Capelli bianchi, di Marchesa Colombi

CAPELLI BIANCHI
di
La Marchesa Colombi
(Maria Antonietta Torriani)

Quando la vecchiezza si annuncia francamente, quando accetta con coraggio i suoi capelli bianchi e le sue rughe, chi non l'ammira? chi non l'ama? chi non le si inginocchia dinanzi, per ripeterle con un poeta gentile:

"Oh lieta casa! Oh nido fortunato Su cui tu stendi l'ali!…"

Sgraziatamente, le signore che sanno invecchiare decorosamente sono così poche....
Ve ne sono di quelle che credono ringiovanire vestendosi come l'ultimo figurino, o imponendo ai poveri ballerini di trascinarle in giro nelle feste da ballo....
Altre ripetono a tutte le ore che si sono maritate giovani, giovanissime, bambine; se ne ricordano appena, anzi, non se ne ricordano affatto; non farebbe loro meraviglia, se udissero dire che sono nate maritate. E così si diventa mamme all'età di giocare alla bambola, si è nonne a vent'anni, e s'invecchia presto. Tutte Nonne scellerate. Poi vi sono quelle che propongono di non parlar mai dei propri anni, come se quel silenzio dovesse impedire agli altri di pensarci.
E poi quelle che, all'opposto, si scelgono una età primaverile e ne parlano continuamente, persuase che, a forza di sentirla dire, si finirà per crederci. È un risultato che ottengono unicamente sopra se stesse. Quasi sempre riescono a credere davvero di avere l'età che confessano, ed agiscono giovanilmente che è una pietà.
Ho udita non poche volte una signora di settantacinque anni, dire con molte smorfiette graziose:
Eh! non sono più giovine, cara signora. Quando si è fra i trentacinque e i quaranta...!
Aveva spezzata la cifra e vi si era posta in mezzo; ed erano per lo meno dieci anni che stava in quel bivio, fra i trentacinque ed i quaranta, senza aver il coraggio di riunirli. E quando fu per morire chiamò il suo figlio primogenito (aveva dei figli!) e gli espose la sua ultima volontà: che sulla lapide, sull'epitaffio, sugli annunci funebri non le si attribuissero più di quarantacinque anni. Povera donna! Davanti alla solennità della morte aveva varcato il Rubicone, aveva accettato un lustro di più.... Ma non aveva potuto andare più in là. Si può morire, ma non invecchiare.
Del resto, è una debolezza innocente.
Alle volte accade che col passare degli anni le forze non diminuiscono, sovente la salute si rinfranca; i figlioli, cresciuti bene, danno minori pensieri e maggiori gioie, le condizioni finanziarie migliorano, e la mamma, la nonna sessagenaria, si sente ancora piena d'energia, di buon umore; si sente giovine....
Chi ha sofferto per le debolezze peggiori dell'umanità, che si chiamano invidia, odio, calunnia, menzogna, che inducono ad atti ignobili e perfidi, si sente il cuore pieno d'indulgenza pei peccati veniali delle povere donne, che, senza far male a nessuno, vorrebbero galvanizzare la bellezza e la gioventù: le due fonti di ogni umana gioia! Ma senza arrogarmi il diritto di giudicarle, cito qui, per adempiere al compito assunto, le regole che i galatei stabiliscono per le signore che hanno varcata la sessantina.
Una signora vecchia dovrebbe avere il coraggio di confessarsi vecchia, di parlare, di agire come tale.
Le mode non sono fatte pei capelli bianchi. Non è necessario che una vecchia si vesta come un figurino antico; no, ma non deve vestire come nessun figurino. Abiti scuri, lisci, per uscire; abiti neri o bianchi lunghissimi per casa. Nulla s'adatta meglio alla vecchiaia che la maestà dello strascico, ed il bianco non disdice a nessuna età. Le bizzarrie di rigonfi, di groppe, di cerchi, di toupé, che appaiono tratto tratto nelle nostre mode, le esagerazioni d'ogni maniera, sono sempre ridicole per una vecchia: la moda non la giustifica di portarle. L'unica moda delle vecchie, sempre uguale, sempre bella è la dignità.
Una cuffietta quand'è in casa. Mantelletto ampio o scialle per uscire, e cappello serio. Un cappello di dimensioni giuste, che calzi, che copra gli orecchi.
Vogliono crederlo a me, che ho più d'un secolo d'osservazione, e che amo e venero la vecchiaia? Ebbene, vestite così sembrano avere dieci anni di meno; e vestite alla moda, grazie al penoso contrasto tra la novità del vestire e l'antichità della persona, acquistano dieci anni di più.

*

La grande rinomanza di Noemi per l'affetto che seppe ispirare a Ruth, ci prova quanto siano rare le signore che sanno comprendere bene la loro situazione di suocera.
Eppure sarebbe tanto facile.... accettare pienamente la loro parte di maternità verso la nuora. Non altro. Ma la parte di maternità invecchia. L'ostacolo è sempre là. Col proprio figlio non appariva. Un uomo è un'altra cosa. E poi l'amore di madre accomoda tutto.
Ma quella signora giovine, che viene a metterle un confronto accanto.... Eppure una suocera deve accettare dalla nuora tutti quegli atti di deferenza, che si devono dalla gioventù alle persone attempate. La destra a passeggio, sia a piedi che in carrozza, il passo quando si tratta di entrare in qualche luogo, la preminenza del saluto dai visitatori, la destra del camino o del divano nei ricevimenti.
La suocera deve astenersi di mettersi in terzo nelle visite, nelle passeggiate, nei divertimenti dei due sposi; ma deve accompagnare la nuora, all'occorrenza, quando è sola, presentarla ai conoscenti a cui non può presentarla il marito.
La suocera che vive in casa col figlio ammogliato, cede alla nuora il maneggio di casa, e, dal momento che suo figlio ha moglie, si mette a riposo. Malgrado l'età, malgrado l'anzianità dei diritti, davanti alla società la padrona di casa è la nuora, e la suocera deve saperlo riconoscere con quella doverosa rinunzia. Agendo altrimenti, usurperebbe un diritto che non le spetta, si arrogherebbe una padronanza in casa del figlio e della nuora, mancherebbe di delicatezza.

*

I divertimenti delle vecchie signore sono, oltre ai viaggi, la conversazione ed il teatro.
Nella conversazione possono tenere il primato; la loro esperienza e la libertà dei discorsi che l'età concede, rendono piacevole ed interessante la loro compagnia. Possono prender parte ai giochi seri se sanno di farlo bene. Il giocare a caso e male, è un'ingenua inesperienza che alla loro età non si perdona.
Dai balli una vecchia signora dovrebbe sempre tenersi lontana.
E se ci va per accompagnare una nuora, una figlia, una nipote, dovrà vestire riccamente, ma colla massima serietà; e non mai scollata. Un abito liscio di velluto nero o di trina, una cuffietta di tulle, orecchini e spillone di brillanti, è la migliore delle abbigliature serie. E se ha qualche acciacco, qualche malanno, lo lasci con Dio, e non rattristi la gioventù con racconti penosi. Si mostri contenta della compagnia che la circonda, indulgente e tollerante; sopratutto tollerante. Lasci stare quel benedetto a' miei tempi, che in bocca dei vecchi è un perpetuo rimprovero alle abitudini della generazione nuova. I suoi tempi sono passati e non tornano più. Accetti i tempi moderni. senza rimpianti, senza pedanterie. Creda a me, tutti i tempi hanno avuto la loro porzione nella grande somma dì beni e di mali che debbono consolare od affliggere l'umanità.
Tutte le preminenze che le si accordano per riguardo alla sua età deve accettarle, senza orgoglio, ma senza cerimonie. L'età è una superiorità, e quei riguardi le sono dovuti.
In teatro invece, dove i posti d'onore sono fatti per mettersi in evidenza, una signora vecchia li cede sempre alle giovani, fossero pure signorine. Può andare al teatro sempre, perchè l'arte si ama a tutte le età. Ma il suo posto è nell'ombra. Ci va per udire e vedere. Non per essere veduta.
Una vecchia signora può benissimo tenere ricevimenti, e dare anche feste da ballo, per far divertire la gioventù. Sarà un atto di generosità e di abnegazione, che le guadagnerà tutte le simpatie.
Ricevendo ospiti in campagna, toccherà a lei di combinare le partite di caccia, le lunghe gite e tutti quei piaceri dai quali i suoi invitati si asterrebbero se lei non può prendervi parte. Deve mostrarsi desiderosa che li godano loro, e fare cordialmente la sua parte di vecchia castellana, di fornire tutto l'occorrente, congedare e riaccogliere la comitiva alla soglia della casa, presiedere alla mensa. Se poi le sue forze lo permettono, può benissimo fare anche delle gite alpine senza che nessuno lo trovi fuori di proposito. È una questione di salute.
E le feste solenni portino il dono della nonna ai nepoti, ai figli, alle nuore, alle giovani amiche. E sia accompagnato da parole d'affetto materno, da benedizioni. Quelle benedizioni, quell'affetto le torneranno centuplicati, e faranno un'aureola di serenità alla sua fronte canuta.

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Il colloquio del fiume, un racconto di Cesare Pavese

IL COLLOQUIO DEL FIUME

Cesare Pavese

Dopo l'ultimo incontro sulla riva del fiume vagabondai nei prati come facevo da ragazzo. La giornata non voleva finire. Io sapevo che un giorno quelle ore le avrei ricordate come ricordo i pomeriggi abbandonati di tanti anni fa. Ero ridotto come un bambino, troppo ammaccato per sentir altro che il mio corpo, e le angosce mi camminavano davanti come guide. Le seguivo istupidito.
Fabbriche e cupole lontane non superavano le siepi. La campagna diceva il suo vuoto. Senza dubbio ero già entrato nello stato di coscienza in cui tutto può accadere perché piú nulla importa. La cocente distrazione che mi aveva cacciato, si chiariva per ciò che era veramente – un distacco –, e mi trovavo staccato da me stesso al punto che guardandomi intorno ogni cosa era impensata. Saltai senza sforzo, senza volerlo, un corso d'acqua, e camminavo sull'orizzonte come nel sentiero. Ricordi remoti mi salivano agli occhi, quasi fossi felice. E intanto notavo ogni cosa; ripensavo le piante capovolte nel fiume e potevo esitare tra il mondo di sopra e quello di sotto, non sapendo quale fosse il piú verde. «Si riflettono nel cielo dell'acqua», dicevo, e studiavo le nuvole bianche, quasi fossero anch'esse un riflesso.
Il fatto è che qualcuno mi chiamava. Non so perché recalcitrassi. Avrei voluto esser disperso nel mio dolore, e invece sapevo che mi ero distratto e qualcosa mi cresceva dentro che mi occupava tutto quanto. Se quand'ero ragazzo mi avessero detto che mi attendeva quel pomeriggio, avrei risposto che un ragazzo non ha nulla da spartire con i grandi e sarei scappato via. Ora il ragazzo mi chiamava, e non volevo riconoscerlo. Non pensavo che a questo. Fin che sul prato fu lui solo, resistetti. Ma poi comparve anche la scalza, pelle fosca e robusta, il vestito a fiorami. Riannusai, come fosse presente, l'odor dell'estate. Mentre tutto sgorgò, rimasi immobile non potendo far altro, e guardavo esitante le siepi e il sentiero. Rispondevo al ragazzo, a voce bassa, ansioso come un abbandonato. E mi diedi al ricordo.
La donna era scalza, come allora. Allora era salita sul treno sotto i fiorami sventolanti, spinta alla vita da quell'uomo, contadino scuro in faccia come lei, che l'aveva rincorsa ridendo. Avevano in mano una cestetta tutta fradicia, e ci avevano guardati dal bianco dell'occhio. Il treno tornava in città e molti ridevano, pensando sul marciapiede le piante sudice della donna. Ridevano in faccia a quei due, messi di buon umore dalla loro goffaggine.
La scalza non guardò il ragazzo – era seduta abbandonata stringendosi all'uomo, e aveva ancora paglie nei capelli. Di dove venissero nessuno sapeva. Venivano da quelle colline, le avevano negli occhi e nel sudore. Soltanto il ragazzo non rise.
– Io di te non ho riso, – dissi alla scalza che mi venne incontro. – Quel ragazzo lo sa.
– Sí, – disse la voce. – Quand'eri ragazzo eri piú buono con le donne.
Volsi l'occhio, come a dire che in presenza del ragazzo era meglio tacere.
– Non eri un ipocrita allora. Non avevi di questi riguardi.
– Sí che li avevo, – dissi convinto. – Uno è sempre lo stesso.
Il ragazzo lasciava che parlassimo noi. Anzi pareva che sbirciasse per il prato, pronto a prendere la fuga non appena guardassimo altrove.
– Ma allora era giusto. Allora non sapevi che cosa è una donna.
Mi guardò, con gaiezza, dal bianco dell'occhio.
– Adesso dovresti saperlo.
Allora le dissi: – Sempre cosí giovane sei?
Le guardavo la gola e parlavo sommesso. Mi aspettavo un'ingiuria, una smorfia, uno scatto.
Invece fu un rauco sospiro, intonato alla veste e ai capelli arruffati. – Perché me lo chiedi? – disse, e indicò il ragazzo. – Lo sa lui, non ti basta?
La veste ebbe un sussulto sui polpacci.
– Sei sempre la stessa, – dissi animato. – Non dimentico piú quella sera d'estate.
La scalza sorrise di nuovo.
– Ne parliamo sempre. Vuol sapere che cosa facevo, di dove venivo, se quel giorno avevamo pescato. Se non fosse per lui non sarei qui.
– Non ti chiede chi fosse quell'uomo?
– Che uomo?...
Mi guardava sorpresa, poi rise.
– Va', – disse forte. – Lui non è come te. Mi vuol bene. Preferisce il mio vestito a fiori. Diversamente gli farei paura –. Il ragazzo si venne accostando e pareva guardarsi le scarpe. – Gli piace l'odore del sole di allora. Lo vedi?
Tendendo la mano lo prese alla nuca, con quel gesto come si fa ai gatti. Il ragazzo si scrollò e scostò il capo, ma non se ne andava e rimase a guardarci in silenzio. La scalza sorrise – dell'aspro sorriso che le suonava nella voce come ruggine di sole.
– Lo vedi? – mi disse. – Quel che pensa, lo mostra.
– Ti nascondo qualcosa? – chiesi.
Allora mi diede uno sguardo terribile – lo sguardo che avevo temuto da un pezzo – ma senza deporre il sorriso di prima, che parve fasciarlo. Compresi il pericolo che c'era in quegli occhi. Se mi voleva giudicare ero perduto. Col cuore in tumulto, risposi:
– Hai ragione. Sono pieno di cose vigliacche e cattive. Come te. Siamo tutti cosí. Il tempo passa.
La scalza ascoltava. – Non sei piú una bambina e capisci anche tu. Ma quest'oggi non ho fatto del male. E chi mi ha schiacciato non è come te.
Le ultime parole le dissi alla terra. Sentii l'erba frusciare e vidi appena il piede nudo, che già la mano mi palpava la nuca e io mi scostavo scontroso e felice. La voce mi disse: – Non parli con lui?

Capii ch'ero solo, e tornai vagabondo alla riva del fiume, sul greto tranquillo. Li trovai già seduti sui sassi. Mi sedetti tra loro e poggiavo il mento sul ginocchio.
Il ragazzo si alzò e tirò un sasso a fior d'acqua. – Era meglio se non vi parlavo, – cominciai. – Non è la prima volta che vengo sul fiume.
– Dillo a lui, – cantò la scalza.
– Lui lo vedi com'è. Non saprei cosa dirgli. Tutte le volte che lo guardo se ne scappa. A lui basta tirare le pietre e salire sugli alberi.
– E se fosse cosí che ti parla?
Guardavo l'acqua e non capivo piú me stesso. Quell'orrendo sciacquío che avevo in testa da tutto il pomeriggio, pareva adesso un'altra cosa, un sommesso parlare. E non pensavo piú alla sera e all'indomani: lasciavo che il giorno morisse sull'acqua e il mio solo pensiero era che i due non se ne andassero.
– Altre volte, – dissi, – ho aspettato la sera cosí. Chi sa dove.
– Nella vigna, – disse il ragazzo di scatto.
– Nella vigna, – dissi. – Sí. Ma cos'altro ricordo che una vigna e un sentiero di canne, e un glicine sempre uguale sul balcone? Adesso a volte mi vergogno. Si può pensare giorno e notte a queste cose? Eppure, scava scava, è tutto qui.
– Il sentiero va nei boschi, – disse il ragazzo acceso.
– E le canne finiscono al pozzo. I boschi coprono mezza collina e si vedono dal terrazzo.
Allora sorrisi e dissi: – È vero.
– D'estate, – disse il ragazzo, – quando l'uva matura, nella vigna non si sente un filo muovere: se uno sta zitto è come urlasse tanto forte da non sentir piú.
– E con questo? – disse la scalza.
Il ragazzo ci guardò – È il rumore del sole che cuoce la terra.
Io dissi: – È come il tempo, che sul terrazzo del glicine è fermo. Per tutta l'estate. Soltanto, verso sera c'è come uno scatto e poi viene il fresco, e di là dalle piante si sente parlare e discorrere. Il ragazzo mi sgranò gli occhi addosso. Mi ascoltava attento. Io sapevo che cosa accadeva e avrei voluto dirgli tutto. Ripresi: – Anche nei boschi il tempo è fermo. Ma a vederli dal pozzo sembra sempre che nel prato in mezzo ai roveri debba succedere qualcosa. Chi sa mai se di notte non esce qualcuno in quel prato. Tu lo sai?
Rispose in fretta: – Non posso andarci fin lassú.
– Ma lo sai?
Intervenne la scalza: – È un ragazzo.
Noi ci guardammo dentro gli occhi: nei suoi, bambini, opachi, c'erano informi tante cose che dovevano accadere.
– Sciocco, – dissi, – la vigna e il terrazzo non sono niente. Conta solo la paura e il batticuore. E a due passi dalla vigna ne trovi.
– Non tormentarlo, – aggiunse lei. – Lo sa bene.
– Basta sentir passare il treno, – disse il ragazzo.
Non gli chiesi perché. Dissi alla scalza:
– Il tempo è fermo, ma c'è il mondo che aspetta. Capisci? Tutti i treni che passano portano via. Allora sí che verso sera batte il cuore, quando si sente cantare di là dalle piante.
– Come adesso.
Ascoltai lo sciacquío, dal greto alla riva di fronte, incerto nella sera. La campagna era vuota. – Le notti d'estate, – disse forte la scalza, – andavamo a ridere e cantare sotto il paese. Quante volte ci andammo. Tu no?
Il ragazzo taceva, scontroso.
– Non mi lasciavano, – risposi. – Qualche volta scappavo.
– E cantavi cosí?
Allora mi giunse nell'aria vaga una voce, e non era piú il fiume. Si levava lontano, di là da quei prati, di là dalle nuvole – una voce di collina e di vigna, come un coro smorzato. Non risposi alla scalza. Ascoltavo nel canto scoppi netti di risa e parole. Serrai gli occhi felice.
– Cambia il vento e si sente, – disse lei. – Da un paese all'altro. Cantavi anche tu?
– Ascoltavo dal terrazzo nel buio.
– Ma quando scappavi?
– Avrei voluto andare in cima alle colline. Non ero mai solo abbastanza.
Riudii l'aspro sorriso. La scalza si piegò all'indietro quasi a toccarmi – non vidi il ragazzo – e mi disse: – A sfogliare la meliga andavi?
Feci per prenderle la faccia, e si scansò. – Avevi tutto questo, – disse, – e ti vergogni della vigna e del terrazzo?
– Di niente mi vergogno. È passata.
– Non hai piú il batticuore?
Allora le presi la faccia e sentii sotto le dita la bocca schiusa e ridente. La scalza mi stette un momento vicina; mi passò un sospiro rauco sulla gota, poi disse: – Ricordati la vigna e il terrazzo.
Sentii che sfuggiva e non potevo trattenerla. Le dissi sul viso: – Ritorni?
La voce rispose: – D'estate.
La penombra del fiume era tutta sciacquío. Tesi l'orecchio a lungo, se ancora coglievo l'aerea canzone di prima. Poi quando fui solo, proprio solo, mi alzai sotto il cielo e andai via.

L'invisibile, un racconto di Luigi Capuana

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L'INVISIBILE
di Luigi Capuana


- Oh, io sono come le bambine, alla mia età!… - disse la baronessa Lanari, ridendo. - Raccontatemi una fiaba, datemi a leggere una storia maravigliosa e sto a sentirla tutta occhi e orecchi, e divoro le pagine con deliziosa ansietà, anche quando la paura mi fa accapponare la pelle. Le novelle, i romanzi, che ci rappresentano fatti di ogni giorno, che ci ricantano le solite storie, alle quali spesse volte abbiamo assistito da testimoni e un po' forse da interessati; che, per lo meno, somigliano tanto a queste, da darci l'illusione che il merito del novelliere e del romanziere consista unicamente nella bella maniera con cui ha saputo raccontarceli; le solite novelle, i soliti romanzi mi fanno l'effetto di un pettegolezzo trasportato dai salotti nelle pagine di un libro. Invece, le storie maravigliose che hanno la potenza di farci penetrare lentamente, inavvertitamente, nelle regioni dell'impossibile, dell'assurdo, e farci sognare a occhi aperti e darci l'illusione che l'impossibile, l'assurdo siano, o siano stati, per eccezione, per misteriose circostanze, una realtà, non mi deliziano soltanto perché mi trascinano con dolce violenza in un mondo diverso dal nostro, ma anche perché m'ispirano una grande ammirazione per l'ingegno dell'autore. Dopo, appena la sorpresa è passata, io rifletto che le cose lette sono una... una...
- Una sciocchezza, una stupidaggine - l'aiutò a dire il dottor Maggioli. - No, una mistificazione - riprese la baronessa - un capriccio di fantasia artistica (quel che mi sembra sciocco o stupido non riesco a leggerlo); che importa, però? Per una o due ore, per mezza giornata, io ho avuto il beneficio di dimenticare le noie, le miserie, le brutture che mi circondano e mi irritano e mi affliggono, e sono gratissima all'autore da cui è stato prodotto quel miracolo. Mesi fa, ho letto un romanzo inglese dove si narra la storia di un uomo riuscito a rendersi invisibile...
- The Invisible Man - la interruppe il dottore. - L'ho letto anch'io che non soglio leggere romanzi, ed è stata una gran delusione. Mi aspettavo di trovarvi ben altro. L'uomo invisibile non è un'assurdità, è una realtà, ed io credevo che quell'autore avesse voluto raccontarci la storia vera... - Ecco, ora vuol mistificarci lei! - esclamò l'avvocato Veraldi. - Scommetto che ha già pronta qualcuna delle sue storielle...
- Dica pure storielle, non me ne offendo - rispose il dottor Maggioli. - Convengo che possano sembrare tali perché non sono ordinarie. Ma sappia che ogni volta che io racconto in questo salotto qualcuna di quelle che lei chiama storielle, io racconto fatti da me veduti, dei quali posso affermare, fin con giuramento, la veridicità. Mai, come nel caso dell'Invisible Man, è apparso evidente che la fantasia piú sbrigliata sia incapace di raggiungere la prodigiosa potenza della natura. Vi sono attorno a noi, dentro di noi tali forze di cui pochi sospettano l'esistenza, e che si lasciano indietro, a grandissima distanza, tutto quel che possono inventare di piú strano, di piú incredibile un novelliere, un romanziere, un poeta in vena di scapricciarsi con le finzioni piú pazze. Chi sa che cosa s'immaginava di aver prodotto lo scrittore dell'Uomo invisibile! Una cosa sbalorditoia, originalissima... Ebbene, io posso assicurarvi, baronessa, ch'egli è rimasto assai assai al disotto della realtà. L'uomo invisibile io... come dire?... l'ho visto. Sembra una contraddizione, e non è.
- Infatti, giacché era invisibile... - disse la baronessa. - Ma dunque?
- Giudichi lei se ho ragione di parlare cosí. E perché questi signori capiscano di che cosa si tratta, accennerò che il romanziere inglese ha inventato le avventure di un giovane scienziato il quale, per mezzo di reagenti chimici, è riuscito a rendere invisibile il suo corpo, e a dare il pauroso spettacolo di un cappello, di una giacchetta, d'un paio di pantaloni, di un paio di scarpe che camminino da sé, come cosa viva, senza che si scorga il corpo umano da cui sono portati. L'uomo invisibile del quale voglio parlarvi era diverso, meno incoerente senza dubbio dell'eroe del romanziere inglese. Poteva rendersi invisibile quando gli faceva comodo, e interamente, corpo e vestiti. Poteva...
- Non ci metta paura facendoci credere che ciò sia possibile! - esclamò la signorina Bonucci. - Mi vengono i brividi soltanto a pensare che un uomo sia in caso di introdursi non visto in camera mia quando io piú credo di essere sola...
- Si rassicuri - continuò il dottor Maggioli, sorridendo.
- Non è facile arrivare al punto di produrre in sé questo prodigio. Occorre un organismo speciale e tale persistenza nello sforzo per raggiungere lo scopo, da scoraggiare i piú risoluti. E poi - sarebbe lungo spiegarlo - certi singolari stati fisici, come questo di cui parliamo, richiedono, a quel che pare, singolari e corrispondenti condizioni morali da impedire che se ne abusi, servendosene per soddisfare volgari e delittuosi capricci.
- Ah! Se fosse vero - lo interruppe l'avvocato - io vorrei almeno divertirmi!
- Zitto! - disse la baronessa. - Sarebbe un po' difficile che lei, con tutto quell'adipe, divenga invisibile!
- Non era magro - riprese il dottor Maggioli, ridendo anche lui - l'uomo che una mattina venne da me per consultarmi. Si lagnava di un male strano: aveva la sensazione di essere cosí leggero, che camminando gli sembrava di venir trasportato via dal movimento dell'aria piú che dai piedi, quantunque il corpo obbedisse alla sua volontà.
«Sono un po' estenuato» disse, esitando.
Lo invitai a spiegarmi quali potevano essere state le cagioni del male.
«So - rispose - che lei è una persona spregiudicata, e perciò ho preferito di consultarla invece del mio medico ordinario. Ho voluto fare un esperimento, sono riuscito, ma ne risento le cattive conseguenze. Non ritenterò piú; intanto cerco di riparare i danni prodotti nel mio organismo dall'imprudenza commessa».
Per quanto io fossi già ridotto a non maravigliarmi di niente, mentre egli mi esponeva il suo caso, stavo incerto se avessi da fare in quel momento con un individuo malato di corpo o di spirito.
L'uomo piú spregiudicato del mondo non può udire senza incredulità la recisa affermazione di un fatto che contraddice a tutte le leggi della natura da noi credute inviolabili. E colui mi rivelava tranquillamente di essere arrivato a rendere invisibile il suo corpo e i suoi vestiti, e di essersi potuto spingere, cosí, a grandi distanze dal luogo in cui si trovava. Egli attribuiva a queste esperienze l'estenuazione che gli produceva l'effetto di sentirsi trasportato via, piú che di camminare coi propri piedi. «Come ha fatto?» gli domandai, quasi egli m'avesse detto cosa da non recarmi nessuna meraviglia.
«Non vorrei abusare della sua cortesia - rispose - intrattenendolo per parecchie ore con la spiegazione di teoriche un po' astruse. E poi, il preciso "come" non saprei spiegarglielo neppure io stesso. Tenterò».
Era un adepto teosofo, un discepolo di quella scuola religiosa filosofica e scientifica che esiste nell'India e che la signora Blavatsky e i suoi collaboratori cominciano a diffondere in Europa.
Ascoltai, senza batter ciglio, senza mostrare stupore o incredulità; anzi arrivai fino a mostrarmi persuaso della possibilità del fatto.
Soggiunsi però: «Una cosa è la possibilità di un fatto, altra la realizzazione di esso. Io, per esempio, non dirò mai che i palloni, teoricamente, non siano dirigibili; ma, per ora, la scienza non è riuscita a ridurre in pratica la teorica, quantunque molti si siano illusi di aver sciolto l'arduo problema».
«Crede dunque che io sia un illuso? Che il fatto della mia invisibilità sia soltanto un'allucinazione prodotta dallo sforzo nervoso, e dalla perturbazione che n'è seguita nell'organismo?»
«Potrebbe darsi» risposi.
«In questo caso, le darò una prova. Ritornerò da lei fra qualche giorno».
«Perché non darmela ora stesso?»
«Perché occorre una preparazione. La prova sarà tale, che lei non potrà piú dubitare. Intanto pensi al rimedio ora che sa di che cosa si stratta».
«Una buona serie di doccie fredde!»' dissi da me. E credevo di non piú rivederlo, sapendo per esperienza che i malati del genere a cui stimavo che colui appartenesse non sogliono ritornare dai medici, se sospettano di non essere stati presi sul serio.
Ecco ora quel che mi accadde due giorni dopo, e quando non pensavo affatto al mio strano visitatore. Ero rientrato in casa portando cinque o sei bellissime rose thea. Allora amavo di avere qualche fiore sul mio tavolino di studio, in un vasetto giapponese regalatomi da un amico, oggettino bello e raro che mi era carissimo. Le avevo poste io stesso in quel vasetto, mutando l'acqua dei fiori mezzo appassiti che vi si trovavano da due giorni. Riferisco questi particolari per far meglio comprendere il mio stupore quando, terminato di leggere alcune lettere arrivate nella mia assenza, non vidi piú le rose dove con molta cura le avevo disposte poco prima. Accusandomi di sbadataggine, le cercai con gli occhi per la stanza, su altri mobili; le rose erano sparite! Passato il rapido sbalordimento, io non potei piú dubitare di averle poste nel vasetto e cercavo di spiegarmi quel fatto, sospettando una burla di un mio nipotino entrato zitto zitto nello studio mentre ero distratto dalla lettura. Guardai l'uscio, e vistolo chiuso e non socchiuso, rivolsi di nuovo gli occhi al tavolino... Era sparito anche il vasetto! Un brivido di freddo mi corse per le ossa. Davanti a certi fenomeni non c'è tempra d'uomo che resista. E il pensiero volò subito all'incognito che mi aveva promesso una prova della sua invisibilità. Egli doveva essere nello studio, in qualche angolo, e chi sa come rideva della mia paura e del mio imbarazzo! Giacché, lo confesso, io avevo paura e non sapevo come comportarmi.
A un tratto, ecco un foglio di carta da lettere che esce dalla papeterie, si stende sul tavolino proprio nel posto dove io solevo scrivere, ed ecco una penna impugnata da mano invisibile che si muove e traccia dei caratteri celeremente. Mi slancio per afferrare il braccio e fermare la mano, ma la penna cade sul tavolino, e io non sorprendo niente di solido come avevo immaginato. Leggo quel che la penna ha scritto: «Crede ora? Verrò domani» e mi sento preso da vertigine, vedendo riapparire il vasetto con le rose, ma in un altro punto del tavolino.
Eppure - tanta è la nostra avversione a prestar fede a quel che crediamo impossibile! - io sarei rimasto nel dubbio di essere stato vittima di un'allucinazione cagionata da quella che il Braid ha chiamato «attenzione aspettante», se il giorno appresso il mio cliente non si fosse presentato, sorridendo dalla soddisfazione e ripetendomi le parole scritte: «Crede ora?»
«Credo a quel che ho visto - risposi. - Ma questo non prova che voi possiate rendervi invisibile. Prova soltanto che avete un potere misterioso con cui agite a distanza, mettendo in opera forze a me ignote e delle quali si parla in parecchi libri che si occupano di simili fenomeni».
«Ha ragione» egli disse. E rimase pensieroso.
«Senta - riprese dopo lunga pausa. - Io ero risoluto a non abbandonarmi piú a queste pericolose prove di cui già risento i tristi effetti. Ma esse hanno le affascinanti attrattive dell'hascisc e della morfina e sono malefiche altrettanto. Gustate una volta, non è possibile rinunziarvi, neppure avendo la certezza di trovarvi, presto o tardi, la pazzia o la morte. Ha ragione: le prove datele non sono convincenti. Per ringraziarla, a modo mio, della cortesia con cui mi ha accolto e dell'interesse dimostratomi, le darò ora la prova assoluta. Apriamo le finestre».
E accorse egli stesso ad aprirne una; io apersi l'altra. «Si segga là - riprese indicandomi una seggiola - e non dica una parola, non faccia il minimo movimento. Stia soltanto a guardare».
Incrociò le braccia, si piantò ritto su la persona nel centro della stanza, con gli occhi chiusi e la testa rovesciata un po' indietro, immobile per alcuni minuti. Io trattenevo il fiato, ansiosissimo. Vidi uscirgli disotto le braccia un lieve vapore bianco, che discese lentamente lungo le gambe e le avvolse quasi serpeggiando fino alla punta dei piedi; lo vidi risalire con ondate piú dense, aggirarsi attorno al petto, elevarsi fin sopra i capelli e nascondere ai miei sguardi tutta la persona di lui. Poi questa colonna di fumo, che spandeva attorno un odore acre, sgradevole, cominciò a piegarsi da una parte quasi mossa dall'aria che penetrava da una delle finestre e a disperdersi uscendo, come spinta dal vento, con larghi avvolgimenti, dall'altra... Ed io sbarravo gli occhi, stupito di vedere che il fumo biancastro andasse via attenuandosi. Sembrava che il pavimento fumigasse; poi le ultime ondate si staccarono dal suolo tremolanti, si alzarono fino all'altezza delle finestre e svanirono... Il mio cliente era sparito!
Rimase ancora là? Uscí, invisibile, dall'uscio o col fumo? Non saprei dirlo... Era sparito; e non l'ho piú riveduto!

