conseguenza di eventi (la morte del consorte, la partenza dei figli). Ogni protagonista si muove, prende delle decisioni, agisce e si riflette nello sguardo di chi gli ruota intorno, nonostante le distanze emotive, certi gorghi di solitudine in cui sprofonda. Non c’è disperazione. La solitudine trasmigra verso immagini della mente, voci, qualcosa di suggestivo: una sfera dell’immaginario e dell’irrazionale che ci permette di conoscere i personaggi non solo attraverso quello che dicono, ma pure attraverso quello che pensano, quello che sentono. Falco tiene vivida quell’aura di spiritualità e mistero tipica della letteratura dell’America del Sud. Un’America ben presente nelle pagine, con la geografia di luoghi tangibili e ritmi opposti a quelli delle metropoli. Gli eventi si svolgono in paesi, sospesi tra montagne e fiumi. L’autore, infatti, predilige ambientazioni rustiche, dove la vegetazione è minacciata spesso dalla scelleratezza umana e da progetti di urbanizzazione. Non esiste in questi scritti un io che non sfoci in un noi, seppure in termini di denuncia, di disprezzo di abitudini e usanze non condivise. Il narratore, con uno sguardo dolce, talora ironico, entra nella vita dei protagonisti e fa in modo che il lettore vi si affezioni. Personaggi che soffrono, ma non si arrendono. L’ambiente è un co-protagonista dei racconti: Falco è un naturista, attento al crepitare della legna nel bosco, dei rami sotto il peso della neve e al suo cadere lento, al verdeggiare delle alture, oltre le quali si staglia la foresta e la luce filtra a fatica. Le descrizioni si imprimono come pennellate, alternandosi a dialoghi serrati, coinvolgenti, che vivacizzano la lettura. La lingua è pastosa, sebbene febbrile, i toni teatrali, all’occorrenza sarcastici. Lo sguardo del narratore è clemente, impregnato di umanità, quella di chi conosce la gente, i suoi limiti, le sue ossessioni, le sue paure. Nel 2017 Silvi e la notte oscura è stato finalista al Premio Gabriel García Márquez per il racconto. Il lavoro di traduzione e di diffusione di questo libro riafferma il fiuto e la professionalità della casa editrice nel ricercare voci pregevoli della narrativa argentina (e non solo). Federico Falco, Andrés Neuman appartengono ad una generazione di splendidi quarantenni, eredi di Jorge Luis Borges, Silvina Ocampo e Julio Cortázar e che Sur segue da tempo e che i lettori già amano. Questa raccolta di racconti non vi deluderà, parola di Cattedrale.

federico-falco-en-uruguay.jpg

Sprazzi dei miei viaggi insensati in compagnia di Geoff Dyer

Il SaggiatoreTraduzione di Katia Bagnolipp. 211 Euro 20,00

Il Saggiatore
Traduzione di Katia Bagnoli
pp. 211 Euro 20,00

 

Siamo qui per andare altrove

Sprazzi dei miei viaggi insensati in compagnia di Geoff Dyer o l’archetipo del viaggio omerico e lo sguardo bergeriano in Sabbie bianche

di Andrea Cafarella

Fotografie di Ngoc Lan F. Tran

 

sicilie_bianche1.jpg

Siamo qui per annoiarci a morte e poi interrogarci su come sia possibile annoiarsi tanto. Siamo qui ad aspettare all’aereoporto di Hiva Oa nell’umidità che ti inzuppa fino al midollo e sentire in modo definitivo quello che hai già sentito prima, benché solo fuggevolmente: che siamo contenti di aver fatto questo viaggio anche se abbiamo trascorso tanta parte del nostro tempo a rammaricarci di averlo fatto. Siamo qui per accertarci che le cinture siano allacciate, i tavolini rialzati e i sedili nella posizione corretta prima del decollo e dell’atterraggio. Siamo qui per andare altrove.

(«Dove? Che cosa? Dove?»)

 

Non ricordo più se Witold Gombrowicz, Roberto Bolaño o Giorgio Manganelli – ma in questo caso potrebbe essere stato uno chiunque tra loro e gli altri due si sarebbero trovati, senza dubbio, in accordo – scrisse che una buona recensione, se può esisterne una, è quella che parla di come si è personalmente vissuta l’opera; poiché essa, esclusivamente, può parlare per sé di sé, e ogni cosa scritta o detta sull’opera, che ne è al di fuori – ha un’altra voce, esterna – resta un’opinione, uno sguardo: il modo peculiare in cui quel lettore, quella persona, ha viaggiato e ha guardato specificamente all’interno di quell’opera, persino, aggiungerei, in un dato periodo e luogo geografico.
E anch’io sono perfettamente d’accordo.

 

L’Odissea è di tutti e di ognuno

Sto leggendo gli ultimi due racconti di Sabbie bianche (il Saggiatore, 2017) – sì, ho scritto racconti, seppure i testi che compongono il libro siano presentati come reportage narrativi raccolti nel corso degli anni e spesso pubblicati già altrove – e mi trovo nello spazio angusto del mio posto a sedere, sul pullman che dalla stazione di Roma Tiburtina porta una cinquantina di passeggeri – dei centinaia che s’imbarcheranno questa notte in questo viaggio rituale: il ritorno per le vacanze di Natale – senza scali, fermandosi solo una volta nel bel mezzo del nulla dell’autostrada calabrese, fino in Sicilia – nuovamente in terra natia. Quando compio questo rito, reiterato nel tempo, mi viene sempre in mente quello che possiamo considerare «il viaggio dei viaggi» – o meglio: la sua replica, la sua rappresentazione – quello che realizzò Ulisse da Itaca, per tutto il mediterraneo – e oltre – per tornare nuovamente a Itaca. La cosa che attira la mia attenzione, però, questa volta, mentre leggo Sabbie bianche, è che mi rendo improvvisamente conto di ricordare l’Odissea, quasi esclusivamente, nei racconti e con la voce di mio padre. Non è l’Odissea, la mia, ma semmai l’Odissea di Roberto Cafarella. E mi risulta evidente, di colpo, quanto sia importante la Voce di chi racconta e che probabilmente tutti i libri sono l’Odissea vestita da l’Ulisse, da Rayuela, da Horcynus Orca: la stessa identica storia, la nostra storia, semplicemente raccontata e riraccontata da altre voci.
Mentre le parole scorrono sulla pagina, senza significato, sotto i miei occhi, alla luce intermittente che si sparge dal finestrino, il cane di Claudia – cui sarebbe giusto dare un nome, che non ricordo più, quindi userò Jack – ecco, il vecchio Jack si avvicina e si accuccia sulle mie cosce. Penso a come gli animali memorizzino i nostri odori e le nostre presenze grazie al contatto epidermico prolungato e, per questo motivo, tendono a dormire vicino a noi e vicini tra loro. Mi viene in mente che raccontare è un po’ come ricordare. E ricordare, come raccontare, significa vivere due volte. Collego le due cose: toccare per memorizzare e ricordarlo raccontando. Ecco, Geoff Dyer è un narratore unico perché, come Noteboom, Von Humbolt, Goethe – e chiudo con Ulisse, per il momento, questa lista, potenzialmente infinita – è un viaggiatore ossessionato: racconta per ricordare quanto ha toccato, e per riviverlo – e farlo rivivere al lettore – per sempre. Illuminato, attento, consapevole, sensibile, lento. In una parola Dyer è: il viaggiatore. Nella misura in cui raccontare il viaggio è parte integrante – sostantiva – del viaggio stesso.

sicilie_bianche2.jpg
sicilie_bianche3

 

In una puntualissima recensione di Iago Menichetti pubblicata sul blog Altri Animali (che vi consiglio di leggere perché individua – al contrario mio – tutti gli aspetti importanti di questo libro), proprio verso le prime righe viene, giustamente, fatto notare quanto Dyer abbia assimilato, nella sua narrazione, lo sguardo teorizzato da John Berger. Menichetti scrive: «Dyer indossa Berger». Sì, esatto: Dyer indossa Berger e ri-dipinge Gauguin e ri-legge Adorno. Perché, come per Ulisse e per tutti gli altri Viaggiatori – con la V maiuscola –, lo prevede la regola della cerimonia del viaggio, fa parte della liturgia del rituale pellegrino (indicativo in questo senso il titolo dell’ultimo racconto, «Inizio», che esplicitamente rimanda al tornare indietro, appunto, all’inizio): bisogna rendere omaggio agli dei con offerte votive: ex voto letterari per sostituire i doni antichi e guadagnarsi il diritto di passaggio e di un futuro ritorno in patria.

«Quello che mi ha arricchito leggendo Adorno» scrive Knausgård in La morte del padre, «non stava in ciò che leggevo ma nella percezione che ho avuto di me stesso mentre lo leggevo. Ero una persona che leggeva Adorno!». (Pellegrinaggio).


