di Debora Lambruschini
L’America rurale, brutale e selvaggia, i luoghi da chiamare casa con tutto ciò che il termine implica, fra desiderio di allontanarsene e nostalgia per ciò che meglio si conosce, solitudini, violenza, isolamento: c’è tutto il mondo di Chris Offutt in A casa e ritorno, un’intensa raccolta pubblicata di recente da minimum fax, a due anni dall’edizione italiana di Kentucky Straight (Nelle terre di nessuno) i racconti con cui lo scrittore statunitense esordì nel ’92. Due raccolte che si intrecciano, per ambientazione e tematiche, in cui avvertiamo chiaramente il mutamento dello stile che si fa, in questa seconda prova, ancora più essenziale e diretto, la parola misurata, i dialoghi al minimo e folgoranti.
Protagonisti assoluti, anche in questo caso, i luoghi: il Kentucky più selvaggio, fuori dal tempo e dalle mappe, con i boschi, le colline e le pianure, le poche case sparse in una terra da cui è difficile scappare. A casa e ritorno, andare e restare: sono le due facce della stessa medaglia, il desiderio di allontanarsi da un mondo opprimente a tratti, da un isolamento – geografico, culturale, economico – che schiaccia, ma è anche la terribile malinconia che riporta sempre lì, alle proprie radici. In fondo è proprio di questo che si tratta, sempre, di radici, dell’inspiegabile attrazione verso quelle terre da cui sembra impossibile staccarsi del tutto. Perché a quella terra si resta aggrappati, nonostante tutto, nonostante i chilometri e gli anni intercorsi, resta in un certo modo di vedere il mondo, in quel senso di isolamento da cui non si esce mai del tutto, nell’essenzialità del linguaggio. Un dualismo – andare/restare – che pervade tutta la raccolta, con echi differenti in ogni personaggio e storia che la compone. Il peso, talvolta opprimente, della familiarità dei luoghi, di un quotidiano faticoso e limitante, il desiderio di fuga, di sondare altre possibilità:
Scese dal pick-up e aspettò. Era tutto come sempre: la casa, gli alberi, le persone. Riconobbe le foglie e il profilo dei rami contro il cielo. Sapeva come cadeva la luce, dove sarebbero scese le ombre. L’odore dei boschi era familiare. Sarebbe rimasto così per sempre. Di colpo, come gli avessero tirato una secchiata d’acqua, capì perché Ory se n’era andato.
(p. 22 finale racconto “A casa e ritorno”)
Allo stesso tempo, il ritorno, la malinconia, la rassicurante sensazione di sapere esattamente quale sia il proprio posto, la propria vita.
C’è, nelle storie di Offutt, pochissimo spazio per la speranza, il lirismo e la bellezza a fare da contraltare alla brutalità delle scene, come avviene per esempio nella celebre trilogia della pianura di Haruf, lo straordinario cantore dell’America rurale, o nei racconti e romanzi di Nickolas Butler: è un sentire differente, la parola quasi del tutto priva di lirismo, ma perfettamente adattata alla narrazione. Offutt rappresenta un mondo, il suo mondo, restituendolo in tutta la sua brutale realtà ed è il luogo, ancora più degli uomini, a farsi protagonista di ogni storia. Gli uomini – e le donne – possono solo cercare di adattarsi alle regole che lo dominano, in continua tensione fra desiderio di fuga e radici piantate troppo a fondo per potersene liberare completamente. Non è, quindi, il mito della campagna, della provincia americana più profonda, che Offutt restituisce al lettore, ma i lati più oscuri e selvaggi di un mondo fuori dal tempo, atavico, in racconti dove si intrecciano il grottesco e l’elemento magico, cifra stilistica dell’autore. La brutalità di certi brani quasi respinge, la violenza ordinaria, il confronto praticamente quotidiano con la morte, aprono spiragli su una realtà difficile per i più da immaginare, che Offutt evoca sulla pagina privandola, appunto, di inutili lirismi. Violenza e morte fanno parte della quotidianità come, in altri luoghi, il cibo e l’aria, e trovano perfettamente il loro spazio in queste storie proprio perché parte integrante della realtà raccontata: Offutt non vi indugia per il piacere fine a se stesso, ma quali elementi costitutivi, essenziali, di quel mondo evocato. L’alcool, la violenza, la morte, la ruvidità della vita, sono parte integrante di queste storie perché parte integrante del mondo stesso da cui affiorano.
Dico spesso che di fronte allo stesso libro, ognuno di noi ne fa una lettura diversa, perché colpito nel bene e nel male, da aspetti, tematiche, spunti, differenti per l’uno o per l’altro. Ecco, per la mia sensibilità, gusto letterario e chissà quali altre ragioni, a colpirmi profondamente nei racconti di Offutt vi è, oltre a quanto detto, la riflessione sul rapporto padre-figlio e sui legami famigliari in genere, di cui i racconti di entrambe le raccolte sono intrisi appena sotto la superficie, soprattutto questa seconda. Certo l’elemento essenziale, la tematica centrale nei racconti di “A casa e ritorno” – ma più in generale nelle storie tutte di Offutt – è appunto l’America rurale, con i suoi codici, le vite ordinarie di uomini e donne alle prese con un quotidiano spesso privo di slanci e possibilità di riscatto, il rapporto con il luogo da cui proveniamo. Un intreccio di spunti e riflessioni che pervadono tutti i racconti, aprendo a differenti punti di vista e che, nella forma perfetta della short story e di quell’istante raccontato, trovano lo spazio ideale per concedere al lettore di sviluppare la propria interpretazione. Ma è nella rappresentazione del rapporto padre/figlio che personalmente ho trovato spunti particolarmente interessanti. È proprio lì, appena sotto la superficie, quando credi che la storia sia incentrata su un certo aspetto e la narrazione proceda in una determinata direzione, che tale elemento ribalta la prospettiva di lettura.
C’è un uomo, tornato a casa dopo il divorzio dalla moglie, che cerca il modo di entrare in connessione con il proprio padre, un legame in cui le parole o i gesti affettuosi sono sempre mancati:
Mentre girava intorno all’auto, Ray si rese conto che non aveva mai toccato suo padre. Da lui non aveva mai ricevuto un abbraccio, non gli aveva nemmeno mai messo una mano sulla spalla.
(p. 106, “Tiro al bersaglio”)
Le parole scarne, i gesti misurati, e che adesso mancano, quando forse più che in ogni altro momento della vita, entrambi ne avrebbero bisogno.
E, ancora, uomo, un padre (“Due-undici dentro e fuori”) dalla vita sgangherata, una vita da cui non è in grado di mettere in guardia il figlio, in cui le parole restano sospese, solo pensate. «Non gli ho mai dato niente. E ora non riesco a dargli nemmeno questo». Questo rappresenta il tentativo di salvezza dalla mediocrità, dalla miseria, dal fallimento. Ma è come se tutto fosse già deciso, la possibilità di riscatto sempre più difficile anche solo da immaginare.
In tutti i racconti, è incombente il peso di solitudini e silenzi impossibili da colmare: è l’incapacità di comprendersi, di dare voce ai sentimenti. Di salvare, di salvarsi.
La malinconia. Per un luogo che opprime, ma che in fondo resta sempre casa.