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Lo scintillio del genio di Annie Vivanti

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di Anna Lo Piano

Nella sua lunga e fortunata carriera di scrittrice Annie Vivanti è stata molte cose: drammaturga, opinionista, romanziera. Ha scritto bozzetti di costume per le riviste più lette dell’epoca, reportage di guerra e di viaggio, editoriali politici, raccolte di racconti (Zingaresca, Gioia!, Perdonare Eglantina) e romanzi popolari  in cui si sentono le influenze decadenti e il mito della donna fatale ( Naja Tripudians, Sorella di Messalina, Circe ). Ha fatto parte di quella schiera di donne che a cavallo dei due secoli, in Italia, conquistano una voce e uno spazio per farsi sentire. Immerse nella vita del paese, sono le influencer dell’epoca, portatrici di uno sguardo nuovo sui temi della modernità. Scrivono romanzi “di intrattenimento” che hanno il difetto di essere incredibilmente popolari, e spesso nella narrativa trattano questioni sociali, pubbliche e private, dalle condizioni di lavoro ai matrimoni forzati. Eppure tra gli anni ‘30 e il dopoguerra su di loro scende l’oblio, e come ha messo bene in evidenza Antonia Arslan, vengono escluse dal canone ufficiale, finendo per essere relegate ai margini della galassia letteraria e poi sommerse. La stessa Vivanti, che nei suoi scritti ha trattato, con l’ironia leggera e sferzante che le era propria, il matrimonio, la maternità, l’aborto, la guerra, gli stupri, la convivenza, la sudditanza coloniale, finisce per essere ricordata come la giovinetta che fece innamorare Carducci, la figurina gioiosa ed effimera di una scrittura seduttiva che mima uno stile di vita, e che verrà definita vivantismo.
Scrive di lei il critico Anton Giulio Borgese, nel terzo volume della raccolta di saggi letterari La Vita e il Libro, edito da Zanichelli: “Annie Vivanti scrive capolavori senza volerlo e senza saperlo”  riaffermando, pur nell’apprezzamento, il giudizio di tanta critica novecentesca sulla scrittura femminile, nella quale è l’istinto e il sentimento che guida la penna, più che la capacità consapevole.
Ma lei, pronta alla battuta, in una lettera all’editore Mondadori risponde: “forse in questa affermazione ci sono tre errori, ….ma due certoe continua: 

“in arte nulla richiede maggior fatica che quella apparente spontaneità che il gentile commentatore ammira; come la semplicità in arte non si ottiene che con aspro e spietato e complesso travaglio...Forse i critici non sanno che è facile essere pedanti, pesanti e ampollosi, ma che per scendere con leggerezza negli abissi e illuminarne vividamente le profondità, ci vuole l'alato scintillìo del genio”.


Senza spingersi a indagare l’effettiva presenza o meno del genio, è chiaro che Vivanti è ben consapevole di quello che sta facendo. E il pubblico e anche tanta stampa dell’epoca, sia italiana che straniera, riconosce il suo talento, perché ogni suo libro è un best-seller. Matilde Serao prima e Benedetto Croce poi, le riconosceranno una qualità “virile” della scrittura, che è uno dei massimi riconoscimenti a cui una scrittrice dell’epoca può aspirare in Italia. Rispetto alle autrici a lei contemporanee, Vivanti porta uno sguardo cosmopolita e indipendente. Nata a Londra nel 1866 da Anselmo Vivanti, esule mazziniano, di origine ebraica, e da Anna Lindau, intellettuale tedesca, ebrea anche lei di origine ma convertita al protestantesimo, cresce fra diverse lingue, culture e religioni. Alla morte della madre, che le aveva fatto scoprire la poesia tedesca, studia in Svizzera, segue il padre negli Stati Uniti, poi si mantiene da sola cantando. Dopo il successo di Lirica, conosce John Chartres, un avvocato e giornalista irlandese, poi diplomatico e membro del Sinn Féin, e lo sposa. Dal matrimonio nasce Vivien, che agli inizi del ‘900 diventerà un prodigio del violino, costringendola a viaggiare di teatro in teatro per l’Europa, e a fare i conti con il difficile rapporto tra maternità e arte. Se c’è una qualità propria ad Annie Vivanti, è quella di saper stare nel suo tempo, di coglierne i movimenti e le tendenze, di sapersi anche adattare, ma con uno sguardo sfalsato, fuori posto, che le permette di avere una visione decentrata, che è propria di chi appartiene a diversi paesi e culture, e sa come si costruiscono gli stereotipi, perché li ha vissuti su di sé in prima persona. In questo contesto è interessante rileggere i quattro racconti che scrisse tra il 1896 e il 1899, quando la figlia era ancora piccola e lei viveva negli Stati Uniti, e anche The true Story of a Wunderkind told by its mother, Annie Vivanti, che è del 1905. Pubblicati sulle riviste americane del tempo – Cosmopolitan, The Idler, Mousey’s Magazine, Pall Mall Magazine, Leslie’s Weekly , sulle quali potevano leggersi anche le firme, tra le altre, di Jerome K. Jerome, Conan Doyle,  Mansfield - sono scritti direttamente in inglese, la sua lingua madre.
Di questi solo l’ultimo viene tradotto dalla stessa Vivanti e inserito nella raccolta Zingaresca con il titolo Storia di Vivien. Gli altri, invece, rimangono inediti in Italia fino al 2005, quando Carlo Caporossi, impegnato da tempo in un’operazione di recupero della scrittrice, li traduce per Sellerio, raccogliendoli sotto il titolo di Racconti americani, con una sua introduzione e una post-fazione di Anna Folli.

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Il racconto che apre la raccolta è Perfetta (Perfect). Qui conosciamo subito Karl “un bel tedesco, noioso e sentimentale, con gli occhi dolci e l’animo parsimonioso”. Bastano pochi tratti a Vivanti per anticiparci i movimenti del suo personaggio. Come molti suoi connazionali, Karl è arrivato in Italia per imparare il bel canto (e far finire i suoi talleri nei portafogli profondi ma pur sempre professionali dei più importanti maestri). Ma, soprattutto, per cercare di ritrovare quella qualità italiana di natura, atmosfere, arte, pittoresco, che è in parte reale e in parte creazione del racconto collettivo fatto dai viaggiatori del Grand Tour a partire dal ‘700. Vivanti è estremamente cosciente di questa ricerca di pittoresco che opera il Nord rispetto al Sud, che coglie della realtà solo ciò che corrisponde alle proprie aspettative.  Karl viaggia in Italia “con i suoi sogni” e una valigia gialla che contiene libretti d’opera, camicie di flanella e un sapone fatto in casa per lui dalla madre e dalle sorelle. Un vero e proprio bagaglio mentale. A Firenze, in una delle sale della Galleria Pitti, conosce Francesca Verdon, che gli appare tra le figure angeliche, simile a una Madonna del Murillo. La loro amicizia si snoda tra versi di Dante e suggestioni letterarie, rimanendo giocosa e casta. La perfezione di Francesca, enunciata nel titolo, è infatti quella di avere a New York un marito e una figlia. È dunque una donna affettivamente completa, che non sente l’esigenza di avere altro nella vita, e questo la rende agli occhi di Karl quanto mai desiderabile. Tornati i due giovani alle rispettive patrie, comincia un secondo movimento del racconto. Karl non riesce a dimenticare il suo amore italiano, e decide di sfidare la famiglia e raggiungerla a New York, con un viaggio in nave per lui costosissimo. Se le prime pagine sono punteggiate da espressioni in italiano e citazioni in tedesco, adesso predomina l’inglese. Vediamo Francesca muoversi a suo agio nella bella casa borghese di New York, e la notizia la stupisce ma non sembra scombussolarla troppo. Il marito stesso, con un fare pragmatico e un certo understatement, si rassegna ad accogliere l’amico della moglie. Man mano che il giorno dell’arrivo si avvicina, però, Francesca  comincia ad agitarsi. Capisce che il suo equilibrio è in pericolo e cerca di aggrapparsi a un’immagine di perfezione femminile e familiare da esibire come uno stendardo.

“Ti amo perché tuo marito ti adora, perché ami la tua bambina, perché la tua vita familiare è felice e completa”…era questo l’ideale che lui aveva nella mente e nel cuore, questo accordo perfettamente armonioso, come aveva detto una volta, di tre belle note: il basso forte, profondo e dolce, dell’uomo; il soprano tremulo della bambina;
e quella serena placida nota di mezzo che sa armonizzare le due precedenti…lei.
Così lui la sognava, così l’avrebbe dovuta trovare…dovevano andare tutti e tre a incontrarlo alla nave.


Comincia allora da parte di Francesca un gioco di travestimenti, un’attenzione spasmodica al singolo dettaglio per come la famigliola dovrà apparire all’arrivo della nave al porto, però niente funziona. La bambina piange, sono in ritardo e sudati, mangiano uno “spaventoso sandwich” in un postaccio lungo la strada.
Ed è qui, sul molo, nel tempo nervoso dell’attesa, che avviene il passaggio al terzo movimento del racconto, in una composizione di scenari che fa da contrappunto al triangolo amoroso.

Dalla nave Karl cerca la donna che gli ha rubato il cuore. Si avvicina alla terraferma in una successione di sguardi sempre più ravvicinati, come lo zoom di una cinepresa.

 

“Karl era sul ponte, col vento tra i capelli…prese il binocolo dalla custodia a tracolla e guardò l’immagine grave, engoncé, della Libertà, I suoi drappeggi, e lo stupefacente ponte di Brooklyn. Poi mise a fuoco la banchina - la banchina numero 40 – una piccola zattera rotonda, di legno, brulicante di piccoli esserini. Era laggiù lei?”

 

Cerca Francesca tra la folla, la confonde con altre donne, fino a metterla a fuoco, ed è a quel punto che gli appare nella sua realtà.

 

“La nave approdò, finalmente, e fra l’ondeggiare di tutti quei fazzoletti e quei cappelli, improvvisamente la vide. Era vicina a un uomo grasso, tozzo, che si stava asciugando il viso col fazzoletto, e teneva per mano una bambina…un gruppo di famiglia,
come altri due o tre vicini loro”.

 

Da questo momento gli equilibri cambiano. Cosciente di essere caduto nella trappola di un’illusione, Karl si mostra sempre più freddo, mentre Francesca, diventata improvvisamente una timida ed elogiata “padrona di casa” comincia a rimpiangere di non aver ceduto alle avance del giovane nella cornice romantica di Rimini. Intanto lui, diviso tra il sentimento e la parsimonia, recita Heine e fa i conti di quanto gli è costata questa pazzia. Poi riparte per la Germania congedando l’amica con un dialogo speculare a quello che aveva segnato il loro primo addio in Italia.

“Non ti vedrò mai più?” “Perché no?” disse Karl distrattamente “Il mondo è così piccolo”.


Non è l’unico racconto in cui Vivanti ironizza sull’immaginario “esotico”. Nel Fascino delle solitudini, contenuto in Zingaresca, si prende gioco della propria voglia di spazi aperti e spirito selvaggio, narrando con grande humour l’arrivo di una se stessa mondana e festaiola in mezzo alle scomodità del vero Far West. E la ricerca del pittoresco torna ancora nel racconto Un capriccio (A Fad), in cui però l’ironia si tinge di toni più aspri e il contrasto di due mondi inconciliabili ha un esito drammatico. La storia è quella di Cicillo, ragazzino napoletano, che insieme al padre sbarca il lunario posando come modello per i numerosi artisti che affollano la regione in cerca di ispirazione, o facendo da guida alle turiste della buona società inglese. Sveglissimo e bello, sa come trattare con gli stranieri, sa quello che si aspettano da lui, quello che cercano, e lui si comporta da guitto, interpretando la parte richiesta. C’è in queste descrizioni un esempio dell’ironia graffiante di Vivanti, che mette in luce la violenza implicita nel modo in cui gli Americani si avvicinano a Cicillo. Lo toccano e lo scrutano come un animale, una creatura che non ha dignità propria.

“Gli americani rimasero deliziati. Lo fecero mettere in tutte le pose, gli fecero suonare la chitarra e gli chiesero di cantare, lo riempirono di carezze e di soldi e infine vollero farselo prestare da Mrs Van Cleef. La consigliarono anche di portarlo in America: “Diventerebbe la moda, il capriccio del momento!” dissero le signore. “La gente verrebbe ai tuoi ricevimenti per vederlo, proprio come vanno ai concerti di Paderewski. Vale tanti dollari quanto pesa!”


Leggendo, non posso non pensare agli zoo umani di fine ‘800, in cui donne e uomini di etnie considerate esotiche e inferiori venivano esibiti per il divertimento degli spettatori, o presentati in quadri viventi che esaltavano i meriti del colonialismo. Come anche, nel modo in cui i viaggiatori stranieri di Vivanti cercano in Italia l’immagine sognata attraverso l’arte, ritrovo il processo di appropriazione nei confronti di un Oriente sognato e rimasticato attraverso il filtro occidentale che Edward Said svelerà in Orientalismo. Non certo perché Vivanti potesse avere consapevolezza di quei meccanismi secondo parametri a noi contemporanei, sarebbe anacronistico. Ma certo è stata capace di cogliere le contraddizioni del tempo, intuire le implicazioni dello sguardo coloniale e muoversi in un certo relativismo culturale. Certo per ragioni di fede politica è stato per lei più facile svelare le prepotenze inglesi. Intorno al 1925 scrive un reportage di viaggio dall’Egitto, pubblicato a puntate su La Stampa e poi in volume con il titolo di Terra di Cleopatra, in cui si prende gioco dell’atmosfera sognante rispetto all’Oriente, della passione per le mummie e le piramidi, e lancia sferzate verso il colonialismo (inglese). Un’eco della curiosità morbosa e sensuale per l’esotico si trova anche nel racconto Un tenebroso amore, contenuto nella raccolta Gioia!. Qui, una figura di donna, esibita a teatro come Quadro allegorico vivente della guerra insieme a cani ammaestrati, prestigiatori cinesi e baritoni francesi, solletica le voglie di un marito borghese. È vero, come confessa all’amico, che ha avuto tante amanti, ma quelle erano tutte bianche, mentre lui rimpiange di non aver approfittato dell’occasione di sperimentare qualcosa di diverso quando era in Libia.

“Tu sai che quando ero in Libia le donne indigene, per me.... posso dire che non esistevano. Le avevo in orrore colle loro forme nere e le loro chiome lanose.... Ebbene, strano a dirsi, partendo, quasi non ero ancora a bordo che già provavo come un senso di rammarico.... che so io!, di rimpianto; come se avessi mancato qualche cosa, come se fossi passato accanto a un fiore senza coglierlo, a una sensazione senza provarla…”.

L’ironia qui si trasforma in grottesco attraverso la tecnica del rovesciamento, a cominciare da un’inversione dei capitoli nella progressione del racconto, per cui l’epilogo arriva poco dopo l’introduzione. L’intento non è quello di prendere le difese dei popoli colonizzati, ma di mettere in ridicolo la costruzione di un fantasma del desiderio che non ha nulla a che vedere con la persona reale. Nel racconto questa finzione è messa in evidenza dal fatto che la donna che fa perdere la testa al marito è in realtà un’attrice italiana, che ogni sera si tinge la pelle con un preparato speciale che può essere tolto solo da un altro preparato altrettanto speciale. Ossessionata a sua volta dall’Africana, con la quale si confronta, la moglie coglie al volo l’occasione di sostituirsi alla rivale sul palco, usando il famoso preparato. Il suo tentativo di affascinare il marito sortisce l’effetto contrario. Il pubblico ride, il marito si chiede come ha fatto a lasciarsi incantare, e lei finisce, per un errore, col doversi tenere addosso quella tinta, che non va più via, ma al massimo sbiadisce leggermente.

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 Se in Tenebroso amore prevale l’aspetto della satira di costume, e in Terra di Cleopatra è soprattutto il suo spirito anti-inglese a parlare, in Un capriccio Vivanti riesce a toccare una verità più profonda. C’è davvero qualcosa di struggente nella consapevolezza di Cicillo che spiega a Lucy perché il loro amore è impossibile:

 

“Ti stancheresti del mare e di Cicillo, il tuo Cicillo di nuovo con abiti vecchi, scuri, col cappellaccio e gli stivali rotti. Eh, lo vedi, non ti piace già più…”Cicillo non esiste Lucia” disse, chinandosi su di lei e baciandole i capelli.

“Cicillo è vissuto soltanto per essere guardato e ammirato”

 

Il vivere per lo sguardo dell’altro è anche il tema del racconto Houp-là.
Mrs Berman è costretta dal marito, impresario teatrale, a impersonare di volta in volta diverse figure, dalla Parisian coquette alla spagnola misteriosa, secondo gli spettacoli in cartellone. Come se il teatro estendesse il palcoscenico anche dentro casa, lei e la figlia Elsie si costringono in abiti e maquillage che ne mascherano la figura, e arrivano anche a cambiare il modo di parlare, in un pastiche di parole prese a prestito da varie lingue, non sempre in modo opportuno, con un effetto a tratti decisamente comico:

“Bien, bon bien, la mia farm – sai che questa parola vuol dire moglie in francese – e la mia onfong e questa sei tu, bambina – vengano qui e abbraccino il loro pair.
Pair, per indicare me, è francese, sai…è pronta la cena?”

Durante una delle loro serate ricevono come ospite un certo Herr Müller. Tra lui ed Elsie nasce un sentimento immediato che però sembra non trovare mai una corrispondenza. È come se i due giovani non riuscissero mai a vedersi veramente per come sono, e il racconto si costruisce per contrappunti, riuscendo a rendere, con un gioco di sovrapposizioni di immagini, la sensazione di due sguardi che proseguono in parallelo senza mai fare un vero sforzo per incontrarsi.

“Herr Müller tornò a casa coi capogiri. Tutte le dolci ragazze tedesche che aveva visto e a cui aveva pensato sfollavano ora dalla sua mente – una schiera di tüchtige Hausfrauen bionde, dai volti miti – lasciandogliela vuota per questa giovinetta nuova e selvaggia (…) era diversa da tutto e da tutti, era come la pagina di un romanzo, il fantasma uscito da un sogno(…) Elsie inanto, con le mani sul volto, giaceva al buio, nella sua stanza. Onde grandi di vergogna e di mortificazione le si frangevano nell’anima. Si vergognava di una madre vestita con quel bolero e con in testa il pettine spagnolo, si vergognava di se stessa e della sua chitarra, e anche del signor McCann e di tutti gli attori, e di tutti quegli amici cenciosi. Le bottiglie e I bicchieri che bighellonavano qua e là per la stanza, i sandwich indifferenti, l’inflessibile scatola di sardine, tutto danzava con beffarda atrocità davanti ai suoi occhi chiusi, alternandosi alla visione del volto biondo della sua nuova conoscenza”.


Lui rinnega le ragazze bionde, lei rinnega se stessa. Cercando di togliersi il travestimento da Houp-là, figurina del teatro e della finzione, assume quello, presunto, di un’ideale casalinga tedesca. Quando Müller tornerà per chiederle la mano, finalmente i loro occhi si incontrano:

 

“I loro occhi si incontrarono, dritti e crudeli. Era questa la piccola Houp-là, la piccola selvaggia, affascinante Houp-là per sposare la quale lui aveva percorso tremila miglia…questa sporca, brutta copia delle api industriose di casa sua?”

 

Elsie, per salvarsi dall’umiliazione, finge di essere la cameriera, e prende il messaggio del giovane pretendendo che la famiglia è fuori casa. Malgrado tutto, prevale il lieto fine. Tranne che in Un Capriccio, che termina con il suicidio di Cicillo, i personaggi di Vivanti si salvano da un destino tragico grazie alla capacità della loro autrice di farli rientrare nei ranghi del buon senso. Francesca di Perfetta non si dispera troppo a lungo per la partenza di Karl, e nella carrozza che la riporta a casa, prende la mano del marito in un gesto consueto di affetto. Elsie di Houp-là è ben contenta, una volta diventata Frau Müller, di aver svelato in tempo l’inganno, non dover essere costretta a sostenere il travestimento e l’opera forzata di seduzione, e poter ingrassare in pace. Questo sguardo disincantato e benevolente nei confronti del matrimonio borghese, e dell’amore in genere, si ritrova anche nel racconto Il segreto della Felicità (Zingaresca), in cui elencando i vari tipo di mariti in cui una donna può incappare, si conclude che il migliore è quello del “marito solito”, di cui si conoscono a menadito vizi e virtù. Non c’è però rassegnazione o senso del limite, quanto una consapevolezza ironica rispetto alle illusioni che noi stessi ci creiamo.

Nelle lettere a Carducci, come nel ritratto che ne dà in Apollinea Fiera, ma anche nei bozzetti di vita familiare che restituisce nei racconti dove mescola finzione e autobiografia, si capisce che per lei l’affetto profondo non può essere disgiunto da una bonaria derisione, che l’amore vero confina con un compagnonnage basato sulla capacità di prendersi in giro reciprocamente. D’altronde lei è stata capace di trattate con ironia anche il sentimento più sacro e ammantato di tabù che conosciamo, ovvero la maternità. The true Story of a Wunderkind told by its mother, Annie Vivanti, rivela già nel titolo un paradosso. È la storia vera di una bambina, ma raccontata da sua madre, ovvero con un occhio parziale. Fin dall’inizio riconosciamo la capacità dell’autrice di prendersi gioco di tutto. Dei modi capricciosi e geniali della bambina, delle opinioni delle persone e delle loro reazioni di volta in volta esagerate, ma anche di se stessa, che per prima ha un rapporto ambivalente con il genio. Non vorrebbe che sua figlia diventasse come uno di quei bambini prodigio che le appaiono come scimmiette ammaestrate, eppure è lei stessa che la spinge verso il violino, che le inculca l’idea che nello strumento ci sia un mondo fatato da scoprire. Quello che è certo è che il talento della figlia fa emergere una verità innegabile eppure spesso taciuta: i figli non ci appartengono del tutto, perché geni o no, tutti hanno prima o poi “occhi profondi e solenni con i quali contemplano cose che le madri non riescono a vedere”.

Da questo racconto Vivanti trae un romanzo, sempre in inglese, che sulla scia del successo internazionale traduce anche in italiano con il titolo I divoratori, facendo un secondo ingresso trionfale nel panorama letterario nazionale. Questo processo di autotraduzione non era inconsueto per lei, e anzi lo affronta con la consapevolezza di chi sa che muoversi tra diverse lingue vuol dire anche muoversi tra diverse visioni del mondo.
Nella prefazione al libro scrive:

quando scrissi il mio primo romanzo in inglese, e me lo vidi dinnanzi, lungo e corretto sotto il suo titolo “The Devourers”, mi dissi: “Ma io ho sbagliato! Questo è un libro italiano!” mi pareva di vedere, sotto al severo abito del linguaggio inglese, spuntare due piedi nudi, memori di tarantelle; sotto al britannico cappello del titolo girare due occhi meridionali, cupi e focosi e, chiuso sotto la rigida copertina anglosassone, udivo battere il turbolento cuore latino, che i miei padri hanno lasciato – eredità preziosa – nel mio petto.”

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Se questa introduzione è in parte una teatrale captatio benevolentiae, ecco che qualche riga dopo entra più nel dettaglio:

 

Eccolo ora adorno di sonanti aggettivi latini, cinto dell’ampio fraseggiare italico come da una sciarpa vermiglia. Lucide similitudini gli pendono come anelli d’oro dalle orecchie, e il titolo feroce gli è piantato come un cappello da brigante in testa. Eppure, ora che lo vedo così, mi pare che somigli un poco a un inglese travestito da ciociaro. Perché? Forse perché fu pensato e scritto lontano dal vivido sole italico che illuminò la mia infanzia, lontano dalle tempeste che cinsero di fulmini e di fragori la mia adolescenza. Forse, mentre lo scrivevo nella Casa Grigia del lontano Hertfordshire, le tinte calme del paesaggio inglese sono penetrate nelle pagine, smorzandone i colori troppo vivi, le voci troppo alte.”

 

Vivanti era ben consapevole delle richieste della lingua, e anche della necessaria distanza che serve a volte alla scrittura.

Se alcuni temi dei Racconti americani si ritrovano anche nella produzione successiva, se la Storia di Vivien appare in varie forme, come se il nodo di questo rapporto avesse bisogno di ulteriori passaggi prima di potersi dichiarare chiuso, è certo che non cerca di riproporre questa produzione in Italia, malgrado le insistenze dello stesso Carducci. Mancano dei documenti che ne spieghino la ragione, ma possiamo supporre che pur potendo farlo, non abbia voluto. Forse sentiva che la traduzione le avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo, che avrebbe dovuto cambiare qualcosa. Quel che è certo è che questi racconti sono piccoli gioielli che è bene aver recuperato. Come è bene recuperare anche la voce di Annie Vivanti, tra le altre, per il suo modo modernissimo di essersi saputa interrogare su tutto e aver risposto con ironia, prendendosi gioco, fino alla fine, anche del personaggio che lei stessa aveva creato, e, cosa difficilissima, della sua stessa scrittura. In diversi racconti dialoga con l’io narrante, racconta le difficoltà della composizione, dell’urgenza, gioca con la dispersione che prende lo scrittore nel cercare l’argomento, per cui il soggetto dell’articolo diventa la difficoltà stessa di trovarne uno, in un guazzabuglio di incipit e articoli scritti a metà (La scelta dell’argomento, in Zingaresca). Fino ad arrivare, proprio nella prefazione ai Divoratori, a una poetica dei personaggi che sembra riecheggiare Pirandello, impegnato negli stessi anni nell’elaborazione del rapporto dialettico tra creature e autore, tra verità e finzione:

 

“In breve le mie creature non mi disubbidirono soltanto: divennero i miei padroni. Mi tormentarono, mi rattristarono. Morivano quando non volevo, si innamoravano della gente sbagliata. Quelli che dovevano essere semplici comparse erano sempre lì, parlando forte, imponendosi; mentre quelli che io avevo destinato alle parti principali sparivano, si tenevano nascosti per degli anni e capitoli interi, poi tornavano fuori quando io non li volevo più”

 

Il risvolto di questa presa di coscienza dei personaggi è che distruggono la “tesi dello scrittore”, sacrosanta e intangibile, che finisce per essere divorata dalla Verità della finzione, in un ribaltamento che è anche filosofico, esistenziale:

Talvolta ho pensato che anche al Maggiore degli Autori deve far pena vedere noi – noi inconsci della cordetta che abbiamo infilata nella testa – correre per vie traverse, recitar parti non destinate a noi, guastare le situazioni, precipitare le catastrofi,
volgere in tragedia o in farsa la Grande Narrazione che egli aveva ideata perfetta”.

E a rileggere queste righe appare ancora più evidente la sua consapevolezza, quando rispondeva a Borgese, che l’ironia leggera che ha disseminato in tutta la sua scrittura è davvero frutto di un aspro e tormentato travaglio, un lavoro continuo di scavo nella profondità dell’esistenza.

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Maria Messina – Un feroce silenzio, di Anna Lo Piano

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di Anna Lo Piano

“Festa grande, Donna Bobò?”
“Come Dio vuole, Donna Mara”.
“Son tutti arrivati i parenti dello sposo?”
“Sono arrivati tutti, da Palermo, carichi di regali. Il padre, la madre, la sorella…”
“Figuriamoci Donn’Angela!”

“Rose rosse”, il racconto che apre la raccolta Ragazze siciliane di Maria Messina, inizia con uno scambio di battute tra vicine, da una finestra all’altra, in occasione di un imminente matrimonio. Ma basta che Donna Mara evochi il nome della temibile cognata perché Bobò ammutolisca, come se “Donna Angela in persona si fosse mostrata per chiamarla”, interrompendo “come sempre” la conversazione. Allora, come sorpresa a far qualcosa di sbagliato, rientra nel guscio della casa e chiude le imposte “adagio adagio, per non fare rumore”.

In questa manciata di righe Messina mette in scena il destino che lega i personaggi dei suoi racconti, a cui sono negati insieme voce e movimento. Non si tratta solo di donne, anche se, certo, nel sistema patriarcale in cui sono inserite, sono loro a farne principalmente le spese. Ricorda Valeria Palumbo nel saggio Non per me sola, in cui ritrae la situazione sociale e culturale dell’Italia post unitaria attraverso le voci delle scrittrici, che per buona parte del ‘900 la condizione di sottomissione delle donne è sancita a livello giuridico da leggi che affidano a padri, fratelli e mariti il diritto di tutela e correzione nei loro confronti. In una situazione piena di contraddizioni, sono poche quelle che osano uscire dal recinto di un’appartenenza, riconoscendo il proprio diritto di esistere e prima di tutto come persone. A vari livelli, in tutto il territorio, e ancora di più al sud, le leggi nazionali coincidono e rafforzano quelle ancestrali del maschile forte che si nutre dell’onore e del possesso delle proprie donne, creando una gabbia culturale dalla quale è impossibile uscire perché non si è nemmeno in grado di vederne le sbarre. È un sistema così radicato che il femminismo italiano, per quanto vitale grazie anche alla presenza di una figura come Anna Kuliscioff, rimane un fenomeno circoscritto. Se Sibilla Aleramo si dichiara apertamente femminista e partecipa al dibattito schierandosi a fianco delle sue compagne di lotta, una figura influente come Matilde Serao, che pure ha sfidato gran parte dei tabù e dei limiti della sua epoca, non ne capisce il senso, e, anzi, denigra certe rivendicazioni di uguaglianza. Anche in Maria Messina non c’è traccia di istanze femministe, malgrado dipinga una situazione di profonda ingiustizia nei confronti delle donne. Ma in qualche modo riesce ad arrivare a un nodo più profondo del problema. I suoi personaggi si muovono all’interno di un sistema oppressivo che chiede ai suoi membri di vincere a scapito di altri, una cappa soffocante di ingiustizia che schiaccia chi non sa adattarsi a queste regole. La sopraffazione che si mette in scena non è tanto quella degli uomini contro le donne, quanto dei predatori contro le prede. Come le scriveva Ada Negri in una lettera poi inserita come prefazione alla raccolta Briciole del Destino, i suoi personaggi sono quegli Umili che “non posseggono la forza di offendere, né quella di ben difendersi”. Sono la povera gente “senza risorse, senza fortuna, e forse sì, senza coraggio”. Per ritrarli, per farne materia viva sulla carta, Messina si è affidata a quella intuizione del novellatore che l’amica scrittrice le riconosce, capace di rivelare i moti dell’anima “insoddisfatta e torbida” in una poetica dell’impedimento, della reclusione e del silenzio.