E se Dyer finisce dall’inizio, io inizio dalla fine. Dal momento in cui sto leggendo l’ultima parte del libro, mentre sono di ritorno a casa. Sto leggendo esattamente le righe appena trascritte, e mi sento proprio una persona che legge Dyer.
Tiziana Lo Porto sul «Venerdì» (articolo pubblicato poi anche sul sito di Minima&Moralia) individua Pellegrinaggio, il penultimo racconto della raccolta, come testo pilastro del libro e del suo funzionamento. Potrei essere d’accordo. Ma ciò che interessa a me è che è qui – nascosto tra le pieghe della narrazione stessa, perché inesplicabile ma solamente rappresentabile – il segreto del viaggio omerico, il segreto del viaggio. Del perché affrontare il tema del viaggio sia categorico nell’esercizio del percepirsi. La funzione della catarsi nello specchiamento attraverso la rappresentazione della vita, comunque essa sia sintetizzata ed espressa. Quella sensazione che proviamo, all’interno di un’opera d’arte, di scavare nel profondo di noi stessi per conoscerci e riconoscersi. Il momento in cui ci emozioniamo.
L’arte è solo una delle modalità possibili del viaggio. E il viaggio – intendendo il viaggio fisico: lo spostarsi – è solo una delle misteriose tecniche che possono portare all’illuminazione – come il sogno, l’ebrezza, la meditazione e l’ossessione. Ognuno ha la propria chiave, Dyer scrive e viaggia. Ma soprattutto, potremmo dire: guarda, ascolta e riflette.
Continuando Pellegrinaggio, sulle tracce di Theodor W. Adorno, a un certo punto Dyer ragiona su come sia possibile sentire limpidamente l’aura di Los Angeles – come in negativo – all’interno del testo e tra le parole di Minima Moralia (luogo in cui effettivamente il filosofo lo scrisse), suggerendo addirittura il negativo di una foto di un viale losangelino come immagine di copertina per la nuova edizione. Per elementare associazione geografica, mi viene in mente quando Giorgio Vasta parla di Los Angeles in Absolutely Nothing (Quodlibet Humbolt, 2016), intimando – a se medesimo, evidentemente – l’uso del nome per esteso invece del più intimo L.A., per rispetto: «per il rispetto che dobbiamo a ciò che è lontano». Sì, è questo il punto: Dyer, come Vasta, come Walser, come Berger e Adorno e una schiera di autori e viaggiatori eccezionali, compie il viaggio dentro se stesso, e nel mondo, verso ciò che è ignoto – lontano, appunto – che può trovarsi a Los Angeles, a Tahiti, alla ricerca dei sepolcri dei grandi pensatori di tutti i tempi in giro per il pianeta o in una camera a Zürau. Tutti i viaggiatori ossessionati compiono l’epopea di Ulisse verso i luoghi più lontani, incontrano mostri e divinità e vedono la magia; giacciono con Circe e cavano l’occhio del figlio di un Dio, dovendo poi chiedere il favore di altri dei, per solcare il mare verso l’inconosciuto inconoscibile, e poi continuare a lottare, per tornare in patria, in fine, a casa. Dove Penelope aspetta, tessendo e sfacendo la sua infinita tela.
Oppure sul ponte dondolante di un traghetto, stando a galla sull’abisso; davanti agli occhi due lingue di terra che si parlano, e lo spirito disperso tra Scilla e Cariddi.

«Comincio a pensare che è terribile che la vita passi così in fretta e, quasi contemporaneamente, penso che forse non avrò la pazienza di restare a fare tappezzeria per il resto di quello che l’esistenza, con il suo graduale accumulo di malanni, lesioni e infermità, ha da offrire, per quanto splendido sia andare in bicicletta – questo lo posso ancora fare – sull’esasperante pista ciclabile di Venice nella luce senza età.» («La ballata di Jimmy Garrison»)

 

Lentezza: il ritmo naturale del viaggio

Quando penso al viaggio lo lego sempre all’idea virtuosa della lentezza e di conseguenza – conseguenza del tutto personale – alla barca a vela e alla calma placida che si prova viaggiando per mare, spinti soltanto dall’invisibile movimento dell’aria. Qualche anno fa, davamo prua verso Zacinto e io tenevo aperto tra le mani La saggezza del mare (Iperborea, 2012), il primo libro di Björn Larsson che leggevo in vita mia. Di quel viaggio ricordo i libri di Larsson, soprattutto.  A un certo punto del libro, sbarcando in Irlanda, passeggiando a piedi per i colli brulli, Larsson riflette su come camminare fosse l’unico modo giusto, possibile, per comprendere la relazione tra l’odore imperante di sterco di quelle colline irlandesi e l’immenso lavoro di Samuel Beckett. Che mi sembra un’intuizione molto sottile e visionaria ma soprattutto mi pare importante – specie se scritta da un velista e viaggiatore consapevole come Larsson – come viene espresso il valore essenziale della lentezza nella scelta di camminare a piedi – forzata o meno – piuttosto che con l’ausilio di mezzi più rapidi.
(Ovviamente mi viene da dire Joyce ­– a proposito di irlandesi – e il suo sguardo verticale sul tempo).
All’interno di Sabbie bianche ci manteniamo a un livello di manipolazione dello spazio-tempo più semplice, forse, ma altrettanto attento ed efficace. Camminiamo assieme a Dyer, ci infiliamo in macchina e in aereo come persone normali, individui occidentali del ventunesimo secolo. «E poi, mentre iniziavamo la discesa su Heatrow, accadde qualcosa di straordinario». Il tempo rallenta ed esploriamo un tempo interiore. «L’hostess ritornò e si inginocchiò nel corridoio posando la mano sul mio ginocchio. Mi guardò negli occhi abbattuti, gli occhi che non avevano visto l’aurora boreale, e ripeté che dovevo stare proprio scomodo, che le dispiaceva molto». E finalmente si squarcia, lo spazio non esiste più e ci caliamo, legati per la vita a una fune spessa, nel regno dell’ignoto: «Senza staccare gli occhi dai miei, disse che un giorno avrei sicuramente avuto il posto che meritavo e, ascoltandola, le credetti». (Notte boreale) .
Ed è dal momento che abbiamo rallentato il tempo del nostro sguardo e che smettiamo di correre inconsapevolmente, che possiamo riscoprire il meraviglioso mondo dell’immaginario, che prospera dentro di noi.
E lo sguardo di Dyer è un’ode alla lentezza e alla riflessione, allo stesso modo di come le intuizioni di Adorno sono un’invettiva contro la violenza della velocità. D’altronde, i viaggiatori parlano tutti lo stesso linguaggio, anche se con diverse voci.

«Il fatto che il corpo sia abituato a camminare come alla sua andatura normale risale al buon tempo antico. Era il modo borghese di cambiare di posto: demitologizzazione fisica, per così dire, libera dalla costrizione dell’incedere ieratico, del pellegrinaggio nomade, della fuga affannosa. La dignità umana insisteva sul diritto di camminare, un ritmo che non viene estorto al corpo dal comando o dal terrore. [...] Ma allorché si grida a qualcuno «corri!» [...] si rende percettibile la violenza arcaica che, per tutto il resto del tempo, guida silenziosamente ogni passo.»
Theodor W. Adorno, Minima moralia, «Chi va piano va sano e va lontano»

 

Guardando alle cose minime

Richiamo alla mia memoria i miei primi viaggi, da «solo», senza l’ausilio organizzativo annichilente della balia genitoriale.
Ricordo per esempio di quando eravamo a Tallinn, la perla del mar Baltico. Partiti per l’ignoto nord Europa – beata ciurmaglia di sei beceri diciottenni – non sapevamo cosa aspettarci e non eravamo assolutamente preparati. Non eravamo pronti. Le nostre aspettative, infatti, s’infransero subito: uno di noi, svegliatosi presto, si era messo a camminare la città e, tornato alla bettola dove ancora dormivamo tutti, ci aveva fatto capire che eravamo capitati, forse, nella città più piccola del continente. Era il 16 Agosto e il termometro segnava 12°C circa. Noi eravamo partiti da Messina, dove ne faceva ventotto di più. All’ombra. Soffrivamo quel freddo come fosse inverno, in mezzo a bermuda, canottiere e occhiali da sole. Ci sentivamo scoraggiati e persi, arrabbiati, nervosi.
Ho pensato a Tallinn quando ho letto (nel racconto Notte boreale) di Longyearbyen, una minuscola cittadina nelle isole Svalbard, il posto più a nord d’Europa, e del viaggio che Dyer e la moglie (che nel racconto nomina Jessica) compiono alla ricerca dell’aurora boreale. Viaggio che non rispetta le attese della coppia. Non riescono a vedere l’aurora boreale e patiscono il freddo e la noia e il buio. Eppure la situazione, ridicola ma snervante, crea un avvicinamento velato, sottile, speciale, tra i due coniugi. Durante il viaggio, a prescindere dalla pericolosità o dal rischio effettivo che si corre, è possibile, come all’interno o di fronte a un opera d’arte, ritrovarsi al cospetto del pericolo in tutto il suo splendore perturbante e quindi avvertire di nuovo la vita, per qualche attimo,  rischiando la sofferenza, il freddo e la speranza tradita di vedere l’aurora, o la minaccia di passare cinque o sei giorni, a passeggiare le stesse quattro, cinque strade di una città inutile e vuota, assediati dalla noia, nel fatidico «viaggio di maturità», ridondante di aspettative adolescenziali.

Sono queste piccole insidie che stuzzicano la coscienza del viaggiatore e ci permettono di sentire il sangue ribollire sotto la patina della nostra pelle, di guardare a chi abbiamo accanto con occhi nuovi e animo ripulito dalla routine prostrante di ogni giorno. Come in quel viaggio a Tallinn. Delusi dalla piccola capitale estone speravamo di trovare, dall’altra parte del golfo di Finlandia, una magnifica Helsinki, salvo poi scoprire un ammasso di palazzoni di vetro e centri commerciali tutti uguali. È tra quelle graticole di negozi dai nomi sconosciuti che abbiamo passato la seconda parte – anche più deludente della prima – di quel viaggio. Eppure quell’avventura, all’apparenza sconfortante, proprio grazie allo scoramento che sembrava suggerire la situazione, creò una necessità di avvicinamento vitale e fu l’inizio di qualcosa che mi porto dietro tutt’oggi.

«È una fresca mattinata e io mi metto in marcia dalla grande città e dal grande lago famoso verso il piccolo lago quasi sconosciuto». (Robert Walser, «Il Greifensee», in Storie, Adelphi, 1982) Anche l’autore dell’emblematico e celeberrimo racconto «La passeggiata» era, come risulterebbe logico, un grande camminatore e un viaggiatore senza pari dell’animo umano, e un ossessionato dal linguaggio e dalle sue capacità catartiche. In comune con Dyer, con Chatwin e con gli altri esploratori dell’ignoto, ha l’attenzione per le cose piccole, per le cose nascoste, irraggiungibili, sconosciute. Perché? Il perché lo svela Dante, qualche centinaio d’anni orsono, quando nel rinomato ventiseiesimo canto dell’ Inferno fa dire a Ulisse:

«"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia


d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.»

