BUKOWSKI, STORIE DI (STRA)ORDINARIA FOLLIA

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di Antonio Tedesco

Rileggere Bukowski. Oggi che le parole sembrano perdere peso e valore e le idee, e spesso anche le manifestazioni artistiche e letterarie, sembrano appiattirsi e omologarsi nella pigra ricerca di una facile commerciabilità e riconoscibilità, i testi di questo scrittore colpiscono come una scudisciata l’animo del lettore offuscato da un comodo e pacificato conformismo.
 Storie di ordinaria follia, (pubblicato per la prima volta in Italia da Feltrinelli nel 1975) fin dal titolo, epurato in italiano di alcuni termini espliciti (Erections, Ejaculation, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness, è il titolo originale) è stato come una sorta di presentazione, il biglietto da visita che ha fatto conoscere Bukowski fuori dalla ristretta cerchia dell’underground americano. Grazie anche al film, dallo stesso titolo, che ne ha tratto un regista (non a caso anticonformista e ribelle) come Marco Ferreri, nel 1981.
La definizione “raccolta di racconti” è corretta, ma non esaurisce tutte le sfumature di questo libro. Composto da quarantadue “pezzi di scrittura” che comprendono, appunto,  racconti, ma anche frammenti, fulminanti riflessioni al limite fra narrazione e saggio. Illuminati a tratti da lampi di lirismo e squarci inattesi di poesia. Improvvisi e abbaglianti quanto più sembrano scaturire dagli infimi e sordidi bassifondi dell’esistenza meticolosamente setacciati dall’autore. Il tutto a costituire un insieme, tematico e stilistico di grande compattezza e coerenza. Bukowski si è espresso in maniera forte anche attraverso i romanzi, che quasi sempre rielaborano esperienze autobiografiche (Post office, per dirne uno), ma in questa sua prima raccolta si può trovare un vero e proprio compendio che racchiude tutta la sua arte narrativa. A suo modo “un’opera-mondo”, al pari di certi grandi romanzi che per la loro ampiezza e complessità si fregiano di questo titolo.  Un mondo nel quale si può accedere in libertà, scorrendo il lungo indice. E scegliendo tra i titoli più intriganti e promettenti da che parte cominciare ad esplorarlo.

Bukowski è un autore la cui scrittura va studiata e apprezzata al di là dell'apparente, finta, sciatteria, con venature sperimentali che, (come dice Fernanda Pivano in un suo saggio sullo scrittore in Pagine Americane – Frassinelli, 1995) resta concentrata soprattutto all’interno del suo primo periodo e potrebbe, dapprincipio, suscitare avversione e fastidio.
In realtà la scrittura di Bukowski è "energetica", trasmette stimoli vitali. 
Ciò che maggiormente è interessante, in lui, è il modo in cui è riuscito a trasformare in letteratura le esperienze della propria vita.
Come, in pratica, abbia fatto della sua esistenza, tribolata e travagliata, vagabonda e sregolata, una fonte di ispirazione letteraria. Non è l'unico, è vero, basterebbe citare Fante o Kerouac e tutta la generazione "beatnik", ma nel suo caso la letteratura non solo aderisce perfettamente alla sua vita ma ne diventa una dimensione metaforica e in un certo senso anche astratta, un paradigma paradossale attraverso il quale il velo sottile, ma ostinato, che copre le cose si squarcia, rivelando tutta la sua misera e ridicola (in)consistenza. A questo scopo è riuscito a sublimare in letteratura anche e soprattutto gli aspetti più sordidi e miserevoli della sua esperienza umana. Riscattandoli. In certi casi, addirittura,  "santificandoli" attraverso il processo della scrittura.
Pur conservando uno stile perfettamente riconoscibile Bukowski varia spesso sulle forme. Alcuni racconti sono tesi, essenziali, espressi con una scrittura asciutta, secca, in una maniera (letteraria) tipicamente americana. In altri si concede delle digressioni (mai degli svolazzi), con un periodare più articolato, disteso. In un certo senso si potrebbe dire che fa riferimento, in questo ultimo caso, a un modo più europeo di utilizzare la scrittura.
Ogni brano risponde, comunque, a un'esigenza espressiva propria, interiore, e va ad aggiungere un tassello a questa sorta di epopea "in minore", stracciona e vagabonda, che Bukowski ha trasformato in una mirabolante metafora non solo dell'America contemporanea, ma dell'uomo, in generale, scaraventato in un mondo di cui non può né controllare, né tantomeno comprendere i meccanismi. Un mondo che lo attrae e lo respinge al tempo stesso, con uguale violenza. Fino a lasciarlo stordito, interdetto, in balia di impulsi, passioni, necessità, sentimenti contrastanti e vergognosi di manifestarsi, a se stessi, e soprattutto agli altri. Un mondo in cui bisogna stordirsi per andare avanti. E bere, e fumare, e andare alle corse dei cavalli. Scopare, al limite. Per ingannare il tempo, e la propria stessa vita. E quella perdita di senso, che altrimenti ti precipita in un abisso senza fondo.
Bukowski, come un Kafka immorale e sboccato, scrive di questo mondo illusorio e inconoscibile reinventando la realtà, accentuandone i suoi aspetti più inspiegabili e grotteschi, rimanendo spesso attonito di fronte ad essa, però cercando anche, in qualche modo (a differenza di Kafka), uno spiraglio, una via d'uscita.

