Bar, la scrittura miracolosa di Donato Novellini

Di Donato Novellini Edizioni Giometti & Antonello  pp. 124 Euro 16

Di Donato Novellini
Edizioni Giometti & Antonello
pp. 124 Euro 16

Bar, un sigillo della volontà nel fiume dell’irrilevanza
Sulla scrittura miracolosa di Donato Novellini

 di Andrea Cafarella

«Beck’s Bud Ceres e Corona». La graziosa signorina ripete la litania meccanicamente, come a memoria la poesia delle birre tristi. («Sulla provinciale»)

 Bar è un libro spiazzante.
Per diversi motivi, e prima di affrontarli uno per uno, secondo me, in questo caso è importante aprire un discorso preliminare sull’edizione.
Giometti & Antonello è una casa editrice sui generis. I libri che pubblicano, il modo in cui lo fanno. Fondata due anni fa da Gino Giometti (filosofo, co-fondatore e co-direttore per vent'anni della casa editrice Quodlibet) e Danni Antonello (poeta, comparatista, e creatore della libreria antiquaria Scaramouche di Macerata, scomparso l’anno passato), pubblica una decina di libri l’anno che vengono distribuiti in pochissime copie in alcune librerie fiduciarie. Questo perché i due si sono posti un obiettivo molto alto, difficile, ma preciso: «Proveremo a selezionare quei testi che, in tutta la tradizione scientifica e letteraria, trovano proprio oggi – e forse per la prima volta, e forse all'oscuro dei più – il loro momento privilegiato di leggibilità». Libri senza tempo che debbono esistere adesso e qui, ripescati nell’oscurità dell’abisso dei dimenticati. «Scritti che sfuggono di mano al loro autore, pagine postume, anche se “pubblicate in vita”, lettere e diari, “appunti sparsi e persi”, e tutti quei frammenti di scrittura che puntellano le rovine della moderna letteratura d'Occidente». Nel solco di questa dichiarazione troviamo libri imperdibili, come gli scritti di Kurt Wolff (non a caso) Kn di Carlo Belli o Stelle Tardive, la raccolta di versi e prose di Arsenij Tarkovskij. Ma c’è anche il carteggio Jünger-Hofmann come le prose di Milena Jesenská, preziosissime. E ogni libro ha una cura maniacale, raffinata, dalla squisita sensibilità estetica, fin dalla cartotecnica del libro.
Dentro questo catalogo, dentro questo progetto culturale, prima che editoriale, troviamo da oggi anche Bar di Donato Novellini. Autore vivente, anzi, anche abbastanza giovane (classe ’73) – e già sarebbe un’eccezione del catalogo – ed esordiente nel mondo della narrativa. Per di più Bar è un libro di racconti «classico» (se possiamo azzardare questo aggettivo riferito a questo libro) in cui le prose sono legate da un tema unico e seguono un percorso coerente. Devo ammettere che quando ho letto la bandella ho sussultato. Sapevo di trovarmi davanti a un’eccezione, a un’anomalia, e così è stato: Bar è un libro sconcertante, per certi aspetti. La prosa di Novellini è estremamente originale e incisiva e musicale, espressiva. La sua voce è unica e il modo che ha di costruire questi brevi racconti è davvero ineguagliabile, sopraffino. Donato Novellini è un artista mantovano, scrive per diverse riviste e i suoi pezzi già nascondono gli indizi di una padronanza, quantomeno estetica, che avrebbe dovuto insospettire i più. Tuttavia il livello stilistico di questo libro supera di gran lunga le aspettative. La capacità descrittiva e la consapevolezza lessicale, il gusto dell’ascolto del suono e della ricercatezza delle parole. L’amore per l’inconsueto. «Anice stellato nel buio, ora nevica» questo è il tipo di frase che incontriamo leggendo Bar. Che, vero è che si tratta di un libro sui bar, precisamente, senza mai uscire dal fossato, ma prima di tutto è un libro fatto di bella scrittura, al modo di Landolfi, Manganelli, Parise; Novellini, al suo libro d’esordio, scrive già come uno di quei grandi e assurdi maestri italiani che avrebbero potuto parlare di qualsiasi cosa (mi viene in mente Norme per la redazione di un testo radiofonico di Gadda, appena pubblicato da Adelphi) lasciando comunque al lettore un senso di profonda bellezza estetica. Così il bar diventa quadro da dipingere con la prosa. In questo senso anche l’uso d’immagini pittoriche – citazioni come pennellate – è sempre fine e coscienzioso, alla Tabucchi, mi viene da dire: «Femmina diversa, acquitrinosa, antica donna sfuggevole, enigma. Un po’ Bernini e un po’ Hopper (ecco), civetta distante, smaliziata principiante, distrattamente snob». («La doppia vita di Elena»).
E le donne, le donne sono il secondo centro di questo libro. Se è vero che questo è un libro sui bar, è vero anche che vi troviamo al suo interno un’immensa ode spassionata e svestita dal velo barocco – che vuole troppo spesso trasformarle in eroine scintillanti – alle donne, le donne dei bar. Che in qualche modo rappresentano pure la crudezza, stimolano la violenza dello sguardo di Novellini. Il mondo è rappresentato da una prosa nobile che, però, scruta le ombre, gli angoli lordi al lato dei bagni, dove è nascosto il rigurgito che crea quell’olezzo disgustoso sparso nell’aria. È lì che scruta e scava la scrittura di Novellini, con delicata indolenza.