Ed è la «picciola vigilia» dell’esperienziare il «rimanente» a ispirare a Dante, per bocca dell’eroe greco, l’arcinota riflessione sulle virtù della conoscenza. Anche Ulisse, nel suo epico ultimo viaggio, è consapevole della piccolezza della sua impresa e ne riconosce il valore proprio nella sua preziosa e sconfinata minutezza.
In Dyer è possibile soffermarsi per righe intere su di un’espressione facciale o su di un ragionamento, un dettaglio insignificante che racchiude il significato intero e profondo del racconto. Il misterioso paradosso della potenza espressiva della contraddizione, caratteristica umana per eccellenza. E così stiamo fermi a contemplare i pali di The lightning Field, l’opera mastodontica di Walter De Maria nel New Mexico, con gli occhi ingenui, vergini, dell’uomo preistorico; ci ritroviamo immersi nel lavoro di Robert Smithnson sulle coste dello Utah: lo Spiral Jetty (un enorme spirale di terra e fango che si stende dalla riva verso l’oceano) con la sensazione di guardare al nulla assoluto, lo spazio incontaminato, l’altrove selvaggio.
Il mondo interiore di Geoff Dyer è una lente deformante che focalizza l’attenzione sulla bellezza di margine, improba, inutile. Quella bellezza stravolgente del minuscolo, delle cose che sono quasi invisibili.

 

Il piacere di passeggiare o il piacere di raccontare una storia

«Quando uscimmo di nuovo, dopo colazione, i pali erano meno evidenti, sul punto di diventare quasi invisibili, come al nostro arrivo. Quella fu la prima rivelazione: che la griglia, pur completamente statica, si dispiegava nel tempo oltre che nello spazio. C’era una storia che veniva narrata.»(«Spazio nel tempo»)

Dyer ricorda per raccontare e racconta per ricordare, ma non è un puro atto mnemonico. Dyer cerca la storia, insegue, caccia la storia. Prova piacere nel raccontare una bella storia avvincente. Sabbie bianche, il racconto che dà il titolo alla raccolta, per esempio, sembra volerci parlare esplicitamente di un luogo: White Sands (un deserto bianco situato nel New Mexico) appunto. Ebbene, invece, si tratta di una lezione di narratologia, un racconto avvincente e ben raccontato. La storia è semplice: i due, marito e moglie, danno un passaggio a un autostoppista e dopo qualche miglio tutti e tre vedono un cartello in cui si avverte della presenza di penitenziari in zona e si sconsiglia di dare passaggi agli sconosciuti. Si crea una situazione di tensione e i due coniugi scappano, lasciando lo sconosciuto a una stazione di servizio quando si allontana per andare in bagno durante una sosta. White Sands, descritto magnificamente nella prima pagina, è semplicemente il posto da cui vengono, andando a El Paso.
L’aneddoto è verosimile ma insignificante, superfluo, divaga dal tema dichiarato del testo. Tutto ciò non ha importanza. Vogliamo sapere cosa succederà. E d’altronde Dyer si diverte a raccontarcelo. Si diverte ad alzare il tiro, il ritmo, la tensione della narrazione. Gode a raccontare bene una piccola storia straordinaria. Poi la scena sfuma, e ci lascia qualche riflessione nostra, senza giudizi.
«Da questo si può trarre una lezione: nella profondità della notte più buia e nell’oscurità del freddo più intenso, il bisogno di ridere dell’uomo non si estinguerà mai del tutto». (Notte boreale) La fiammella vitale, nella scrittura di Dyer, divampa nella passione con cui ci racconta le cose, nell’ironia tragicomica e cinica – inglese – che ci fa ridacchiare più che ridere. Amarezza gioiosa la chiamerebbe qualcuno. E quel dolceamaro da potenza alle cose minime, le fa risaltare, senza il bisogno di grandi archi e bastioni imponenti o giochi di luce barocchi; come una fontanella nascosta in un vicolo, che brilla e disseta – ed è proprio lì l’esperienza, il viaggio, la «vigilia» di fronte al «rimanente».

 

L’inutile cammino degli ossessionati

Un’affascinante caratteristica umana, dice spesso un caro amico, è quella capacità che abbiamo di raggiungere gradini superiori della conoscenza e della coscienza, grazie alla ripetizione sistematica di uno stesso errore. Pur con la consapevolezza del fallimento. La perseveranza dell’inutile.
A novembre sono andato a visitare un amico, a Parigi. Conosco la città abbastanza bene. Ci ho vissuto per un annetto e ci sono tornato più volte. Perciò non avevo alcuna voglia di esplorazioni turistiche e men che meno di serate mondane. Difatti non avevo fatto nessun programma, a eccezione della Ruta Cortázar – un tour immaginario che ripercorre i luoghi topici di Julio Cortázar nella capitale francese – di cui avevo segnato le tappe sul taccuino. Sapevo che avrei incontrato solo targhe e luoghi ormai trasformati, deformati e modernizzati, che mi avrebbero, con tutta probabilità, deluso e fatto perdere la giornata. Inoltre avevo la febbre alta e sembravo uno spettro, sperso per i quai che si diramano dalla Senna. Sarei dovuto restare a casa. Eppure sentivo di doverlo fare. «Quando non sarò più capace di restare deluso l’avventura sarà finita: tanto vale essere morti» (Dove? Che cosa? Dove?). Con questo pensiero in tasca attraversavo la città, trascinandomi in uno sforzo totalmente inutile, alla ricerca di placche di metallo apposte fuori dai palazzi, nel freddo parigino. Mi sentivo un cretino, insomma. Un cretino e uno sconsiderato. Eppure continuai a camminare seguendo la sua scia.
Quando Dyer ci accompagna a visitare le Watts Tower – la colossale opera dell’ingenuità di Simon Rodia, che per più di trent’anni s’impegna anima e corpo nella costruzione di queste torri ferrose, piene di simboli inconsapevoli, parte di un faticosissimo lavoro all’apparenza insensato – di questo «artista» dell’ossessione scrive: «le sue fatiche erano, come quelle di Camus, l’opposto del futile, e rendevano futile e irrilevante la questione della felicità. (La parola «felice» fa forse parte del vocabolario delle persone ossessionate?) (La ballata di Jimmy Garrison). Le persone ossessionate non possono fuggire l’ossessione, se la sentono sempre addosso come una vocazione, un gesto che dev’essere compiuto. E quel gesto non è futile o insensato, tutto il contrario. Eppure non ha a che fare con la felicità, ma esattamente: tutto il contrario. E così doveva sentirsi Simon Rodia creando la sua opera: spossato da un gesto indispensabile senza senso. Così credo di essermi sentito io, sulle tracce del fantasma di Julio, arrivato a Place Dauphine, la famosa piazza di Nadja, dove sicuramente sarà passata anche la Maga, cercando di perdersi, anche lei, per ritrovarsi; così si sarà sentito Geoff Dyer in questi suoi viaggi inutili; così si sentì Ulisse davanti alle colonne d’Ercole: perché questi – e, tramite loro, tutti noi, viaggiatori ossessionati – sono gli uomini che hanno cambiato e che cambieranno il mondo – e se non il mondo intero, sicuramente il loro intero mondo – riscoprendo loro stessi attraverso insensate contraddizioni, e mostrandosi davvero a noi, come magici specchi d’acqua – la carne nuda del costato allo scoperto, in bella vista.
Roberto Calasso – che Dyer nomina a proposito di Adorno e parlando di «autori fiori all’occhiello», che sanno tutto e hanno letto tutto – ha scritto un libro splendido, che s’intitola Il Cacciatore Celeste (Adelphi, 2016), in cui paragona la concezione dell’opera alla «caccia», come atto ancestrale leggendario che si riverbera nella Storia.

«Si scrive un libro quando si è precisato qualcosa che si deve scoprire. Non si sa che cos'è né dov'è, ma si sa che si deve trovarlo. Allora comincia la caccia. Si comincia a scrivere.»
R. Calasso, Il cacciatore celeste (Adelphi, 2016)

Ed effettivamente, il cacciatore – il viaggiatore – come l’artista e il pensatore visionario, esattamente come se stesse cacciando, si mette all’opera con i sensi all’erta, verso l’apparente nulla. Grazie agli indizi, quasi invisibili, che avverte nel buio e nel silenzio, scova la preda e aspetta il momento giusto per palesarsi e attaccare. Non sa cosa sta cacciando, si fida dei propri sensi e segue l’istinto predatorio. Esattamente ciò che fa il viaggiatore, esattamente quello che può provocare la vocazione alla scrittura e, più in generale, all’arte: uno sguardo e un orecchio sempre, estremamente e totalmente, attenti all’oscurità e al silenzio assoluto, in attesa del rumore della preda, del suono della parola.

sicilie_bianche4.jpg
sicilie_bianche5.jpg

 

Anche Ulisse deve morire
Le tre parche e il loro beckettiano addio

«Nel periodo immediatamente successivo all’ictus, avevo spesso pensato alla battuta nel film di Tarkowskij Solaris: non sappiamo mai quando moriremo, e per questo siamo, in ogni momento, immortali. [...] Si sta preparando un tramonto sul Pacifico. L’acqua luccica di un colore turchese, il cielo sta diventando di un rosa pazzesco, le luci della ruota panoramica di Santa Monica cominciano a lampeggiare e girare nel crepuscolo. La vita è così interessante che mi piacerebbe restare qui per sempre, solo per vedere cosa succede, come va a finire.» («Inizio»)