Figure esemplari sono in questo senso Concetto e Bobò di “Rose Rosse”. Ancora ragazza, e in possesso di una piccola dote, Liboria detta Bobò riceve le visite di Concetto che parla “come un mulino a vento”, ma appena si trova faccia a faccia con la ragazza non riesce a dire una parola. Rimasta orfana, Bobò viene presa in casa del fratello e della cognata, Donna Angela, che vivono in un’altra città.  Quello che appare come un gesto caritatevole ha in realtà lo scopo di impedirle il matrimonio, così che la dote possa andare interamente alla nipote Michelina. Concetto segue l’innamorata, trasferendosi anche lui, ma rimane una figura mite e indecisa, e non riesce a opporsi alla volontà di Donna Angela che con gesti risoluti man mano chiude porte e finestre impedendo a Bobò di incontrarlo, e arrivando persino a strappare i suoi messaggi. Angela è una figura violentissima. Forse la più violenta nella schiera di suocere, cognate e finte amiche che popola i racconti. Sono queste le predatrici, pronte a far fuori qualsiasi rivale si presenti all’orizzonte. Le altre donne sono tutte nemiche, perché nella loro visione l’unico modo di salvarsi è aggrapparsi a un uomo, garantendosi una zona di controllo. Come invasori occupano gli spazi, si mettono a guardia delle porte e delle fontane. Hanno corpi saldi e rosei, o sensuali e aspri, che mettono soggezione.

 

Le altre due cognate, no, non piacevano a Vanna. Le ammirava perché erano forti e formose, ma sapeva che non le avrebbe mai amate.
Mentre Vanna discorreva sulla terrazza, si udivano le loro voci imperiose chiamar Ninetta e dare ordini alla domestica. Esse sole si occupavano della casa. Tenevano le chiavi e amministravano gli interessi comuni. Gli stessi suoceri erano soggetti a Remigia e Viola. Fra di loro due erano sempre d’accordo, anche nel contrariare gli altri e specie Maria che aveva un’indole mansueta. Contrariavano per un bisogno del loro spirito autoritario
.” (“Casa paterna”, in Le briciole del destino)

La sottomissione delle “mansuete” avviene tramite una progressiva manomissione della loro identità.
Liboria di “Rose rosse” è deprivata del suo stesso nome. Anche da adulta continuano a chiamarla col nomignolo di ragazza, Bobò, o zia, o “mia cognata”, o “tua sorella”, o “la signorina”. Anche se la stessa Angela ammette che è ridicolo, nessuno riesce a fare altrimenti.
Vanna di “Casa Paterna” subisce l’impossibilità di nominare i luoghi:

 

Quando Vanna era bambina, ogni stanza aveva il suo nome. Un fatto qualunque che si ripetesse o che eccitasse la fantasia dei ragazzi, dava origine a un nuovo e bizzarro nome. Così c’era la stanza “dei fichidindia”, quella “dei libri”, quella “color rosa”.”


Adesso, invece, le stanze non hanno più i vecchi nomi, hanno cambiato disposizione e il mondo rifugio della sua infanzia, che sperava di ritrovare fuggendo dal marito, non esiste più.
Non sono pochi i personaggi che subiscono una progressiva afasia.
Mariangelina, la sarta de “Lo scialle”, è un cuor contento.

 

“Tutta la sua persona minuta e grassoccina aveva un’espressione di feschezza e vivacità che faceva pensare ai passeri quando si mettono sulle grondaie e girano il capino di qua e di là,
senza fermarsi un momento. “

In qualunque momento chi passa sente la sua voce che sfringuella, e anche quando lavora “parla che sembra un moscone”. Ai complimenti, alle provocazioni, risponde sempre a tono. “Un’altra sarebbe passata per civetta”, di lei nessuno osa pensare male. Ma quando si mette in testa di cucirsi uno scialle, un capo di abbigliamento che spetterebbe solo a donne di un rango superiore, tutto precipita. Va a Palermo a cercare la stoffa e in mezzo a quella confusione, ai suoni, alla folla, per la prima volta non riesce a replicare a un complimento. La cattiva reputazione della madre le fa ombra, e il suo desiderio dello scialle viene visto dalle clienti come un atto di superbia, e cominciano ad abbandonarla. A poco a poco si fa sbalordita, taciturna. Non parla quasi più e non sa cosa rispondere alle male lingue. Si interrompe anche il discorso con la madre.

 

“dovevano dirsi qualche cosa, l’una all’altra. Lo sapevano. Specie alcune serate, eterne, opprimenti, che la scema sonnecchiava su una panca e tutto era velato di silenzio e loro due erano sole, faccia a faccia, lavorando in silenzio, tormentate da uno stesso pensiero. Non si dissero nulla.”

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Trovare le parole giuste da dire è difficile, osare farlo ancora di più. Quando Vanna torna a casa, nessuno ha il coraggio di interrogarla per timore della risposta. Lei stessa, infelicissima a Roma insieme al marito, non è riuscita a scrivere “le parole per farsi capire”. Anche con la propria madre.

 

“Non so com’è. O sono cambiata io, o è cambiata lei. Ho tentato di parlarle come prima , quando lei accoglieva tutte le mie confidenze di bimba. Ma non è la stessa cosa. Non sente più ciò che è al di là delle mie parole dette, non vede ciò che di oscuro, di profondo, di inesplicabile mi resta nell’anima.”


Le parole rischiano di essere una maschera dei sentimenti che non sempre è possibile penetrare. Per farlo, bisognerebbe essere in grado di rovesciare il discorso che tiene tutti prigionieri. Ma invece nel discorso spesso ci si finisce invischiati.

 

“una sera il fratello, dopo aver sentito la moglie che non ne poteva più della sua sorveglianza, fece una strapazzata a Bobò: le disse che le femmine si somigliano tutte e basta che vedano un uomo (un vizioso morto di fame qualunque!) per perdere ogni ritegno. Credendo di farle bene, le disse parole brutali. Bobò ascoltò senza fiatare, con la gola stretta: aveva la sensazione di essere messa nuda davanti a tutti”
(“Rose rosse”, in Ragazze siciliane)

 Non c’è bisogno di infliggere ferite fisiche per esercitare violenza, come ben sa il marito di Vanna, che a ragione si vanta che “essere a capo di un giornale significa avere un’arma tra le mani”.
La perdita della parola come menomazione è la metafora dietro la figura di Ciancianedda, termine dialettale per indicare la campanella. Da bambina cantava sempre, ma di quel tempo le è rimasto solo il soprannome. Colpita da una malattia ad appena 16 anni, ha perso l’uso della voce e dell’udito. Immersa in un silenzio profondo, comunica solo a gesti, o con gli occhi, e il padre non vorrebbe darla in sposa perché teme che non possa difendersi. “Tu le puoi fare qualunque tradimento, alle spalle, e lei non ti sente. La puoi ingiuriare e lei non ti ode…” spiega a Graziano, che insiste per sposarla. Alla fine cede di fronte all’amore che lega i due ragazzi, che “si intendono come se parlassero”.  Ciancianedda pare felice, e non si avvede delle chiacchiere delle vicine.

 

“ma la notte , quando al silenzio che la fasciava tutta si aggiungeva anche l’oscurità, allora si sentiva serrare il cuore pensando che mai, mai, essa avrebbe potuto parlare a Graziano con la voce….sapeva quante cose si possono dire, con la voce, quante cose si possono sentire in una parola”

 

Una volta sposata, Ciancianedda spia i gesti del marito, cerca di leggergli il volto. Tolta dalla casa dove è nata, non riesce ad adeguarsi al nuovo quartiere.
Alla fontana incontra Silvestra, che:

“la guardava con curiosità, dondolandosi un poco sui fianchi, poi respinse la brocca della sposa muta per mettervi la propria. Ciancianedda impallidì sotto lo sguardo  degli occhi beffardi, neri come fossero fatti con la tinta dell’orbace.”

 

Silvestra è anche lei una predatrice. Seduce Graziano sentendosi nel giusto, in diritto di farlo perché la menomazione di Ciancianedda la rende inadeguata al ruolo di moglie legittima. Di fronte al mutismo della ragazza, oppone un canto di sirena che fa risuonare ogni sera, stregando Graziano che rimane “incantato, in ascolto. E la sua faccia pareva rischiarata”. Inutilmente Ciancianedda cerca di richiamarlo a sé.
In perenne attesa, sempre più sola nel suo silenzio, passa quasi tutto il giorno sull’uscio, in una postura di confine che è tipica di tante figure dei racconti di Messina. Non osa confidarsi con il padre temendo che per l’onore ucciderebbe Graziano, e allora si decide lei ad andare da Silvestra, con una pistola sotto lo scapolare.
Il finale di questi racconti è il trionfo di questa progressiva afasia. Mariangelina rimane sola con la sorella “scema”, in mezzo ai rumori del vicolo dai quali sono entrambe sempre più escluse. Ciancianedda non ha il coraggio di sparare e torna a casa immersa in una nebbia che riflette il suo silenzio. Concetto e Bobò si incontrano ancora, ma sono capaci solo di scambiarsi frasi smozzicate, che rievocano un tempo passato. Vanna si consola del rumore del mare. Solo nella solitudine di quel mormorio vasto e pauroso sente che il suo spirito si placa. Così, dopo aver perso ogni via di fuga, ed essersi resa conto che non ha la forza di tornare alla sofferenza degli ultimi anni, si libera con frasi di circostanza dal chiacchiericcio della casa e si dirige verso la spiaggia. 

Solo in due racconti di Ragazze siciliane, l’ultima raccolta pubblicata da Messina nel 1928, si trovano personaggi che hanno il coraggio di prendere la parola. Non certo per fare discorsi articolati o ribellarsi, ma semplicemente per dire no a un matrimonio forzato.
Dice Messina nel testo Congedo, posto a epilogo della raccolta:

 

“Camilla o Bobò, Caterina o Bettina, non vivono nelle grandi città siciliane dove le giovanette si preparano a lottare – né più né meno come le loro compagne d’oltre mare.

No. Esse vivono in piccoli paesi chiusi e sperduti, dove l’abitudine segna un ritmo uguale, dove le novità e il rumore giungono tardi, come voci smorzate dalla distanza.”

 

Ci avverte Maria Messina che nessuna di queste ragazze cambia la propria sorte. Eppure nel dire no, nel far sentire una voce squillante, nel respirare senza sentirsi soffocare, c’è una presa in carico di sé, la possibilità di scegliere almeno la propria solitudine, di uscire dal “cerchio della vita per entrare nel proprio mondo spirituale”.

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Il refrattario, un racconto di Caterina Percoto

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IL REFRATTARIO
di Caterina Percoto

Mancava un'ora al levare del sole, e sulle ghiaie del torrente dietro i colli di Oleis, spuntava un giovanotto avvolto in uno oscuro pastrano col cappello calcato sugli occhi, guardingo e quasi sospettoso. Era gonfio il torrente, la barca legata all'altra riva, deserto il paese. Ei fisò il guardo sulle rovine del castello dei conti di Manzano che di là dalle acque gli sorgevano di faccia sulla prima delle fertili colline che da settentrione a levante chiudono la bella vallata di B***. Vide le creste dei negri murazzi che incominciavano a rosseggiare, tornò indietro, e con rapidi passi rasentava il torrente fin là dov'ei freme profondissimo fra due muraglie d'indomabil cretaglia. Evvi un sito dove le sponde han franato, e l'un sull'altro in immensa congerie giacciono i sassi e riempiono il letto sicchè da lungi odi il fragor dell'onda adirata. Ivi ei discende, e saltando d'un masso in un altro passa il torrente: poi di nuovo si dirige verso le colline, e par che ne fisi una, che sorge di mezzo ed ha la cima coronata di pini. A misura ch'ei s'avanza, il suo passo diventa più ratto, la sua fisonomia più serena. Giunto in vetta a quel colle siede un istante vòlto all'oriente, e contempla lo spettacolo d'un'aurora del nostro paese. Oh come bella a lui dinanzi si spande la feconda pianura! Cento villaggi tra quel verde arridono al primo raggio del sole. Era nel principio di primavera, e i campi seminati a frumento parevano tappeti di morbido velluto a cui facevano frangia i filari delle viti e i mori che cominciavano allora a mettere lungo i nitidi rami que' lor fiocchi di foglia, il cui verde allegro e stillante di rugiada guardato di contro al sole nascente, dava sembianza ad ogni albero di un velo sparso a mazzolini di dorato ricamo. Egli stette buona pezza fiso in quella prospettiva, poi surse e s'avviò verso una casuccia che sorgeva a metà del declivio dov'erano più folte le viti, e dove parea più fertile il suolo. Stava per entrare e già alzava la rustica porta del cortile, quando percosso da contrario pensiero tornò piano piano a posarla sul palo biforcato che faceva da stipite, e si ritrasse guardingo, e si nascose dietro una siepe vicina donde vedeva il fonte a cui sogliono attignere i colligiani di que' contorni. Da lì a pochi minuti usciva dal casolare una giovinotta ben tarchiata e ridente, e cantarellando e dondolando sulle spalle le secchie, avviavasi al fonte. Ei le tenne dietro, e quando chinavasi per attignere: - Bondì, Nencia, gridò, che fa mio padre? - La fanciulla spaurita diè un grido, e rossa rossa fisavalo, e non sapeva ravvisarlo. - Tu dovresti essere la Nencia, continuò egli, parmi riconoscerti alla fisonomia; ma, mio Dio, come se' cresciuta e diventata bella! Quand'io partiva da casa eri così piccina! - Sareste Giovanni? diss'ella, e lo guardava maravigliata. - Ma sì, Nencia mia, sono il fratel tuo, sono Giovanni, e vengo alle tue nozze. L'ho saputo, or saranno un quindici dì, che sposi Meni il nostro vicino; e all'udirvi nominare m'è venuto in cuore un tal desiderio di abbracciarvi e di rivedere il mio paese, che ho tosto fermato di voler essere anch'io a coteste nozze, se credessi che nel dimani mi mozzassero il capo. Or di', si può entrare in casa? - Entrate pure, entrate liberamente, non vi sono che i vecchi; - e lasciate sul margine della fontana le secchie, corse tutta giuliva a portare in casa la lieta notizia. Uscirono i due vecchi ad abbracciare il loro primogenito, e la fanciulla corse giù pel colle a chiamare i fratelli e la cognata ch'erano già pe' campi. Ei mancava da otto anni, erano otto anni che quei poveri vecchi piangevano perduto il loro amato figliuolo! Sulla canuta lor fronte ei vedeva scritti a caratteri tremendi questi otto anni di dolore a cui li aveva condannati. Oh se avesse saputo rassegnarsi ai voleri del cielo! Ora egli avrebbe potuto ottenere il suo congedo e ritornerebbe in famiglia contento, coll'anima quieta a scegliersi una compagna, e sostenere la vecchiaia dei suoi cadenti genitori. Invece non era che un esule perseguitato dalla giustizia. Questi otto anni di aborrito servigio militare, per fuggire i quali aveva lasciato la patria e ogni cosa amata, ora si prolungavano su tutta la sua esistenza. Non aveva voluto essere soggetto per un'epoca determinata, e lo era diventato per fin che viveva! Entrò in casa, e nel rivedere gli oggetti compagni della sua fanciullezza, dei soli anni che avea passato felici, gli si strinse il cuore. Indarno per togliersi a quella potente commozione interrogava delle nozze della sorella. Dovevano celebrarsi nel posdimani, egli era venuto a tal fine. Nel luogo del suo esilio un mercatante di buoi che ne aveva venduti un paio a suo padre, senza saperlo, così chiacchierando gliene aveva data la notizia. Sola notizia dei suoi che dopo la sua fuga fosse giunta sino a lui! Aveva chiesto del padre, della madre, dei fratelli, degli amici, della patria; e all'udire quei cari nomi, sentì risvegliarsi in cuore tutto l'affetto che loro portava, e risolse rivederli, riabbracciarli, respirare anche una volta l'aria del suo paese; e venne alle nozze di Nencia. Ma la sua situazione era tale, ch'ei non poteva nè accompagnarla all'altare, nè sedersi co' suoi cari alla mensa. Doveva contentarsi di godere di soppiatto per qualche momento la loro compagnia in qualche angolo e separato dagli altri. Non potè fidarsi neppure di rimaner lì in cucina. Sua sorella postasi sulla porta del cortile faceva la guardia; ma lo spavento dei vecchi ad ogni entrare di qualcheduno, spavento che indarno cercavano dissimulare, era indizio troppo pericoloso; risolvette mettersi in sicuro e lasciar in quiete gli altri col salire disopra. Tutta quella bella giornata, ei la passò in una cameruccia oscura dalla cui picciola finestrella vedeva i campi del poderetto su cui viveva la sua famiglia, e ardeva di desiderio di tornarli a percorrere. Quelle viti così rigogliose i cui festoni gli serravano l'orizzonte, egli stesso aveva dato mano a piantarle. Colaggiù una fila di bei mori era come per incanto spuntata dalla terra: si ricordava, ch'era stato suo il progetto del dissodare quella lista di terreno inutile. Dall'altra parte cercava indarno una riva di vecchie viti alla cui ombra egli aveva mille volte guidato al pascolo i buoi. Erano state tolte, vangata l'erba e rinnovate le piantagioni declinando la terra a mezzogiorno. Tutti questi cambiamenti operati nella sua assenza erano per lui del più grande interesse, e guardava accorato dall'angusta finestrella al verde dei campi e alle patrie colline. A poco a poco mancava la luce, un velo si distendeva tranquillamente su quel paese per lui pieno di tante memorie, ed egli assorto ne' suoi pensieri assopivasi placidamente come la natura già scolorita e già discesa in grembo alla notte. Le campane dei villaggi circonvicini che ad una, a due, a tre, a più, e poi tutte suonavano l'avemaria vennero a risvegliarlo. Ei conosceva distintamente la voce di ognuna. Questa gli rammentava qualche allegra partita di piacere goduta co' suoi compagni nella sagra di quella villa; l'altra un mortorio di amata persona a cui era intervenuto, e dove il suo cuore aveva tanto patito. Anche la memoria dei dolori sofferti è cara nel luogo dove siam nati. Surse Giovanni, ed affacciatosi alla finestrella, e veduto già tutto oscuro e tranquillo, pensò di scendere. In cucina allestivano la cena; quando lo videro, Nencia andò a chiudere la porta, e poi gli fe' segno di sedersi vicino al fuoco, che in quelle ore fresche della notte e su quella collina, colla limpida sua fiamma, benchè si fosse innanzi colla stagione, faceva ancora dolce invito. Chiacchieravano insieme, espandevano il loro cuore dopo tanti anni di lontananza, e i dolci legami del sangue, rinforzati dal dolore e dall'amore, si facevano sentir più potenti. Picchiano, e prima ch'egli abbia tempo di salire la scala, la porta senza catenaccio si apre, ed entra una donna; la comare Betta, che dal colle vicino veniva a quel casolare a chiedere a prestito cinque libbre di farina. Tutti ammutolirono, e Giovanni tornò a sedersi, abbassò il capo e si tirò il cappello sugli occhi; stava tutto ristretto in sè, e malediva alle vampe del fuoco che gli davan proprio per mezzo alla faccia. Sua madre erasi affrettata d'aprire la madia e colla bilancia in mano pesava la farina; ma l'accorta comare, come per veder meglio dove tagliava il romano, la trasse verso il focolare e china sulla spranga diè un'occhiata di soppiatto allo sconosciuto, mosse le labbra ad un lieve risolino, ringraziò ed uscì. Lo aveva alla ravvisato? Stettero in silenzio alcuni minuti come per dimenticare, se fosse stato possibile, questa disgustosa circostanza che avvelenava la loro gioia; poi cenarono. La Nencia spillò una botticella di vino di ronco che tenevano riservato pel dì delle nozze. Era nero come inchiostro, e guardato di contro al fuoco traspariva limpido e granatino; e nella tazza s'incoronava d'una rosa spumante che ratta dileguavasi spandendo un gratissimo effluvio come di fraghe. In poco d'ora ei fe' loro svanire di mente la malaugurata comparsa della Betta, e li tornò all'ilarità di prima. Il dimani era giornata di grande impiccio per quella buona famiglia di colligiani. Trattavasi di apparecchiare il pasto, la dote, i vestiti, di fare le convenienze della partenza; insomma era la vigilia delle nozze di Nencia. Cominciò prima dell'alba un andirivieni di persone, che continuò tutta la giornata, e che obbligava Giovanni a viversi rintanato peggio di qualunque prigioniero. Ora, era una frotta di giovinotte che cercavano della Nencia per salutarla; ma in fatto per vedere l'abito nuziale, il fazzoletto, gli anelli, e su disopra nella sua cameruccia, e un cicalìo di voci acute, e un prendersi fuori di mano l'una a dispetto dell'altra or quest'oggetto or quello, e provarselo e sentenziare e tripudiare, e un continuo pericolo per il povero refrattario ch'era miracolo sfuggisse ai dardi di que' tanti maliziosi e vivacissimi occhietti. Ora venivano i suonatori per stabilir l'ora e intendersi pel dimani. Abbasso in cucina, chi grattugiava il pane, chi apparecchiava intrisi e tortelli, la madre in maniche di camicia e colla gonna succinta era intenta a lustrare i lebeti, i paiuoli, gli alari. Or entrava una comare portando tegami ed altre masserizie; chè la povera gente in queste occasioni han tutto comune, e si prestano l'un l'altro ciò che tengono, come fossero una sola famiglia. Or un'altra veniva con timo, con amaroco, con menta, e sfoderava la sua sapienza sulla fabbrica degl'indispensabili raviuoli. E così fino all'avemmaria, senza che il povero diavolo potesse mai un momento uscire dal suo nascondiglio. Andavano a trovarlo uno per volta con circospezione, or il padre, or la madre, ora il cognato, or qualcuno degli amici i più fidati, ma anche questi brevissimi istanti di gioia erano amareggiati dalla paura. Non aprivano mai la porta della cameruccia senza che il sangue tutto gli piombasse sul cuore; ed immobile senza trar fiato aspettava la sentenza di morte in ogni faccia che gli si presentava. In mezzo ai più cari discorsi, all'espansioni di più dolce affetto, cadeva in cucina un qualche arnese, davasi un'improvvisa serrata di porta, un abbaiare del cane, una voce od un rumore qualunque non conosciuto bastavano per agghiacciargli sul labbro la parola ed a farlo morire dieci volte per ora. Erano otto anni ch'ei menava questa vita infelice, e non aveva mai tremato così. Quei poveri vecchi, la sua famiglia ch'ei poteva da un momento all'altro gettare nella disperazione, accrescevano di tal maniera i suoi timori, che l'essere venuto a trovarli invece di riescirgli consolazione com'egli si riprometteva, era tormento dei più squisiti. Nel dimani prima della funzione per un solo momento vide la Nencia, e non gli fu possibile d'abbracciare nessuno degli altri. Appoggiato alla sua finestrella aspettava che passassero da una svoltata a' piedi della collina, e di lì mentre a due a due sfilavano per andare alla chiesa, egli dal profondo del cuore mandava loro saluti ed auguri. Nella villa la gente s'era affollata lungo la via, e quando attraversavano la piazza e sulla porta della chiesa, Meni osservò alcuni gruppi di curiosi che guardavano alla comitiva nuziale con interesse un po' troppo vivo, e tra loro chiacchieravano, pareva a lui, con qualche sinistro sogghigno. Ma finita la messa, all'udire gli evviva d'una frotta di giovanotti suoi coetanei che lo aspettavano all'uscire di chiesa, e univano la loro voce allo scoppio delle pistole e alle arcate dei violini, tranquillossi, e si persuase che da non altro provenivano i suoi sospetti, se non dall'esser conscio a sè stesso d'un pericoloso segreto. Stavano per sedersi a tavola, quando entrò il Parroco: tutti rispettosi col cappello in mano lo salutavano, e la sposa rossa come un bel pomo corse a baciargli la mano; il buon vecchio le diede un leggiero buffetto sulla guancia, e dicendole alcune parole affettuose e sorridendo con pacata dolcezza, coll'occhio indagatore cercava di Meni, e tiratolo innanzi univa nella sua le mani dei due amorosi giovinotti. Poi si sedeva alla mensa, alla sinistra della sposa, e con quel suo fare tutto alla buona procurava d'inspirare confidenza a que' semplici contadini che tenevano per un grande onore l'aver lì a commensale il loro Piovano, ma non sapevano uscire dal silenzio che loro imponeva la presenza di sì autorevole e venerata persona. Un po' alla volta col vuotare delle tazze cominciarono a trarsi di soggezione, ed alla terza o quarta portata già tutti chiacchieravano a voce alta, ed erano divenuti eguali e sentivansi a lor agio. L'allegria s'era fatta generale, ed il Parroco godeva nel vederli lì tutti insieme festeggiare le nozze della sua buona figliozza. Solamente l'acuto suo sguardo aveva scoperto una nube d'inquietudine sulla fronte aperta e sincera del vecchio Valentino, ed anche, l'allegria di Meni gli pareva forzata. In quanto alla Nencia, più d'una volta l'aveva sorpresa che si asciugava le lagrime; ma un po' di malinconia in fanciulla ch'esce dalla casa paterna è cosa tanto naturale, che non ci aveva posto caso. Tutto ad un tempo s'ode abbaiare il cane, e poi una forte picchiata. Il più giovane dei fratelli della Nencia corre ad aprire, ed entrano l'agente comunale, il cursore, tre contadini dei più anziani, e nella corte seguivano altri ancora. Il Parroco dà una rapida occhiata a sè d'intorno, e vede messer Valentino pallido come la morte, Meni che pareva lì basito, la Nencia che tremava come una foglia. Si alzò, si fece incontro ai sorvenuti dimandando loro il perchè di una tal visita. Allora l'agente comunale si fe' innanzi cavando di tasca un ordine con cui gli si era comandato d'impadronirsi di Giovanni. - Date qua - disse il Parroco; e cercava degli occhiali. Quando gli ebbe inforcati spiegò la carta come per leggere; ma invece cogli occhi al disopra dei vetri guardava attentamente i circostanti, e stette buona pezza in simile attitudine, che nessuno ardiva disturbarlo, tant'era la venerazione in che l'avevano. - Intanto, buoni amici, accomodatevi, e voi compare, continuò egli rivolgendosi a messer Valentino, fate girare il boccale, chè qui si fa allegria e devono tutti partecipare. - Il povero vecchio, come rianimato dalla voce di lui, cominciò a mescere ed a far sedere i nuovi venuti. Ma sulla porta un contadino faceva cenno ad altri ch'entrassero, e mormorava del ritardo. Se ne accorse il Parroco, e posata la carta sulla mensa, ed incrociate le mani, così cogli occhiali ancora sul naso fisava severo; e ravvisato un giovanotto che si disponeva a salir primo le scale: - Ehi! disse, Michele, facciamo un brindisi alla sposa, - e gli offriva il suo proprio bicchiere; poi vòlto all'agente comunale: - Mi pare, disse, che avrebbero potuto lasciarci almeno terminar di pranzare; non dico mica a voi; voi non fate ch'eseguire il vostro dovere, e fate bene; - e cavata la scatola in atto amichevole gli offeriva una presa, poi ne annusava un'altra, e lentamente assaporandola: - Via, messer Valentino, allegri! che grazie al cielo non ci sono disgrazie. Credevano che vostro figlio Giovanni fosse stato così gonzo da venire alle nozze di Nencia, ma poichè cotesta, come si vede, è una mera fanfaluca, non v'è ragione di spaurirsi. Voi già permetterete a questi galantuomini che salgano disopra, e se ne accertino coi propri occhi. Intanto date loro da bevere, e voi altri accomodatevi; che vi assicuro io che niuno uscirà di qua. - Erano parole di persona autorevole e grandemente amata, sortirono effetto; e tranquillati, cominciarono a girare intorno il boccale, e a fare evviva agli sposi. Alcuni peraltro s'erano posti a' piedi della scala come per essere più certi che nessuno discendesse, tra questi Michele l'ultimo dei coscritti di quell'anno, e che sperava esentarsi, se fosse stato preso il refrattario. La maggior parte, che un certo interesse non avevano, già cominciavano a pentirsi d'esser lì venuti a mettere in iscompiglio quella buona famiglia, e trovavano assurdo d'aver potuto credere che Giovanni fosse ritornato in paese e in famiglia proprio in un giorno di nozze, ed alcuni già ridevano di aver bevuto così grosso e si traevano dietro gli altri, che in una moltitudine il pensare di pochi dà sempre norma al rimanente. Avviene come in un vaso di acqua, se lasci cadere due o tre gocce di vino, d'indaco, o di altro liquore colorante, che tutta la massa si tinge in quello. Un contadino d'aspetto franco, dal gran cappellone e dalla giubba tagliata all'antica, s'era intanto avvicinato al Parroco, e con aria di confidenza soffregava le dita, come per chiedere una presa:
- Oh, compare Martino! gli disse il buon vecchio porgendo la tabacchiera, voi pure siete qui?
- Che vuole, reverendissimo? dietro questi matti....
- Io vi credeva ancora a Venezia.
- Siamo ritornati ieri sera, e, sia ringraziato il cielo, non l'han voluto il mio Tita. Ma ne ho avuto una! la mi capisce... se mel facevano buono, oh ci toccava di morir di crepacuore, mia moglie, mia figlia, e tutti noi! - Or via, me ne consolo; ma dite un po' (e qui appiccavano un dialogo e tutti i circostanti attenti ad ascoltare), come vi è piaciuta Venezia?
- Niente affatto, reverendissimo!
- O diaccine! Non vi è piaciuta Venezia?
- Ma reverendissimo no! che ci preferisco qui il nostro piccolo villaggio di Bolzano.
- E perchè, di grazia, tutta questa antipatía?
- Perchè.... perchè.... da Bolzano, signore, si può uscire quando pare e piace. Io vado, vengo, torno e nessuno mi fa le freghe. Ma da Venezia.... oh! è un altro paio di maniche!
- Siete pure tornato sano e salvo.
- Sì, perchè in fondo sono un galantuomo, ma ce ne ha voluto!... Io l'ho per me, reverendissimo, che quello sia un paese di gran curiosi. - E il Parroco sorridendo e tornando ad offrire la tabacchiera, lo incoraggiava a dirne di belle; e anche gli altri s'erano fatti d'intorno e sghignazzavano a spalle del buon cappellone che col suo tuono spropositato continuava:
- Dappertutto volevano saper chi mi fossi, figlio di chi, quant'anni m'avessi; e poi - le carte! e taffete le spiegazzavano, e squadrarmi dalla punta del naso alle unghie dei piedi. Misericordia! Io vo mille volte in un anno a Bolzano, a Media, a Z*** e nessuno ne fa le maraviglie, e se entro in una osteria sono il ben capitato; e se anche non ho un quattrino, mi danno da bere e da mangiare sul credo quanto al nostro agente comunale e quasi quasi come a vossignoria illustrissima. - Ridevano, ed egli un po' mortificato:
- Io per me, ci sono ito perchè si trattava di Tita; ma prima che ci torni, prima che mi ci facciano mettere più piede in quelle lor brutte bicocche nere, che chiamano gondole....
- Vi ha fatto paura il mare?
- Eh! reverendissimo, non so mica se possa far buon bevere il trovarsi lì in quel brodo in una cuna mal connessa a due sole dita da Patrasso.... E serio serio narrava d'una brutta avventura di cui diceva d'essere stato egli stesso testimonio, e in mezzo all'incredulo sghignazzare degli ascoltanti asseverava:
- Ma se li ho veduti io, padre madre e un loro bimbo; e il mariuolo che li guidava, quando vide imbrogliato l'affare, gettò il remo; e dato un salto nell'acqua, via come un ranocchio si è salvato, e quelle tre povere creature avevano un bel gridare misericordia e tirar giù santi e sacramenti: la barcuccia, dopo aver un poco girandolato come una trottola, ha fatto un buco nell'acqua, che si è tosto rimarginato, e giù in fondo, e nessuno li ha mai più veduti.
- Vi sarà sembrato, compare.
- Eh signore!... È stato lei a Venezia?
- Ma sì, caro compare, più volte, e non mi è mai toccato di vedere nessuna disgrazia.
- Basta.... e lungo la laguna tutte quelle tante gondoline affondate, che stanno lì ancora col becco in aria...? ne ho contate io un numero infinito di qua e di là, e mi sentivo sudar i piedi ne' zoccoli, e non vedevo l'ora d'esserne fuori. Oh insomma, sono stati i gran matti que' primi che si sono pensati d'andar a fare il loro nido proprio nel bel mezzo dell'acqua!
- Ho capito, disse il Parroco ridendo, quando avete scambiato per tante gondole affondate anche i pali che segnano la via, è inutile più oltre contrastare. Ma parmi, diss'egli rivolgendosi all'agente comunale, che la vostra intenzione era di fare un sopraluogo....
- Signore, diss'egli, l'ordine ricevuto.... Ella peraltro ci ha rassicurati....
- No no, buona gente, fate pure il vostro dovere; qui già messer Valentino m'immagino che non vorrà mica averselo a male. Accompagnateli disopra, compare, diss'egli al povero vecchio, che a queste parole tramortito cercava indarno tanta forza da potersi reggere sulle gambe. Nondimeno si mosse, come per servir loro di guida, fece due o tre scalini e, appoggiatosi al muro, lasciò che gli altri salissero senza di lui. Ivi passò alcuni minuti in sì terribile aspettazione, che potrebbe solo descrivere chi, posato il capo sul ceppo fatale, avesse provato lo spavento dell'imminente ghigliottina. Visitarono a una a una tutte le camerucce, salirono sul granaio; poi di nuovo giù in cucina, in corte, nelle stalle e sul fienile, cercarono ogni angolo, e indarno, che non v'era anima viva. Alcuni ridevano di chi aveva prestato così bonariamente fede alle ciance di madonna Betta; altri erano mortificati d'esser lì venuti a far sì brutta figura: si gettavano la colpa l'un su l'altro; e se li avessi chiesti separatamente, ognuno era venuto per pura curiosità, e in quel momento ti sarebbe stato difficile trovare i caporioni dell'impresa se ne eccettui chi aveva segnato il ricorso. Fecero alla meglio le loro scuse, e partirono, lasciando quella povera famigliuola ancora tramortita e incredula d'un esito così insperato. Ch'era dunque stato di Giovanni? Dal suo nascondiglio egli li aveva veduti venire, aveva spiato ogni loro mossa, e quando s'accorse che la maggior parte già stava in cucina, era corso nella cameruccia di sua sorella, e dalla finestra che metteva sull'orto, col coraggio che in simili circostanze presta il pericolo, spiccò un salto, e poi arrampicatosi a un albero aveva scalato il muricciuolo e giù pel ronco attraverso i seminati dov'era più folto il verde, e in un batter d'occhio trovossi su di un viottolo che mette al villaggio dalla parte del cimitero; e passata la chiesa, nella sua confusione corse a rifugiarsi entro la prima porta che vide aperta, ed era il cortile della canonica. Una giovinetta mingherlina e pallida, ma di gentile aspetto, stava intenta ad innaffiare un quadrettino di terra pulitamente rastellato, netto di sassi e cinto di mirto. V'erano anche alcuni vasi su d'una panca lì dappresso, e certo aveva essa lasciato aperto l'uscio nell'entrare, carica dell'acqua ch'era stata ad attignere al fosso vicino. Giovanni non la ravvisò; ma incoraggiato dalla sua dolce fisonomia, le si prostrò dinanzi, e: - Per carità, gridava, salvatemi! ch'e' mi son dietro. - Adelina depose l'innaffiatoio; corse a chiudere l'uscio, e poi, fisato quel povero giovane: - Possibile, disse, Giovanni? Or via, non temete, che qui nessuno ardirà entrare. - Si ricordò egli allora della nipotina del Parroco, e tutti i lineamenti della fanciulletta di quell'epoca gli balzarono repentinamente alla vista della ragazza che gli stava innanzi; l'età peraltro coll'accrescerne le forme le aveva abbellite, e ne' suoi grandi occhi pensosi s'era svegliato un raggio che prima non esisteva. Con rapide parole narrò il pericolo nel quale si trovava, e la pregò di volerlo nascondere finchè si fossero tranquillati e potesse di nuovo espatriare.
- Oh povero Giovanni! diss'ella. Avete fatto bene a venir qui. Ci scommetto che lo zio ne avrà piacere. Questi anni passati vi nominava sempre, e si rammaricava della vostra lontananza. Oh! egli vi proteggerà. E poi, lo pregheremo tanto tanto!... ma voi siete ancora tutto spasimato. - E correva in casa, e poi quand'era per entrare:
- Badate, soggiugneva, se a caso picchiassero, che non vi venisse il pensiero d'andar voi ad aprire! - E tornava con una bottiglia di refosco e con una tazza. Giovanni non voleva bevere.
- Or via, ripigliava Adelina, due dita per amor mio. Sapete pure ch'io vi ho voluto bene. Vi ricordate di quelle lunghe sere d'inverno, quando insieme con Meni, con Luca, cogli altri vostri compagni venivate qui a imparare a far di conto, e poi con lo zio vi preparavate per cantare sull'organo il Missus della novena di Natale...?
- Che bei tempi! diss'egli, e depose la tazza sul vassoio ch'ella teneva in mano.
- Ancora un tantino?
- No, vi ringrazio. - Ella posava la bottiglia sulla panca dov'erano i vasi de' suoi fiori, si sedeva lì dappresso e facevagli luogo perchè ei pure si sedesse. Ma Giovanni era inquieto; ad ogni lieve rumore tendeva l'orecchio, e parevagli sempre che la porta si spalancasse ed entrassero a catturarlo.
- Se a caso venissero, disse la fanciulla, intanto ch'io vo ad aprire, voi correte disopra e chiudetevi nello scrittoio dello zio. Crederanno ch'egli abbia la chiave; e poi, state pur certo che nessuno ardirà entrare là entro.
- Buona Adelina! e la fisava cogli occhi lagrimosi e pieni di gratitudine.
- Ma voi vi eravate dimenticato di me!... Siete stato tanto tempo via....
- Dite piuttosto che voi siete cresciuta, e che mi era difficile a potervi così a prima vista ravvisare.
- Eppure io ho conosciuto subito voi.... e mi pare che se steste mille anni lontano, tanto vi riconoscerei. Mi ricordo sempre le vostre buone grazie. Quand'era malata, e voi ogni sera tornavate dal pascolo con un piattello di fraghe selvatiche per la povera Adelina! E quando dicevano che le more di rovo mi facevano bene, e voi e vostra sorella ce le portavate ogni giorno! e quel vispo passerino che mi regalaste l'ultimo anno prima di partire, e che avevate nudrito a posta per me, e sul capo gli avevate attaccata quella bella crestina rossa di velluto.... Mi è durato più di due anni, sapete? Era così grazioso! Mi volava sulle spalle, sul capo, mi correva dietro come una pollastrella.... - Udivasi un passo posato che si faceva sempre più vicino. È lo zio che ritorna, - disse Adelina, dopo essere stata un momento in attenzione.
- Andate di sopra, potrebbe darsi che fosse in compagnia. - E il giovane obbedì tosto, mentr'ella con precauzione pian piano apriva la porta. Era infatti il Parroco. Adelina gli corse incontro, lo fece sedere lì presso a' suoi fiori, e gli narrò di Giovanni. Il vecchio si fe' tetro, posò la fronte sul pomo del suo antico bastone e stette alcuni minuti senza dir parola.
- E dove è egli? - chiese poscia con accento un po' brusco.
- Di sopra nel vostro scrittoio. - Si alzò, e frastornato entrava in casa; la fanciulla col capo chino tutta mortificata lo seguiva in silenzio. S'era fatto notte, ed egli sulla soglia si fermò come irresoluto.
- Ho fatto male, n'è vero?... disse Adelina quasi piangente.
- Accendi un lume. - Poi quand'ella ritornò prese la candela e salì sopra. Giovanni in atto rispettoso corse a baciargli la mano. Egli tirò innanzi, posò il lume sulla scrivania, si sedette nella sua ampia seggiola a bracciuoli, guardava serio serio quel povero giovane che avvilito stava nel suo cospetto come un delinquente.
- Giovanni.... disse finalmente il prete, povero Giovanni! E chi mai mi avrebbe detto di vederti in questo stato, quando negli anni passati venivi qui tutto allegro coi tuoi compagni, e mi consolavi di tante belle speranze? Tu il primo nella scuola, tu il più morigerato, l'esempio della parrocchia, il mio confidente, il mio giovane amico!... Avevano un bell'inorgoglire di te i tuoi poveri vecchi! Credevano che tu dovessi essere il conforto degli ultimi loro anni.... e Dio ti aveva dato braccia e cuore! Ma non hai saputo resistere all'infortunio e li hai abbandonati.... e hai tradito la famiglia che il Signore ti aveva destinata. Che mai erano otto anni di servizio militare? Che consolazione, se ora ottenuto il tuo congedo, in vece di ritornare come un proscritto fossi venuto a sostenere la loro vecchiaia, e a vivere nel tuo paese da uomo onesto con una compagna che ti amasse e che ti desse dei figli buoni e costumati? Oh! ma la gioventù non pensa a cotesto: il presente è tutto per lei. Si crede libera, padrona di sè, e vuole a ogni costo fare a suo modo, se anche per fuggire una disgrazia dovesse abbracciarne una peggiore. Sai tu quante lacrime hai fatto versare a tua madre? Tremar sempre! piangerti irreparabilmente perduto! non saper nulla di te! Ogni anno della tua lontananza sono stati dieci che tu loro accorciavi di vita! Sono invecchiati, incanutiti prima del tempo, hai mangiato loro il cuore. Nel tuo esilio tu non hai veduto i loro patimenti. Potevi star allegro, perchè la gioventù gode di tutto e presto si affà ad ogni sorte di vita. Tuo padre era malato di crepacuore... e tu forse neppur ti ricordavi di lui.
- Oh mi credete cattivo! - No Giovanni, no; il rammarico di vederti fuori di strada mi cava queste parole che forse ti offendono. Oh se tu sapessi quanto dolore mi ha recato la tua fuga inconsiderata! Ho peraltro più volte dubitato che l'esser lungi dal tuo paese, il menar vita raminga, e Dio sa con che gente! non distruggesse nel tuo cuore quei semi di religione e di affetto, ch'io con tanta consolazione aveva veduto germogliare fin dalla tua prima infanzia, e non ti nascondo che questo pensiero mi faceva un gran male.... ma le lacrime che ora ti vedo mi dicono che sei ancora il mio Giovanni. Fatti in qua poveretto! Oh tu pure devi aver molto sofferto nel viver così lontano da tutti quelli che ti amavano! - E il giovane prostravasi a lui dinanzi, e singhiozzando posava la faccia bagnata di pianto sulle sue ginocchia.
- Dì, e non ti è mai caduto in mente, che mentre eri così lontano potevano morire i tuoi, senza neanche la consolazione di darti l'ultimo addio? E se oggi che sei ritornato, avessi chiesto di questo povero vecchio e per risposta ti avessero mostrato il mio sepolcro, dì, e non avresti avuto rammarico di avermi lasciato partire da questo mondo senza neanche salutarmi?
- Dio mio! Voi mi squarciate il cuore.... Io che vi debbo tanto! io che anche quest'oggi son salvo in grazia vostra?... Ero disopra che sentivo tutte le vostre parole e vorrei potervi ringraziare....
- Ringraziarmi? di che? Ma credi tu, che quando sono venuti a cercarti io sapessi del tuo ritorno? Credi che se lo avessi saputo, gli avrei lì trattenuti in cucina?... E in buona coscienza, avrei io potuto valermi di quel poco di ascendente che ho sui miei parrocchiani per impedire ciò che poi infine era giustizia? Dio lo sa se mi duole di vederti così. Vorrei col mio sangue ridonarti al paese, alla tua povera famiglia: non mai però col danno di un altro. La sorte era toccata a te! Oltre il dovere che abbiamo tutti di sottostare alle leggi del nostro paese, col solo presentarti a cavare il numero, tu promettevi nella maniera la più solenne di accettare, qualunque ei si fosse, il destino ch'ei ti sortiva. Il servigio militare era un debito tuo, che colla tua fuga hai gettato sul capo di un altro, obbligandolo a pagare per te. È stata una mala azione, di cui tu devi render gran conto! Se io ti avessi abbastanza inculcato questi principj, tu forse non l'avresti commessa. Ma non vale richiamare il passato, se non per pensarci a ripararlo. Fra poche ore tu lascerai di nuovo questo paese; e forse per sempre. Io son vecchio, Giovanni, e facilmente non ci rivedremo più! Nel darti l'ultimo addio, lascia che ti preghi di una grazia. Io non vo' sapere come tu sia vissuto questi otto anni; profugo perseguitato dalla giustizia, senza mezzi di sussistenza, senza famiglia, solo nel mondo, la vita a cui ti sei condannato è pochi passi lontana dal delitto. Quando le passioni colla loro prepotenza vi ti spingeranno, ricòrdati degli anni innocenti della tua fanciullezza.... ricòrdati di questo povero vecchio che ti scongiura a voler essere onesto! - Si alzò, e fattosi sulla porta, colla voce ancora commossa chiamò Adelina.
- Vedi di dar da cena a questo giovane, le diss'egli.
- Vi ringrazio, rispose Giovanni, ma non ho bisogno di nulla. Vi prego solamente a far sapere ai miei che son partito, e a consolarli.... - Or bene, ripigliò il Parroco, e apriva la scrivania, spero che non vorrai ricusare questi pochi soldi: tu sai che son povero e non posso offerirti di più. - E insieme colla nipote lo accompagnava sin sulla porta della canonica. Il giovane li salutò, e baciò la mano al buon sacerdote, e gliela bagnò di lacrime. Essi stettero buona pezza sulla porta, e in silenzio ascoltavano i passi di lui che se ne andava, finchè finalmente anche quel leggiero rumore si perdette nelle tenebre della notte.