I racconti di Bukowski sono frammenti, schegge di un'autobiografia in divenire. Nei quali la forma “aspra”, il linguaggio poco accomodante, sono solo la scorza esterna che racchiude (e protegge, verrebbe da dire) una visione sofferta e dolorosa dell’esistenza. In cui è implicita una dura e acuta critica alle strutture fondanti su cui l'intero edificio della vita sociale si tiene. Ne è un esempio lampante Il giorno in cui parlammo di James Thurber, racconto in cui viene preso di mira, in maniera molto diretta, l'establishment culturale e letterario.
Quasi un piccolo trattato di critica (alla società) letteraria e dove si parla, in apparenza, di scopate omo ed etero sessuali, di necessità fisiologiche e, manco a dirlo, di bevute.
La metafora è lampante. La sudditanza psicologica e intellettuale alle forme e ai modi dell'essere "artista", viene qui smontata pezzo a pezzo e mostrata in tutta la sua vuota futilità.
L'artista è un nano superdotato e, guarda un po’, parla francese. Vive in una bella casa, pulita e ordinata, dove riceve i suoi amanti di entrambi i sessi. Tra una scopata e uno degli innumerevoli "necessari" riti che scandiscono il suo quotidiano, compone pagine di "alta" poesia. Scopandosi, ancora, seppur in maniera simbolica, o figurata, pubblico e critica. Incarnati nelle figure dei componenti della piccola corte che lo circonda, sempre disponibile e adorante.
Così, Bukowski che, come quasi sempre, è protagonista diretto del suo racconto, per un equivoco di interposta persona si trova a ripercorrere l'esperienza del Grande Poeta, scopandosi una coppia di ragazzi, (maschio e femmina) venuti a rendergli omaggio. Ma parlano anche di letteratura. E bevono vino. Godono reciprocamente. Si usano per il rispettivo piacere. Fisico e intellettuale (ma forse non c'è differenza). Però senza empatia. Nessuna reale comunicazione. Dopo resta il vuoto.
Bukowski passa come una schiacciasassi. Travolge ogni manierismo. Ogni usurato, eppure ancora troppo frequentato e accreditato, luogo comune. Dietro i sui racconti restano solo macerie. Eppure, incredibilmente, in mezzo a queste macerie si intravede sempre uno spiraglio di luce.  Bukowski non perde mai completamente se stesso.  Ci va molto vicino. Giunge a livelli di degradazione impensabili. Ma uno spiraglio, seppur piccolo, in fondo, c'è sempre. "E il mio talento non s'era ancora esaurito" sono le ultime parole di questo racconto. Nonostante tutto, pare di sentire, non detto. 
La descrizione della sua lotta e del suo disagio-degrado è quella di un vero artista in un mondo di caproni che si muovono coi paraocchi, asserviti a sistemi che li disumanizzano ma che, malgrado ciò, continuano a sostenere e a difendere, un mondo dal quale lui non può che autoemarginarsi, contro il quale non può far altro che protestare. E lo fa bevendo, fregandosene delle convenzioni e delle apparenze, offrendo di sé la figura e la personalità trasgressiva dell'ubriacone con la quale mette in dubbio (e in crisi) i cosiddetti valori di una società tanto corrotta e malata quanto ipocrita, nascosta dietro il mellifluo perbenismo delle regole.
Bukowski è una forza dirompente che, come tutti i veri grandi profeti visionari, da Cristo a Kafka, incrina le altrui certezze acquisite passando attraverso la mortificazione e la sofferenza del proprio corpo.
Bukowski è una mina vagante dotato di un esplosivo potenziale eversivo che ancora una volta l'establishment sociale e letterario ha cercato – riuscendoci solo in parte - di ridimensionare. Non potendolo imbavagliare ha cercato di trasformarlo in una specie di fenomeno da baraccone.
Ma senza considerare che il "baraccone" nel quale il "fenomeno" si è prodotto e manifestato è proprio quello messo su e animato dallo stesso sistema.