Torniamo all’inizio perché siamo alla fine.
Qualche settimana prima di partire per tornare in Sicilia sono stato a Pisa. A Pisa ho tre amiche. Tutt’e tre si occupano di linguaggio: letteratura, linguistica. Tutt’e tre le ho viste piangere e urlare per un amore finito, mai finito, esploso. Tutt’e tre sono melodrammatiche e davvero molto sensibili. Tutt’e tre hanno quel fascino classico, greco, nel senso più spirituale. Tutt’e tre in qualche modo si somigliano.
Durante il tragitto che mi ha portato in treno da Roma a Pisa ho iniziato a fantasticare sull’idea che stessi andando, mitologicamente, a dialogare con le tre parche: una loro versione molto personale, estremamente riadattata: mia. Sentivo che quel viaggio era parte del rituale, una tappa della liturgia del più grande Viaggio, l’omaggio all’oltretomba, esattamente come Ulisse, disceso nell’Ade per interrogare Tiresia.
La mia fantasticheria veniva alimentata e confermata dalle coincidenze che seguivano i miei incontri, i miei colloqui con le parche. Congruenze invisibili, come il numero 77 apparso su di un biglietto per assistere a un adattamento di Aspettando Godot, che andava in scena «casualmente», in un piccolo teatro che tutt’e tre le mie amiche, le Parche, frequentano attivamente.
Questa e altre «piccole vigilie del rimanente», di ciò che sta «di retro al sol, del mondo sanza gente» potrebbero sembrare nulla all’occhio e all’orecchio disattento. Ma io avevo i sensi all’erta, e anche se, dall’esterno, potrebbero essere definite come autosuggestioni senza ulteriori significati, hanno generato dentro di me un processo di metamorfosi nodale, necessario, che ha cambiato profondamente, non tanto quello che stavo facendo in quel frangente del mio vissuto, quanto come lo stavo facendo. Hanno rappresentato, per me, un’esperienza catartica nel cammino senza fine che porta all’incontro con noi stessi.
A volte tornare a Itaca, in effetti, significa semplicemente ritrovarsi. Nel mezzo del cammin di nostra vita, insomma. Voltarsi e guardare il tramonto sul Pacifico e distrarsi pensando a «malanni, lesioni e infermità» con un sorriso ironico, un’amarezza gioiosa: la misteriosa nostalgia primigenia che ci fa sentire il rumore perenne di un ricordo, in sottofondo. Quando leggiamo Dyer questo sottofondo nostalgico – il vibrare del nostro spirito – è un suono costante, un richiamo dolce verso casa.
La raccolta inizia con un brano (segnalato dal corsivo, come tutti i testi che introducono ogni racconto) che descrive quello che Dyer chiama «il primo luogo significativo del mio paesaggio personale» e il libro termina con un breve testo – sempre in corsivo – che parla delle statue di Luxor, dove «le devastazioni del tempo vengono colte – e ribaltate – in un istante», dove «il tempo è vivo, in permanenza». (Precede il testo la foto, a tutta pagina, di una delle statue – le immagini hanno un ruolo peculiare, espressivo e sostanziale, all’interno di Sabbie bianche e della sua struttura, creando significati ulteriori e dando un senso più profondo dell’insieme e nell’insieme: immagine e testo, con un’aura condivisa in una comunione significativa).
Dyer, in conclusione, in questo libro e in questi viaggi ­– come in tutta la sua opera e come tutti i veri artisti e i viaggiatori – è alla ricerca di se stesso e del suo ritorno a casa. Si tratta di una ricerca che non ha fine e non ha un fine concreto e visibile, pur con le sue epifanie e i suoi momenti d’incontro. Un viaggio alla Notturno indiano di Tabucchi – altro straordinario viaggiatore. Un viaggio che non ha senso ma che deve essere compiuto, che viene dalle radici e va verso il futuro e la memoria di ognuno di noi. E ricordandolo, raccontandolo, il viaggiatore, lo dona catarticamente a chi sa ascoltarlo, lasciandolo rivivere nella propria esperienza.
Ciò che accade a Geoff Dyer in questi viaggi – e può succedere leggendo Sabbie bianche – è quello che credo di aver provato, durante i miei colloqui, nel regno delle Parche.
La contemplazione del silenzio, nella solitaria notte monumentale, davanti alla torre di Pisa è stata per me, nel mio piccolo mondo: «l’illuminazione dell’ossessionato», e in quel momento – più che davanti al Colosseo, a Notre Dame, all’Empire State Building o alle esperienze, considerate «cardinali», della mia vita – avevo di fronte me stesso ed ero nuovamente a Itaca. Già stringevo Penelope, cingendola di spalle in un abbraccio famigliare, affacciati alla ringhiera, sul bordo dell’abisso, sulle acque scure dello Stretto, con i nostri quattro occhi destinati all’accogliente volto divino della Madonna della lettera – mediterranea Statua della libertà – erta sulla falce di Messina, a salutare tutti i siciliani figli dell’Isola, viaggiatori instancabili, migranti di ogni epoca, di ritorno da lei.

«E infine, senza una parola, quando il desiderio di andarcene era quasi completamente estinto, ci avviammo verso l’automobile. L’aria era piena di insetti. Per poco non calpestai un lungo serpente grigio e indifferente. Il lago piatto e solitario si allungava in lontananza». («Tempo nello spazio»).

sicilie_bianche6.jpg
 

Le formiche filosofiche di Lafcadio Hearn

Exorma edizioniA cura di Alessandra Contentipp. 168  Euro 14,50

Exorma edizioni
A cura di Alessandra Contenti
pp. 168  Euro 14,50

 

di Giuliana Riccio

È difficile entrare in una libreria giapponese e non imbattersi nel nome di Lafcadio Hearn. Le sue raccolte di storie di spettri e cose strane, offrono agli amanti delle tradizioni popolari, la possibilità di sviscerare il mistico mondo della cultura giapponese e di pacificare quel senso di inadeguatezza che il visitatore occidentale prova e che comunemente risolve con l’utilizzo della parola “contraddizione”.                                 
La parola Giappone è spesso, se non sempre, accompagnata da uno strascico di immagini volte a sottolineare le dicotomie che lo contraddistinguono: templi e grattacieli, kimoni e cellulari, materialismo  e spiritualità. In realtà trovando il giusto modo di familiarizzare con una realtà così profondamente inversa rispetto alla nostra, ci si potrebbe facilmente accoccolare al suo interno per ascoltarne l’armonia.                         
Leggere i libri di Lafcadio Hearn, per esempio, potrebbe essere un giusto modo.  

Hearn, trapiantatosi a quarant’anni in Giappone, dedicò la sua vocazione letteraria di fine ‘800, alla raccolta di storie, immagini, spettri, oggetti, modi di essere dell’epoca Meiji e lo fece con un  profondo approccio antropologico, privo di scetticismo e intriso di rispetto, sostenuto, in questo, dalla sua natura bifronte: era infatti di padre irlandese e madre greca e quando ci si arrischia a parlare di spiriti e spiritualità panteistica, una cosa così, non può che essere d’aiuto.
Nel libro Le farfalle danzano e le formiche si ingegnano, proposto da Exòrma all’interno della collana Scritti traversi, l’occhio di Hearn si sofferma sul mondo degli insetti, un tema molto caro alla cultura nipponica, assumendo il ruolo di un microscopio speciale in grado di superare l’aspetto entomologico della questione e di mettere in luce la natura simbolica ed epicamente essenziale di questi esseri.

(…) Ma il mondo degli insetti è nel suo insieme, tutto sommato, un mondo di folletti e di fate: di creature con organi dei quali non conosciamo la funzione e sensi di cui non riusciamo a immaginare la natura – creature con miriadi di occhi, o con gli occhi sulla schiena, o che si muovono in cima a proboscidi e corna – creature con le orecchie sulle gambe o sulla pancia, o col cervello nello stomaco! Se capita che qualcuna abbia la voce fuori del corpo, anziché dentro, è un fatto che non dovrebbe sorprendere.

I saggi che Hearn dedicò a questo argomento, e qui raccolti, costruiscono il romanzo degli insetti nell’immaginario collettivo giapponese attraverso numerosissimi frame narrativi  in grado di tessere una  trama nitida e precisa in cui l’alternanza di prosa e poesia, in special modo di haiku, consente al lettore di fissare, cristallizzare l’essenza nostalgica che la caducità, la fragilità, ma anche la straordinaria potenza, come nel caso delle formiche, la figura dell’insetto, porta dentro di sé. Il battito d’ali di una farfalla ci ricorda, con la sua leggerezza, tutta la complessità dello scorrere del tempo, delle mutazioni e trasformazioni insite nell’idea stessa di vita. La farfalla è lo spirito di una persona defunta, il presagio di una sciagura, ma anche  la speranza di una vita lieta e serena. La farfalla è la leggerezza irridente della gioventù, della primavera destinata, tuttavia, a svanire nell’inverno :

“E però la stagione della fioritura, per quanto opulenta e mirabile, è assai breve; presto quei fiori appassiranno e cadranno. Nella calura estiva resteranno solo le foglie, e subito dopo, col vento e le piogge d’autunno, cadranno a terra; un ben triste destino, il vostro; recita un proverbio: ‘Ho cercato riparo sotto un albero, ma la pioggia mi bagna ancora’”.

Splendida la dissertazione dedicata alle formiche intrisa di osservazioni personali dell’autore e di pillole di scienza e di filosofia.  Lo sguardo di Hearn si miniaturizza per  farci osservare da vicino il poco noto mondo delle formiche, della loro società organizzata in cui i principi del comunismo, utopici per l’umanità che resta vincolata all’egoismo individuale, si realizzano perfettamente in un universo composito governato dalla forza operaia delle femmine.

“Dunque, cerchiamo di immaginare un mondo pieno di individui che lavorano incessantemente e alacremente – nel quale tutti sembrerebbero essere femmine. Nessuna può essere persuasa, o costretta, a mangiare una briciola di cibo in più di quanto non le occorra per mantenersi in forze; e nessuna di esse dorme un secondo di più di quanto le sia necessario per mantenere un sistema nervoso intatto e funzionante. Tutte sono costruite in modo tale che la minima indulgenza nel superfluo porterebbe a un disastro totale delle loro funzioni.”

In Lucciole le fascinazioni culturali diventano più esplicite. Veniamo introdotti in consuetudini specifiche, come quelle dei trafficanti d’insetti di Tokyo:

(…) Subito dopo il tramonto, il cacciatore di lucciole esce con una lunga canna di bambù in spalla, e una lunga rete scura avvolta, a mo’ di cintura, attorno ai fianchi. Una volta arrivato in un luogo boscoso, frequentato dalle lucciole – solitamente un punto dove crescono i salici, sulla riva di un fiume, o di un lago – si ferma e comincia a osservare gli alberi. Appena questi cominciano a luccicare in maniera soddisfacente, prepara le reti, si avvicina all’albero più luminoso e ne scuote i rami con la canna più lunga. Le lucciole, colte di sorpresa, non volano via immediatamente, come farebbero insetti più dinamici nelle stesse circostanze, ma invece, come gli scarabei, si lasciano cadere al suolo, dove la loro luce – come sempre più vivida al momento della paura o del dolore – le rende ben visibili (…) Così agisce il cercatore di lucciole fino alle due circa del mattino  – l’antica ora giapponese dei fantasmi in cui gli insetti cominciano ad abbandonare gli alberi per cercare il suolo rugiadoso.
Si dice che nascondano la coda, per restare invisibili. (…)

Vediamo  gruppi di bambini correre per le campagne estive, alla ricerca di questi insetti. Riusciamo persino ad immaginare il suono dei loro zoccoli nel silenzio delle notti senza luna e l’eccitamento di questa caccia ai fantasmi unica nel suo genere.