Circa due anni dopo, sulla sera d'una bella giornata d'autunno Giovanni ritornava a quella canonica. Nel luogo del suo esilio gli giunse una lettera nella quale gli si dava notizia che il buon Parroco si era tanto adoperato coi signori di que' contorni, da poter mettere insieme la somma necessaria per un cambio, e col mezzo di un amico potente ch'egli aveva nella città di Venezia aveva ottenuto il suo completo perdono. Pieno di gratitudine, egli aveva divorato la via, e suo primo pensiero era di correre a' piedi del suo benefattore. Veniva col cuore gonfio di mille affetti. Trovò la porta semichiusa, entrò nel cortile; non v'era anima viva, solo gli ferì la vista il giardinetto di Adelina tutto in disordine. Quel quadrettino ch'ella teneva con tanta cura, era ingombro di male erbe e pieno di sassi, il mirto che lo circondava ingiallito e in più luoghi disseccato, non v'erano più fiori nei vasi, solo un'ortica cresceva nell'angolo dov'egli si ricordava di aver veduto alcune rigogliose pianticelle d'amorini. S'inoltrò in cucina: una vecchia stava filando seduta presso il fuoco: chiese del Parroco. - Sta poco bene, disse la donna, nondimeno aspettate, che lo avvertirò. - L'ordine e la nettezza che ivi altre volte regnavano, erano spente: parevagli tutto deserto. Scese il vecchio, e accolse freddo la riconoscenza e l'amore di lui. Le sue labbra sbiancate non avevano più sorriso. Era morto il raggio eloquente che soleva animargli lo sguardo, ed ora i suoi occhi si movevano lenti e come assiderati. Un'arbore percossa dal fulmine ha un aspetto meno tremendo di quel che avesse per Giovanni quell'uomo così cangiato. Avesse almeno veduta Adelina! Ma quell'amabile orfanella il cui dolce sorriso poteva ravvivare tutti gli oggetti che la circondavano, non comparve quel giorno, ed egli partì confuso, presago di qualche disgrazia. Si ricordava d'essersi ancora spiccato da quella porta piangendo, ma questa volta le sue lacrime erano senza misura più amare!

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La pietas nell'opera narrativa di Salvatore Di Giacomo

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Polidoro editore ha pubblicato le novelle di Salvatore Di Giacomo Mattinate napoletane, restituendo alla narrativa uno dei maggiori esponenti della tradizione letteraria napoletana.

Cattedrale vi propone un estratto della prefazione a cura di Marco Perillo e uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

di Marco Perillo

Nel 1887 Salvatore Di Giacomo aveva ventisette anni. E vagava per Napoli in cerca di storie da raccontare. Vicolo vicolo, lui che già da un paio d’anni era diventato famoso per la scrittura dei testi di alcuni successi musicali, oggi immortali, andava a caccia di scene di vita da poter proporre al giornale con cui collaborava. Di Giacomo non voleva scovare notizie; non era un giornalista come tanti. Era un narratore. Motivo per il quale era alla costante ricerca di spaccati di quotidianità che potessero far balzare agli occhi le diversificate realtà napoletane. Realtà fatte di miseria e di stenti, le stesse che pochi anni prima, nel 1884, Matilde Serao aveva denunciato nel suo Il ventre di Napoli. Di lì a poco, il piccone del Risanamento avrebbe cambiato per sempre i connotati dell’ex capitale borbonica, senza risolvere atavici problemi come la fame, le malattie, l’indigenza. È la “città dolente” narrata anche dal medico svedese Axel Munthe, quella della precarietà sanitaria che già nel 1877 la cronista inglese Jessie White Mario aveva evidenziato nel suo fondamentale saggio La miseria in Napoli. Sebbene possano sembrare simili, gli intenti del giovane Di Giacomo, rispetto alla Serao, a Munthe e alla Mario erano un po’ diversi. C’è poca sociologia e poco sdegno nei racconti di colui che a giusta ragione è considerato il massimo poeta della napoletanità. In essi prevale, più che la denuncia, la pietas, l’immedesimazione nella condizione altrui. Lo sguardo di Di Giacomo è indulgente, la sua penna inizia a intingersi in quel “verismo sentimentale” che da lì in avanti contraddistinguerà tutti i suoi lavori, dalle novelle ai drammi teatrali. Il germe di questa sua poetica risiede esattamente qui, in questi quindici racconti che compongono Mattinate napoletane, il libro che vi trovate tra le mani.

Le bevitrici di sangue
di Salvatore Di Giacomo

Dalle sette e mezzo della mattina fino alle dieci la carneficina delle vacche, al macello di Poggioreale, si compie tra uno strano affollamento di bevitrici di sangue, dura tra i desideri sanguinosi delle anemiche, delle clorotiche, delle povere fanciulle sbiancate in faccia come la cera. Esse accostano alle pallide labbra il bicchiere colmo di quello spumante vin delle vene e bevono d’un fiato, socchiusi gli occhi, la mano che leggermente trema. Intorno seguita la strage, tra un continuo romore di battiture, di tonfi sordi, di catene che si sciolgono, d’argani che rizzano i cadaveri ancor palpitanti delle povere bestie. Dopo bevuto il caldo sangue spicciato dalle carotidi incise, si passa in una stanzaccia nuda e sporca e lì si sciacquano le coraggiose bocche femminili e le mani insanguinate. A parte il bene che può fare questo rimedio novello, lo spettacolo è orribile.

Appena entrati nel macello, come il visitatore si va accostando allo scannatoio, ode un rapido succedersi di colpi sordi, i quali danno la precisa idea di una gran quantità di tappeti sciorinati e battuti da servitori invisibili a un invisibile terrazzo. I tappeti sono cadaveri ancor palpitanti di vitelli, di vacche, di bovi smisurati. I carnefici, appena caduto l’animale sotto il coltello pugnale di questi toreadores del macello, cominciano a menar di gran colpi di mazze sulle reni e sul ventre delle bestie, perché la pelle se ne stacchi. E mentre uno compie codesta bisogna, un altro si vale d’un mantice per gonfiare l’animale, e un altro d’un lungo ferro tondo per frugar nelle viscere. Il sangue scorre d’ogni parte e inonda il pavimento. I garzoni s’accovacciano, radunano con le mani il sangue a pezzi già quasi coagulato, riempiscono scodelle di ferro e queste rovesciano nelle botti preparate in un angolo. Tutto questo è fatto con grandissima rapidità, l’ammazzamento durando tutta la giornata e dovendo i beccai sbarazzarsi in un giorno fin di ottocento animali. Le vacche entrano malinconicamente nell’ammazzatoio. Piegano fino a terra la testa. Annusano il sangue e si volgono intorno. Un primo leggero fremito inconsciente increspa loro la pelle, gli occhi grandi e dolci s’inumidiscono. Attaccate per le corna ai pali dei cavalletti enormi, alle forche bruttate di sangue rappreso, continuano a dondolare la testa inquieta, lasciando mescolare al sangue, per terra, i fili argentei della bava, ond’hanno tutto umido il muso. Subitamente un carnefice s’accosta: nascoso il pugnaletto nella destra, guardingo. Leva la mano. Il pugnale s’abbassa, colpisce tra le corna, penetra, rapidissimo, fin nel cervello, e riappare fumante. Il carnefice dà un balzo, e si scosta. La vacca cade, fulminata. Una sola breve convulsione le agita le gambe, ed è tutto; è morta. La sua compagna si agita, cerca di liberarsi, leva il capo, sbarra gli occhi, spaventata. Ma cade anch’essa sotto l’orribile forca, accanto alla prima. Lì per lì comincia la battitura, cominciano ad agire il soffietto, il ferro tondo, il gran coltello sventratoio. Ma prima, appena l’animale piega le gambe e si rovescia sul dosso, il fornisore di sangue, scalzo, sguazzanti i piedi nel sangue, accosta alla viva fontanella il bicchiere e, correndo, lo porta alla fanciulla anemica. E costei beve d’un subito fino all’ultimo gocciolo, e le labbra e il mento le si dipingono d’un rosso fortissimo, e le dita si sporcano, e gli anellini luccicano tra il sangue gocciante. * * * La gran parte di queste bevitrici si compone di un elemento assai borghese. Sono modistine, sartine, fioriste e simili. Escono dall’ammazzatoio con le punte delle scarpette, coi tomai alti, macchiati. In Napoli l’anemia serpeggia un po’ da per tutto: ora pensate a queste povere ragazze che fanno una vita sedentaria, in un laboratorio, coi lumi a gas d’inverno; pensate a queste giovanette elegantemente vestite che a casa loro dormono in un miserabile sottoscala, senza luce; pensate alle privazioni, alla mancanza dell’aria, del sole, alla mancanza del cibo sano, della carne che costa troppo, e vi spiegherete la mancanza dei globuli rossi.

Ma guardatele, quando, nelle prime ore della mattina, queste fanciulle del popolo attraversano Toledo, in cappellino lucente di conterie, vestite come tante marchesine, le calze nere, di seta, lo stivalino verniciato, la punta ricamata d’un moccichino che scappa fuori dalla saccoccia in petto, la mantiglia sul braccio e l’ombrellino in mano. Son quelle che ieri han bevuto, fortemente, il sangue vivo vivo. Ora guardatele; hanno due soldi in tasca per la merenda, ma le labbra carezzano il gambo d’un fiore, o sorridono deliziosamente a un giovanotto cocchiere padronato, che sorride e minaccia con la frusta elegante...

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Gli ospiti, un racconto di Maria Messina

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Gli ospiti

di Maria Messina

tratto dalla raccolta Piccoli gorghi, Sellerio


Lucia aveva appuntato l'ago e guardava fuori, tutta presa dal lungo stridere delle rondini che passavano a stormi neri e veloci sul cielo turchino. All'infuori del cielo e delle case che, coi loro tetti rossicci e muscosi, pareva si prolungassero fino alle montagne bigie, non si vedeva altro. Pure in quell'aria tepida d'aprile che faceva battere più rapido il cuore mentre il corpo era dolcemente spossato da un'insolita mollezza, Lucia sognava i prati verdi e sconfinati, e pensava a un lungo stradone bianco, tra due file di platani, veduto una volta, tanto tempo addietro. Venivan dalla stanza attigua i soliti piccoli rumori fastidiosi del frequente annusar di tabacco, d'uno sfogliar di giornali, d'un tamburellar di dita sul tavolino, e corrugò un poco la fronte. Da quanti anni era così suo padre? Quasi non lo rammentava più sano e diritto. Oppressa dal silenzio e dalla noia di quel sonnolento pomeriggio, avrebbe voluto almeno moversi un poco per la casa, ma non c'era dove andare. Nella camera grande del malato, dove le finestre eran sempre chiuse e la madre lavorava assiduamente, non voleva andare; l'altre stanze disabitate, e il salotto freddo e mezzo buio – co' suoi quadri a olio, cupi e paurosi, le campane di vetro sui fiori di carta e i mori di velluto bruno dagli smisurati occhi bianchi – non la invitavano. Restava la cucina; spesso vi entrava con la scusa di sorvegliare – perché lì si stava bene e le grandi finestre davan sui campi. Ma se Turiddo, Lisa e Nena eran riuniti a ciarlare, facendo chiasso, al suo comparire tacevano improvvisamente, dandosi gran da fare, strofinando i rami, o spazzando di furia, ancora tutti rossi e animati. E questo le dispiaceva perché sentiva più forte come tutto al suo avvicinarsi diventasse freddo e grave. Il suo viso pallido, un po' lentigginoso, dai grandi occhi castani, appariva sempre triste; e triste era il vestito a bruno che portava già da tre anni per la morte di uno zio. Quel bruno non sarebbe riuscita a toglierlo mai, perché fra tanti vecchi parenti, vicini e lontani, le toccava di rinnovarlo per una nuova morte quando non aveva finito di portarlo per una recente.
Quel giorno non aveva voluto entrare neanche in cucina perché passandovi davanti aveva udito così liete e schiette risate che le era parso peccato interromperle.
Ma aspettava più che mai impaziente che qualche cosa di nuovo accadesse; che almeno qualcuno picchiasse alla loro porta, magari Nina la filatrice che sapeva tante strane e paurose storie di spiriti: una creatura qualunque, per sentirla parlare. Perché le faceva troppo pena che le giornate finissero tutte così uguali, così silenziose. E a mano a mano che i tetti rosseggiavano per il vicino crepuscolo, vedeva avvicinarsi la sera, la sera come tutte le altre. Allora avrebbe posato il ricamo, e poi avrebbe aiutata la madre a spingere il malato, nella sua poltrona a rotelle, nella stanza da pranzo dove Lisa accendeva il lume, quel lume che ogni sera filava un poco.
Poi picchiava zio Nicolino che veniva a far la partita col fratello. Zio Nicolino grande e grigio, che parlava poco, ma quel poco diceva come sentenze; e quando finiva di giocare, aspettando che venisse il servo a riprenderlo, taceva con le mani sulle ginocchia avvolgendo un pollice sull'altro per una mossa abituale che riempiva i suoi lunghi silenzi. Lei e la madre lavoravano una coperta bianca interminabile. Lucia non riprendeva ancora l'ago, ammaliata dalla gran luce rossastra e arancione che avvampava i tetti muscosi, allor che nella cameretta, già mezzo buia, entrò la madre: — Oh, Lucietta – disse, – Bitto ha portato una lettera di tua zia.
— Zia Fifina?
— Proprio. Arriva domani a mezzogiorno.
— Domani a mezzogiorno! – esclamò forte Lucia arrossendo di piacere.
— Piano. Non gliel'ho ancora detto. Ma non aver paura. Glielo dico stasera quando c'è Nicolino, che ha piacere di veder la sorella.
E passarono a prendere il malato. Lucia animata e intimorita, spinse la poltrona con maggior garbo del solito davanti la tavola da pranzo, mentre Lisa temperava la fiamma del lume che al solito filava un poco.
Don Mariannino era di malumore e cominciò a tamburellare con le grosse dita sul tappeto rosso e nero. Lucia riprese a lavorare spiando ora il viso della madre nel timore di scorgervi il suo stesso sgomento, ora quello del padre sperando si rasserenasse. Come entrò zio Nicolino donna Peppina disse: — Oggi ha scritto Fifina.
Don Mariannino cominciò a mescolare le carte come se non avesse udito; ma il fratello guardò la cognata, in segno che voleva sapere.
— Credo che venga... con suo marito.
— Carte – disse don Mariannino accennando con la testa di aver capito. Seguì un lungo silenzio.
— Scopa – avvertiva di tanto in tanto don Mariannino buttando una carta. E Lucia sospirò di sollievo, perché quando vinceva c'era da sperar bene.
— Debbono venire? – chiese il vecchio guardando accigliato la moglie, quand'ebbe finita la partita.
— Pare che sì. Io non ho letto bene.
— Da' qui –. E lesse fra di sé lentamente la breve lettera che gli porse la moglie, mentre il fratello col largo mento sul petto aspettava avvolgendo un pollice sull'altro.
— Ha il proposito di levarmi la pace, costui – borbottò il malato passando la lettera al fratello – avremo la casa sossopra per una settimana buona!
Lucia con le mani umide per l'ansia respirò di sollievo.
E l'indomani Lucia passò le ore dell'attesa preparando, tutta felice, la camera per gli zii, passando in punta di piedi accanto a quella del padre per non fargli sentire alcun fastidio dei preparativi.
Fu una gioia fare spazzare con le finestre spalancate la stanza piena di sole, e aiutare a spolverare e a sprimacciar le materasse; e tutto in fretta per paura di non finire a tempo, e ripetendo: — Svelta, Lisa, se mi trovassero così! – E rideva anche lei, finalmente, mentre nel piacevole lavoro le guance le si colorivano e i capelli castani, così buttati all'indietro e disordinati, apparivan più morbidi e più lucidi.
In fine, con gran cura, apparecchiò il letto con l'aiuto di Lisa ch'era giovane, svelta e cianciona.
— Oh, i bei lenzoli! – esclamava schioccando la lingua.
— Zitta, che mamma non lo sa.
— Già la signora non vuole usare che la roba ordinaria!
— È giusto, per tutti i giorni. Ma per zia Fifina! Pensa, Lisa, che bella signora!
— Oh, sì! Ma non è poi meno gentile voscenza.
— Che c'entra, Lisa?... Non c'è da far paragoni – corresse Lucia scotendo la testa.
— Eh, sì! Vorrei vedere se voscenza facesse la vita della signora sua zia! Vesti cioccone e pare barone. Lei sempre in moto, lei fino a Roma, ai bagni, in campagna, vestita dalle meglio sarte, come una forestiera!...
Voscenza sempre chiusa fra quattro mura... Vorrei vedere, io! Ma quando ci sarà lo sposo... Eh! Uno sposetto bello, ricco e affezionato come il signore suo zio... Chi sa, allora, i bei lenzoli che verranno fuori...
— Se' matta, Lisa! Che sciocchezze vai dicendo? Va', ciarlona, mentre io metto le federe ai guanciali, va' a prendere il tappeto della mia camera.
E scosse la testa pensando che mai, lei, avrebbe avuto lo sposo che le augurava Lisa. Chi si poteva scordare l'ira di don Mariannino quando zia Fifina sposò, e il rancore che portava anche adesso, dopo tanti anni, a zio Giovanni il forestiero?
Guardò la stanza e si compiacque a vederla tutta fresca e ordinata, e, appannate le imposte, corse a pettinare i suoi lunghi capelli e a vestirsi. E poi dovette aspettare molto tempo prima che Turiddo strillasse dal portone: – È venuta la signorinedda – e zia Fifina fosse in casa con le sue valigie e le tre cappelliere e il suo riso gentile che pareva un campanello.
Zia Fifina trovò la sua unica nipote un po' sciupata; e insisté perché gliela lasciassero condurre a Palermo.
— Abbiamo, da tre anni, un villino alle Falde. Un paradiso. E tu ci verrai...
Lucia, stordita da tutto quel parlare, confusa e felice, non sapeva rispondere nulla fuor che ripetere: – C'è papà... non vorrà...
— C'è papà, c'è papà – esclamò una sera zia Fifina – come se ci fosse il Padreterno. Si rispetta il padre, e Dio sa se ho rispettato il mio. Ma le cose giuste... Vuoi stare anche tu su una poltrona a rotelle? Ora ci vado.
— Non ora, per carità. A quest'ora legge il giornale e non si può disturbare.
— Sta' zitta, tu. E col suo impeto corse dal fratello mentre Lucia, sbigottita, si raccomandava a tutti i santi. Li sentì bisticciare, sentì anche la voce di sua madre, e poi udì chiamarsi. Con le ginocchia tremanti, entrò anche lei, mentre zia Fifina le diceva all'orecchio: — Non fare la marmotta, adesso.
Il malato chiese, guardandola con collera: — Tu ci vuoi andare?
— Come vossìa vuole.
— Sciocca! – mormorò la zia.
— Sbrigati. Di' tu quel che vuoi fare.
— A me... mi piacerebbe – rispose Lucia con la gola piena di lacrime, evitando quello sguardo severo – ma sempre se a vossìa non dispiace.
Il vecchio crollò la testa e non rispose nulla, annusando lentamente una presa di tabacco. Le tre donne aspettarono un pezzo una risposta.
— Allora – disse zia Fifina adirata – verrà con noi per una settimana. La ricondurremo noi stessi. E uscì, lasciando il fratello a borbottare qualche cosa che non si capiva.
— Ma così – faceva Lucia nella saletta – senza permesso? No, no.
— Se aspetti il permesso!
— No, no, mi si guasterebbe il piacere.
— Intanto ti divertiresti!
— E la mamma? No, no. Tu non sai come s'incollerisce quando si contraria. E scappò in camera a piangere come una matta, disperatamente, come se tutto fosse finito per lei, perché tutto le era negato così, a poco a poco, continuamente. Sul tardi, quand'era tanto abbattuta, col naso rosso e le palpebre gonfie, venne a trovarla la zia. Era triste anche la zia, quella sera: — Mi pare – disse lentamente – di tornare indietro di sei anni. In questa casa la vecchiezza piglia avanti tempo, per contagio. Anch'io facevo questa vita d'agonia. Ma io avevo più coraggio di te. E poi, che Dio lo benedica, Giovannino m'ha cavato da' guai. Ero una stupida come te, come l'altre. Ma lui m'ha aperto gli occhi. Mi par di vivere solo da sei anni a questa parte. Vedrai – esclamò sorridendo – te lo manderò io uno sposetto come ci vuole!...
Ma Lucia, che non poteva ancora parlare, faceva segno di no e di no con la testa, mentre lacrime più grosse delle prime scorrevano sulle guance arrossate.
— Non piangere. Se proprio vuoi un permesso vado a parlargli di nuovo...
— Non è questo – fece Lucia con un gesto vago, alzando le spalle.
— Ma dimmi, anima mia – pregava la zia fattasi di nuovo pensierosa – dimmi quel che soffri, quel che pensi! Confidati in me. Tante volte, quando si è ragazze come te, si soffrono pene fantastiche. Io lo so... Ma per quanto parlasse e pregasse, Lucia non disse una parola, benché il cuore fosse oppresso e la zia ispirasse una certa fiducia; perché lei non s'era mai confidata con alcuno, e i tristi e malinconici pensieri non li aveva confessati neanche alla mamma, parendole che nessuno avrebbe potuto capirli.
Partivano. Zia Fifina era andata a fare visita ai Barbagallo, e Lucia, aspettandola in camera, andava osservando ammirata a uno a uno i gingilli che ingombravano il tavolino da notte e la cantoniera, quando entrò lo zio.
— Resta pure – invitò cortesemente, vedendola confusa. – Guardavi le sue bazzecole! Vedi quanto denaro mi fa spendere quella cutrèttola...
E accarezzandosi i baffi, con la testa un po' china, la fissava con i suoi occhi che quando osservavano pareva si ficcassero a guardare nell'anima.
— Hai fatto una sciocchezza a non volere interrompere questa noia – aggiunse poi.
— Non mi annoio, io – rispose dignitosamente Lucia come per difendersi dall'esame di quello sguardo.
— Davvero? Beh, non ne parliamo più. Oh, eccoti un piccolo ricordo della nostra visita, già che ti piaccion tanto queste sciocchezze – e scelto un piccolo portafiori azzurro gliel'offrì.
— Grazie – disse Lucia commossa di tanta cortesia a cui non era avvezza, vergognandosi della propria goffaggine. Poi improvvisamente volle andar via, ma non osò dirlo. Sentiva uno strano turbamento dentro di sé, le pareva di fare cosa scorretta a restare in camera, sola con lo zio, mentre strani, confusi e cattivi pensieri l'assalivano, facendola arrossire come se lo zio avesse
potuto leggere nella sua anima agitata. — Vado giù – disse risolutamente.
— Sento Fifina per le scale – rispose lo zio che andava chiudendo ogni oggetto nelle valigie – la saluterai meglio qui.
— Tornerete qualche altra volta? – chiese Lucia con sincerità.
— Chi sa. Tuo padre non si mostra molto lieto delle nostre visite.
— Ma noi?
— Ah, va bene. Per te verremo. La voce dello zio era grave e Lucia sentì un gran tuffo al cuore perché nella sua insolita agitazione, quelle parole le parve volessero dire altre cose ancora che soltanto lei capiva. Si calmò quando vide finalmente entrare zia Fifina.
— Mi sono stancata, sapete – disse entrando – e poi c'è nebbia! Don Mommo ti saluta – aggiunse, e intrecciando le mani intorno al collo del marito e costringendolo a chinarsi lo baciò sulle guance come se non lo vedesse da un pezzo.
Lucia si sentì girare la testa, mentre gli occhi le si velavano. Sentiva un fastidio insopportabile, e quel fastidio glielo dava zia Fifina. Finalmente discese, tanto più che gli zii avevan cominciato a parlare animatamente, sotto voce, come se fossero soli. Collocò il piccolo portafiori sul marmo deserto del suo cassettone; e quel gingillo che in camera di zia Fifina pareva tanto grazioso, su quel mobile apparve sperduto, fuor di posto, come un bottone dorato su una mantellina.
Quando udì lo scalpitio della carrozza uscì nella saletta. Una gran nebbia abbuiava ogni cosa; Turiddo portava le valigie. Gli zii andarono a salutare i due fratelli, che erano già riuniti; zia Fifina baciò commossa la cognata e Lucia che non piangeva. Zio Giovanni le strinse la mano quasi in fretta, dando gli ordini a Turiddo. Erano un po' commossi ma lieti della partenza.
Finalmente discesero e si udì allontanarsi rumorosamente la carrozza sul lastricato ineguale.
Lucia volle andare ancora nella camera degli zii, per ritrovarvi ancora quel non so che di caldo e di allegro che mancava a tutto il resto della casa, e che presto sarebbe mancato anche lì; e le parve, nel crepuscolo grigio e annebbiato, che velava ogni oggetto, di riudire ancora il suono di un piccolo bacio. La chiamavano. Entrò, un po' pallida e distratta, nella sala da pranzo dove i fratelli avevano già cominciato la solita partita, e la madre era di già seduta a lavorare la coperta bianca, come ogni sera, come sempre, come se la venuta degli zii fosse stata sognata in una tepida notte di primavera.