«A me piacciono le puttane, le zoccole, le troie. Non gli uomini. Non è questione di pagare, né di bisogni fisici, ma di affinità, sovente morali, ma anche estetiche, nei pressi dei confini, dei margini barocchi della vita. Per me le puttane sono l’umanità, la commedia rivelata di questo triste allegro deambulate nel mondo e, al contempo, qualcosa che lo oltrepassa. Poesia. La verità della finzione. Culi e tette dati ad intendere. Forse è quella l’ultima donna che vuole farsi bella per davvero, per sedurre se stessa e l’altro come specchio, per organizzare un mai più (solo adesso, qualcosa che finisce in un attimo), un baratro d’addio. Con la puttana parlo di filosofia senza annunci ridondanti, non di weekend in spiaggia. Simuliamo una complicità che deraglierà in coriandoli. Poi con la puttana c’è un patto, un accordo, i ruoli a teatro. Lei mi consegna il diploma da uomo, mentre io la guardo svanire alle spalle. Nella dimenticanza». («Assenzio»)

(questa è la risposta che dà, a un amico/conoscente che sta confidando la propria omosessualità, il protagonista di questo racconto; una voce che si riverbera per tutto il libro, costantemente, come se fosse di un personaggio unico; che sia dell’autore stesso?). La cosa davvero straordinaria, a livello strutturale, complessivo, di questo libro è che l’immagine del bar non è puro sollazzo edonistico o divertissement chiuso in uno stile eccelso. L’immagine del bar diviene simbolo e si apre alla filosofia e alla mistica. C’è un’idea e uno spirito che trapassano dalle pagine, venendoci a cercare. Fin dalla premessa, Novellini ci dice: «La vita da adulto non è altro che segreto desiderio di corruzione, piacere dilazionato in posticipi e uscite strategiche, sfregio, dissimulato in abitudini, per l’infanzia perduta». E questa è la sua filosofia. «Rimpianto attivo e inquieto, che sovente trova verità nella menzogna, sostanza nella forma, gioia in quel “dolore al fianco”». Questa invece è la mistica. «Qual è il momento magico che sfugge ai famelici appetiti di Kronos? Si chiama attesa, sipario prima delle marionette, lapislazzuli senza anelli, tirocinio di fiori. Soprattutto gin e consunto mestiere nel berlo, anche senza pubblico, anche senza tonica. M’apparecchio il desco, come facendo cerimonia d’auto-sabotaggio. Non sono giunto qui per vederla, ma per attenderla». Ed è nell’attesa (l’attività fondativa del bar – «bastione d’inerzia», come lo chiama l’autore) che si nasconde il «momento magico», il momento mistico e spirituale. Ce lo dice chiaramente. L’attimo in cui la verità si palesa a noi sotto forma di bugia, di visione, di sogno. Nell’oscurità notturna: «Domani, in questo lembo di notte, ancora non esiste. L’inganno è ciò che ti piacerebbe essere, nel posto dove vorresti stare». («Piano Bar») E questa è anche la struttura stessa del libro, il movimento che descrive, la linea che disegna: inizialmente aspettiamo, ci guardiamo intorno, fissiamo