“Quella che appare come una lucciola, infatti, potrebbe essere uno spirito maligno, o un fuoco magico, acceso per attirare i viandanti. E perfino le lucciole vere non sono sempre affidabili – la stranezza delle loro parentele si può dedurre dal loro amore per i salici. Altri alberi hanno il proprio spirito particolare, buono o cattivo, amadriade o folletto; ma il salice è in special modo l’albero dei morti – quello preferito dai fantasmi delle persone. Qualsiasi lucciola potrebbe essere un fantasma – chi può dirlo?”

Anche nelle successive sezioni dedicate alle libellule, alle cicale e agli altri insetti musicali, la scrittura procede così, per incanti e precisazioni.
Quelle che potrebbero sembrare solo descrizioni di  costumi, di usanze folcloristiche diventano dei veri e propri racconti intrisi di immagini, fuochi fatui non solo suggestivi, ma in grado, di per sé, di sorreggere la volontà narrante dell’autore. Lafcadio Hearn, oggi, ci ricorda che i tempi della netta divisione di generi, le barriere tra prose saggistiche e prose narrative, possono considerarsi superate, laddove la forza espressiva dell’autore è impegnata a garantire una successione di fatti che di per sé costruisce un epico castello emotivo, sensoriale, sottilmente dialogante con quell’insita sete di storie che è presente in ciascun lettore.

Hearn.png

Mio padre la rivoluzione, di Davide Orecchio

Edizioni Minimum faxDi Davide Orecchiopp.313  Euro 18 

Edizioni Minimum fax
Di Davide Orecchio
pp.313  Euro 18

 

di Alfredo Zucchi

 

What if – Mio padre la rivoluzione

Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio (Minimum Fax, 2017) è un libro denso e stratificato. Il filo che tiene insieme le 12 prose che lo compongono è la rivoluzione russa: la sua memoria, l’analisi delle sue contraddizioni, i suoi finali alternativi.
Per affrontare un tema tanto complesso l’autore mescola forme, generi e modelli: la storiografia, il memoir e l’ucronia (what if: e se Trockij non fosse stato ucciso in Messico nel 1940?), le attribuzioni ambigue e le interpolazione borgesiane. Per tenere insieme una tale moltitudine di elementi, Orecchio fa una scelta precisa: è lo stile, sarà lo stile a tenere le cose insieme. Si tratta di una prosa poetica estremamente elaborata, che permette all’autore di saltare tra la miriade di riferimenti e livelli temporali.

“Entra l’anno cinquantasei del secolo d’oro, assomiglia a suo padre che fu il diciassette ed era l’androceo ed era il gineceo quando per gemmazione ebbe il tempo di dargli la vita;
avanti a che morisse troppo giovane, quel garofano – l’anno diciassette – partorì un biancospino: il cinquantasei.
Tra le rusalche infuriate nella tempesta petrosa di un mare di ferro e di coke già i bolscevichi istoriavano i fossili finché il garofano cadde e, raccolto da terra, i bugiardi gli ingenui i sofisti i fanatici gli utopisti lo traslitterarono in mummia e mentre il canto funebre si mascherava a leggenda quelli dissero Noi siamo i guardiani del diciassette,
noi siamo le guardie della rivoluzione.
Prima dell’acido fenico, dell’imbalsamatura, la rivoluzione ebbe la forza di sorgere, promettere, vendicare, uccidere e dare al mondo tra i tanti l’anno cinquantasei simile a un uomo sui quarant’anni, già successivo alla linea d’ombra ma senile per nulla, anzi vigoroso e coi dubbi risolti, con la forza e la voglia di fare, con una qualche sincerità tra gli zigomi alti e gli occhi più grandi, non interrotta dal battere di ciglia timide, non ridotta da fessure socchiuse delle palpebre, l’anno cinquantasei come un uomo che esclami trasparenza e lealtà persino nel pallore orientale dell’epidermide, nella peluria chiara orientale che non camuffa il suo volto rasato, perspicuo pure nello squarcio piccolo,
non minatorio che separa il labbro di sopra da quello di sotto
tra i quali si formano adesso le parole forse, mai più, d’ora in poi.”  
(pp. 8-9)

Ad accompagnare la prosa poetica Orecchio dispone un fitto apparato di note. Qui si manifesta il primo forte contrasto: se Borges e Bolaño hanno fatto delle false attribuzioni un’arte dell’enigma, l’autore di Mio padre la rivoluzione invece, alla fine di ogni capitolo, ci dice quale testo ha citato, interpolato o inventato. Nel caso più controverso (la biografia di Iosif Adolf Vissarionovic, in cui le vicende di Stalin e Hitler sono fuse insieme), ci dice persino come va letto questo “esperimento letterario sulle analogie” :

“Ma questo non nega le differenze tra la personalità di Stalin e quella di Hitler (sarebbe banale e stupido farlo), e le diversità tra stalinismo e nazismo. Gli storici ancora litigano sul concetto di totalitarismo, che può essere rigido come i regimi che vuole rappresentare, col rischio di renderli troppo uguali (nazismo, fascismo, stalinismo)
e di perdere le singolarità che a volte, o spesso, sono la storia.”  
(p. 133)

L’impressione è che, invece di usare lo stratagemma delle false attribuzioni, il libro ne sia usato. Il carattere metatestuale di Mio padre la rivoluzione sembra costringere la voce in una dimensione di costante reverenza rispetto alla fonte che di volta in volta è interpolata. Le prose meno riuscite, in questo senso, sono “Un poeta sul Volga” e “Zimmer Man”.

Al contrario la voce esplode in tutta la sua potenza (una potenza delicata) e raffinatezza quando la fonte è lontana – quando non c’è, o non si sente: è il caso dei capitoli “Bambini raccontano”, o di “Lettera ai cittadini sovietici nell’anniversario della rivoluzione”, in cui Orecchio tira le fila del dispositivo ucronico, generando una prospettiva diversa e parallela sul senso della rivoluzione russa e sulla Storia stessa.

“Entra il sette novembre dell’ottantasei – quell’anno fu l’ultimo dente di cane del secolo d’oro, col suo fiore dal capo chino, con le sue foglie macchiate, e il secolo d’oro già si ossidava e contaminava, e prendeva un colore tra la ruggine e il marcio al quale diedero il nome di Cernobyl – e c’è un balcone grigio qui nel paese a pochi chilometri da Cernobyl, e c’è una neve bianca, ma forse non è una neve, e c’è un completo d’arredo soggiorno, quattro sedie imbottite di piuma o velluto, gli schienali divelti, il tavolo stracciato per terra nelle assi, nelle gambe, nel pianale, per terra anche vetro, sostanze che fanno pensare a grafite e plexiglas – un aereo ha bombardato un cesto da pallacanestro?,
sono forti a basket gli ucraini? –
Il parapetto di cemento è già un orfano, dal parapetto si sporge un bambino – ed è già un orfano –, indossa una casacca beige militare, stivali di cuoio, un cappello con la visiera, si solleva sulle punte dei piedi, è poco più alto di un metro, scruta grandi palazzi organizzati come una torta, traforati da finestre nere, disabitati, s’accorge di alberi magri e impercettibili come i graffi su una pellicola vecchia o sull’iride, o su un paio di occhiali usati da anni,
il cielo è bianco e grigio come dopo la vita, come dopo la morte.
Siete d’accordo se ci avviciniamo al bambino?, perché lui non si muove, non si volterà mai, allora lo raggiungiamo e lui ci guarda con affetto oppure senza il minimo affetto, non riusciamo a capire, e Da dove vieni?, quanti anni hai?, lo sai che qui è pericoloso?, c’è stato un incidente alla centrale, tu non dovresti essere qui, ma cosa sono quei baffi grandi?, e le tue guance rovinate?, hai avuto il vaiolo?, tu sei un bambino o che cosa?
Vengo spesso a passeggiare quaggiù, amo gli alberi magri e questa neve che forse non è neve – ci risponde il bambino dai baffi grandi, con una voce meccanica –, conoscete il sarcofago del reattore numero quattro?, io abito lì, nella parete ovest,
è un luogo comodo e caldo, ne esco solo per passeggiare quaggiù.
Sapete, la radioattività mi riscalda, laggiù s’è formata una lava stalagmitica, laggiù amo il vapore e le turbine, e il generatore diesel, e li mantengo e li curo, laggiù amo lo zirconio e il tellurio, e il reattore e il suo nocciolo,
e le barre e le radiazioni, e tutti i detriti, ma non amo l’uomo.”
(pp. 238-239)

In maniera analoga, l’intelligenza del libro viene fuori quando la voce si fa del tutto da parte. È il caso del capitolo “Cast”, in cui Orecchio lascia parlare le fonti. “Cast” mostra non solo al lettore la mole delle ricerche svolte dall’autore per pensare e comporre il libro, ma anche un percorso dialettico fatto di contraddizioni, superamenti, equivoci, conflitti essenziali, accidenti, rimorsi e possibili abortiti: tale è la Storia e questo capitolo, disposto al centro del libro, ne è il cuore pulsante.

“«Soltanto nella società comunista, quando la resistenza dei capitalisti è definitivamente spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e non esistono più classi (non v’è cioè più distinzione fra i membri della società secondo i loro rapporti coi mezzi sociali di produzione), soltanto allora “lo Stato cessa di esistere e diventa possibile parlare di libertà”».
Lenin (usando Engels), Stato e rivoluzione (1917), Edizioni Rinascita, Roma 1954, p. 99

«Persino i rivoluzionari – che dovremmo ritenere fermamente e anzi inesorabilmente ancorati a una tradizione che difficilmente potrebbe esprimersi, e ancor meno avere un senso, senza la nozione di libertà – sarebbero pronti a degradare la libertà al rango di un pregiudizio piccolo-borghese piuttosto che ammettere che lo scopo della rivoluzione era, ed è sempre stato, la libertà. Tuttavia [...] si resta sorpresi nel vedere come la parola stessa di libertà abbia potuto sparire dal linguaggio rivoluzionario».
H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1989., pp. 3-4” (p. 139)

Mio padre la rivoluzione è un libro pieno d’intelligenza e di idee, in cui però la voce risulta castrata proprio dal dispositivo scelto dall’autore per affrontarne il tema: la prosa poetica non riesce ad andare d’accordo col carattere metatestuale del libro e solo a tratti supera lo scoglio del manierismo.