 

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Viaggio di nozze, di Cesare Pavese

I

Ora che, a suon di lividi e di rimorsi, ho compreso quanto sia stolto rifiutare la realtà per le fantasticherie e pretendere di ricevere quando non si ha nulla da offrire; ora, Cilia è morta. Penso talvolta che, rassegnato alla fatica e all’umiltà come adesso vivo, saprei con gioia adattarmi a quel tempo, se tornasse. O forse questa è un’altra delle mie fantasie: ho maltrattato Cilia, quand’ero giovane e nulla doveva inasprirmi, la maltratterei ora per l’amarezza e il disagio della triste coscienza. Per esempio, non mi sono ancora chiarito in tutti questi anni, se le volessi davvero bene. Ora certamente la rimpiango e ritrovo in fondo ai miei più raccolti pensieri; non passa giorno che non rifrughi dolorosamente nei miei ricordi di quei due anni; e mi disprezzo di averla lasciata morire, soffrendo più sulla mia solitudine che sulla sua giovinezza; ma – quello che conta – le ho voluto davvero bene, allora? Non certo quel bene sereno e cosciente, che si deve a una moglie. In verità, le dovevo troppe cose, e non sapevo ricambiarla che con un cieco sospettare i suoi motivi. Ed è fortuna che la mia innata leggerezza non sapesse sprofondarsi nemmeno in quest’acquaccia, contentandomi io allora di un’istintiva diffidenza e rifiutando corpo e peso a certi pensieri sordidi, che, accolti in fondo all’anima, me l’avrebbero avvelenata del tutto. Comunque, mi chiedevo qualche volta: « E perchè Cilia mi ha sposato? » Non so se fosse la coscienza di un mio valore riposto, o di una profonda inettitudine, a propormi la domanda: fatto sta che almanaccavo. Che Cilia mi avesse sposato, e non io lei, non c’era dubbio.
Quelle sere di abbattimento trascorse in sua compagnia a passeggiare senza pace ogni strada, stringendola al braccio, fingendo disinvoltura, proponendo per scherzo di saltare insieme nel fiume – io non davo a questi pensieri molto peso, perchè c’ero abituato –, la stravolsero e la intenerirono, tanto che mi volle offrire, dal suo stipendio di commessa, una sommetta per sostenermi nella ricerca di un miglior lavoro. Io non volli i denari, ma le dissi che trovarmi con lei alla sera, se anche non si andava in nessun posto, mi bastava. Fu cosı` che scivolammo. Cominciò a dirmi con molta dolcezza che a me mancava una compagnia degna, con cui vivere. E che giravo troppo per le strade e che una moglie innamorata avrebbe saputo aggiustarmi una casetta tale che, solo a entrarci, sarei tornato gaio, non importa quanto stanco o disgustato mi avesse ridotto la giornata. Tentai di rispondere che nemmeno da solo riuscivo troppo a tirare avanti; ma sentivo io stesso che non era questo un argomento. « In due ci si aiuta » disse Cilia, « e si risparmia. Basta volersi un po’ di bene, Giorgio. » Io ero stanco e avvilito, in quelle sere, Cilia era cara e seria, col bel soprabito fatto dalle sue mani e la borsetta screpolata: perchè non darle quella gioia? Quale donna più adatta per me? Conosceva il lavoro, conosceva le privazioni, era orfana d’operai; non le mancava uno spirito pronto e grave – più del mio, ne ero certo. Le dissi divertito che se mi accettava cosı` brusco e scioperato com’ero, la sposavo. Ero contento, sollevato dal calore della buona azione e dal coraggio che mi scoprivo. Dissi a Cilia: « T’insegnerò il francese ». Lei mi rispose ridendo negli occhi umili e aggrappandosi al mio braccio.

II

A quei tempi mi credevo sincero e misi ancora in guardia Cilia dalla mia povertà. L’avvertii che guadagnavo appena da finire le giornate e non sapevo ciò che fosse uno stipendio. Quel collegio dove insegnavo il francese mi pagava a ore. Un giorno le dissi che, se intendeva farsi una posizione, doveva cercare un altro. Cilia imbronciata mi offrı` di continuare a far la commessa. « Sai bene che non voglio » borbottai. Cosı` disposti, ci sposammo. La mia vita non mutò sensibilmente. Già nel passato Cilia era venuta certe sere a star con me nella mia stanza. L’amore non fu una novità. Prendemmo due camere ingombre di mobilio; quella da letto aveva una chiara finestra, dove accostammo il tavolino coi miei libri. Cilia sì, divenne un’altra. Avevo temuto, per mio conto, che una volta sposata le desse fuori una volgare sciatteria che immaginavo essere stata di sua madre, e invece la trovai più attenta e fine anche di me. Sempre ravviata, sempre in ordine; persino la povera tavola, che mi preparava in cucina, aveva la cordialità e la cura di quelle mani e di quel sorriso. Il suo sorriso, appunto, s’era trasfigurato. Non era più quello, fra timido e malizioso, della commessa che fa una scappata, ma il trepidante affiorare di un’intima contentezza, pacato e sollecito insieme, serio sulla magra giovinezza del viso. Io provavo un’ombra di risentimento a quel segno di una gioia che non sempre dividevo. « Lei mi ha sposato e se la gode » pensavo. Solo al mattino risvegliandomi, il mio cuore era sereno. Volgevo il capo accanto al suo, nel tepore, e mi accostavo a lei distesa, che dormiva o che fingeva, e le soffiavo nei capelli. Cilia, ridendo insonnolita, mi abbracciava. Un tempo invece i miei risvegli solitari mi gelavano e lasciavano avvilito a fissare il barlume dell’alba. Cilia mi amava. Una volta in piedi, per lei cominciava un’altra gioia: muoversi, apparecchiare, spalancare finestre, guardarmi di sottecchi. Se mi mettevo al tavolino, mi girava intorno cauta per non disturbare; se stavo per uscire, mi seguiva con lo sguardo fino all’uscio. Ai miei ritorni, saltava in piedi pronta. C’eran giorni che non tornavo a casa volentieri. Mi urtava pensare che l’avrei inevitabilmente trovata in attesa – benchè sapesse magari fingere disinteresse –, che mi sarei seduto accanto a lei, che le avrei detto su per giù le stesse cose, o magari nulla, e ci saremmo guardati a disagio, e sorriso, e cosı` l’indomani, e cosı` sempre. Bastava un po’ di nebbia o un sole grigio per piegarmi a quei pensieri. O invece era una limpida giornata d’aria chiara o un incendio di sole sui tetti o un profumo nel vento, che mi avvolgeva e mi rapiva, e indugiavo per strada, riluttante all’idea di non essere più solo e non potere gironzare fino a notte e mangiucchiare all’osteria in fondo a un corso. Solitario com’ero sempre stato, mi pareva di far molto a non tradire. Cilia, attendendomi in casa, s’era messa a rammendare e guadagnava qualcosa. Il lavoro glielo dava una vicina, certa Amalia trentenne, che c’invitò una volta a pranzo. Costei viveva sola, sotto di noi; prese a poco a poco l’abitudine di salire da Cilia col lavoro, e passavano insieme il pomeriggio. Aveva il viso devastato da una scottatura orribile, che s’era fatta da bambina, tirandosi in testa una pentola bollente; e due occhi tristi e timidi, pieni di voglie, che si torcevano sotto gli sguardi, come a scusare con la loro umiltà la distorsione dei lineamenti. Era una buona ragazza; dissi a Cilia che mi pareva la sua sorella maggiore e scherzai e le chiesi se, abbandonandola io un bel giorno, sarebbe andata a star con lei. Cilia mi concesse di tradirla, se volevo, con Amalia, diversamente guai al mondo. Amalia mi chiamava signore e intimidiva in mia presenza, cosa che dava un’allegrezza folle a Cilia e lusingava me un tantino.

III

III Quello scarso bagaglio di studıˆ, che ha in me malamente sostituito la pratica di un mestiere e sta alla radice di tante mie storture e male azioni, poteva riuscire un buon mezzo di comunione con Cilia, se soltanto non fosse stata la mia inconsistenza. Cilia era molto sveglia e desiderava di sapere tutto quanto io sapevo, perchè, volendomi bene, si faceva una colpa di non essere degna di me e nulla che io pensassi si rassegnava a ignorare. E chi sa, se io fossi riuscito a darle questa povera gioia, avrei forse nella tranquilla intimità dell’occupazione comune compreso allora quanto degna fosse lei, e bella e reale la nostra vita, e forse Cilia vivrebbe ancora al mio fianco, con quel sorriso che in due anni le gelai sulle labbra.
Cominciai con entusiasmo, come so fare sempre. La cultura di Cilia eran pochi romanzi a dispense, la cronaca del quotidiano e una dura, precoce esperienza della vita. Che cosa dovevo insegnarle? Lei avrebbe voluto intanto imparare il francese di cui, chi sa come, qualcosa aveva già messo insieme e che, sola in casa, andava rintracciando sui miei dizionari; ma io aspirai più in alto e pretesi di insegnarle addirittura a leggere, a capire i più bei libri, di cui – mio tesoro – un certo numero avevo sul tavolino. Mi gettai a spiegarle romanzi e poesie, e Cilia fece del suo meglio per seguirmi. Nessuno mi supera nel riconoscere quel che è bello e giusto in una favola, in un pensiero; e nel dirlo con accese parole. Mi sforzavo di farle sentire la freschezza di pagine antiche; la verità di tutti quei sentimenti, sperimentati quando né io né lei eravamo nemmeno al mondo; e quanto la vita sia stata bella e diversa per tanti uomini e tanti tempi. Cilia mi ascoltava attenta e mi faceva domande e sovente m’imbarazzava. Qualche volta, che camminavamo per strada o cenavamo in silenzio, lei usciva con una voce candida a chiedermi conto di certi suoi dubbi; e un giorno che le risposi senza convinzione o con impazienza – non rammento –, le scappò da ridere.
Ricordo che il mio primo regalo di marito fu un libro, La figlia del mare. Glielo feci un mese dopo il matrimonio, quando appunto cominciammo le letture. Fino allora né stoviglie né indumenti le avevo comperato, perchè eravamo troppo poveri. Cilia fu molto contenta e foderò il volume, ma non lo lesse mai. Con le scarse economie andavamo qualche volta al cinematografo e qui davvero Cilia si divertiva. Le piaceva anche perchè poteva stringersi al mio fianco e chiedermi ogni tanto spiegazioni, che sapeva capire. Al cinema non volle mai che con noi venisse Amalia, benchè questa una sera gliene avesse chiesto il permesso. C’eravamo conosciuti in un cinema, mi spiegava, e in quella beata oscurità noi dovevamo essere soli. La crescente frequenza di Amalia in casa, e le mie meritate delusioni, mi fecero presto trascurare, e poi smettere, le letture educative. Mi accontentavo ora, quand’ero in vena di cordialità,
di scherzare con le due ragazze. Amalia perse un po’ della sua soggezione e una sera, che tornai dal collegio molto tardi e nervoso, giunse a piantarmi in faccia il suo timido sguardo con un lampo di rimprovero sospettoso. Io fui anche più disgustato all’orrenda cicatrice di quel volto; cercai malignamente di rintracciarne i lineamenti distrutti; e dissi a Cilia, quando fummo soli, che magari Amalia da bambina le era somigliata.
« Poveretta » fece Cilia, « spende tutti i soldi che guadagna, per farsi guarire. Spera poi di trovare marito. » «Ma non sanno che cercare un marito, le donne? »
« Io l’ho già trovato » sorrise Cilia.
« E se ti fosse capitato come a Amalia? » sogghignai.
Cilia mi venne vicino. « Non mi vorresti più ? » chiese balbettando.
« No. »
« Ma che cos’hai questa sera? Ti dispiace se Amalia viene in casa? Mi da` lavoro e mi aiuta. »
Avevo che quella sera non potevo liberarmi dall’idea che anche Cilia era un’Amalia e tutte e due mi disgustavano ed io mi facevo rabbia. Fissavo Cilia con occhi duri e la sua tenerezza offesa m’impietosiva e m’irritava. Avevo visto per la via un marito con due bambini sudici al collo, e dietro una donnetta patita, la moglie. Immaginai Cilia invecchiata, deturpata, e mi sentii serrare in gola. Fuori c’erano le stelle. Cilia mi guardava silenziosa. « Vado a spasso » le dissi, con un brutto sorriso; e me ne uscii.


IV

Non avevo amici e capivo qualche volta che Cilia era tutta la mia vita. Traversando le strade, ci pensavo e mi dolevo di non guadagnar tanto da pagarle ogni mio debito con gli agi e non più avere a vergognarmi rientrando. Nulla dei nostri guadagni sprecavo – non fumavo neppure – e, orgoglioso di ciò, consideravo almeno i miei pensieri cosa mia. Ma che fare di questi pensieri? Passeggiavo andando a casa, guardavo la gente, mi chiedevo come tanti conquistassero fortune e anelavo mutamenti e casi strani.
Mi soffermavo alla stazione studiando il fumo e il trambusto. Per me la fortuna era sempre l’avventura lontana, la partenza, il piroscafo sul mare, l’entrata nel porto esotico col fragore di metalli e di grida, l’eterna fantasticheria. Una sera mi fermai atterrito, comprendendo a un tratto che, se non mi affrettavo a fare un viaggio con Cilia giovane e innamorata, una moglie sfiorita e un bambino strillante me l’avrebbero poi per sempre impedito.
« E se venissero davvero i soldi » ripensai.
«Si fa tutto coi soldi. » Bisogna meritarla la fortuna, mi dicevo, accettare ogni peso dalla vita. Io mi sono sposato, ma non desidero un figlio. Per questo sono meschino. Che davvero con un figlio debba venire la fortuna?
Vivere sempre assorto in sè è cosa deprimente, perchè il cervello abituato al segreto non si perita di uscire in sciocchezze inconfessabili, che mortificano chi le pensa. La mia attitudine agli ombrosi sospetti non aveva altra origine. Qualche volta fantasticavo i miei sogni anche in letto. Mi coglieva d’improvviso in certe notti senza vento, immobili, il fischio remoto e selvaggio di un treno, e mi faceva trasalire accanto a Cilia, risvegliandomi le smanie. Un pomeriggio, che passavo avanti alla stazione senza nemmeno fermarmi, mi sbuca innanzi un viso noto e mi grida un saluto. Malagigi: dieci anni che non lo vedevo. Mano in mano, ci fermammo a festeggiarci. Non più laido e maligno, demonio di chiazze d’inchiostro e complotti al cesso. Lo riconobbi in quel suo ghigno. « Malagigi, ancora vivo? »
« Vivo e ragioniere. »
La voce non era più quella. Mi parlava un uomo. « Parti anche tu? » mi fece subito. « Indovina dove vado.» Raccolse intanto da terra una valigia di pelle, intonata al chiaro impermeabile e all’eleganza della cravatta, e mi prese a braccetto. « Accompagnami al treno. Vado a Genova.»
« Ho fretta. »
« Poi parto per la Cina. »
« No? »
« Tutti cosı`. Non si può andare in Cina. Che cos’avete con la Cina? Invece di farmi gli auguri. Potrei non tornare. Sei anche tu una donna? »
« Ma che mestiere fai? »
« Vado in Cina. Vieni dentro. »
« No, che non posso. Ho fretta. »
« Allora vieni a prendere il caffe`. Sei l’ultimo che saluto. »
Prendemmo il caffè lì alla stazione, al banco, e Malagigi irrequieto m’informava a scatti dei suoi destini. Lui non era sposato. Lui aveva avuto un bambino bell’e morto. Lui la scuola l’aveva lasciata dopo di me, senza finirla. Aveva pensato a me una volta rifacendo un esame. La sua scuola era stata la lotta per la vita. Tutte le ditte se lo contendevano. E parlava quattro lingue. E lo mandavano in Cina. Ribattendo sulla fretta che non avevo, urtato e scombattuto, me ne liberai. Giunsi a casa ancor agitato dall’incontro, balzandomi i pensieri in convulsione dall’inaspettato ritorno dell’adolescenza scolorita all’esaltante impertinenza di quel destino. Non che invidiassi Malagigi o mi piacesse; ma l’improvvisa sovrapposizione a un ricordo grigio, ch’era stato anche il mio, di quella vivida e assurda realtà, da me malamente intravvista, mi tormentava.
La stanza era vuota, perchè adesso Cilia scendeva sovente a lavorare dalla vicina.
Rimasi un po’ a meditare nel buio velato appena dal barlume azzurrino del fornello a gas, su cui sobbolliva quieta la pentola.

V

Molte sere trascorsi cosı`, solo nella stanza, in attesa, dando volte o buttato sul letto, assorto in quell’altissimo silenzio del vuoto, che la foschia del crepuscolo attutiva a poco a poco e riempiva. I brusii sottostanti o lontani – vocio di ragazzi, fragori, strilli d’uccelli e qualche voce – mi giungevano appena.
Cilia s’accorse presto che di lei non mi occupavo rientrando e tendeva il capo, cucendo, dall’alloggetto di Amalia, per sentirmi passare e chiamarmi. Io entravo con indifferenza – se mi sentiva – e dicevo qualcosa e chiesi una volta sul serio ad Amalia perchè non saliva più da noi, dove c’era molta luce, e ci obbligava a sloggiare ogni sera. Amalia non disse nulla e Cilia, distogliendo gli occhi, arrossì.
Una notte, per contarle qualcosa, le accennai di Malagigi e la feci ridere beata di quello strambo figuro. Mi lagnai però che lui facesse fortuna e andasse in Cina.
« Piacerebbe anche a me » sospirò Cilia, « andassimo in Cina. »
Io feci una smorfia. « In fotografia forse, se la mandiamo a Malagigi. »
« E non per noi? » disse. « Giorgio non abbiamo ancora una fotografia insieme. »
« Soldi sprecati. »
« Facciamoci la fotografia. »
« Ma non dobbiamo mica lasciarci. Stiamo già insieme giorno e notte. A me non piacciono. »
« Siamo sposati e non abbiamo un ricordo. Facciamocene una. »
Non risposi.
« Spenderemo poco. La terrò io. »
« Fattela fare con Amalia. »
L’indomani Cilia, rivolta alla parete, con i capelli sugli occhi, non voleva saperne di guardarmi. Dopo qualche moina mi accorsi che resisteva e saltai dal letto infastidito. Anche Cilia si alzò e, lavatasi la faccia, mi diede il caffè con una calma guardinga, abbassando gli occhi.
Me ne andai senza parlare. Ritornai dopo un’ora. « Quanto c’e` sul libretto? » vociai.
Cilia mi guardò sorpresa. Era seduta al tavolino con un’aria smarrita. « Non so. L’hai tu. Trecento lire, credo.» « Trecento e quindici e sessanta. Eccole qua. » E piantai sul tavolo il rotolo. « Spendile come vuoi. Facciamo baldoria. E` roba tua. »
Cilia si alzò e mi venne incontro.
« Perchè fai questo, Giorgio? »
« Perche´ sono uno stupido. Senti, non ho voglia di parlare. I denari, quando ce n’é pochi, non contano più . Vuoi ancora la fotografia? »
« Ma, Giorgio, voglio che tu sia contento. »
« Io sono contento. »
« Ti voglio bene, io. »
« Anch’io. » Le presi un braccio, mi sedetti, e me la tirai sulle ginocchia. « Qui la testa, su. » E feci la voce viziata, dell’intimità.
Cilia non disse nulla e appoggiava la guancia alla mia.
« Quando andiamo? »
« Non importa » bisbigliò .
« Allora senti. » Le presi la nuca e le sorrisi.
Cilia, ancor palpitante, mi stringeva alla spalla e volle baciarmi.
« Cara. Ragioniamo. Abbiamo trecento lire. Diamo un calcio a ogni cosa e facciamo un viaggetto. Ma subito. Adesso. Se ci pensiamo sopra, ci pentiamo. Non dirlo a nessuno, nemmeno Amalia. Stiamo via solo un giorno. Sarà il viaggio di nozze che non abbiamo fatto. »
« Giorgio, perchè non l’hai voluto fare allora? Dicevi che era una sciocchezza, allora. »
« Sì, ma questo non è un viaggio di nozze. Vedi, adesso ci conosciamo. Siamo come amici. Nessuno ne sa niente. E poi, ne abbiamo bisogno. Tu no? »
« Certo, Giorgio, sono contenta. Dove andiamo? »
« Non so, ma si fa presto. Vuoi che andiamo al mare? a Genova? »

VI

Ancora sul treno, mostrai una certa preoccupazione, e Cilia, che alla partenza cercava di farmi parlare e mi prendeva la mano e non stava più in sè, trovandomi cosı` ombroso ben presto comprese e si mise a fissare con una smorfia il finestrino. Io guardavo in silenzio nel vuoto e ascoltavo nel corpo il sussulto, in cadenza, di ruote e rotaie. C’era gente nel vagone, cui badavo appena; al mio fianco scappavano prati e colline; dirimpetto anche Cilia, piegata sul vetro, pareva ascoltasse qualcosa, ma a tratti con occhi fugaci tentava un sorriso. Mi spiò cosı`, a lungo.
Arrivati ch’era notte, trovammo riparo in un grosso albergo silenzioso, nascosto tra gli alberi di un viale deserto. Ma prima salimmo e scendemmo in un’eternità di ricerche tortuose. Faceva un tempo grigio e fresco, che invogliava a passeggiare naso all’aria.
Mi stava invece appesa al braccio Cilia stanca morta e fui ben sollevato di trovare da sederci. Tante strade abbaglianti avevamo girato, tanti vicoli bui, col cuore in gola, senza mai giungere al mare, e la gente non badava a noi. Sembravamo una coppia a passeggio, non fosse stata la tendenza a uscir dal marciapiedi e gli sguardi affannati di Cilia ai passanti e alle case.
Quell’albergo faceva per noi: nessuna eleganza, un giovanotto ossuto mangiava a maniche rimboccate a un tavolino bianco. Ci accolse una donna alta e fiera, con un vezzo di coralli sul seno. Fui lieto di sedermi perchè, comunque, girare con Cilia non mi lasciava assorbirmi in ciò che vedevo e in me stesso. Preoccupato e impacciato, dovevo pure tenerla al fianco e risponderle almeno coi gesti.
Ora, io volevo – volevo – contemplare, conoscere in me solo, la città sconosciuta: c’ero venuto apposta. Attesi sotto, trepidante, a ordinare la cena, senza salire nemmeno a vedere la camera e discutere anch’io. Quel giovanotto mi attirava, baffi rossicci, sguardo annebbiato e solitario. Sull’avambraccio doveva avere, scolorito, un tatuaggio. Se ne andò raccogliendo una rattoppata giacchetta turchina.
Cenammo ch’era mezzanotte. Cilia al tavolinetto rise molto dell’aria sdegnosa della padrona. « Ci crede appena sposati » balbettò . Poi, con gli occhi stanchi e inteneriti: « Lo siamo vero? » mi chiese, carezzandomi la mano.
C’informammo dei luoghi. Avevamo il porto a cento passi in fondo al viale.
« Guarda un po’ » disse Cilia. Era assonnata, ma quella passeggiata volle farla con me.
Giungemmo alla ringhiera d’una terrazza col fiato sospeso. Era una notte serena ma buia, e i lampioni sprofondavano ancora quel fresco abisso nero che ci stava dinanzi. Non dissi nulla e aspirai trasalendo il sentore selvaggio.
Cilia guardava intorno e m’indicò una fila di luci tremolanti nel vuoto. Una nave, il molo? Giungevano dal buio aliti labili, brusii, tonfi leggeri.
« Domani » disse estasiata, « domani, lo vedremo. »
Ritornando all’albergo, Cilia mi stringeva al fianco tenace. « Come sono stanca. Giorgio, che bello. Domani. Sono contenta. Sei contento? » e mi strisciava la guancia sulla spalla.
Io non sentivo quasi. Camminavo a mascelle serrate, respiravo, mi carezzava il vento. Ero irrequieto, lontano da Cilia, solo al mondo. A metà scala le dissi: « Non ho ancor voglia di dormire. Tu va’ su. Faccio due passi per il corso e ritorno ».

VII

E anche quella volta fu la stessa cosa. Tutto il male che ho fatto a Cilia e di cui mi coglie ancora adesso un desolato rimorso, nel letto, sull’alba, quando non posso farci nulla e fuggire; tutto questo male io non sapevo più evitarlo.
Feci ogni cosa sempre come uno stolto, un trasognato, e non mi accorsi di me stesso che alla fine, quand’era inutile anche il rimorso. Ora intravvedo la verità: mi sono tanto compiaciuto in solitudine, da atrofizzare ogni mio senso di umana relazione e incapacitarmi a tollerare e corrispondere qualunque tenerezza.
Cilia per me non era un ostacolo; semplicemente non esisteva. Se avessi soltanto compreso questo e sospettato quanto male facevo a me stesso cosı` mutilandomi, l’avrei potuta risarcire con un’immensa gratitudine, tenendo la sua presenza come la mia sola salvezza.
Ma è mai bastato uno spettacolo di angoscia altrui, per aprir gli occhi a un uomo? O non occorrono invece sudori d’agonia e la pena vivace, che si leva con noi, ci accompagna per strada, ci si corica accanto e ci sveglia la notte sempre spietata, sempre fresca e vergognosa?
Sotto un’alba nebbiosa e umidiccia, quando il viale era ancora deserto, rientrai indolenzito nell’albergo. Scorsi Cilia e la padrona sulla scala, che discinte altercavano, e Cilia piangeva. Alla mia entrata la padrona in vestaglia cacciò uno strillo. Cilia rimase immobile, appoggiata alla ringhiera; aveva un volto spaventoso, disfatto, e tutti i capelli e le vesti in disordine.
« Eccolo. »
« Che c’è, a quest’ora? » feci severo.
La padrona, stringendosi al seno, si mise a vociferare. L’avevano svegliata a metà notte, mancava un marito: pianti, fazzoletti strappati, telefono, questura. Ma era il modo? Di dove venivo?
Io non stavo più dritto e la guardai assente e disgustato.
Cilia non s’era mossa: soltanto, con la bocca dischiusa respirava profondo e il suo viso stirato avvampava. « Cilia, non hai dormito? » Ancora non rispose. Lacrimava immobile, senza battere gli occhi, e teneva le mani congiunte sul ventre, tormentando il fazzoletto.
« Sono andato a spasso » feci cupo. « Mi son fermato al porto. »
La padrona fu per ribattere, alzando le spalle. « Insomma, sono vivo. E casco dal sonno. Lasciatemi buttare sul letto. »
Dormii fino alla luce, sodo come un ubriaco.
Mi svegliai di botto. La stanza era in penombra; giungevano frastuoni dalla strada. Istintivamente non mi mossi: c’era Cilia seduta in un angolo, che mi guardava, e guardava la parete, si scrutava le mani, a scatti trasalendo. Dopo un po’ bisbigliai cauto: « Cilia, mi fai la guardia? »
Cilia levò vivamente gli occhi. Quello sguardo sconvolto di prima le si era come raggelato sulla faccia. Mosse le labbra per parlare; e non disse nulla.
« Cilia non va bene far la guardia al marito » ripresi con la vocetta scherzosa da bimbo. « Hai mangiato, piuttosto? »
La poveretta scosse il capo.
Saltai dal letto allora e guardai l’orologio. « Alle tre e mezzo parte il treno, Cilia, facciamo presto, mostriamoci allegri alla padrona. »
Poi, siccome non si muoveva, le venni vicino e la tirai su per le guance.
« Senti » le dissi, mentre i suoi occhi le si riempivano di lacrime, « è per stanotte? Avrei potuto mentire, raccontarti che mi sono perduto, darti dell’olio. Se non l’ho fatto, è perchè non mi piacciono le smorfie. Mettiti in pace, sono sempre stato solo. Neanch’io » e la sentii sussultare « neanch’io mi sono troppo divertito a Genova. Pure non piango. »

(Viaggio di nozze fu scritto tra il 24 novembre e il 6 dicembre 1936. Venne pubblicato postumo sulla rivista Comunita` (IV, n. 9, settembre-ottobre 1950) e poi incluso nella raccolta Notte di festa per Einaudi nel 1953).

