di Debora Lambruschini
È settembre, e per quanto abbia finito di studiare da decenni, il calendario accademico ancora esercita il suo fascino, si sente invadere dalla voglia di nuovi inizi. È la stagione dell’abbondanza: i meli carichi di frutti, l’erba alta sul ciglio dell’autostrada. Il vento investe gli alberi. Ogni cosa respira a fondo, il sospiro di fine estate della natura. Nel giro di un paio d’ore si scatenerà il temporale del tardo pomeriggio a ripulire l’aria.
(p. 31 “Giorni terribili”)
Settembre è finito da poco, le immagini reali ben sovrapposte a quelle letterarie suggerite da questo breve passo tratto da Giorni terribili, il racconto di A. M. Homes contenuto nella raccolta omonima di recente pubblicata da Feltrinelli. Di immagini e atmosfere, di silenzi e parole che mancano è attraversata tutta la raccolta: dodici racconti in cui la voce dell’autrice statunitense sa farsi ora nostalgica, ora ironica, a tratti cinica, per poi aprirsi alla compassione verso i suoi personaggi e quelle vite che appena emergono dalla pagina. Chiariamo subito un punto: è una raccolta molto bella, per tematiche e spunti, per lo sguardo diretto e la parola misurata resa dalla traduzione puntuale di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini. Ma non è perfetta, le aspettative non vengono pienamente soddisfatte. O forse, più semplicemente, ci siamo lasciati ingannare da titoli e stralci di commenti che etichettavano anche questo nuovo lavoro di Homes come l’ennesimo esempio di quella voce tagliente, innovativa, originale, grazie alla quale ha ricevuto premi e pubblicazioni sulle principali riviste culturali del Paese. Perché questi racconti sono belli sul serio e, spesso, la scrittura sa spogliarsi di convenzioni e reticenze per mettere a nudo contraddizioni e meschinità del mondo contemporaneo e degli individui; uomini e donne di cui Homes rappresenta con cruda onestà gli equilibri fragili, le mancanze, le quotidiane cattiverie, non priva talvolta di compassione verso questi piccoli esseri umani. Allo stesso tempo sono racconti meno sperimentali e audaci di quanto ci si aspettasse. Messo da parte “l’equivoco”, restano quindi dodici storie ben costruite, che si aprono a spunti interessanti a partire da tematiche riconoscibili, familiari, in cui, come si diceva, l’ironia si fonde allo sguardo più malinconico, doloroso, ma anche ai piccoli, fugaci, squarci di luce, fino ai toni surreali e fantastici che arricchiscono efficacemente la narrazione.
Quello che, vividissimo, traspare dalla pagina, da ogni racconto, è il ritratto di una società dolente, di esseri umani vulnerabili, meschini, un universo narrativo caro ad Homes di cui già aveva dato prova di pregio nella raccolta d’esordio, La sicurezza degli oggetti, in cui imperava lo sguardo dissacrante a distruggere pezzo dopo pezzo ipocrisie e finto perbenismo della società contemporanea. In “Giorni terribili” ritorna la stessa tipologia di personaggio, che, stavolta, sfoga nell’alcol, nelle droghe o nelle manie alimentari per far fronte alla propria infelicità; coppie che non sanno più come comunicare senza cedere alla rabbia; uomini e donne che si muovono in equilibrio precario sull’abisso. Questo senso imminente di qualcosa che sta per implodere, pervade tutta la raccolta, come se Homes mettesse a nudo la debolezza di ogni cosa intorno ai suoi personaggi: gli oggetti, i rapporti, la società stessa. Quella che tratteggia sulla pagina sono gli Stati Uniti del terzo millennio, eppure questi racconti non appaiono così strettamente ancorati alla realtà, al contemporaneo, per gli spunti di surreale verso cui talvolta virano, per una certa tendenza alla dissolvenza, alla sospensione, che ne sfumano i contorni.