le tette della barista, chiacchieriamo con gli avventori, con l’amico con cui avevamo appuntamento; succede di tutto nei bar. Poi, a notte fonda, accade l’inatteso. (In questo senso «Spiriti arcani» è un racconto esemplare). Le bizzarrie del bar si mischiano al viaggio sciamanico e rituale che il bere stesso rappresenta. E il bar diventa un santuario. Nel bar avviene il rito, sociale e spiritico, dell’abbandono e della rivelazione, dell’estasi e dell’ebrezza. Nel bar tutto nasce come una preghiera sommessa che si fa miracolo. Una preghiera fatta di lunghi sorsi trasbordanti e singhiozzi isterici.
Nell’ultimo racconto, «Poste cinesi», troviamo il lascito di Novellini, la sua postilla, il suo epitaffio alcolico: un bar che si tramuta in “ufficio postale”, dove spedire la parola, la lettera d’amore o questo stesso libro; con quella raffinatezza così estrema e penetrante che lascia tra le righe il significato profondo dei segni e delle azioni, perché l’occhio del lettore attento e sensibile possa scovarlo. Non rigonfia la bellezza di silicone, ma vela le sue beltà supreme di menzogne merlettate di miele, e così avviene il miracolo, la magia. «Che importa se andrà o meno a ritirarlo?» qui ci viene da pensare: sta parlando con noi? Non importa. «Importa il gesto rilasciato, l’atto abbandonato assieme all’oggetto, il sigillo della volontà nel fiume dell’irrilevanza». («Poste cinesi») e a questo punto riscopriamo il significato segreto di ogni racconto di questa raccolta, di ogni verso della liturgia. Guardiamo nuovamente attorno a noi le bottiglie incastonate nel tabernacolo come statue di santi. Le etichette hanno simboli esoterici che ci riportano, trascinandoci inermi striscianti sul pavimento, dentro l’ombra, finalmente verso un’umanità antica, una sensibilità estatica che, proprio oggi, vale la pena riscoprire, preservare, omaggiare e celebrare, come la stessa vita dei bar. Simbolo che si fa carne e sangue, vino e ostia.

«Lo Sputnik non è solo bar, bensì l’ultimo presidio di socialità in loco, bastione d’inerzia e approdo frugale per transfughi: un accumulo di modernità abortite e prime necessità assortite, come detersivi in polvere, cartoleria per genetliaci e condoglianze, gratta e vinci d’appallottolare sul sagrato, videopoker in anfratti bui prima dei servizi igienici in fondo a destra, riviste e quotidiani, giocattoli gonfiabili del secolo scorso, tabacchi basilari, liquori e beveraggi della tradizione. Montenegro, Ramazzotti, Glen Grant, grappa Nonino. Uggia degli ultimi giorni d’inverno, neve sporca gas di scarico ghiaia, all’interno un clan di cacciatori in divisa mimetica siede a gambe divaricate sentenziando di politica, tra loro un comiziante detta ancora la linea sperando nel domani. Era ieri». («Lo Sputnik»)
 

«Penso che nelle ore seguenti farò perdere le mie tracce, diluendole in vino di stelle, sempre dritto tra due fossati d’ombre».

(«Residuati civili»)