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Serao, Negri, Messina: tre racconti sulla maestra

Matilde Serao

Matilde Serao

di Anna Lo Piano

Tra il 1886 e il 1887, un’Italia ancora fresca di unificazione si trova a seguire compatta un pietoso caso di cronaca: il suicidio di una giovane maestra.

 

Nei primi giorni di giugno 1886, giunse da Pistoja al nostro giornale la notizia secca secca che una maestra comunale in un paesetto di montagna, insidiata nell’onore, si era uccisa in un momento di disperazione. 
È noto che le povere maestre, nei piccoli comuni, sono spesso oggetto di indegne persecuzioni, che le pongono nell’alternativa di darsi al prepotente del luogo o di morire di fame. [...] A nostre spese, quindi, mandammo un nostro redattore, Carlo Paladini, in Toscana, ordinandogli di fare un’inchiesta diligente. Ne venne fuori una storia tanto piena di dolore che quanti la lessero, ne piansero.

(Da “Il processo per la morte di Italia Donati” dal Corriere della sera,
28 aprile 1887)

 

Agli articoli di Carlo Paladini ne seguono altri, si moltiplicano i dibattiti. La storia, alla quale in anni recenti Elena Gianini Belotti ha dedicato un libro dal titolo “Prima della quiete”, ha tutte le caratteristiche per appassionare i lettori.
Italia Donati, arrivata per lavorare come maestra rurale nel comune toscano di Porciano, è presa sotto l’ala protettrice dell’allora sindaco del paese, un tal Raffaele Torrigiani di cui si dice abbia due mogli con le quali vive sotto lo stesso tetto. La dubbia moralità dell’uomo si riversa anche su Italia. I pettegolezzi in paese non fanno che aumentare. I Porcianesi l’accusano addirittura di essere rimasta incinta del sindaco e di avere abortito. A nulla valgono i tentativi di difesa della ragazza, i suoi appelli disperati perché la sottomettano a una visita ginecologica per dimostrare la sua innocenza, ormai nessuno è disposto a credere alla sua versione dei fatti. Alla fine, disperata, si suicida gettandosi in un fosso.
Nel giugno dell’87, anche Matilde Serao scrive un accorato articolo sul “Risveglio educativo” dal titolo “Come muoiono le maestre”, e questo plurale, come quell’è noto in inizio di frase nell’articolo del Corriere, devono metterci in guardia: il caso di Italia Donati, all’epoca, non è isolato. In Italia, alla fine dell’800, le maestre sono vittime di una delle tante contraddizioni in cui incappa il Paese nel tentativo di modernizzarsi.
Nel 1861, con l’unificazione del Regno, è estesa a tutto il territorio la legge Casati, che ha già riformato l’istruzione in Piemonte. I primi due anni di scuola elementare diventano obbligatori e gratuiti sia per i bambini che per le bambine, e lo Stato si fa carico dell’istruzione a fianco e in sostituzione della chiesa cattolica. Dieci anni dopo, la legge Coppino eleva a tre anni la durata dell’istruzione elementare, e introduce sanzioni per le famiglie che disattendono a tale obbligo. La retorica nazionale è quella di portare l’istruzione ovunque, di formare le menti dei nuovi cittadini. Ma i comuni rurali devono provvedere in autonomia a finanziare le proprie scuole. Viene loro in aiuto il processo di emancipazione delle donne, che entrano nel mondo nel lavoro. Con l’Istituzione delle Scuole Normali, dopo un’infarinatura di argomenti soprattutto letterari e pedagogici, le ragazze ancora giovanissime, anche di sedici o diciassette anni, possono dedicarsi alle menti più acerbe degli alunni e delle alunne delle prime classi elementari con uno stipendio che per legge è pari ai due terzi di quello dei colleghi maschi. La Scuola Normale è dura, per molte finire è un miraggio, e lo è ancora di più vincere il concorso nazionale. Per fortuna nei comuni rurali è più facile trovare lavoro, e così tante ragazze, in un Paese che considera le donne solo sulla base della loro appartenenza a una famiglia di origine o a un marito, si trovano a vivere da sole, lontane da casa, senza nessuna protezione, con salari al limite della sopravvivenza. La vicenda di Italia Donati non solo scoperchia il vaso di Pandora di un’ingiustizia sociale, ma per le sue caratteristiche, la fanciulla fragile e innocente, l’uomo perverso e potente che la insidia, le accuse false, la disperata lettera d’addio, entra nell’immaginario popolare come un’eroina romanzesca.

Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 sono molte le opere che trattano in un modo o nell’altro la figura  della maestra. Ma sull’argomento, in questa sede, ho voluto analizzare lo sguardo di tre scrittrici: Ada Negri, Maria Messina e la già citata Matilde Serao.

 

Gli occhi di Rosanna erano piccoli e trasparenti,
d’un azzurro d’aria, d’una limpida serenità
”.

 

Anima Bianca, uno dei racconti che fanno parte delle Solitarie di Ada Negri, si apre con la descrizione di un’innocenza placida come la superficie di un lago che nessun turbamento ha ancora scalfito. Giovanissima, con ancora addosso la “goffagine dell’adolescenza”, la maestra Rosanna non ha di bello che le trecce, “due inverosimili trecce di color rosso rame a striature d’oro”. Quando entra in classe, però si trasfigura. Svelta, agile, insegna con la stessa naturalezza con cui respira, perché è nel suo ambiente, lì dove ha sempre voluto essere.

 

Nella timida e goffa campagnola, zimbello delle normaliste di stile moderno, ma sana come il fieno, e fresca come le margherite dei prati, ardeva il religioso spirito della maestra rurale. Nel semplice cuore ella custodiva intatta la vocazione, portandola in sé come un bene che nessuno,

che nulla avrebbe potuto toglierle.

 

Le colleghe più giovani sdottoreggiano, ma soffrono il peso della classe. Per lei, invece, è tutto il contrario, è un’educatrice istintiva. “Fröbel, Pestalozzi, il metodo? Se lo creava lei come lo sentiva, il metodo”. Rosanna sa come attrarre l’attenzione dei bambini e farsi voler bene. C’è qualcosa di ascetico in lei, come fosse votata a un ordine laico. Se per le sue compagne “la scuola era il mezzo di guadagnarsi il pane; ma l’anima loro ne viveva lontana, come quella d’un incredulo dal raggio della grazia”, lei da questa grazia è stata invasa. Il suo cuore trabocca di un sentimento amoroso che può riversarsi solo sui bambini, mentre il matrimonio, l’amore per un uomo, non la interessano. Sola al mondo, si dedica interamente alla comunità; la scuola per lei non finisce al pomeriggio ma prosegue nelle case, in un prolungamento naturale tra il ruolo dell’insegnante e quello materno. In questo andare e venire tra le strade del paese, però, attira l’attenzione di Mariano Conti, fratello maggiore di uno dei suoi alunni, che ha una testa viperina, un collo tutto nodi, un corpo come una lama di coltello, una bocca che pare un taglio. Incarnazione della forza brutale, ferina, vorrebbe attirare Rosanna nella barca su cui trasporta il legname e tenerla lì, incantato da quella sua treccia bionda e rame che gli appare come un tesoro. Respinto dalla ragazza, si vendica tendendole un agguato nel bosco, e la violenta.

 

Urlare non poteva. Si dibatté, gorgogliò qualche mozza parola disperata, cacciò le unghie nel collo dell'assalitore, cieca, demente. Fu la lotta originaria – senza pietà nel forte, senza speranza pel debole – che forse, nei tempi dei tempi, quelle selvagge foreste avevan vista combattere fra il maschio avvolto di pelli caprine e la femmina solo coperta del manto de' suoi capelli. Tale si rivelò l'amore alla maestra di prima elementare, che aveva l'anima candida d'un bimbo appena nato, e non sapeva d'avere un corpo.

 

Come una moderna Persefone, questa creatura che porta fiori ed erbe in classe, azzurra e ariosa come una primavera, viene trascinata dal suo assalitore in un oltretomba dal quale nessuno riesce più a strapparla.

 

Al suo posto si moveva, parlava, insegnava l’abbaco e l’alfabeto un’altra donna, lontana, indifferente - inutile.

 

I bambini all’inizio sperano si tratti di un malessere temporaneo, ma poi sentono che qualcosa è successo. Rosanna si sente pesare addosso l’infamia come una veste che qualcuno le ha gettato addosso, si sente indegna di insegnare quella speranza, quella bellezza, in cui lei non crede più. Tra maestra e alunni si è spezzato il filo che li univa, e quel fascino assoluto che lei esercitava su di loro si sfalda. A poco a poco le sfuggono dalle mani.

 

Il fluido simpatico era svanito. Beppe Salvestri portò, un giorno, un rospo in classe. Punito, fece le corna dietro le spalle della maestra;
e tutti scoppiarono a ridere.
Un terrore folle gelò il sangue della disgraziata.
Sapevano, forse, la cosa tremenda: ed ecco, la schernivano, non avrebbero piú potuto rispettarla, lasciarle la loro piccola anima nelle mani: mai piú, mai piú.

 

Privata della sua vocazione, che pure pensava nessuno avrebbe potuto portarle via, Rosanna non ha più ragione per andare avanti e si lascia morire tra i pettegolezzi delle donne del paese. Il suo funerale sarà un delirio di bianco e di palate di terra brutali come insulti, in un inverno che chiude il succedersi delle sue stagioni. All’affacciarsi della nuova primavera, di lei si sono già dimenticati.
Intriso di simboli, questo racconto di Ada Negri affonda le sue radici tanto nell’archetipo e nel mito, quanto nella cronaca. La sua intenzione, scrivendo Le solitarie, era infatti quella di tracciare un affresco della complicata situazione delle donne che non riescono a rientrare o rimanere nei ranghi del matrimonio, e si trovano ad affrontare la vita muovendosi sui margini, da sole, appunto.
Chi sa perché nelle campagne la maestrina è, il piú delle volte, una spostata? si chiede Ada Negri parlando di Rosanna e delle sue colleghe. Per queste giovani donne, al trasferimento per prendere servizio si aggiunge uno spostamento morale, perché escono dal percorso ordinario per addentrarsi su un sentiero che è appena tracciato, e nasconde molte insidie.
Nella mentalità di fine ottocento una donna può realizzarsi appieno solo come sposa e madre, tanto che il contratto matrimoniale obbliga a scindere quello lavorativo. Il mestiere, insomma, è un affare di giovinezza. Se si continua a esercitare una professione in età adulta, se diventa quindi una questione seria, quasi sempre non è per scelta ma per necessità di sopravvivenza, perché non è possibile una soluzione alternativa. Inseguire una passione, cercare una realizzazione personale, è affare di una sparuta élite.
Tra una vita di necessità e un matrimonio non desiderato si dibatte un’altra maestra, protagonista di un racconto di Maria Messina (che di Ada Negri era amica e ammiratrice) contenuto nella raccolta “Piccoli gorghi” del 1917.

Maria Messina

Maria Messina


L’ora che passa si apre e si chiude nel corridoio della scuola dove Rosalia insegna ai bambini della scuola elementare. In entrambe le scene troviamo la ragazza titubante tra porte che si aprono e si chiudono, incerta su quale direzione seguire. Da un lato c’è il direttore, suo padre, che le chiede, dopo le tante rinunce fatte negli anni, un ennesimo sacrificio per permettere ai fratelli di sistemarsi. Dall’altro c’è il collega Mirtoli, con il tondo faccione e la testa calva che non le desta particolari sentimenti ma ha un cuore fedele e soprattutto un pingue stipendio. Vediamo Rosalia concedere a Mirtoli un sì che accenna a una speranza, poi la seguiamo durante il ritorno a casa a braccetto del padre amorevole, in un dialogo che è un capolavoro di struggenti richieste a mezza voce e dignitosi piagnucolii perché  la ragazza metta ancora una volta in cima alle priorità della famiglia il futuro dei due figli maschi; infine l’accompagniamo in casa, dove, spogliata degli abiti esterni che mette a scuola (il cappotto, il boa, il cappello), assiste impotente all’annullamento servile della sorella, all’invalidità della madre, scivolando a poco a poco nella consapevolezza  che nessuna delle opzioni che ha di fronte è una scelta che può definirsi libera.

 

Sentiva un vuoto intorno a sé, come uno che ha perduto qualcosa di vitale. E quand’era chiusa nella scuola, fra le sue bambine, che fra una lezione e l’altra cinguettavano come cinciallegre, la prendeva con violenza un’ardente, insaziabile voglia dell’aria libera, del cielo aperto.

 

Stretta fra due suppliche mute e imperiose, Rosalia sente a poco a poco montare dentro di sé un’ostilità verso tutto e tutti, anche verso se stessa.

 

Fu ripresa dalla sorda irritazione contro tutti, contro se stessa specialmente; perché le parve di non essere proprio lei, con la sua volontà, a reclamare i diritti della vita, ma un’altra persona, fusa nella sua, che guardava con implacabile desiderio una via differente.

 

Ostilità, irritazione, ma mai rabbia, perché quest’ultimo è un sentimento attivo, che potrebbe suscitare una reazione, mentre in lei, così devota, così educata, questo confuso sentimento non trova sfogo se non in uno scatto, quando prima di ritrattare il sì a Mirtoli, nega lo sguardo al padre. E nel finale, mentre ancora una volta attraversa il corridoio della scuola, la vediamo rassegnarsi a non reclamarli mai più, questi diritti della vita, in una rinuncia definitiva non solo ai desideri, ma anche al proprio dolore.

 

E seguì la curva persona del padre, tenendosi il boa sulla bocca serrata, perché, dopo lo sforzo fatto per sembrare calma, le lacrime trattenute le stringevano la gola. Pur nel suo cuore non restava più dolore ma solo una pacata melanconia.

 

Anche l’ultimo racconto di questa trilogia sulla maestra, a firma di Matilde Serao, si apre con una scena ambientata in un corridoio di scuola.
Pubblicato a puntate sulla rivista “Nuova antologia” nel 1885, proprio mentre a Porciano si consuma il dramma di Italia Donati, Scuola Normale femminile è un reportage narrativo, composto a bozzetti, com’era nello stile della giornalista che già nel Ventre di Napoli aveva fatto una simile operazione. Di famiglia aperta, con una cultura internazionale (la madre è una donna colta di origine greca, il padre egli stesso un giornalista) ma che versa in difficoltà economiche, Matilde Serao fin da ragazzina sperimenta sulla propria pelle cosa vuol dire dover lavorare per mantenersi. Frequenta la Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca” di Napoli per diventare maestra, ma poi preferisce diventare telegrafista. Convinta anti-femminista, è però consapevole che esiste una questione femminile tanto sociale quanto culturale, e la vuole raccontare, attingendo alle sue memorie, alla realtà che conosce. Nella prefazione al “Romanzo della fanciulla”, di cui fanno parte sia Scuola normale femminile che Telegrafi dello Stato, scrive:

 

Chiusa come un baco da seta in un bozzolo filato dal rispetto umano, dalla educazione strana e variabile, dalla modestia obbligatoria, dalla ignoranza imposta, dalla inconsapevolezza a ogni costo, e trascinata poi da una forza contraria d’impulsione a gravitare intorno al sole del matrimonio, la fanciulla si sviluppa in condizioni morali difficilissime.

 

È la lotta non di una sola ma di tante. Serao ci riempie di nomi, vola dall’una all’altra, le classifica in categorie mobili, intreccia i loro percorsi.

 

Vi do delle novelle senza protagonisti, o meglio, dove tutti sono protagonisti. …novelle corali, ove il movimento viene tutto dalla massa, ove l’anima è nella moltitudine: e non me ne pento. Invece di fabbricare una fanciulla, ho rievocato tutte le compagne della mia fanciullezza.

 

I vari bozzetti sono così densi che quasi confondono il lettore, ma quanti dettagli, quanto colore. Pare di vederle entrare in classe, queste ragazze, di udire le loro voci, di sentirsi addosso l’umido delle pareti, delle strade infangate, dell’acqua che inumidisce gli stivali e gli orli delle gonne. Percepiamo il freddo e anche la fame. Serao ci fa il conto dei centesimi che servono a comprare una colazione, di quale siano le aspettative di concorsi e stipendi, di cosa voglia dire concretamente essere riprovate, non passare l’esame, doverlo rifare.
Di passione per lo studio se ne vede poca. Le materie sono noiose, da ripetere a pappagallo, e volte così astruse da non capirne il senso e l’utilità, come la temibile macchina di Atwood di cui quasi nessuna riesce a venire a capo. Da parte dei professori si respira un sentimento di disprezzo per queste ragazze. Si dice di un insegnante:

 

Costretto dalla necessità a insegnare pedagogia alle ragazze del terzo corso egli disprezzava palesemente quell’incarico, e se stesso che lo compiva.

 

E di un altro:

 

Si fermò un poco a rovistare fra le sue carte, a leggere nel registro, sentendo e assaporando lo spavento che incuteva in quei poveri sorci, con cui felinamente si divertiva a giocare.

 

Anche due ispettrici, due ricche signore borghesi, avanti negli anni, che Serao definisce “inutili”, piombano in classe nel bel mezzo della lezione di ricamo, criticando ogni cosa e ricordando alle ragazze che la loro triste condizione le obbligava a fare le maestre, che non avessero la superbia di credersi indipendenti e libere.
Nell’epilogo, che elenca i destini delle ragazze a qualche anno dall’esame finale, questa illusione di libertà, se mai c’è stata, si è dissolta definitivamente.
Tra tutte, quelle che hanno una vita più o meno serena, o che hanno fatto un buon matrimonio, sono relativamente poche. Impressionante è il numero di quelle che si tolgono la vita o muoiono per le situazioni di estrema miseria e vessazione a cui sono sottoposte. Tra loro due maestre rurali, letteralmente morte di stenti. 
La passione, che sia fuori o dentro il matrimonio, non è contemplata. Carmela Fiorillo, maestra a Gragnano, è costretta a trasferirsi in un villaggio dell’Alta Savoia, con la retribuzione di 400 lire annue, perché il figlio di un ricco fabbricante di paste si è innamorato di lei. Un’altra ha fatto l’errore di scrivere una lettera d’amore a un noto uomo napoletano, ammogliato e con prole. Sebbene fra i due non sia successo niente, il gesto denotava nella Ponzio un colpevole traviamento, incompatibile con le sue delicate funzioni di educatrice. Ella è stata destituita.

 Come nella novella di Ada Negri Anima Bianca, la funzione di educatrice richiede una dedizione assoluta, quasi monacale. Tra le tante maestre che escono arrancando dall’esame, e che vanno a impiegarsi con alterne fortune, due soltanto sono quelle che si distinguono in ambito lavorativo, e sebbene siano una l’opposto dell’altra, hanno in comune il fatto di essere due emarginate, diverse dal resto delle studentesse. La prima è Giustina Marangio, una sorta di Franti in versione femminile,

 

con la sua faccetta livida di vecchietta diciottenne, quella testolina viperea che sapeva sempre tutte le lezioni, che non le spiegava mai a nessuna compagna, che non prestava mai i suoi quaderni e i suoi libri, che rideva quando le sue compagne erano sgridate, che i suoi professori adoravano, che non aveva amiche, e che rappresentava la perfidia somma,
l’immensa cattiveria giovanile, senza vena di bontà, senza luce di allegrezza.

 

È lei che mette in difficoltà le compagne, che non sa fare squadra. Intelligentissima, dimostra il meccanismo della fantomatica macchina di Atwood facendo risaltare la mediocrità delle altre, e dopo una discussione sui sentimenti le mette in ridicolo scrivendo sulla lavagna “l’amore è una bestialità”. 
Al concorso riesce una delle prime, e dopo essere stata assegnata alla scuola di Chiaia, riesce a far trasferire la direttrice, assume lei la direzione, inventa un nuovo metodo di punizione per le bambine così sadico che molte di loro decidono di andarsene.  
La seconda è Isabella Diaz, che arriva a scuola dopo le altre, non riesce a inserirsi, viene presa in giro per il suo aspetto dimesso, sofferente, come se fosse uscita da una lunga malattia. È la stessa Marongiu a darle il soprannome di Scimmia spelata a causa della parrucca che porta in testa, a orchestrare un sentimento generale di astio nei suoi confronti. Eppure tra uno scherno e un aperto disprezzo, capiamo a poco a poco che Isabella Diaz di misero ha solo l’aspetto. Dietro quei vestitucci appesi, le borsette sdrucite, i cappelli con i nastri di recupero, c’è uno spirito raffinato, in grado di dare vita anche alle materie più noiose, disprezzate dagli stessi professori che le insegnano:

 

Con la faccia devastata dalla malattia, con la parrucca roseo bruna, che discendeva sulla fronte, combatteva con estrada in nome della pedagogia; ella diceva la sua lezione con un senso così profondo di ragionamento, con tanta logica tranquilla(…) che egli finiva per lasciarla dire, ascoltandola pazientemente, con un sorriso beffardo, tanto quella brutta, orrenda ragazza gli pareva l’incarnazione della pedagogia.

Come la maestra Rosanna, anche Isabella è un’educatrice istintiva, ma coltissima. Lei i metodi educativi non li applica solo a senso, ma li studia e li rinnova: Semplificato il metodo di sillabazione, modificato l’insegnamento della geografia, in meglio. Arriva persino a vincere la medaglia d’oro nazionale all’esposizione pedagogica. È la nemesi di Giustina Marongiu. Se quella eccelleva nell’inventare nuove punizioni, lei è quella da cui parte l’abolizione dei metodi punitivi. Ma tanto successo si paga. La società non è pronta per una donna che sia in grado di eccellere nella sua professione, avere una famiglia e provare sentimenti. Isabella Diaz nella sua missione è sola, priva di passioni che non riguardino quella educativa, spogliata di ogni femminilità. Se ha qualcosa di bello, è tutto interiore.

Fondato un giardino d’infanzia a Portici e un asilo a Pozzuoli, riordinate le scuole a Sarno, ci dice la Serao, ma poi aggiunge, in un inciso ironico messo lì a ricordarci che non è concesso alle donne di aver tutto: Sempre orrenda.

Ada Negri

Ada Negri

Il primo amico, di Ada Negri

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Il primo amico

di Ada Negri

Se torno indietro ne' miei ricordi, debbo pur riconoscere, fra le ore più mie, quelle della solitudine, alle quali la presenza di qualche animale del buon Dio aggiungeva dolcezza e letizia.
Il mio primo amico fu un passerotto, raccolto piccolo, ch' era caduto da un nido: e tirato su col fiato. Avevo otto o nove anni.
Ora che lo rievoco, ecco che me lo risento, vivo, fare cip-cìp qui nello studio. Potenza della memoria! Rivedo la stanza terrena del palazzotto di Lodi," le pareti nude con chiazze di umidità, il focolare in un canto, nero di fuliggine, grigio di cenere, e la nonna con la cuffia, immobile nella poltrona. Perché così immobile? Si direbbe una statua, di quelle di cera, dei baracconi. Di là da una grande vetrata, il portico e il giardino; dal lato opposto, l'uscio di strada, a due battenti, che la sera si chiudeva a catenaccio, e di giorno veniva accostato. Il passerotto stava nella gabbia, mentr'io ero a scuola. Gabbia aperta, s'intende: era domestico, e con le alucce deboli: e poi, in casa mia, una gabbia chiusa, ohibò.
Al mio ritorno, cinguettava, agitava le penne, usciva dallo sportellino, mi svolicchiava intorno. Cip- cip. No, non qui, là: nella portineria, dove la nonna faceva la calza. lo gli sminuzzavo polenta e pane: non gli raccontavo niente delle cose di scuola, tutte noiose: mi piaceva, invece, narrargli storie fantastiche, che lui capiva. La nonna non ci guardava: come non fossimo lì. Un giorno il passerottino scomparve. Eravamo entrambi in terra, dietro la porta di strada, socchiusa: dall' apertura entrava un' obliqua, accecante striscia di sole. Passava un fruttivendolo ambulante: - Ciliege, ciliege rosse, rosse come il sangue, chi ne vuole? - lo mi smarrii dietro la cantilena: amavo tanto le filastrocche dei venditori girovaghi: mi parevano poesie. Schiusi di più il battente, per meglio ascoltare; la striscia di sole s'allargò, divenne un rettangolo di fuoco. Quando mi volsi indietro, il passerotto non c'era più.
Un attimo, un soffio: sparito. Lo cercai, ansiosa, lungo il marciapiede, e dentro, nella stanza: da ogni angolo m'illudevo di vederlo ricomparire.
Forse un monello, passando, l'aveva abbrancato, portato via. Dirlo alla nonna? Inutile: un cenno di rassegnazione, e avrebbe continuato a sferruzzare. Ero sola con la mia grossa pena, col cuore vuoto come la gabbia, ma pesante come il ferro.
Da un istante all'altro, dunque, il mio bene poteva essermi tolto cosi, misteriosamente, senza che potessi difenderlo, e nemmeno sapere chi me lo rubasse. Più tardi, molto più tardi, quando vennero per me i durissimi momenti delle separazioni, e vidi le creature che amavo, che mi amavano, andarsene lontano o sparire sotterra, tornai a sentire, in me, lo stesso cuore attonito e pesante della bambina che aveva perduto il suo passerotto.
Lo stesso avvilimento, davanti a un potere segreto al quale è vano ribellarsi: lo stesso brivido, che della bambina, allora, fece all'improvviso una donna; e nella donna, adesso, risveglia la bambina.

 

Le tre fate, di Giambattista Basile

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Le tre fate
(versione italiana)