Come sfumano e si dissolvono i legami. I personaggi di Homes si perdono dentro famiglie disfunzionali, distanze che il tempo dilata sempre di più, antichi segreti e rivalità tra fratelli, tradimenti e un senso di estraneità che colpisce proprio dove non ci aspetteremmo di trovarla: in quei legami che per sangue o per scelta dovrebbero essere famiglia, comprensione, dialogo. Ecco, il dialogo, le parole che mancano: le distanze sono amplificate da antichi traumi che non si sanno colmare. Le parole, spesso solo sussurrate, non sembrano mai quelle giuste, costruite in dialoghi taglienti che da soli valgono tutta la raccolta e che, a tratti, risolvono un’intera scena.
Si erano sedute nella stanza di Billy e avevano parlato di com’era strano che nessuno parlasse di niente. Abigail era la custode dei sentimenti; ci si aggrappava.
La mamma diceva: “Porti i sentimenti come fossero gioielli”.
(Se n’è andata, p. 228)
Come se i sentimenti andassero repressi, vissuti nel proprio intimo e non mostrati al mondo. Le manie, le ossessioni, prendono il sopravvento, sono l’unico modo possibile per ottenere una parvenza di controllo su una vita che altrimenti rischia di andare in pezzi.
«Sei sotto farmaci?» chiede lei.
«Un po’. E tu?»
«Moderatamente» dice lei.
«Non è facile essere depressi da queste parti» dice lui. «È un paradiso».
(Hello Everybody, p. 75)
Per tentare di arginare il vuoto, l’alcol diventa la panacea per tutti i mali; oppure il rifiuto del cibo attraverso cui sperimentare il controllo almeno sul proprio corpo, sfinirsi ancora e ancora fino a scomparire davvero. Può succedere che il ricordo di una stagione più felice, prima che tutto cambi per sempre, possa risultare la distrazione più attraente per allontanarsi dai fallimenti e paure dell’età adulta.
Resta, alla fine della lettura, la sensazione di una manchevolezza, di attese non pienamente soddisfatte, cosicché molti racconti scivolano via senza lasciare poi molto al lettore; ma, d’altra parte, ce ne sono almeno un paio che si insinuano sotto pelle, e le domande con cui ci troviamo a confrontarci vanno ben oltre il tempo della lettura. Racconti come “Giorni terribili”, “Hello Everybody”, “La grande fiera degli uccelli da gabbia”, “Punto Omega”, reggono la raccolta, con la profondità degli spunti, le sperimentazioni narrative, la complessità dei personaggi, l’equilibrio tra ciò che è espresso sulla pagina e l’abisso del non detto che si insinua fra gli spazi bianchi. Che siano brevi lampi o narrazioni più distese, è comunque innegabile che Homes sappia cogliere l’anima del personaggio e le contraddizioni della società entro cui si muove, spiazzando il lettore più nella riconoscibilità del mondo e degli individui, che negli spunti immaginifici. Le dinamiche che mette a nudo, specie nei racconti sopracitati, sono familiari, anche nella loro crudeltà. Spogliate di ambiente ed elementi accessori, appaiono alla fine in tutta la loro brutale onestà: un flirt che allevia il dolore per una distanza sempre più incolmabile con il proprio partner e la tensione di un lavoro emotivamente impegnativo, l’esplorazione dei corpi che diventa una lotta, la rabbia che si riversa in un incontro fugace; la familiarità di una vecchia amicizia, i ricordi comuni, le ferite; la scoperta delle proprie radici e i vecchi segreti di famiglia a minare un equilibrio già precario; le parole che finalmente fluiscono libere, ma solo perché protette dall’anonimato della rete, dalla distanza, la terribile meraviglia di mettersi a nudo con un estraneo, l’amicizia che nasce in una bolla di sospensione momentanea dalla realtà della guerra o della solitudine.
E forse, alla fine, è proprio in questo che consiste l’audacia di A.M. Homes e il pregio della raccolta: lo svelamento di un mondo che riconosciamo, l’umorismo graffiante che talvolta riesce a farsi capace di commozione e tenerezza, lo sguardo penetrante dell’autrice che spinge anche il lettore a scavare oltre la superficie e colmare gli spazi vuoti perché è proprio lì che si insinua la storia.