Sei pollici, pur restando in apparenza attestato su un piano di strenuo realismo si manifesta, invece, come una sorta di racconto metafisico che apparenta definitivamente (insistiamo su questo solo in apparenza incongruo parallelismo) Bukowski a Kafka.
É la storia di un uomo che, dopo il matrimonio, messo a drastica dieta dalla moglie rimpicciolisce fino a ridursi  a un minuscolo esserino che la donna utilizza spudoratamente per i suoi trastulli sessuali. Facendo fuori, così, in un botta sola l'ipocrisia che presiede all'istituzione sociale del matrimonio e quella ad essa direttamente collegata dell'amore coniugale.
La donna, bella e sessualmente compiacente, che qualcuno gli ha già indicato come "strega", si rivela una trappola che svuoterà il consorte di ogni sostanza e, in definitiva, di se stesso, della sua personalità di uomo.
Due gli elementi da sottolineare nello svolgimento di questo processo.
Il primo: l'illusione di un margine di autodeterminazione e di conservazione del "principio del piacere" (la donna, pur privando il suo uomo a poco a poco di ogni cosa, acconsente a lasciargli bere la birra, le cui dosi, ovviamente, si riducono proporzionalmente al ridursi delle dimensioni dell'uomo, fino a giungere a un ditale come recipiente). Che diventa, ovviamente, un'arma a doppio taglio per "perfezionare", proprio là dove sembra che ceda, il controllo sull'uomo.
Il secondo: il processo di recupero effettuato dall'uomo una volta liberatosi dalla moglie-strega. Che avviene prima rubando cibo agli animali (un gatto), poi insediandosi in un supermercato e recuperando poco a poco peso e dimensioni attraverso cospicui banchetti notturni e fornendosi di denaro prima di andar via (una volta recuperate dimensioni accettabili), attingendo all'incasso depositato in cassaforte. Recuperando quindi, in maniera, solo in apparenza, paradossale, le sue risorse vitali a spese di quel sistema che, attraverso alcune delle sue più celebrate istituzioni (la coppia, il sesso,  il matrimonio) l'aveva ridotto in quelle condizioni.
Una sorta di riscatto che qualifica ancora una volta  Bukowski (e la sua opera) come un irriducibile  combattente (o resistente) ribelle ed eversivo.
Il protagonista del racconto, infine, in una pensioncina modesta, ma dignitosa, mentre in lontananza, nel suo sguardo, si staglia la collina di Hollywood, verrà baciato dalla luce “del Signore” che benedice e accompagna la sua (ri)crescita.

Ed è in questi finali, a volte presenti nei racconti di Bukowski, dove pur dalla più cupa oscurità, si intravede in lontananza un barlume di luce, che la personalità dell'artista americano sembra differenziarsi maggiormente da quella, così diversa e così affine a un tempo, di Kafka. Si tratta, infatti, di due outsider che seppur in forme diverse hanno espresso lo stesso disagio esistenziale (non va dimenticato, a questo proposito che Bukowski era nato in Germania nel 1920, anche se solo due anni dopo la sua famiglia si trasferì in America). Per lo scrittore praghese alla fine de La Metamorfosi (ma anche di Il Processo La condanna) non resta altra possibilità che la distruzione di sé.
Bukowski, invece, a volte risorge. Resiste contro tutto e tutti, anche contro se stesso. E in un modo o nell'altro, rotto, acciaccato, pieno di ferite, umiliato, cerca sempre di venirne fuori. Aiutandosi anche con una buona dose di autoironia. E, tutto sommato, senza crederci fino in fondo.
Ma non gli va di darla vinta così, senza combattere, a tutta quella merda che lì fuori, arrogante e fetida, sembra estendersi a dismisura e prolificare su se stessa.
Ma cos’è l’esistenza, anzi La vita in un casino del Texas (?)
Ancora una volta, abbrancato tenacemente, come pare essere sempre, ad un realismo immediato, quasi brutale, Bukowski ci racconta, in realtà, un'altra storia surreale. Un'altra spiazzante metafora. Una sintesi folgorante, dove in poche pagine condensa ed esprime l'essenza profonda (la teoria e la pratica, verrebbe da dire) dell'America, nei suoi principi fondanti, nelle sue linee guida di sviluppo e di espressione. Dove lui, stralunata, donchisciottesca, impavida e suonata figura di scrittore, sembra essere una sorta di cartina al tornasole, un reagente al contatto con il quale la realtà non può che manifestarsi nella sua essenza più vera e più profonda. Senza maschere, né orpelli, né abbellimenti o edulcorazioni di nessun tipo.  Come una sonda calata in una realtà multiforme e incomprensibile a contatto della quale tutte le contraddizioni vengono alla luce ed esplodono. C'è la violenza quotidiana, che si esprime in molte forme. C'è una storia edificante, ma che si qualifica come degna di essere tale solo nel contatto, divulgatore e falsificatore ad un tempo, dei mass media. C'è la realtà delle cose e l'ipocrisia che l'ammanta. Il vuoto dietro i colori brillanti delle facciate. La cruda verità e la falsità che nasconde.
Il Texas. Un casino. La vita.
Il titolo è già tutto.

