di Caterina Bonvicini
Che scrittrice straordinaria, Edith Pearlman. Perché non ce ne siamo mai accorti? Del resto, anche negli Stati Uniti ha raggiunto la fama solo nel 2012, a settant’anni, con la raccolta Visione Binoculare (Bompiani), grazie alla cinquina del National Book Award. Anno che per lei è stato anche uno schiaffo, perché il Pulitzer, per cui era in gara, ha deciso di non premiare un’opera di narrativa. Nessuna era all’altezza, secondo loro.
Invece basta leggere Intima apparenza (traduzione di Stella Sacchini, Bompiani) per accorgersi che Pearlman appartiene alla preziosissima generazione di scrittrici che hanno reso grande la storia del racconto, mentre la gente non ci faceva caso. L’unica premiata, quasi per tutte, Alice Munro. Edna O’Brien, che sarebbe da Nobel quanto la sua amica Alice, a Milano mi raccontava che Munro, dopo avere ricevuto la notizia da Stoccolma, le ha scritto per ringraziarla, perché alla sua opera doveva molto. «Il Nobel, io?», rideva, «pensa che non ho mai ricevuto un premio importante in vita mia».Lucia Berlin è stata riscoperta dieci anni dopo la morte. In ogni caso, non ci sapeva fare con i premi. Quando vince una borsa di studio del National Endowment for the Arts, se la spende per andare a Parigi, dove fa di tutto fuorché scrivere. E alla fine della vacanza, invece di mandare il testo richiesto, spedisce una lettera di ringraziamento in cui racconta nel dettaglio come ha buttato quei soldi.
Sono tutte donne nate negli anni Trenta – Pearlman, Munro, O’Brien e Berlin – e tutte capaci di trasformare la normalità in una rivelazione. Sanno cos'è il quotidiano e sono così profonde da trattarlo come una miniera: vite apparentemente insignificanti nelle loro mani diventano portatrici di misteri, nemmeno da risolvere. Questa magia esce al suo meglio attraverso il racconto. Una forma che non ha bisogno del superfluo per incantare, perché in un racconto conta solo il necessario, cioè lo sguardo sugli altri. E ci si può liberamente concentrare su cose che di solito non interessano a nessuno, anche se sono un patrimonio di silenziosa sofferenza, tenerezza, rassegnazione, ordinaria felicità e tanti altri sentimenti che non fanno rumore.
Edith Pearlman, come le altre, ama le storie di periferia. Questa raccolta è ambientata a Godolphin, Massachusetts, un sobborgo immaginario di Boston. C’è un anestesista che sposa una paziente terminale per farla morire contenta (Castello 4). Una newyorkese che inaspettatamente trova la felicità in campagna, dai parenti, e torna nel suo mondo dorato solo perché non vuole affidare a loro la sua vecchiaia come una punizione (Pietra). Una donna rovinata per sempre dalla morte improvvisa del suo amante nel letto, un infarto che causa «diciannove cuori infranti» (Sua cugina Jamie). Ricorrente è la figura di Rennie, una specie di Olive Kitteridge della Pearlman. È un’anziana antiquaria e dal suo negozio passa tutto il vicinato perché si è data due regole: uno, ascoltare con discrezione, due, mai dare consigli. Uno dei racconti più belli è Puck, la storia di una statua di bronzo che manda in crisi queste regole. C’è una donna che organizza incontri in chiesa contro la mutilazione femminile e scopre la felicità in amore proprio con una somala mutilata (Quello che la scure dimentica l’albero ricorda). E due cugine in crociera, un po’ troppo grasse. Una delle due impara che alla fame si può sostituire la curiosità, magari per la cameriera nana che silenziosamente le pulisce tutti i giorni la camera (La Golden Swan). L’ultimo, Melata, è un capolavoro. É la storia della direttrice di un collegio e di un’allieva anoressica che studia le formiche. Si parla molto di sofferenza, ma anche di felicità, nelle sue accezioni meno scontate. E felicità, per un lettore raffinato, è trovare dei racconti così.