C’era una volta nel casale di Marcianise una vedova, chiamata Caradonia, che era la mamma dell’invidia, e non poteva mai veder capitar bene a qualche vicina che non le si facesse un nodo alla gola; non udiva mai la buona sorte di qualche persona di sua conoscenza, che non la prendesse di traverso; né mirava mai femmina o uomo contento, che non le venisse l’angina. Aveva essa una figliuola chiamata Grannizia, che era la quintessenza dei cancheri, il primo taglio delle orche marine, il fior fiore delle botti crepate, con la testa pidocchiosa, i capelli scarmigliati, le tempie pelate, la fronte di mazzuolo, gli occhi gonfi, il naso a bernoccoli, i denti incalcinati, la bocca di cernia, il mento a forma di zoccolo, la gola di pica, le poppe a bisacce, le spalle a vòlta, le braccia ad aspo e le gambe a uncino; e, insomma, da capo a piede era una degna versiera, una squisita peste, un vero accidente, e, soprattutto, nanerottola, anitroccola, mostricciattolo; e, con tutto ciò, scarafaggino a mamma sua pareva bellino.
Ora accadde che questa buona vedova si rimaritò con un certo Micco Antuono, ricco massaro di Panicocoli (Villaricca ndr), che era stato due volte baglivo e sindaco di quel casale, stimato assai da tutti i panicocolesi, che ne facevano gran conto. Aveva Micco Antuono dal suo canto una figlia, chiamata Cicella, che non si poteva vedere cosa più bella e mirabile al mondo. Possedeva un occhio amoroso che ti affatturava, una boccuccia baciarella da mandare in estasi, una gola di fior di latte che fa- ceva sdilinquire la gente; ed era, insomma, cosi succosa, saporita, giocherella e leccherella, e aveva tanti vezzi, carezze, moine e tenerezze, che svelleva i cuori dai petti. Ma a che tante parole? basta dire che pareva fatta col pennello, ché, a esaminarla, non vi trovavi una pecca.
Caradonia, vedendo che Cicella, al paragone della figlia, si mostrava come un cuscino di velluto in quaranta accanto a uno strofinacciolo di cucina, uno specchio di Venezia accanto a un culo di pentola unta, una fata Morgana di fronte a un’Arpia, cominciò a guardarla con cipiglio e a tenerla in gola. Né la cosa fini qui, perché rompendosi fuori la postema fonnatasi nel cuore, e non potendo essa stare più sospesa alla corda, prese a tormentare a carta scoperta la mal capitata giovane. Alla figlia faceva vestire gonna di saia frappata e corpetto di seta, alla misera figliastra i peggiori cenci e stracci della casa; alla figlia dava pane bianco di semolino, alla figliastra croste di pane duro e muffito; la figlia faceva stare come l’ampolla del Salvatore, la figliastra faceva su e giù a scopare la casa, a stropicciare i piatti, a rifare i letti, a lavare i panni sudici, a dare il cibo al porco, a governare l’asino e a gettare il buon prò vi faccia. E a tutte queste cose la buona giovane, sollecita e diligente, accudiva con gran premura, non risparmiando fatica per dar nell’umore alla malvagia matrigna.
Volle la buona sorte che, andando la poveretta un giorno a gettare l’immondizia fuori di casa a un luogo dov’era un gran dirupo, le cadde giù il corbello; e, mentre essa ricercava con l’occhio come potesse azzeccarlo da quel fondo, che è, che non è? vide un coso scontraffatto, che non sapeva se era l’originale di Esopo o la copia del brutto pezzente Era un orco che aveva i capelli come setole di porco, neri neri, che gli ricadevano fino ai malleoli; la fronte grinzosa in cui ogni piega pareva un solco fatto dal vomero; le sopracciglia arruffate e pelose, gli occhi infossati e pieni di quella tal cosa che parevano botteghe sudice sotto due grandi sporgenti di palpebre; la bocca storta e bavosa, dalla quale spuntavano due zanne come di cignale; il petto tutto bernoccoli in un bosco di pelame da poterne riempire un materasso; e, soprattutto, alto di gobba, grande di pancia, sottile di gamba, storto di piede; sicché vi faceva scontorcere la bocca per lo spavento.
Cicella, tuttoché vedesse una mala ombra da spiritare, facendo buon animo, gli disse: «Uomo dabbene mio, porgimi quel cestello che m’è caduto: ch’io ti possa veder prendere una moglie ricca ricca!». L’orco rispose: «Vien qua, giovane mia e prenditelo». E la buona ragazza, afferrandosi alle radici, aggrappandosi ai sassi, tanto s’industriò che discese. E, in fondo al precipizio, che cosa mai trovò? Tre fate: una più bella dell’altra. Avevano i capelli d’oro filato, le facce di luna in quintadecima, gli occhi che parlavano, le bocche che facevano citazioni, a tenore di contratto, per essere soddisfatte di baci inzuccherati. Che più? una gola delicata, un petto morbido, una mano pastosa, un piede tenerino, e tale una grazia, insomma, che era onorata cornice a tante bellezze. Le fate fecero a Cicella tante carezze e gentilezze che non si potrebbero immaginare; e, presala per mano, la condussero a casa loro, in quella grotta dove avrebbe potuto abitare un re di corona, e la fecero sedere su tappeti turcheschi e cuscini di velluto piano con fiocchi di canapa. Posero poi l’una dopo l’altra le loro teste in grembo a Cicella e vollero che le ravviasse; e mentre essa, con un pettine di corno di bufalo lucente, faceva l’opera sua, le domandarono: «Bella giovane mia, che trovi in questa testolina?». Ed essa, con un bel garbo, rispondeva: «Vi trovo lendinelli e pidocchini, perle e granatini». Piacque alle fate la buona creanza di Cicella, e queste magne femmine, intrecciatesi i capelli che s’erano disciolte, la condussero in giro con loro, mostrandole a mano a mano tutte le meraviglie che erano in quel palazzo fatato: scrigni con bellissimi intarsi di castagno e di carpino, col coperchio di pelle di cavallo e le piastre di stagno; tavole di noce, lucide da specchiarvisi; riposti con castelletti di scodelle, che ti abbagliavano; tende di panno verde infiorato; sedie di cuoio con le spalliere; e tanti e tanti altri sfoggi che ogni altro, al vederli, sarebbe rimasto incantato. Ma Cicella, come non fosse il fatto suo, mirava le grandezze di quella casa senza gridare al miracolo, e senza ah! e uh! da villano. In ultimo, la fecero entrare in una guardaroba, piena zeppa di vestiti lussuosi, e le fecero vedere gamurre di teletta dello spagnuolo, robe con maniche a prosciutto di velluto a fondo d’oro, coperte di cataluffo guarnite con puntini di smalto, moncili di taffettà in tralice, frontali di fioretti naturali, e gingilli a foglie di quercia, a conchiglia, a mezzaluna, a lingua di serpente, grandiglie con puntali di vetri turchini e bianchi, spighe di grano, gigli e pennacchiere da portare sul capo, granatene di smalto con incastri d’argento, e mille altre figurette e cianciafruscole da portare appese alla gola; e le dissero di scegliere a voglia sua e prendere a piene mani di quelle cose. Ma Cicella, che era umile com’olio, lasciando stare le cose di maggior valore, tolse una gonnella sfilacciata, che non valeva tre calli. E le fate, a veder ciò, le domandarono: «Per quale porta vuoi uscire, grazietta cara?». Ed essa abbassandosi a terra e quasi stropicciandovisi tutta, disse: «Mi basta uscire per la stalla». Allora le fate, abbracciandola e mille volte baciandola, le misero un vestito magnifico, tutto ricamato d’oro; le acconciarono la testa alla scozzese, a canestretta e con tanti nastri e fettucce, che vedevi un prato di fiori, il tuppo a perichitto con l’imbottitura e le treccette pendenti; e l’accompagnarono fino alla porta, ch’era d’oro massiccio con la cornice incrostata di carbonchi. Qui le dissero: «Va’, Cicella cara, che ti possiamo vedere ben maritata; e, quando sei sotto quella porta, alza gli occhi, e vedi che cosa vi è sopra». La giovinetta, fatta una bella riverenza, si parti; e, come fu sotto l’arco della porta, levò la testa e le cadde una stella d’oro sulla fronte, ch’era una cosa bellissima. Stellata, dunque, come un cavallo, e linda e pinta, andò innanzi alla matri- gna, raccontandole da cima a fondo quanto le era accaduto. Ma il racconto fu una botta alla testa per quella femmina invidiosa, la quale non ebbe requie, e presto presto, fattosi indicare il luogo delle fate, vi avviò quella cernia di sua figlia. La quale, giunta al palazzo incantato e trovate quelle tre gioie di fate, quando le dettero a ravviare i capelli e le domandarono che cosa vi trovasse, rispose: «Pidocchi, che ognuno è quanto un cece, e lendini (uova di pidocchi ndr), che ognuno è grosso quanto una cucchiara». Ebbero le fate stizza e dispetto pel modo zotico della brutta villana, e, conoscendo dal mattino la mala giornata, pure dissimularono e la condussero nella stanza delle cose di lusso, dicendole di scegliere il meglio. Grannizia, vedendosi offrire il dito, si prese tutta la mano, e afferrò la più bella guamacca (veste ndr) che fosse in quegli armadi. Le fate, a queste villanie, l’una sull’altra, restarono interdette; ma tuttavia vollero vedere fino a qual segno sapesse giungere, e le fecero la domanda: «Per quale porta hai piacere di uscire, o bella ragazza? per la porta d’oro o per quella dell’orto?»; ed essa, con una faccia da punteruolo, rispose: «Per la migliore che c’è». Le  fate, vista la presunzione della donnicciuola, non le dettero nemmeno un pizzico di sale, e la rimandarono con l’istruzione: «Quando sarai sotto la porta della stalla, leva la faccia al cielo e vedi che ti viene». E quella usci tra il letame, e, alzata la testa passando sotto la porta, le cadde sulla fronte un testicolo d’asino, che si apprese alla pelle e pareva una voglia venuta alla madre quando era incinta di lei. Con questo bel guadagno, mogia mogia, tornò a Caradonia, la quale, al vederla e all’udire il racconto, gettò schiuma dalla bocca, e, rabbiosa come una cagna che ha partorito, fece subito spogliare Cicella, l’avvolse in un sozzo panno e la mandò a guardare i porci, mentre con gli abbigliamenti di lei infronzolì la figliuola.
Cicella, con flemma grande e con una pazienza da Orlando, sopportò la trista vita a cui era stata assegnata. O crudeltà da muovere le pietre della strada, che quella bocca, degna di proferire concetti d’amore, fosse sforzata a suonare un corno e a gridare: «Cieco-cieco, enze- enze!»; che quella bellezza, degna di stare tra proci, fosse posta tra porci; che quella mano, degna di tirare per la cavezza cento anime, si cacciasse avanti con una bacchetta cento scrofe: malannaggia ai vizi di chi la comandò a questi boschi, dove, sotto la tettoia delle ombre, la Paura e il Silenzio stavano a ripararsi dal Sole! Ma il Cielo, che calpesta i presuntuosi e solleva gli umili, fece che capitasse colà un signore di alto grado, chiamato Cuosemo; il quale, a vedere tra il fango un gioiello, tra i porci una fenice, e tra le nuvole rotte di quei cenci il Sole splendente, ne rimase preso cosi forte che mandò a domandare chi essa fosse e dove abitasse. E, appena avute queste notizie, si presentò alla matrigna e gliela richiese per moglie, promettendo di controdotarla di millanta ducati. Caradonia mise subito l’occhio sul partito che si offriva, pensando a sua figlia; e perciò rispose a Cuosemo che tornasse sul far della notte, perché, intanto, voleva invitare i parenti. Quegli andò via tutto giubilante, e gli parve ogni ora mille anni che il Sole si coricasse al letto d’argento, preparatogli dal fiume dell’India, per coricarsi a sua volta con quel Sole che gli ardeva il cuore. E l’altra, in quel mezzo, ficcò Cicella in una botte e ve la chiuse con disegno di darle una bollitura; e, giacché essa aveva abbandonato i porci, con l’acqua calda lessarla come si fa del porco. L’aria era imbrunita e il cielo era diventato simile a bocca di lupo, quando Cuosemo, che aveva il parosismo e moriva dalla brama, per dare con una stretta alle amate bellezze un po’ di largo all’appassionato cuore, avviandosi con grande esultanza verso la casa di lei, diceva: «Questa è l’ora appunto di andare a incidere l’albero, che Amore ha piantato in questo petto, per farne sgorgare manna di dolcezze amorose! Questa è l’ora appunto di scavare il tesoro, che la Fortuna mi ha promesso! Perciò, non perder tempo, o Cuosemo: quando ti è offerto il porcello, corri con la cordicella! O notte, O felice notte, o amica degli amanti, o anima e corpo, o pentola e mestolo d’Amore, corri corri a precipizio, perché sotto la tenda delle ombre tue io possa ripararmi dal calore che mi consuma!». Giunse, con questi pensieri, alla casa di Caradonia, e, in luogo di Cicella, trovò Grannizia, un barbagianni in cambio di un cardellino, un’erba porcacchia in luogo di una rosa sbocciata: la quale, sebbene si fosse messa le vesti di Cicella, e sebbene si dica: «Vesti Ceppone, che pare barone», con tutto ciò pareva uno scarafaggio in una tela d’oro; né i conci, gli empiastri e gli stiramenti e lisciamenti, fattile dalla madre, avevano potuto toglierle la forfora dalla testa, le cispe dagli occhi, le lentiggini dalla faccia, il calcinaccio dai denti, i porri dalla gola, le pustole dal petto e la sozzura dai talloni; e l’afa putida della sentina si sentiva lontano un miglio. Lo sposo, vedendo questa sembianza, non sapeva che cosa gli fosse accaduto; e, dato indietro come all’apparir del diavolo, disse fra sé e sé: «Sono svegliato o mi sono calzato gli occhi alla rovescia? Son io o non son io? Che cosa vedo? Sciagurato Cuosemo, ti è stata rovinata la barca! Questa non è la faccia che stamattina mi ha afferrato per la gola; questa non è l’immagine che mi è rimasta dipinta nel cuore. Che vuol dir ciò, o Fortuna? Dove, dov’è la bellezza, l’uncino che mi aggranfiò, l’argano che mi tirò, la freccia che mi trapassò? Sapevo bene che né femmina né tela a lume di candela; ma questa io me l’accaparrai a lume di sole. Oimè, che l’oro di stamattina mi si è, stasera, mutato in rame e il diamante in vetro!». Queste altre parole mormorava tra i denti; pure, alla fine, costretto dalla necessità, dié un bacio a Grannizia, ma come se baciasse un vaso antico, ché avvicinò e scostò più di tre volte le labbra prima di toccare il muso della sposa; alla quale accostatosi, gli parve di trovarsi alla marina di Ghiaia, la sera, quando quelle magne femmine portano tributo al mare d’altro che di odori d’Arabia. E, poiché intanto il Cielo, per parer giovane, si era fatta la tinta nera alla barba bianca, e la terra di questo signore era molto distante, egli fu costretto a portarsi la sposa a una casa poco lontana dai confini di Panicocoli, dove, acconciato un saccone sopra due casse, si coricò con lei.
Ma chi può dire la mala notte che passarono l’uno e l’altra? che, quantunque fosse di estate e non giungesse a otto ore, pure parve loro più lunga della più lunga notte dell’inverno. Dalla sua parte, la sposa, irrequieta, tossiva, si spurgava, tirava qualche calcio, sospirava e, con parole mute, chiedeva il censo della casa affittata; ma Cuosemo faceva finta di russare e tanto si ritirò sulla sponda del letto per non toccare Grannizia, che, mancatogli il saccone, cadde sopra un o- rinale, e la cosa riuscì a puzzo e vergogna. Oh quante volte lo sposo bestemmiò i morti del Sole, che indugiava tanto per tenerlo più lungo tempo sotto quel pressoio! Quanto pregò che la Notte corresse a precipizio, rompendosi il collo, e le stelle sprofondassero, per togliersi da canto, con la venuta del giorno, quel brutto giorno! Ma non così presto l’Alba uscì a cacciare le gallinelle e svegliare i galli, egli saltò dal letto, a stento si appuntò le brache e andò di corsa alla casa di Caradonia per rinunziarle la figlia e pagamele l’assaggio con un manico di scopa. Non la trovò nell’entrare, ché era andata al bosco per un fascio di legna con l’intento di mettere al fùoco l’acqua per bollire la figliastra; la quale stava tappata dentro la tomba di Bacco, laddove meritava di essere esposta nella culla d’ Amore. Cuosemo, cercando invano Caradonia per la casa, e vedendo che era sparita, cominciò a gridare: «Olà, dove state?». Ed ecco che un gatto soriano, che covava la cenere, all’improvviso mandò una voce: «Gnao-gnao! tua moglie è dentro la botte, chiusa e inchiodata: gnao-gnao!». Cuosemo si accostò alla botte e senti un certo lamentio cupo e fioco; onde, presa subito un’accetta che era appesa presso il focolare, sfasciò la botte, e il cader giù delle doghe parve il cader della tela di una scena, sulla quale una Dea si avanzi a recitare il prologo. Non saprei dir come, a tanto splendore, Cuosemo non cascasse morto di colpo; ma stette per un certo tempo come chi ha visto il monachetto (spiritello ndr), e poi, tornato in sé, corse ad abbracciare Cicella, interrogandola affannosamente: «Chi ti aveva posto in questo triste luogo, o gioiello del mio cuore? Chi mi ti aveva nascosta, o speranza della mia vita? Che cosa è questa? La leggiadra colombella in una gabbia di cerchi? e venire, invece di lei, al fianco mio, l’uccello grifone? Come va questo fatto? Parla, boccuccia mia bella; consola questo spirito, lascia sfogare questo petto!». Cicella gli raccontò tutto l’accaduto, senza lasciarne un iota, quanto aveva in passato sofferto in casa dal giorno che la matrigna vi mise piede, via via fino al momento che, per toglierle la vita, l’aveva sotterrata in una botte. Udito ciò, Cuosemo la fece rimpiattare dietro la porta; e, rimessa insieme la botte, andò a chiamare Grannizia e ve la ficcò dentro, dicendole: «Sta’ qui un po’, tanto ch’io faccia eseguire un incantamento, affinché i mali occhi non ti possano nuocere». Poi, abbracciata Cicella, la levò su un cavallo e se la portò a Pascarola, che era la terra sua. Tornata Caradonia con una gran fascina, accese un gran fuoco e vi pose sopra una grande caldaia d’acqua; e, quando l’acqua cominciò a bollire, la versò attraverso il buco nella botte e spolpò tutta la figlia, che digrignò i denti come se avesse mangiato l’erba sardonica, e le si staccò la pelle come al serpente, allorché getta la scoglia. E, quando giudicò che Cicella avesse steso i piedi, ruppe la botte. Ma, trovando invece (ahi, vista! ahi, conoscenza!) la propria figlia cotta da una cruda madre, si strappò le ciocche, si graffiò la faccia, si picchiò il petto, batté le mani, cozzò con la testa contro i muri, pestò i piedi a terra, e fece tanto lutto e piagnisteo che vi accorse tutto il casale. E, poi ch’ebbe fatto e detto cose dell’altro mondo, che non bastarono conforti a consolarla né consigli a mitigarla, andò di corsa a un pozzo, e colà zuffete, con la testa in giù, si ruppe il collo, mostrando quanto sia vera quella sentenza: Chi sputa in cielo, gli ritorna in faccia.

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Versione napoletana

Cicella, male trattata da la matreia, è regalata da tre fate. Chella ’mediosa ’nce manna la figlia, che ne receve scuorno, pe la quale cosa mannato la figliastra a guardare puorce se ne ’nammora no gran segnore, ma pe malizia de la matreia l’è dato ’ncagno la figlia brutta e lassa la figliastra drinto na votte pe la scaudare. Lo signore scopre lo trademiento, ’nce mette la figlia, vene la matreia, la sporpa co l’acqua cauda e, scopierto l’arrore, s’accide.
Fu stimato lo cunto de Ciommetella de li chiù belle che s’erano contate, tanto che Iacova, vedenno tutte ammisse pe lo stopore, decette: «Si non fosse a lo commannamiento de lo prencepe e de la prencepessa, lo quale è n’argano che me tira e no straolo che me strascina, io farria punto finale a le chiacchiare meie, parennome troppo chelleta de mettere lo colascione scassato de la vocca mia co l’arceviola de le parole de Ciommetella. Puro, perché cossì vole sto signore, me sforzarraggio de fareve na recercatella ’ntuorno a lo castico de na femmena ’mediosa, che, volenno sproffonnare la figliastra, la portaie a le stelle.
Era ne lo casale de Marcianise na vedola chiammata Caradonia, la quale era la mamma de la ’midia, che non vedeva mai bene a quarche vecina che no le ’ntorzasse ’n canna, non senteva mai la bona sciorte de quarche canosciente che le pigliava travierzo, né vedeva femmena ed ommo contento che non le venessero li strangogliune.
Aveva chesta na fegliola femmena chiammata Grannizia, ch’era la quinta essenzia de le gliannole, lo primmo taglio de l’orche marine, l’accoppatura de le votte schiattate: aveva la capo lennenosa, li capille scigliate, le chiocche spennate, la fronte de maglio, l’uocchie a guallarella, lo naso a brognola, li diente ’ncaucinate, la vocca de cernia, la varva de zuoccolo, la canna de pica, le zizze a besaccia, le spalle a vota de lammia, le braccia a trapanatore, le gamme a crocco e li tallune a cavola; ’nsomma da la capo a lo pede era na bella scerpia, na fina pesta, na brutta nizzola e sopra tutto era naima, scotonella, scociummuccio. Ma con tutto chesto, scarafuniello a mamma pentillo le parea! Ora successe mo che sta bona vedola se maritatte co no cierto Micco Antuono, massaro ricco ricco de Panecuocolo, ch’era stato doi vote vaglivo e sinneco de chillo casale, stimato assai da tutte li panecocolise, che ne facevano no cunto granne. Aveva Micco Antuono isso perzì na figlia mentovata Cicella, che non se poteva vedere chiù spanto né chiù bellezze cosa a lo munno: teneva n’uocchie a zennariello che t’affattorava, na voccuccia vasarella da farete ire ’n estrece, na canna da latte natte che faceva spantecare le gente ed era ’nsomma cossì cianciosa, saporita, ioquarella e liccaressa ed aveva tante squasille, gniuoccole, vruoccole, vierre e cassesie che scippava li core da li piette: ma che tante dicote e dissete! vasta dicere che pareva fatta co lo penniello, che no ’nce ashiave no piecco.
Ma vedenno Caradonia ca la figlia se mostrava, a pietto de Cicella, comme no coscino de velluto ’n quaranta a paragone de no scupolo de cocina, no culo de tiella sodonta a faccie de no schiecco veneziano, na fata Morgana e respetto de n’Arpia, commenzaie a guardarela co la gronna ed a tenerela ’muozza.
Né fornette loco lo chiaieto, ca, sbottanno fora la posteoma fatta a lo core, né potenno chiù stare appesa a la corda, pigliaie a tormentare a carta scoperta sta negrecata figliola, pocca la figlia faceva ire co na gonnella de saia ’nfrappata e corpetto de scierghiglia e la negra figliastra co le peo zandraglie e pettole de la casa; a la figlia deva lo pane ianco comme a le shiure, a la figliastra tozze de pane tuosto e peruto, a la figlia faceva stare comme l’ampolla de lo Sarvatore, a la figliastra faceva ire comm’a navettola, facennole scopare la casa, scergare li piatte, fare lo lietto, lavare la colata, dare a magnare a lo puorco, covernare l’aseno e iettare lo buon-prodeve-faccia, le quale cose la bona fegliola, solleceta e proveceta, faceva cod ogne prestezza, no sparagnanno fatica pe dare a l’omore de la marvasa matreia.
Ma, comme voze la bona sciorte, ienno la scura figliola a iettare la monnezza fora de la casa a no luoco dov’era no granne scarrupo, le cascatte lo cuofano a bascio ed essa, occhianno mente de che manera potesse pescarelo da chillo scantraccone, quanto – ched è? ched è? – vedde no nigro scirpio, che non sapive s’era l’originale d’Isuopo o la copia de lo Brutto pezzente. Chisto era n’uerco, lo quale aveva li capille che comme a setole de puorco nigre nigre l’arrivavano fi’ a l’ossa pezzelle la fronte ’ncrespata, c’ogne chiega ’ncrespata pareva surco fatto da lo vommaro; le ciglia ’ngriccate e pelose; l’uocchie gaize e trasute ’nintro e chiene de comme-se-chiamma, che parevano poteche lorde sotto doie gran pennate de parpetole; la vocca storta e bavosa, da la quale spontavano doi sanne comme a puorco sarvateco; lo pietto vrogniuoluso e ’muoscato de pile, che ne potive ’nchire no matarazzo e, sopra tutto era auto de scartiello, granne de panza, sottile de gamma, stuorto de pede, che te faceva storzellare la vocca de la paura.
Ma Cicella, co tutto che vedesse na mal’ombra da spiritare, facenno buon armo le disse: «Ommo da bene mio, pruoieme chillo cuofano che m’è cascato, che te pozza vedere ’nzorato ricco ricco!». E l’uerco responnette: «Scinne a bascio, figliola mia, e pigliatillo».
E la bona peccerella, appicecannose pe le radeche, afferrannose pe le prete, tanto fece che ne scennette; dove arrivata, cosa da non credere, trovaie tre fate, una chiù bella de l’autra; avevano li capille d’oro filato, le faccie de luna ’n quintadecema, l’uocchie che te parlavano, le bocche che citavano sopra tenore de strommiento ad essere sodisfatte de vase ’nzoccarate; che chiù? na canna mellese, no pietto ceniedo, na mano pastosa, no pede tiennero e na grazia ’nsomma ch’era na cornice ’norata a tante bellezze.
Avette Cicella de cheste tante carizze e gnuoccole che non se porria ’magenare e, pigliatala pe la mano, la portattero a na casa sotto chille scaracuoncole, che ’nce averria potuto abitare no re de corona, dove arrivate che foro e sedute sopra trappite torchische e coscine de velluto chiano co shiuocchi de filato e cocullo, poste le capo ’n sino a Cicella se facettero le maghe pettenare li capille e mentre, co na dellecatura granne essa, co no pettene de cuorno de vufaro stralucente faceva lo fatto suio, le demannavano le fate: «Bella figliola mia, che ’nce truove a sta capozzella?». Ed essa co no bello procedere responneva: «Ce trovo lennenielle, pedocchielle e perne e granatelle!».
Piacquette a le fate chiù de lo chiù la bona crianza de Cicella e ste magne femmene, ’ntrezzatose li capille che erano sparpogliate, la portaro cod esse, mostrannole de mano ’n mano tutte l’iscie bellizze che erano a chillo palazzo fatato. Loco c’erano scrittorie co ’ntaglie bellissime de castagna e de carpeno, co lo scrigno copierto de coiero de cavallo, co le chiastre de stagno; loco tavole de noce che te ce specchiave drinto; loco repuoste co castellere de privito che t’abbagliavano; loco sproviere de panno verde shiuriate; loco seggie de cuoiero co l’appoiaturo e tant’autre sfuorgie, c’ogn’autro ’n vedennolo sulo ne saria restato ammisso. Cicella, comme non fosse fatto suio, mirava le grannezze de chella casa, senza farene li miracole e li spante-villane.
All’utemo, trasutola drinto na guardarobba zeppa zeppa de vestite sforgiate, le facettero vedere camorre de teletta de lo spagnuolo, robbe co maneche a presutto de velluto a funno d’oro, coperte de cataluffo guarnuto co pontille de smauto, moncile de taffettà a la ’nterlice, frontere de shiorille naturale e scisciole a fronte de cercola, a quaquiglia, a meza luna, a lengua de serpe, granniglie co pontale de vrito torchine e ianche, spiche de grano, giglie e pennacchiere da portare ’n capo, granatelle de smauto ’ncrastate d’argiento e mill’autre figure e ’ntruglie da portare appese ’n canna, decenno a la figliola che scegliesse a voglia soia e pigliasse a buonne chiù de chelle cose.
Ma Cicella, ch’era umele comm’uoglio, lassanno chello che chiù valeva, dette mano a na gonnella spetacciata che non valeva tre cavalle. Chesto vedenno le fate leprecattero: «Pe quale porta te ne vuoi scire, saporiello mio?». Ed essa, abbasciannose sotta terra e quase ’mbroscionannose tutta, disse: «Me vasta scire pe la stalla».
Tanno le fate, abbracciannola e mille vote vasannola, le mesero no vestito de trinca ch’era tutto recamato d’oro, acconciannole la capo a la scozzese ed a canestrelle, co tanta cioffe e zagarelle che vedive no prato de shiure: lo tuppo a perichitto co la ’mottonatura e le trezzelle a ietta ed, accompagnannola pe fi’ a la porta, ch’era massiccia d’oro co le cornice ’ncrastate de carvonchia, le dissero: «Và, Cicella mia, che te pozza vedere bona maritata! và, e quanno sì fora chella porta auza l’uocchie ad auto e vide che ’nce sta ’ncoppa!».
La figliola, fatto belle leverenzie, se partette e, comme fu sotto a la porta, auzaie la capo e le cadette na stella d’oro ’n fronte, che pareva na bellezzetudene cosa, tale che stellata comme a cavallo e lenta e penta iette ’nante a la matreia, contannole da capo a pede lo fatto.
Chesto non fu cunto, ma fu saglioccolata a la femmena gottosa, che, non trovanno abiento, subeto fattose ’mezzare lo luoco de le fate, ce abbeiaie la cernia de la figlia. La quale, arrivata a lo palazzo ’ncantato, trovato chelle tre gioie de le tre fate, ’mprimmo ed antemonia le dezero a cercare la capo e, demannatole che cosa trovava, disse: «Ogni peducchio è quanto a no cecere e liennene che è quanto a na cocchiara».
Ebbero le fate crepantiglia ed annozzaro de lo termene rustico de la brutta villana, ma semmolarono e canosciettero da la matina lo male iuorno. Perché, portatola a le cammare de le sfuorge e decennole che s’accapasse lo meglio, Grannizia, vedennose offerire lo dito, se pigliaie tutta la mano, afferranno la chiù bella guarnaccia che era drinto li stipe.
Le maghe, vedenno ca la cosa le ieva ’nchienno pe le mano, restaro ammesse; co tutto chesto ne vozero vedere quanto ’nce n’era, dicennole: «Pe dove haie gusto de scire, o bella guagnona mia, pe la porta d’oro o pe chella dell’uorto?». Ed essa, co na facce de pontarulo, respose: «Pe la meglio che ’nc’è!».
Ma le fate, visto la presenzione de sta pettolella, no le dezero manco sale e ne la mannaro decennole: «Comme sì sotto la porta de la stalla, auza la facce ’n cielo e vide che te vene». La quale, sciuta fore pe miezo la lotamma, auzaie la capo e le cascatte ’n fronte no testicolo d’aseno, c’afferratose a la pella pareva golio venuto a la mamma quanno era prena, e co sto bello guadagno, adasillo adasillo, tornaie a Caradonia.
La quale, commo a cane figliato iettanno scumma pe bocca, fece spogliare Cicella e, cintole no panno a culo, la mannaie a guardare cierte puorce, ’nciriccianno de li vestite suoie la figlia. E Cicella co na fremma granne e co na pacienzia d’Orlanno sopportava sta negra vita; oh canetate da movere le prete de la via! e chella vocca merdevole de dire concette d’ammore era sforzata a sonare na vrogna, ed a gridare cicco cicco, enze enze, chella bellezza da stare tra Pruoce era puosta tra puorce, chella mano degna de tirare pe capezza ciento arme cacciava co na saglioccola ciento scrofe, che mannaggia mille vote li vische di chi la commannaie a sti vuosche, dove sotto la pennata dell’ombre steva la paura e lo silenzio a repararese da lo Sole! Ma lo cielo, che scarpisa li presentuse e ’ngricca l’umele, le mannaie pe denante no signore de gran portata chiammato Cuosemo, lo quale, vedenno drinto la lota na gioia, tra li puorce na fenice e tra le nuvole rotte de chelle brenzole no bello sole, restaie de manera tale ’ncrapicciato che, fatto adommannare chi era e dove teneva la casa, a la stessa pedata parlaie co la matreia e la cercaie pe mogliere, promettenno contradotarela de millanta docate. Caradonia ’nce appizzaie l’uocchie pe la figlia e disse che tornasse la notte ca voleva ’mitare li pariente. Cuosemo tutto preiato se partette e le parze ogn’ora mille anne che se corcasse lo Sole a lo lietto d’argiento che l’apparecchia lo shiummo de l’Innia, pe corcarese co chillo sole che l’ardeva lo core. Aveva Caradonia ’ntanto schiaffato Cicella drinto na votte e, ’ntompagnatala co designo de farele no scaudatiello e, già che aveva abbannonate li puorce, la voleva spennare commo a puorco co l’acqua cauda.
Ma, essenno oramaie abrocato l’aiero e fatto lo cielo commo a bocca de lupo, Cuosemo, c’aveva li parasiseme e moreva allancato, pe dare co na stretta a l’amate bellezze na allargata a l’appassionato core, co na preiezza granne abbiannose cossì deceva: «Chesta è l’ora a punto da ire a ’ntaccare l’arvolo che ha chiantato Ammore drinto a sto pietto pe cacciarene manna de docezze ammorose; chesta è l’ora a punto de ire a scavare lo tresoro che m’ha prommisso la fortuna; e perzò non perdere tiempo, o Cuosemo: quanno t’è prommisso lo porciello, curre co lo funiciello! o notte, o felice notte, o ammica de ’nammorate, o arme e cuorpe, o chillete e cocchiare, o Ammore, curre, curre a brociolune perché sotto la tenna de l’ombre toie pozza reparareme da lo caudo che me conzumma!».
Cossì dicenno ionze a la casa de Caradonia e trovaie Grannizia a luoco de Cicella, n’ascio ’n cagno de no cardillo, n’erva noale pe na rosa spampanata, che si be’ s’avea puosto li panne de Cicella e potive dicere vieste Cippone ca pare barone, co tutto chesto pareva no scarafone drinto na tela d’oro, né li cuonce, ’mpallucche, ’nchiastre e stelliccamiente fattele da la mamma pottero levare la forfora da la capo, le scazzimme dall’uocchie, le lentinie da la facce, le caucerogna da li diente, li puorre da la canna, le sobacchimme da lo pietto e lo chiarchio da li tallune, che l’afeto de sentina se senteva no miglio.
Vedenno lo zito sta mala ’Meriana non sapeva che l’era socciesso e, fattose arreto comme si le fosse apparzeto Chillo-che-squaglia, decette fra se stisso: «So’ scetato o m’aggio cauzato l’uocchie a la ’merza? so’ isso o non so’ isso? che vide, nigro Cuosemo? hai cacata la vraca? non è la facce chesta che iere matina me pigliaie pe canna, non è chesta la ’magene che m’è restata penta a lo core! che sarrà chesto, o Fortuna? dove, dov’è la bellezza, l’uncino che m’afferraie, l’argano che me tiraie, la frezza che me smafaraie? io sapeva che né femmena né tela resce a lumme de cannela, ma chesta la ’ncaparraie a lumme de sole! Ohimè, ca l’oro de stammatina m’è scopierto a rammo, lo diamante a vrito e la varva m’è resciuta a garzetta!».
Cheste ed autre parole vervesiava e ’mbrosoliava fra li diente, ma puro all’utemo, costritto da la necessitate, dette no vaso a Grannizia, ma, comme vasasse no vaso antico, che avvecinaie ed arrassaie chiù de tre vote le lavra primma che toccasse la vocca de la zita, a la quale accostato le parze de trovarese a la marina de Chiaia la sera, quanno chelle magne femmene portano lo tributo a lo maro d’autro che d’adure d’Arabia.
Ma perché lo cielo, pe parere giovene, s’aveva fatta la tenta negra a la varva ianca, e la terra de sto signore era muto destante, fu astritto a portaresella a na casa poco lontano da li confine de Panecuocolo pe chella notte; dove, acconciatose no saccone sopra doi casce, se corcaie co la zita.
Ma chi pò dicere la mala notte che passaro l’uno e l’autro, che, sì be’ fu de state, che n’arrevava a otto ora, le parze la chiù longa de ’nvierno: la zita verruta da na parte rascava, tosseva, tirava quarche cauce, sosperava e co parole mute cercava lo cienzo de la casa affittata; ma lo Cuosemo faceva affenta de gronfiare e tanto se reterai ’m ponta lo lietto, pe no toccare Grannizia, che, mancatole lo saccone, schiaffai ’ncoppa no pisciaturo e rescie la cosa a fieto e a vergogna. Oh quanta vote lo zito iastemmaie li muorte de lo Sole, che penzeniava tanto pe tenerelo chiù luongo tiempo a sta soppressa! quanto pregava che se rompesse lo cuollo la Notte e sparafonnassero le stelle, pe levarese da canto co la venuta de lo iuorno chillo male iuorno! Ma non tanto priesto scette l’Arba, a cacciare le Gallinelle ed a scetare li galle, ch’isso, sautato da lo lietto e appontatose a pena le brache, iette de carrera a la casa de Caradonia pe renonziare la figlia e pagarele la ’ncignatura co na mazza de scopa. E, trasuto a la casa, non ce la trovaie, ch’era iuta a lo vosco pe na fascia de legna pe fare no scaudatiello a la figliastra, che steva ammafarata drinto la sepetura de Bacco, dov’era degna de stare sciamprata drinto la connola d’Ammore. Cuosemo, cercanno Caradonia e trovannola sparafonnata, accommenzaie a gridare: «Olà, dove site?». E ecco no gatto soriano, che covava la cennere, sparai contra tiempo na voce: «Gnao, gnao, mogliereta è drinto la votte ’ntompagnao!».
Cuosemo, ’nzeccatose a la votte, ’ntese no cierto gualiarese ’n cupo e sottavoce; pe la qualemente cosa pigliaie n’accetta da vecino lo focolaro e sfasciaie la votte, che a lo cadere de le doche parze no cadere de tela da na scena dove sia na dea da fare lo prolaco. Non saccio comme a tanto lostrore non cadette ciesso; la quale cosa vedenno lo zito, stato pe no piezzo comme a chillo che ha visto lo monaciello e po’ tornato ’n se stisso, corze ad abbracciarela decenno: «Chi t’aveva puosto a sto nigro luoco, o gioiello de sto core? chi me t’aveva accovato, o speranza de sta vita? che cosa è chesta, la penta palomma drinto sta gaiola de chierchie e l’auciello grifone venireme a canto? comme va sto chiaito? parla, musso mio, conzola sto spireto, lassa spaporare sto pietto!».
Alle quale parole responnette Cicella contannole tutto lo fatto, senza lassarene iota: quanto aveva sopportato a la casa de la matreia da che ’nge pose lo pede, fi’ che, pe levarele la cannella, Bacco l’aveva sotterrata a na votte. Sentuto chesto Cuosemo la facette accovare e agguattare dereto la porta e, tornato a mettere ’nziemme la votte, fece venire Grannizia e ’nforchiatacella drinto le decette: «Statte ccà no poccorillo, quanto te faccio fare no ’nciarmo azzò li maluocchie non te pozzano» e, ’ntompagnato buono la votte, abbracciaie la mogliere e, schiaffatosella ’ncoppa a no cavallo, se la portaie de ponta a Pascarola, ch’era la terra soia.
E venuta Caradonia, co na grossa fascina, facette no gran focarone e, puostoce na grossa caudara d’acqua, comme sparaie a bollere la devacaie pe lo mafaro drinto la votte e sporpaie tutta la figlia, c’arrignaie li diente comme s’avesse manciato l’erva sardoneca e se l’auzaie la pelle comme a serpe quanno lassa la spoglia. E comme parze ad essa che Cicella avesse pigliato lo purpo, stennecchiato li piede, scassaie la votte, e ashianno – oh che vista! – la propria figlia cotta da na cruda mamma, sceccannose le zervole, rascagnannose la facce, pisannose lo pietto, sbattenno le mano, tozzanno la capo pe le mura e trepetianno co li piede, fece tanto trivolo e sciabacco che ’nce corze tutto lo casale. E, dapo’ ch’ebbe fatto e ditto cose dell’autro munno, che non vastaro confuorte a conzolarela, conziglie a miticarela, iette de carrera a no puzzo e, zuffete, co la capo a bascio se roppe lo cuollo, mostranno quanto sia vera chella settenza: chi sputa ’n cielo le retorna ’n facce».
Era fornuto a pena sto cunto che secunno l’ordene dato da lo prencepe se vedettero sguigliare là ’nanze Giallaise e Cola Iacovo, l’uno cuoco e l’autro canteniero de corte, li quale, vestute da viecchie napoletane, recetaro l’egroca che secota.