 

ritratto-copia.jpeg

I racconti chiaroscuri di Savyon Liebrecht

Edizioni e/o.Traduzione di Alessandra Shomroni.pp 304 Euro 19

Edizioni e/o.
Traduzione di Alessandra Shomroni.
pp 304 Euro 19

 

di Giuliana Riccio

La maestra soldatessa, con le sue mollettine colorate e i suoi ricordi d’infanzia, inaugura Perle alla luce del giorno, la raccolta di racconti di Savyon Liebrecht , scrittrice israeliana pubblicata in Italia da Edizioni e/o.  Come spesso accade nei suoi testi anche in questo libro le protagoniste sono donne alle prese con l’affermazione della propria personalità in un mondo che sembra sempre di più voler marginalizzare la loro presenza, e in cui il diritto alla felicità sembra essere oscurato dalla patriarcale organizzazione della vita.                                                                                                                                                                 In questo primo racconto una giovane donna decide di lasciare la base militare per intraprendere il difficile mestiere dell’insegnante con la speranza e l’ambizione di istruire ragazzini poveri e di portare loro, insieme all’istruzione, la possibilità di una vita diversa. Siamo a sud di Israele,  lei è Tamar e dovrà capire a sue spese che il solo modo per far breccia nelle menti dei giovani violati dalla vita, è l’autenticità, lo scambio di sguardi sinceri, il linguaggio semplice e poco forbito delle piccole cose quotidiane. Prima di provare a discutere di Charles Dickens e Jules Verne, dovrà imparare a scegliere le giuste cipolle e le giuste melanzane per preparare uno sformato di verdure.

«Lo sai perché è successo tutto quel casino in classe?».
«No, perché?».

«Perché sei troppo bella».
«Troppo bella?» Tamar era sbalordita.
«Ovvio (…) »

«E allora cosa devo fare?» chiese alla ricerca di una soluzione a quell’inaspettato problema.
«Essere meno bella».

 

A suggerirle la strada per cambiare veramente le cose è Zachi, suo alunno e figlio del fruttivendolo del paese.  Zachi ha occhi che, a differenza dei suoi coetanei, sanno sognare un futuro migliore; la sua voce, sottile e fugace, si ripresenterà anche nei successivi due racconti legati insieme come pagine di un romanzo o come ulteriori possibilità di raccontare un’analoga vicenda: quella del dramma di una famiglia, gli Amsalem, le cui vicissitudini si delineano con più precisione in D. Amsalem e in Ricordi?                                                                   

Scrittrice e lettore, in questi tredici racconti, si fondono spesso in uno sguardo ampio e fagocitante in grado di ingoiare un ampio corollario di situazioni, dalle più drammatiche alle più fiabesche, attraverso una tecnica che ricorda molto quella del chiaroscuro. Luci e ombre ricamano immagini di una precisione e di una bellezza schietta e decisa priva di inceppamenti lirici, ma, allo stesso tempo, intrise dal tono mistico di una preghiera. Sono gli occhi malati della piccola Dina Amsalem a introdurre questa silente sacralità con cui l’autrice racconta le cose, occhi che bruciano, irritati e costretti al buio,  che per essere curati necessitano di un unguento speciale fatto con il latte materno:

 Quell’ora in cui veniva privata della vista si trasformava in un tempo senza rumori. Con gli occhi chiusi sotto la benda imbevuta di latte materno rimaneva seduta nell’angolo più buio della stanza, con il viso rivolto al soffitto secondo le istruzioni dell’irachena, pensando a se stessa, principessa malata, e al medico che di lì a poco avrebbe trovato per lei una pozione magica.

 

E, come in Nero latte dell’alba di Celan, anche qui, il bianco indiscutibile del latte viene acuito dal buio di una cecità momentanea e la guarigione degli occhi di Dina è accompagnata da un disvelamento di eventi tragici e cupi, a cui non è possibile porre rimedio se non attraverso la celebrazione del ricordo.

Lo stesso avviene nel racconto che dà il titolo alla raccolta, in cui il dramma della Shoa viene raccontato dal punto di vista di una famiglia di cristiani e attraverso una vicenda che tiene fuori dal campo visivo del lettore  le  immagini consuete del genocidio per evocarle con angoscianti e drammatiche presenze/assenze: una cittadina della Polonia viene svuotata dagli ebrei e i cristiani ne occupano abusivamente le case. La famiglia del fabbro Klimas si impossessa di una villa piena di oggetti preziosi e abitata da un devastante senso di colpa che piano piano annienterà la mente della nuova padrona.

Nelle prime settimane Regina ebbe l’impressione che la casa osservasse con sospetto i nuovi inquilini, soprattutto lei. Le pareva che alcuni oggetti si ribellassero, le cadessero di mano e si rompessero di proposito, come se volessero ferire gli usurpatori e proclamare in maniera misteriosa la propria fedeltà a chi li aveva scelti con amore, non a chi se li era trovati tra le mani per caso.

A rendere concreto  il buio dell’umanità distorta, ai tempi del nazismo, è l’immagine di una collana di perle bianche che non può essere indossata alla luce del giorno, che deve restare nascosta e attendere che il tempo rimetta le cose al loro posto ristabilendo i confini tra ciò che è giusto e ciò che giusto non è.

Di tanto in tanto si rintanava in camera da letto, chiudeva la porta a chiave, sfilava la collana dal nascondiglio e se la metteva al collo con dita tremanti, rimanendo a lungo davanti allo specchio ovale con gli occhi calamitati alla propria immagine. Allora si vedeva come un’aristocratica principessa illuminata dalla luce irradiata dal gioiello. Immaginava di aver visto la collana in alcune fotografie della signora Brand che avevano buttato via ma, decise in cuor suo, quando avessero restituito la casa, lei l’avrebbe tenuta in ricordo. E affinché nessuno dei compaesani sapesse che se n’era appropriata lei e lo riferisse ai Brand al loro ritorno, non l’avrebbe indossata per andare in chiesa.

Nel racconto Occhi l’ossimoro narrativo della Liebrecht si dichiara del tutto attraverso la figura di Rachel, giovane donna dal marito infedele il cui sguardo acquista la capacità di vedere oltre le cose proprio nel momento della cecità.
L’obiettivo è sempre  quello di mettere in luce le ombre e in ombra le luci, scardinando luoghi comuni e scompaginando l’ordine delle cose, la loro comune percezione.

Questo meccanismo si evince benissimo in Figli in cui il dialogo interiore di un medico, inizialmente deciso a far pagare a una madre gli anni di assenza nella vita del figlio morente e colpevole di essere omosessuale, si sfalda in un sentimento solidale determinato da un comune senso di impotenza di fronte alla fatalità della vita, di fronte al dolore tacito e assordante della perdita di un figlio e alla comprensione del difficile ruolo di donna e madre all’interno di un universo ristretto e punitivo come quello degli ebrei osservanti.

Nel racconto finale del libro, la Liebrecht riflette, invece, sulla scrittura, sulle possibilità tecniche che essa ci offre per orientarci tra gli equilibri incerti che la vita ci pone davanti.

Nel Narratore onnisciente, infatti, ci troviamo in compagnia di una ragazza alle prese con la definizione del suo più grande sogno: diventare scrittrice. Nelcorso di un’estate a Tel Aviv diventerà adulta, di un’ ‘adultità’ che ha poco a che fare con le preoccupazioni dei genitori:

La città, le aveva detto sua sorella roteando gli occhi, è piena di gente malvagia, è una trappola per ragazze ingenue come te. E con voce perentoria aveva aggiunto: «E quando torni, per prima cosa, mamma ti spedisce a un consultorio per controllare se sei ancora vergine». 

La città, invece, regalerà ad Ofira la maturità per osservare le cose da differenti punti di vista, per scorgere spunti di narrazione in oggetti e soggetti quotidiani, per rivedere situazioni, per ergersi al di sopra di uomini ed eventi e narrarli al di là di qualsiasi preconcetto.

Poi lei avrebbe annunciato di avere imparato cose nuove su se stessa e sugli altri e di essere pronta a fare ciò che il destino le riservava: scrivere storie, riferirle con scrupolosità, vedere le sofferenze degli altri, evitare di giudicarli, osservarli, leggere nel loro cuore, esaminare gli aspetti nascosti delle loro azioni, celati dietro la realtà visibile, raccontare le loro vicende con maggiore fedeltà di quanto potessero fare loro stessi, prodigarsi con amore pe raggiungere quel fine, essere una narratrice onnisciente…

Savyon-Liebrecht-e1482784714561.jpg

 

 

 

Intima apparenza, Edith Pearlman

Bompiani. Traduzione: Stella Sacchini. pp. 242 Euro 12

Bompiani. Traduzione: Stella Sacchini. pp. 242 Euro 12

di Caterina Bonvicini

Che scrittrice straordinaria, Edith Pearlman. Perché non ce ne siamo mai accorti? Del resto, anche negli Stati Uniti ha raggiunto la fama solo nel 2012, a settant’anni, con la raccolta Visione Binoculare (Bompiani), grazie alla cinquina del National Book Award. Anno che per lei è stato anche uno schiaffo, perché il Pulitzer, per cui era in gara, ha deciso di non premiare un’opera di narrativa. Nessuna era all’altezza, secondo loro.

Invece basta leggere Intima apparenza (traduzione di Stella Sacchini, Bompiani) per accorgersi che Pearlman appartiene alla preziosissima generazione di scrittrici che hanno reso grande la storia del racconto, mentre la gente non ci faceva caso. L’unica premiata, quasi per tutte, Alice Munro. Edna O’Brien, che sarebbe da Nobel quanto la sua amica Alice, a Milano mi raccontava che Munro, dopo avere ricevuto la notizia da Stoccolma, le ha scritto per ringraziarla, perché alla sua opera doveva molto. «Il Nobel, io?», rideva, «pensa che non ho mai ricevuto un premio importante in vita mia».Lucia Berlin è stata riscoperta dieci anni dopo la morte. In ogni caso, non ci sapeva fare con i premi. Quando vince una borsa di studio del National Endowment for the Arts, se la spende per andare a Parigi, dove fa di tutto fuorché scrivere. E alla fine della vacanza, invece di mandare il testo richiesto, spedisce una lettera di ringraziamento in cui racconta nel dettaglio come ha buttato quei soldi.