 E così, scorrendo l’indice, ci si può fermare su qualunque racconto a colpo sicuro.  Fica a stufo e Il principiante, per esempio. Due testi in cui lo scrittore fa un uso magistrale del  linguaggio. Asciutto, diretto. Nella migliore tradizione americana del Novecento (hemingwayana, direbbe la Pivano).
Eppure, specie nel primo, dietro l'usuale, spietato, realismo, sembra di assistere ad una pièce di Pinter o di Beckett, nella quale due spiantati fanno mirabolanti sogni di gloria, ma senza riuscire neanche per un istante a sganciarsi dalla loro misera condizione umana e morale. Sembrano rimirare in lontananza un miraggio che, cosa della quale sono entrambi ben consapevoli,  mai potrà diventare realtà. Basterà una donna incontrata casualmente a gettare fra i due - in maniera sommessa, ma non per questo meno pericolosa - il seme della discordia. L'ambiente, intorno, altrettanto squallido e miserabile, è tratteggiato con pochi, sapientissimi tocchi. Un ubriaco riverso sulle scale davanti all'ingresso secondario dell'albergo (al quale, uno dei due, pur conoscendolo, fruga nelle tasche rammaricandosi, però, di essere arrivato troppo tardi), una rivendita di liquori in fondo a un vicolo, lo squallido alberghetto dove la gente sta in canottiera e tiene la porta aperta per difendersi dal caldo, bevendo vino in quantità.
Un sabato sera a Los Angeles, una delle città più crudeli del mondo, è detto nelle prime righe del racconto.
É questo il luogo, che comprende anche Hollywood e dintorni e che ha risonanze mitiche - il Cinema -  in cui sono ambientate per la gran parte le storie di Bukowski.
Ma non è mai la facciata luccicante e tirata a lucido del bel mondo quella che si vede nei suoi racconti. É, piuttosto, il suo lato oscuro, sotterraneo, probabilmente il più vero, il meno ipocrita, quello di cui Bukowski scrive.
Più vicino alla Hollywood-Babilonia di Kenneth Anger che alla mirabolante "fabbrica dei sogni" divulgata dai mass-media.

Il secondo racconto parla dell'iniziazione al mondo delle corse dei cavalli. L'ambiente dell'ippodromo. La tensione delle scommesse. La delusione di quando si perde, il piacere di vincere. Un modo come un altro per tenersi occupati. Per sfuggire alla mania (liberatoria) di ubriacarsi in ogni momento libero. E un nuovo piccolo, grande universo che si apre. E uno sguardo cinico verso la propria donna, alla fine, quella che in questo mondo - quello delle corse - lo ha introdotto e gli ha fatto da guida. Una donna che, proprio grazie a questa scoperta, forse, lui riuscirà a lasciarsi dietro.

E si potrebbe continuare così per tutti gli altri racconti (segnaliamo almeno Vita e morte all’ospedale dei poveri e Addio Watson, tra i più belli e toccanti), che costituiscono questo libro che acquista col tempo la forza di un classico. Una violenta sferzata al conformismo letterario nel quale da decenni siamo immersi. E che in un'epoca di parole vuote si erge, intriso di orgoglio e dolore a un tempo, a contrastare l'ipocrita e autolesionistica mania del “politicamente corretto”. Senza ostentazione o pedanteria. Con una scrittura che è narrazione e (nelle sue forme) critica letteraria “viva”, allo stesso tempo. Frutto di uno sguardo lucido, penetrante, disincantato. Che non fa sconti a nessuno, e prima ancora a se stesso. Qualcosa di cui oggi più che mai sentiamo di avere  grande bisogno.

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