Sono tutte donne nate negli anni Trenta – Pearlman, Munro, O’Brien e Berlin –  e tutte capaci di trasformare la normalità in una rivelazione. Sanno cos'è il quotidiano e sono così profonde da trattarlo come una miniera: vite apparentemente insignificanti nelle loro mani diventano portatrici di misteri, nemmeno da risolvere. Questa magia esce al suo meglio attraverso il racconto. Una forma che non ha bisogno del superfluo per incantare, perché in un racconto conta solo il necessario, cioè lo sguardo sugli altri. E ci si può liberamente concentrare su cose che di solito non interessano a nessuno, anche se sono un patrimonio di silenziosa sofferenza, tenerezza, rassegnazione, ordinaria felicità e tanti altri sentimenti che non fanno rumore. 

Edith Pearlman, come le altre, ama le storie di periferia. Questa raccolta è ambientata a Godolphin, Massachusetts, un sobborgo immaginario di Boston. C’è un anestesista che sposa una paziente terminale per farla morire contenta (Castello 4). Una newyorkese che inaspettatamente trova la felicità in campagna, dai parenti, e torna nel suo mondo dorato solo perché non vuole affidare a loro la sua vecchiaia come una punizione (Pietra). Una donna rovinata per sempre dalla morte improvvisa  del suo amante nel letto, un infarto che causa «diciannove cuori infranti» (Sua cugina Jamie). Ricorrente è la figura di Rennie, una specie di Olive Kitteridge della Pearlman. È un’anziana antiquaria e dal suo negozio passa tutto il vicinato perché si è data due regole: uno, ascoltare con discrezione, due, mai dare consigli. Uno dei racconti più belli è Puck, la storia di una statua di bronzo che manda in crisi queste regole. C’è una donna che organizza incontri in chiesa contro la mutilazione femminile e scopre la felicità in amore proprio con una somala mutilata (Quello che la scure dimentica l’albero ricorda). E due cugine in crociera, un po’ troppo grasse. Una delle due impara che alla fame si può sostituire la curiosità, magari per la cameriera nana che silenziosamente le pulisce tutti i giorni la camera (La Golden Swan). L’ultimo, Melata, è un capolavoro. É la storia della direttrice di un collegio e di un’allieva anoressica che studia le formiche. Si parla molto di sofferenza, ma anche di felicità, nelle sue accezioni meno scontate. E felicità, per un lettore raffinato, è trovare dei racconti così. 

edith-pearlman.jpg

Stelle ossee, Orazio Labbate

Liberaria Editore. pp. 200Euro 10

Liberaria Editore. pp. 200
Euro 10

di Alfredo Zucchi

Orazio Labbate è uno studioso del genere gotico: numerosi sono i suoi articoli di approfondimento, apparsi su svariate riviste letterarie negli ultimi anni; il suo stesso romanzo d’esordio, Lo scuru (Tunué, 2014), presenta originali tratti d’unione tra i codici propri del gotico e un elemento locale e identitario: la lingua siciliana, la sua letteratura e le sue figure ancestrali.

Se in Lo scuru Labbate riesce, attraverso un’adesione forte della lingua all’oggetto narrativo, a innovare il genere, trovando una cifra personale proprio attraverso le distorsioni e le impennate della lingua, nella raccolta di racconti Stelle ossee (Liberaria, 2017), l’autore sembra invece mimare stilemi già codificati. Il risultato è ambivalente: le immagini e i simboli ossianici, ripetuti fino all’ossessione, finiscono per perdere quella forza straniante, tenebrosa da cui sono venuti fuori. È invece in racconti come “Lavanderia slava”, in cui l’autore abbandona “il catalogo delle navi gotiche” (il cimitero, le candele, le bare, Lucifero e le anime in pena) per lanciarsi a capofitto nella narrazione, dove la sua cifra viene fuori: il lettore qui non è preso per mano nell’esegesi delle figure del paranormale, ma confrontato a continui ribaltamenti. Il cuore del gotico è una relazione intima dell’aldiqua con l’aldilà:

“Un fiumiciattolo di sangue macchiò la maglietta. Il cielo ruttava stelle, ed io lo sapevo senza sollevare la testa. Io lo sapevo perché il sangue sulla mia maglietta bianca me lo mostrava. Astri nel sangue, sangue negli astri.” (Lavanderia slava)

 

Il lavoro di Labbate sulla lingua resta uno dei punti forti del libro – per quanto appaiano, di tanto in tanto, costruzioni sintattiche più incompresibili che stranianti. Nei loro momenti migliori, i racconti di Stelle osseeriescono a tirare fuori epifanie potenti da elementi narrativi minimi (una ferita, un rumore, il riflesso di una lampada, la camicia di una donna):

“Al piano di sotto stanno bruciando qualcosa. Piccole grida strozzate salgono dalla parete. Da questa posizione sono verticali [...] Come correnti nella bocca di un annegato.”
(Buio sotto il letto)

Queste epifanie sono l’elemento narrativo più importante: esse legano le due dimensioni (aldiqua e aldilà), o meglio rivelano la loro coappartenenza:

Di mani nere e cinte annodate le nuvole avevano forma e colore”
(La Madonna verde)

Stelle ossee è una raccolta di racconti interessante, per quanto diseguale – non mancano i picchi, in cui l’estro di Labbate viene fuori senza mediazioni, realizzando in modo efficace e originale quel transfert che è alla base del racconto fantastico (e dunque anche di quello gotico) ; né mancano le cadute, in cui la voce sembra crollare sotto il peso degli stessi stilemi del genere che l’autore ha inteso rinnovare.

labbate.jpg

Tutti i racconti, Andrea Carraro

Melville Editore. Postfazione: Fabrizio Ottaviani. pp 247. Euro 17,50.

Melville Editore. Postfazione: Fabrizio Ottaviani. pp 247. Euro 17,50.

 

di Filippo La Porta

Il genere del racconto è quello più congeniale alla nostra letteratura, dal Novellino e dalDecameron fino alle novelle diPirandello e alla narrazione breve prediletta da Calvino. Eppure è un genere di cui l’editoria diffida, per ragioni che restano incomprensibili. Anche perciò segnalo volentieri la raccolta di Andrea Carraro - Tutti i racconti, Melville pp. 247, euro 17,50, con bella postfazione di Fabrizio Ottaviani) -  autore di romanzi importanti come Il branco e Non c’è più tempo, e certamente uno dei nostri maggiori autori di racconti (cito solo Antonio Debenedetti e, tra gli esordienti di questi anni,  Rossella Milone). Nel libro si potrebbero rintracciare due diversi filoni, tra loro congiunti: la nuda descrizione della violenza del “branco” (“L’altalena”, “Dopocena”)  -  feroce, esplicita, legata alla cronaca nera (e anche memore dei film di Scorsese), e poi laindagine su una   violenza più nascosta, sottile, latente, quella della piccola borghesia, con tutto il suo carico di frustrazioni non dette e angosce inespresse (“Il gioco della verità”, “La lucertola”). Al centro unadisincantata fenomenologia del male, del sadismo, dell’odio (che nasce, si direbbe, dal disagio di vivere: sono storie piene di suicidi e di anziani soli), della follia distruttiva (e autodistruttiva):  “La carrozzina”, “L’inaugurazione”, “Il barista”, forse il più bello di tutti (quasi una variazione su America di Kafka rivista da Buster Keaton, con il protagonista umiliato, percosso, brutalizzato e senza che abbia la minima volontà e capacità di reagire). Ma qual è il punto di vista diCarraro? Cosa rende il suo sguardo morale così affilato? La risposta si svela in alcuni racconti finali, soprattutto in  “I grandi sono spariti”(che fa pensare alla fantascienza di Ballard). Si tratta del punto di vista dei bambini, forse in parte debitore verso il miglior neorealismo, tra De Sica e Rossellini (il cinema è fondamentale nella formazione di Carraro). La narrazione crudamentenaturalistica è qui come straniata da una surrealtà (che però ha sempre un saldo fondamento psicologico), da uno scatto onirico  e imprevisto dell’immaginazione. Non si insegue una improbabile purezza dell’infanzia. I bambini sono in partegià  irretiti dentro le dinamiche e le relazioni di potere dei grandi (i quali ne minacciano continuamente l’integrità). Eppure riescono ancora a formulare le domande giuste, e continuano a stupirsi del male (“La nuvola di organza”). Conservano una alterità che permette appunto uno sguardo dal di fuori.  Carraro ci suggerisce che occorrerebbe riprendere un contatto con la propria infanzia, e con quello stupore, senza tradirla. Come il protagonista della “Replica”, che dopo una folle corsa in autostrada raggiunge la sua piccola Livia: “dormi piccina, dormi, no, papà non se ne va…”

"La prima cosa che incontra il lettore che si imbatte nei racconti di Carrara è una scrittura attenta ai dettagli fino a generare effetti di disturbo paranoide, dove a volte una strategia che, per l'accumulo di dati, potremmo definire di compressione, si apre ad un esito che lungo la direttiva euforica della verticalità dispiega un contrasto fra ciò che è in basso - e in basso di solito c'è una forma greve di delirio, stati alterati di coscienza per droga, alcol o per la rabbia che in Carrara è dappertutto - e un firmamento che attira magneticamente lo sguardo, ponendosi come luogo utopico di dispersione e cupio dissolvi. Chi conosce Carrara per II branco, il romanzo che gli ha dato notorietà, privilegerà il descrittore dei sobborghi e delle periferie, dell'hinterland della metropoli e della gente che vi vive. Si tratta di una geografia sociale universale, perché ovunque vi sono periferie depresse. I personaggi sono tutti dei balordi: ecco il "tipo" umano che da sempre Carrara descrive e che forse è la versione estrema e radicale dell'italiano "normale". Non basta dire che il balordo è chi, nel giro di minuti, ore o al massimo di qualche giorno viene assalito dalle furie e si trasforma in una specie di invasato. Al centro della questione c'è il rapporto fra pensiero e violenza, fra raziocinio e protervia. Balordo è chi esegue l'ordine aberrante che gli ha dato il cervello senza curarsi delle conseguenze, né della dismisura che tale atto comporta. È una mente che agisce comunque, indifferente all'incoerenza o inutilizzabilità dell'ideologia che la domina. I personaggi di Carrara hanno statura e sono, a loro modo, uomini superiori perché vogliono fare grandi cose e poi le fanno, con la particolarità che le loro azioni rispondono alle esigenze aberranti di sottoculture depresse, comprese quelle goliardiche, pseudo-mondane, ipo-letterarie e così via. È per questo che la maggior parte dei racconti stampati in questo volume innesca una catastrofe che sfocia in un teatro della crudeltà e in una gogna."
(dalla postfazione di Fabrizio Ottaviani)

carraro.jpg

La lince rossa, Rebecca Lee

Edizioni Clichy. Traduzione di Sara Reggiani. pp. 240 Euro 15

Edizioni Clichy. Traduzione di Sara Reggiani. pp. 240 Euro 15

di Gianluca Nativo

Lince Rossa e altre storie è una raccolta di racconti della scrittrice americana Rebecca Lee, portati in Italia dall’editore Clichy, con la bella traduzione di Sara Reggiani, nella collana Black Coffe.

Il primo racconto, Lince Rossa, ha un incipit all’apparenza innocuo:

“È la terrina a farmi paura”

La storia -  che si svolge durante una cena in cui la protagonista, moglie di uno scrittore, nella vita avvocato, ha invitato un po’ tutti, amici, nemici, alleati – è alimentata da un terrore più simile a un presentimento, la paura che qualcosa debba avvenire – e forse sta già avvenendo – ma nessuno sa bene quando e come.
Certo, noi lo possiamo capire già da quando, nelle prime pagine, lei accusa il marito di tradirla con la sua editor, ma è un’accusa vana, una supposizione. E in questa vaghezza, dietro continue distrazioni e a false piste – tra cui il tradimento, vero questo, che demonizza i Donner-Nilson, una coppia di amici del marito – che il racconto e la voce della protagonista ritardano colpevolmente la verità. Chi invece sembra riportare tutti in riga è Susan, anche lei scrittrice, che sui monti del Nepal ha incontrato una lince che le ha sbranato il braccio. La lotta con l’animale, raccontata durante la cena, lancia un allarme a tutti i presenti: forse la vita è altrove. Il moncone che ha al posto del braccio, sbranato via dal felino, è la conferma di quanto tremenda sia la quantità di cose che possono succedere fuori dalle nostre vite:

“Non volevo un addio al nubilato, non volevo una casa con lui, non volevo un conto corrente in comune. Dove sono l’estasi, la gioia, o anche solo la realizzazione?
Dove sono?”.

È una situazione da elephant in the room: si continua a spettegolare sui Donner-Nilson, c’è chi mette addirittura in dubbio la storia della lince, anzi vorrebbe quasi che Susan mostrasse a tutti il moncherino.
Quando la serata sta per finire, la verità si presenterà come un’ospite inatteso della cui venuta però eravamo in qualche strano modo ben consapevoli.

“Ogni cena verso la fine è un po’ come una sconfitta. Superata la metà della serata, quando eravamo ancora tutti su di giri, alcuni perfino brilli, e il dessert doveva ancora arrivare, c’è stato un momento in cui sembrava che quello fosse il ritrovo più interessante di tutta Manhattan, che ci volessimo tutti bene e che avremmo dovuto rifarlo più spesso, perché non lo facevamo più spesso? Tutti che calcolavano quando poter ospitare a casa la propria cena successiva. Ma poi è iniziata la discesa. Qualcuno ha alzato un po’ troppo il gomito. [...]


Una frase dell’archeologo Ernest Beker spesso mi attraversa la mente al termine di lunghi pasti, che cioè l’uomo se ne sta in piedi sopra un mucchio di ossa e proclama che la vita è bella.
Io ho imparato da mia madre, ospite impeccabile, che è importante presentare agli invitati piccoli doni – cioccolatini, liquori – dopo il pasto, in modo tale che, mentre la serata rallenta,
non subentri la disperazione”.

I racconti di Rebecca Lee derivano tutti da voci confuse, prese da una gioia disperata (Fialta), da una depressione infantile (Da qui al sole), finanche dalla confusione interculturale (Min), e ogni volta la verità viene sempre fuori in modo semplice ma tremendo, grazie anche a una scrittura sostenuta, il cui tonoipnotizza il lettore fino alla fine. C’è molta letteratura americana in questi racconti scritti dagli anni settanta fino a oggi (Raymond Carver, Flannery O’ Connor, Alice Munro), narrazioni minime capaci di spezzare la catena di senso dell’esistenza. 

BekkiLee_BW.jpg

In un palmo d'acqua, Percival Everett

Nutrimenti editore. Traduzione: Letizia Sacchini. pp. 192. Euro 17

Nutrimenti editore. Traduzione: Letizia Sacchini. pp. 192. Euro 17

di Giuliana Riccio

Nove racconti per dipingere il romanzo di un luogo al di là dei luoghi, il fascino del West dove il deserto si accumula a ridosso dei giorni e tratteggia uno scenario tutto pieno nonostante lo spazio, l’interminabile spazio, che sembra suggerire. Nove storie per familiarizzare con la vita dei ranch, di quel mondo noto più per i suoi luoghi comuni che per i suoi reali connotati, che qui, invece, in In un palmo d’acqua, ultimo libro di Percival Everett edito da Nutrimenti, si dispiegano in tutta la loro schiettezza. Le riserve indiane appaiono non per evocare scenari nostalgici ma semplicemente come dati di fatto, esistenze presenti nel reale, prive di quell’eccezionalità che l’etnocentrismo letterario è portato ad evidenziare. Niente di speciale sembra nascondersi negli squarci di vita altrui che Everett ci regala o, almeno, niente di apparentemente speciale, perché tutto si presenta immerso nella minuzia del quotidiano, in una realtà che si fa forte proprio  nell’esplicitare la serialità dei giorni che la caratterizzano. In questo mondo immoto compaiono figure silenti, dai confini noti ma dalle problematicità in divenire, proprio come i luoghi di frontiera in cui si rivelano le loro esistenze. Esistenze che si ritrovano ad inciampare, a un certo punto, in un fatto straordinario; un fatto, però, non da indagare, ma da registrare come uno dei tanti scenari del possibile.
Da questo punto di vista, Il primo di questi racconti, Un po’ di fede, sembra suggerirci quasi una modalità di lettura, un patto con il lettore il cui indispensabile occhio razionale non può e non deve chiudere le porte all’eventualità di un accadimento inconsueto a metà strada tra il miracolo ed il miraggio.  Protagonista di questo racconto è Sam Innis un veterinario che ritroveremo, nel ruolo di comparsa, anche in alcuni dei racconti successivi. Un uomo che non ha simpatia per le chiese, poco incline alla spiritualità, che si trova coinvolto nella ricerca di una bimba perduta, smarritasi lì, tra quelle Montagne rocciose che i vecchi indiani, nella loro saggezza, considerano maledette. Una bambina sorda, morsi di serpenti e apparizioni sciamaniche, ingredienti che necessitano di fede per tornare alla vita quotidiana e recuperare uno sguardo un po’ soul, indispensabile per cogliere l’interezza delle esperienze.

Nei racconti successivi ci si trova coinvolti in situazioni analoghe: in Un lago d’alta quota, è una donna solitaria e forte della sua solitudine a smarrirsi, durante la consueta cavalcata mattutina, in uno spazio altro, una dimensione parallela, forse il confine tra la vita e la morte o solo una proiezione dei suoi desideri, del suo dolore, di una vita connotata di perdite e fatta solo di attesa, attesa della fine del tempo.

Sua figlia e suo marito erano sepolti al ranch. Anche lei sarebbe finita lì,
ma non aveva idea di chi
sarebbe venuto a guardare le erbacce crescere sulle loro tombe.
Non le era rimasto un solo parente a cui lasciare la terra.

Anche quando non viene chiamata direttamente in causa l’ambiguità metafisica, la realtà suggerisce, attraverso gli elementi naturali, un’occasione per fare i conti con se stessi e ritornare, poi, a vivere secondo ritmi che non ci è dato sapere, perché i finali sempre aperti di questi racconti ci impediscono di trarre conclusioni. Così in Plecottero è una trota gigante, la pesca di una trota gigante, a spingere il quattordicenne Daniel a pacificarsi con il proprio passato, a sciogliere in neve quel dolore per la morte della sorella maggiore che da bambino aveva ghiacciato la sua vita imbalsamandola in un’apatia irrisolta.

Cavalcando verso casa gettò indietro la testa e guardò il cielo.
Per quanto ne sapeva i fiocchi di neve erano stelle, e lui sorrise.

In Congelamento, invece, un bosco e i suoi imprevisti, faranno da sfondo ad una rinnovata complicità tra un padre e una figlia adolescente e ribelle.

“Voglio che strilli a pieni polmoni mentre procediamo molto, molto piano. Strillerò anch’io, dunque cerca di non restare scioccata dal vocione del tuo vecchio.”
“Dici sul serio?”

“Comincia adesso”. Così strillarono entrambi.

 La figura di Everett viene spesso accostata a quella di Carver per l’indubbia propensione a disegnare personaggi poco fuori dal comune e per questo motivo straordinari nella loro umanità. Come Carver, Everett, ama catapultare il lettore in storie già avviate e condurlo in finali-non finali nel tentativo di sottolineare il viavai della vita e l’impossibilità di poter contenere il reale in una percorso lineare e pacificante.

Everett cerca di conciliare surrealismo e realismo attraverso una scrittura analogica ma non metaforizzante. I silenzi, le ambientazioni, gli animali, gli oggetti e gli accadimenti che ci offre sono esattamente ciò che sono, non vogliono sottintendere in modo esplicito ad altro ma non possono fare a meno di intrecciare relazioni con i soggetti coinvolti fuggendo da qualsiasi gabbia monosemica.

In Direzione sbagliata si ha quasi la sensazione di essere davanti ad una dichiarazione meta testuale, dichiarazione che, dati i precedenti narrativi di Everett non appare come una novità. Il discorso sulle possibilità retoriche della narrativa si manifesta nelle vicende che vedono l’allevatore Jake protagonista di una serie di equivoci a causa del suo parlar schietto e della tendenza del mondo a cercare significati nascosti dentro le cose.

“Non sto cercando di dire un bel niente.
Perché cazzo pensate tutti che stia cercando di dire più di quello che dico?”

Everett in In un palmo d’acqua non ha detto un bel niente. Perché cazzo pensiamo tutti che stia cercando di dire più di quello che dice?

percival--644x362.jpg