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Le solitarie di Ada Negri

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Di Anna Lo Piano

 

V’è chi cammina, solo, pei deserti. — V’è chi naviga, solo, pei mari. — Vi sono vite di donne intessute cosi, a filo liscio, bianco su bianco. — Si ignora tuttavia se questa monotona bianchezza, che può anche essere di sepolcro, nasconda in sè minor tragicità di altre tele d’esistenza a trame aggrovigliate d’oro, di gemme e di sangue. 

“Storia di una taciturna” in “Le Solitarie”

 

 

Quando nel 1913 Ada Negri scrive la prima novella de “Le solitarie”, ha quarantatre anni ed è una poetessa letta e tradotta in tutta Europa. È lontana da casa, in Svizzera, dove è andata per vedere la figlia Bianca che per volontà del padre frequenta un collegio a Zurigo, ed è sola. Il suo matrimonio con Giovanni Garlanda, a causa di crescenti incomprensioni e dolori insuperati, è finito. In questo ritiro, da cui tornerà in fretta l’anno seguente prima che l’imminenza della guerra chiuda le frontiere, sperimenta quella distanza che si rende a volte necessaria per guardare la propria vita, la propria scrittura, da una prospettiva diversa. L’esigenza di raccontare questa volta non trova sfogo nei versi, ma sceglie la forma, in prosa, del racconto. Stando alla lettera che scrive a Margherita Sarfatti, che farà da prefazione alla raccolta, si avventura in questa impresa senza molta convinzione. È insieme all’amica che un giorno “ripescano e rileggono” questo “grigio, torbido, manoscritto”, ed è la Sarfatti a incoraggiarla a pubblicare, sostenendo che in queste novelle “c’è una parte viva di lei”. E sicuramente è vero che c’è questa parte viva, e si sente.  Attraverso le storie di queste donne sole, ognuna delle quali ha un modo diverso e unico di essere “spostata”, per usare un sorprendente aggettivo usato per descrivere le maestrine in “Anima bianca”, di essere vittima di un deragliamento involontario rispetto al binario imposto dei ruoli di figlia, moglie e madre, è l’autrice stessa che si racconta.  Lo fa da lontano, in un’età che appartiene alle sue protagoniste più riuscite, che è quella di mezzo, indefinibile, tra la giovinezza e la vecchiaia. 

Nella sua vita ha accumulato moltissime esperienze, ha conosciuto la povertà, l’umiliazione, la delusione amorosa, il dolore per la perdita di una figlia ad appena un mese di vita, ma anche il successo, la passione politica nei circoli milanesi frequentati da Filippo Turati, Anna Kuliscioff e all’epoca anche Benito Mussolini.  È entrata in contatto con le istituzioni filantropiche e l’associazionismo politico che fanno parte del panorama culturale milanese. Con Ersilia Majno ha fondato l’Asilo Mariuccia per dare riparo e assistenza alle donne e bambine costrette a prostituirsi. Su queste esperienze scrive diversi reportage per una rubrica del Corriere della Sera, “Cronache del bene”, di cui è titolare dal 1903 al 1911.
L’esperienza del racconto di stampo giornalistico si ritrova anche nelle Solitarie, che offrono uno spaccato a volte dettagliatissimo sulle condizioni di vita delle donne, sui loro stipendi inferiori a quelli degli uomini “allora, verso il milleottocentosettanta, le paghe femminili non salivano piú in là. .. In quei tempi non si parlava ancóra di cooperative operaie, di sindacati e di scioperi” (Il posto dei vecchi), alle difficoltà per lasciare i figli durante le ore di lavoro, fino alle descrizioni delle città, dei mezzi pubblici, delle case. Lo sguardo dell’autrice però non si ferma alla cronaca, ma entra nei loro pensieri, ne segue gli arrovellamenti, i moti di speranza, di autoinganno, di rassegnazione.  Per raccontarle le trasfigura, ne dipinge le fattezze con tratti quasi espressionistici, che dicono tutto del loro modo di stare al mondo. Anin, che è “stata creata per essere serva” ,  è  “tozza di corpo e grossolana di volto, con occhi obliqui di giapponese rilucenti di calda bontà in una faccia sbozzata con l'accetta”(La serva), mentre Feliciana, che annulla la sua vita nella fabbrica per dar da mangiare ai figli, ha “occhi di fosforo” e diventa anche lei un ingranaggio tanto da sentirsi  “come se andasse e venisse con le spolette d'acciaio: come se accordasse le pulsazioni del cuore e dei polsi a quelle dei licci, dei brancali, delle leve, di quei piccoli e silenziosi bracci di macchina che sembrano moncherini dal gesto tragicamente preciso”. (Il posto dei vecchi). Le case, le città, gli elementi naturali del paesaggio non si limitano a fare da sfondo ma prendono vita e diventano parte integrante delle loro vicende. Quando Raimonda esce dall’ufficio, la sera, col bavero del cappotto rialzato per nascondere le cicatrici che ha sul volto, si immerge in una nebbia “cosí densa, cosí opaca (…), che si sarebbe potuta tagliar col coltello. Penetrava nella bocca e nelle narici, mozzava il respiro, dava il senso dell'asfissia. Vie e case scomparivano, dissolte nell'impalpabile massa dei vapori. Atmosfera di sogno. Ma un sogno sinistro, pieno d'agguati.” (Nella  nebbia). La cava di marmo dove Cristiana ha appuntamento con l’amante per dirgli che è incinta di lui, è “fibrosa e spasimosa come lacerazione in corpo vivo” (Il crimine), come se già sapesse che la donna vive il travaglio di scegliere se abortire o no. Di fronte a questa natura partecipe delle storie, troviamo l’indifferenza e l’ostilità degli esseri umani. Sono spesso uomini, amanti, come il “magretto dai piccoli baffi, dal profilo femmineo” che “se ne stava freddo, come noiato”(Il Crimine), o l’uomo che  “non cercava nemmeno di stordirla con un po' di carezze. Aveva cominciato a svestirsi, lui, gettando soprabito e giacca a sghimbescio sulla spalliera d'una sedia, in fretta, senz'ombra d'esitazione, restando, in bretelle turchine incrociate su una camicia a righe bianche e lilla” (L’appuntamento), ma anche i datori di lavoro, o meglio i padroni, e quella pletora di madri, suocere e nuore, dalle quali bisogna nascondersi o difendersi.

In questa raccolta, composta come un mosaico, attraverso le diverse età, ceti sociali, situazioni emotive e psicologie differenti, ogni volta il punto di vista risulta leggermente spostato, apre prospettive nuove. Ma il risultato finale è quello di una condizione femminile che appare come una gabbia. Lo sguardo di Ada Negri, che ci accompagna in questo viaggio, si modula come una lente, avvicinandosi e allontanandosi dalle protagoniste, inglobando la visione di chi è complice di questa loro prigionia. C’è quasi una scala di livelli di consapevolezza. La vita di Anin, la servetta che vive “la gioia organica di chi si trova in armonia con il proprio destino” è raccontata quasi tutta con le azioni e decisioni dei padroni che, attraverso il filtro dell’ironia, ci dicono la vita di miseria e contraddizione che doveva fare la poveretta:

 

Quando un abito è ragnato alle cuciture o ha stinto tutto il colore, lo si regala alla serva; (…) mentre in sala da pranzo e in salotto, alla luce di tutte le lampade, si chiacchiera e si gioca, allegramente, intorno al tavolino del tè, o al vassoio dei liquori, la serva deve starsene quieta nel cantuccio presso i fornelli, abbassando la fiamma del gas per non fare spreco.

La parabola di Rosanna, la maestra, è racchiusa tra le dicerie dei paesani sul suo aspetto fisico all’inizio e alla fine del racconto, quando la violenza inaspettata che ha subito, e della quale non si dà ragione, la riduce a una larva.
Poi ci sono le protagoniste sulle quali lo sguardo si posa più da vicino, le segue nei tormenti, nei desideri, nelle improvvise consapevolezze, spesso intime. Si parla di sessualità, di desiderio. L’amore materno, sebbene scontato, passa dal sacrificio alla consapevolezza di starsi annullando per i figli, viene messo al secondo posto rispetto alla passione di coppia, combattuto per non dover portare l’eredità di un uomo che non si ama più.  L’autrice lascia invece loro la parola quando prendono coscienza di possedere “occhi in dentro”, di sapersi guardare da sole, come Raimonda, che da tempo ha abolito gli specchi per non doversi confrontare con la sua immagine sfregiata, ma che al momento di fare una scelta inaudita, concedere un bacio allo sconosciuto che la segue nella nebbia, è padrona delle proprie azioni, non ha dubbio, non se ne pente ma anzi conserva per sé questo ricordo come una conquista della propria vita. Forse lo sguardo più lucido lo troviamo in Antonella, la più giovane, appena sedicenne, che ragiona con il suo fidanzatino su cosa aspettarsi dalla vita, sulle loro speranze di non ritrovarsi a essere come i propri genitori, chiusi in matrimoni infelici, in dissidi mai sciolti per paura di dover fare i conti con se stessi.  È nel dialogo, nel poter osservare e dire quello che davvero succede a casa che si attua la loro consapevolezza (Gli adolescenti).
Ne le “Confessioni”, brevi racconti, quasi una raccolta in sé, le protagoniste incontrano l’autrice in un albergo svizzero, e si confidano a lei. Ognuna si porta dentro un segreto, un tormento, ma il fatto di prendere la parola e trasformarlo in racconto ha un effetto salvifico, di assoluzione.
Certo, nessuna di queste donne esce dalla prigione. Lottano, provano strade nuove, cercano soluzioni che appaiono però come sconfitte, come tentativi di fuga che le portano a sbattere ancora più violentemente contro le pareti. Rimangono impigliate nel loro destino perché non sono in grado neanche di immaginare che potrebbe esserci qualcosa al di là delle sbarre.

Nel femminismo delle scrittrici italiane a cavallo tra otto e novecento ci sono contraddizioni che peseranno sul loro futuro. Pur essendo sensibili ai temi sociali della condizione femminile, e incarnando esse stesse modelli di emancipazione, spesso si fecero un vanto di dichiararsi antifemministe, come Neera o Matilde Serao. La solidarietà verso le donne in difficoltà passò dalle denunce, dalle inchieste, dalla filantropia, ma non fu capace di farsi movimento, presa di posizione intellettuale, e soprattutto di scardinare certi modelli legati alla maternità, ai ruoli. Tutto il fermento che c’era stato in quegli anni, la pluralità di voci, venne travolto dagli anni del fascismo, e poi dalla guerra. Anche Ada Negri venne travolta.  Si avvicinò alle posizioni di Mussolini, ricevette incarichi, onorificenze. Come nella protagonista dell’ultimo racconto, quello più autobiografico, venne a patti con la realtà, con “il denaro”. O forse fu l’attesa dell’uomo forte, quella speranza di trovare “un uomo, la sua carezza e il suo pugno, la sua protezione e il suo dominio” che viene continuamente evocata nei racconti. Veronetta alla fine  trova pace tra le braccia del suo uomo, si sente completa nel pensare a quel momento come breve, da vivere intensamente senza pensare al futuro, senza pensare di farlo durare per sempre.

 

Si sentí di carne, piegò su se stessa, si rannicchiò, piccola e trepida, nell'ombra del suo uomo. Non ricordava, non sapeva piú nulla, fuor che d'essere vivente in lui; Fausto se la schiacciò sul petto, le ferí la bocca con un lungo bacio, la tenne come egli voleva, fanciulla e donna, col suo passato e il suo presente offerti all'amore. Ed entrambi ebbero coscienza della brevità di quell'ora e della sua eternità.

 C’è però un altro personaggio che mi pare di riconoscere una versione più interessante di un possibile alter ego della protagonista, ed è Clara Walser, l’artista. In questo incontro, che fa parte delle “Confessioni”, l’autrice visita una sua mostra, dove è esposto il suo lavoro di artista tessile, e guardandolo “ha l’impressione che somigli alla sua artefice, che lo stesso ritmo di vita governi l’uno e l’altra”.  D’altronde, come dice lei stessa, si può essere madri o continuare la propria forza, la propria sensibilità, in un’opera d’arte.

 

Credete che l’anima sia solo dell’essere umano? Credete che qualche molecola o irradiazione dell’anima non possa vivere in una trina, in una maiolica, in un legno scolpito, in un ricamo?”

C’è nella vita di questa donna, sicuramente, un uomo che “era passato per devastare”, ma “il buon terreno si era ricomposto.

 

Clara, però, a differenza di altre, non mostra l’ombra ma la vittoria. Nella sua vita attraverso il “molto amare, molto errare, molto piangere” c’è stata un’evoluzione interiore, dello spirito. “Conviene, renderci a poco a poco superiori al dolore egoistico, purificarci da ogni scoria, uccidere in noi il tormento del desiderio. Rinascere, insomma”. E il suo battesimo è avvenuto nella natura, attraverso quel nomadismo di cui parlava Whitman, del quale Ada Negri era un’appassionata lettrice.  Clara è l’unica donna che parla di libertà, che trova uno slancio vitale per dedicarsi ad altro, ad altri.  Lei, come artista, “il filo liscio, bianco su bianco, sul quale sono intessute tante vite di donna”, lo domina e lo usa per esprimere se stessa. È l’unica alla quale, alla fine, la sua stessa autrice chiede: “Perché non vorreste condurmi con voi a Eriswil?”

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Vacanza tedesca, di Marcello Venturi

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Lindau propone Vacanza tedesca, un libro con tre racconti che Venturi scrisse tra l’ottobre del 1957 e il febbraio del 1958, in un momento di transizione per il nostro Paese, a cavallo tra la guerra appena finita, ma i cui veleni circolavano ancora, e gli anni del boom economico in cui tutto sarebbe sembrato possibile. In una prosa nitida e asciutta, Venturi mette in scena tre personaggi mossi da sentimenti contrastanti di colpa e rivalsa, tre espressioni differenti della violenza e della miseria morale del dopoguerra.

Cattedrale vi propone l’incipit del primo racconto, per gentile concessione dell’editore.

Vacanza tedesca

Mi chiamo Hans Wassel e sono tedesco, di Francoforte. Fu per l’estate del ’56, per il mese delle vacanze, che decisi di tornare in Italia. Sentivo nostalgia di rivedere i posti dove avevo combattuto col mio battaglione S.S. Hermann Goering, e, più precisamente, volevo rivedere il paese in cui Karl morì, il punto esatto in cui fu colpito e cadde. La sua tomba.
Da qualche mese il pensiero della sua tomba abbandonata tra i boschi degli Appennini italiani mi stava perseguitando. La notte mi capitava spesso di avvicinarmi alla finestra, in punta di piedi perché Martha non si accorgesse, e guardare lungamente gli alberi sulla sponda del fiume. Martha continuava a dormire nel grande letto matrimoniale, sentivo il suo respiro regolare, leggero, dietro di me: e tra il tepore della sua presenza, e il freddo del fiume, gli alberi, i ricordi oltre la finestra, il rimpianto si faceva più forte.
Persino durante il giorno, in certi momenti del mio lavoro, quel pensiero sopraggiungeva improvviso a interrompermi un gesto o a smorzarmi una parola sulle labbra.
«Qualcosa che non va, dottore?» chiedeva il cliente osservandomi impaurito.
Allora dovevo concentrarmi di nuovo sui miei strumenti, sorridere, per rassicurare il paziente che la sua salute era a posto, o comunque, che per lui non c’era niente di grave.
L’ambulatorio stava al piano terra della nostra casetta della Friedrichstrasse, ci passavo quasi l’intera giornata, dalle prime ore del mattino alla sera. Al piano di sopra sentivo il passo lieve di Martha, che si muoveva nella camera per rifare il nostro letto; la sentivo passare in salotto, e anche qui sapevo ogni suo gesto: spolverare i libri della scansia, rimettere a posto i fiori finti nel grande vaso azzurro di Murano al centro del tavolo, spazzare le mattonelle di maiolica. Ed eccola in cucina, col rumore attutito delle stoviglie; lo scatto del fornello elettrico, il sapore denso del caffè.
E poi lo scroscio dell’acqua nella stanza da bagno. Non sentivo il fruscio del pettine sui suoi capelli lunghi, biondi, abbandonati sulle spalle, ma riuscivo a indovinarlo. Di lì a pochi minuti Martha sarebbe apparsa, pulita e fresca, sull’uscio dell’ambulatorio per salutarmi prima di uscire al mercato. Con la borsa di pelle infilata al braccio, più simile ad una studentessa che ad una massaia, mi avrebbe guardato con una luce di gioia negli occhi. Sarebbe scomparsa quasi fuggendo, e correndo sarebbe rientrata e salita in cucina. Da quel momento io potevo seguire le sue operazioni ai fornelli sino all’ora del pranzo.
Martha pareva si divertisse come a un gioco da bambini: il gioco del marito dottore e della moglie del marito dottore. Per me costituiva una distrazione e una compagnia sentirmela vicina anche durante il lavoro. Mi distraeva dalla monotona litania dei pazienti, dal loro grigiore; mi aiutava a vincere la ripugnanza fisica che sempre mi viene a contatto di un corpo malato.
Questo i primi tempi.
Ma negli ultimi mesi avevo smesso di seguire i suoi movimenti e di ascoltare i suoi passi. Mi accadeva di perdermi dietro il ricordo delle montagne italiane, le pianure italiane, i paesi italiani che erano rimasti per tanto tempo nascosti nella memoria: e che adesso, all’improvviso, balzavano fuori col nome di Karl.
Avevo tentato di non pensarci più, né alla guerra né a Karl, e, tanto meno, alla tomba rimasta lassù. Forse una ragione del mio matrimonio con Martha era stata anche questa, un tentativo di dimenticare, di rientrare nel giro della vita insulsa di un modesto borghese. Ma adesso, alla finestra della camera, osservando nella notte invernale i banchi di bruma risalire il corso nero del fiume, inghiottire gli alberi, adesso dovevo ammettere il fallimento del mio tentativo.
Non che a Martha non volessi bene: semplicemente non mi bastava, non mi era bastata mai. Dovevo ammettere che la vita incolore del medico non era la mia; neanche la vita di famiglia, sia pure con una ragazza giovane e bella.
Qui, sotto la distesa grigia del cielo tedesco, senza sole e senza stelle, si ridestava in me il bisogno di altri orizzonti: lo stesso bisogno fisico che mi aveva fatto arruolare nelle S.S., e marciare nei paesi stranieri verso il Mediterraneo, verso altri cieli, insieme all’amico Karl.


Della mia amicizia con Karl non mi era mai capitato di parlare a lungo con Martha; solo qualche volta gliene avevo accennato, a proposito della foto che tenevo sulla scrivania dell’ambulatorio. Martha stessa aveva ogni volta troncato il discorso, per evitare l’argomento guerra.
Il mio passato di S.S. non la interessava; o meglio, c’era in lei l’ostinata volontà di ignorarlo. Come volesse ignorare una parte di me. Medico mi aveva conosciuto e medico ero. Ai miei tentativi di raccontarle avventure in terre lontane, Martha aveva sempre opposto un imbarazzato silenzio, riuscendo infine a cambiare, o a interrompere, il discorso. Così io ero rimasto, ai suoi occhi, il pallido, magro dottore di provincia; un dottore leggermente invecchiato, cui si preparano le pantofole per la notte e la tazza calda di camomilla, cui si toglie di bocca l’ultima sigaretta con un gesto infantile e insieme materno. Per queste sue premure, ai primi tempi, avevo provato una sorta di tenerezza, avevo rinunciato a farle conoscere l’altro me stesso, quello di prima. Un dolce torpore mi aveva tenuto stordito tra le quattro pareti della Friedrichstrasse. Fino a quando, alla vigilia di Natale, non avevo cominciato a vedere con maggiore chiarezza i veri limiti dell’ambulatorio, della strada, del fiume, e persino di lei.
Da quel giorno Karl, in divisa nera, mi guardava dalla foto della mia scrivania sempre più a lungo: lo sguardo puro dell’eroe, i lineamenti precisi. E dietro di lui, oltre la foto incorniciata, il pensiero mi era tornato più insistentemente alle strade della guerra dove insieme avevamo camminato, al vento delle foreste, alla pioggia degli inverni, al sole delle brucianti estati marine.
La vigilia del Natale 1956 un ebreo era entrato nel mio ambulatorio per farsi visitare. A colpo d’occhio avevo indovinato le oscure radici della sua razza. Il piccolo ebreo si era tolta la camicia, la maglia; col torace bianco e ossuto era rimasto in piedi davanti a me, perché io, a pagamento, auscultassi i suoi polmoni.
Non avevo potuto rifiutarmi, avevo dovuto vincere il senso di ribrezzo e toccarlo con le mie mani; applicargli sulla schiena lo stetoscopio.
Karl mi guardava dalla foto con lo sguardo impassibile, impietrito. Un sudore freddo mi imperlava la fronte, l’odore sottile che emanava dalla pelle del piccolo ebreo mi dava la nausea.
Senza rispondere alle sue domande scrissi con mano tremante una ricetta; lui mi osservava stupito, mentre rimetteva la maglia e la camicia. Con le punte delle dita respinsi la banconota sull’orlo della scrivania e restai immobile a guardarlo, che usciva dall’ambulatorio alzandosi il bavero del cappotto. Prima di scomparire nella strada volse la testa verso di me in una mossa rapida.
Non poteva essere un abitante della Friedrichstrasse, né del quartiere, altrimenti avrebbe saputo. O forse era un abitante del quartiere, venuto apposta per umiliarmi.
L’impossibilità in cui mi ero trovato a dire di no mi aveva fatto sentire concretamente i limiti della mia nuova esistenza. Gettai la banconota sul pavimento e la calpestai sotto lo sguardo di Karl; ma neppure questo era servito a togliermi il malumore di dosso. Così accadde il primo incidente con Martha. Dopo essermi disinfettato le mani, salii al piano di sopra e mi sedetti in silenzio al mio posto, al mio solito posto della tavola apparecchiata ormai da anni.
Martha mi guardò appena e capì, sorrise.
«Stamani ho visto la signora Brummer,» disse, ben sapendo che la cosa per me non aveva alcuna importanza.
«Bene,» risposi.
«Ci invita a casa sua,» disse Martha sedendosi all’altro capo del tavolo. «Domenica prossima».
C’era qualcosa di straordinario nella capacità di Martha a tirare per le lunghe un argomento privo di qualsiasi interesse. Pareva avvertisse il pericolo di una rivelazione imminente.
Continuò a parlare della signora Brummer, informandomi con abbondanza di particolari della sua salute, del buffo vestito che indossava e persino degli affari di suo marito, l’avvocato Otto Brummer.
Io la lasciavo parlare pensando ad altro, più irritato da questa sua paura a conoscere l’altra parte di me che per le sciocchezze che andava dicendo.
Infine dissi: «Basta».
Martha arrossì, un silenzio massiccio cadde tra noi, sulla tavola che ci divideva. Attesi invano, a lungo, una domanda; e più attendevo più Martha si confondeva, più le tremava la forchetta nella mano. Io smisi di mangiare, spinsi il piatto in mezzo alla tavola.
«Sono disgustato, – dissi lentamente. – È questo che non volevi sapere?».
«So di non essere una buona cuoca,» bisbigliò Martha abbozzando una smorfia. Mentiva, si attaccava ad una banale menzogna nella speranza di rimandare ancora.
«Sono disgustato per altre ragioni,» dissi. Volevo udire quella domanda, la domanda abituale, naturale, che una moglie rivolge al proprio marito.
Per questo non aggiunsi altro, la guardai con pazienza.
Martha si sentiva presa nella rete, i suoi occhi non riuscivano a sfuggire il mio sguardo, vi rimasero dentro quasi affascinati.
«Quali ragioni,» disse. Lo disse, non mi poneva una domanda; disse qualcosa cui non si doveva rispondere, cui non voleva risposta.
«È venuto un ebreo,» dissi io. La guardai irrigidita e pallida, non più rossa, all’altro capo del tavolo, che adesso sembrava essere lontano, irrealmente lontano.
«Sì,» bisbigliò Martha di laggiù.
«Uno schifoso ebreo è entrato nel mio ambulatorio,» dissi.
Mi piegai in avanti sul tavolo, per vederle meglio il pallore del volto. «Non è una cosa disgustosa?» domandai.
Martha non riusciva a parlare, sembrava volesse alzarsi e che fosse inchiodata alla sedia. Fece un cenno vago con la testa.
«Spiegati, – dissi. – Non ho capito. Sei d’accordo con me?».
Le erano venute le lacrime agli occhi.
«Oppure sei amica degli ebrei?» domandai. Temetti che scoppiasse in pianto, non posso soffrire il pianto delle donne e dei bambini. Non l’avevo mai vista piangere. Invece fu buona a vincere le lacrime, le ingollò. «Io sono amica di tutti,» disse Martha.
Lo immaginavo. L’avevo capito dalla sua paura. Mi alzai dal tavolo e scesi in ambulatorio. Prima di uscire sulla strada spalancai le finestre.

PIRANDELLO: IL RACCONTO COME LABORATORIO CREATIVO

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di Antonio Tedesco

Per chi si è molto occupato di Pirandello come autore teatrale, leggere le sue novelle può rivelarsi una vera e propria riscoperta. Uno scivolare (per rimanere nell’immagine del teatro) “dietro le quinte” scoprendo un immenso laboratorio dove la materia prima di cui quel teatro si nutre viene sgrossata, lavorata, profilata, resa disponibile per ulteriori (ma mai definitive) lavorazioni. Oltrepassando quella quinta immaginaria, ci si ritrova immersi in un corpus narrativo di ragguardevoli dimensioni dal quale si origina la linfa vitale di cui l’intero universo pirandelliano si nutre.
Le Novelle per un anno, nell’edizione Mondadori dei Meridiani Collezione, è un’opera in tre volumi composta da due tomi per ogni volume. Affidata all’ottima cura di Mario Costanzo, con l’introduzione di Giovanni Macchia. Esauriente, ricca di apparati critici e filologici, di appendici e varianti, di testi rimasti fuori dalle varie raccolte, di note esplicative: il laboratorio dello scrittore nel suo farsi. La narrativa breve, come anche Macchia evidenzia nella sua introduzione, diventa fucina in cui una folla di caratteri  e una molteplicità di ambienti e situazioni prendono forma, si manifestano. Si preparano in molti casi a trasmigrare nelle commedie o, in parte, nei romanzi. Un esercizio continuo questo del racconto (o “novella” come lo stesso Pirandello preferiva chiamarle). Una fonte vitale a cui attingere, che l’autore non abbandonò mai, neanche quando, diventato un drammaturgo affermato, il teatro avrebbe assorbito gran parte del suo tempo.

C’è un magma creativo che ribolle in questi racconti. Immergendosi in essi si ha un’idea più precisa del “caos” (pirandelliano, appunto) dal quale il teatro del grande autore siciliano era generato.
Terreno mobile o paludoso, se non in certi casi tellurico, nel quale gettava le sue fondamenta, fragili e solidissime a un tempo.
Una miriade di personaggi affollano queste novelle. Tutti, seppur ognuno a modo suo, chiamati a testimoniare l'incertezza, l'instabilità, la precarietà e, in molti casi, la vacuità dell'essere; ma ciascuno, allo stesso tempo, drammaticamente, seppur con risvolti non di rado patetici e grotteschi, colto nell’affanno di negare questa condizione di instabilità, cercando puntelli e certezze per sé e per gli altri, attaccandosi a riferimenti il più delle volte posticci e fuorvianti che lo portano, alla fine, ad ottenere l'effetto contrario. E cioè ad allontanare l'uomo da sé. Rendendo così ancor più patetica e miserevole la ricerca di un ruolo attraverso il quale illudersi di poter dare un senso alla propria vita.
È in questa forma letteraria che la “filosofia” di Pirandello sembra esprimersi al meglio. Novelle che, se a volte somigliano a parabole, o ad apologhi e bozzetti, sanno trovare di frequente la misura del racconto lungo, ben strutturato e articolato (Berecche e la guerra e La signora Speranza, per citarne qualcuno), nei quali l'arte narrativa dell'autore si manifesta al pieno delle sue potenzialità.
La novella è stata per Pirandello una sorta di "forma mentis". Una maniera di manifestare la sua visione del mondo e di riflettere su di essa; di isolarne frammenti per tentare un ordine nel caos. Ma rimane anche un luogo utile per organizzare il proprio, spesso contraddittorio, dialogo interiore (vedi Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me) o per approfondite considerazioni sulla sua attività di scrittore (le varie versioni di Colloquii coi personaggi).

Le novelle tracciano un percorso in cui lo stile narrativo, con il tempo, va perdendo i suoi tratti naturalistici, accentuando, in certi casi, gli elementi paradossali o grotteschi, pur non rinunciando a visioni introspettive che partendo dall’esperienza individuale assumono risonanze di carattere universale.
In particolare, nei racconti dell'ultimo periodo (ad esempio, Una giornata, che dà il titolo alla sua ultima raccolta, o anche Effetti d’un sogno interrotto, ultimo racconto pubblicato in vita), l'elemento narrativo si va facendo più rarefatto, quasi stilizzato, come per lasciare maggiore spazio a tutte le tensioni e le urgenze del dire. 
"Dire" di un mondo che, per Pirandello, attraverso la pratica lunga e costante della scrittura, si è spogliato della sua maschera (scoprendone un'altra, forse, ma per l'appunto nuda). Un mondo che si è calato le brache della prosopopea e del pregiudizio e adesso si mostra a lui, all'autore, in tutta la sua patetica fragilità e vulnerabilità - a quell'autore che ha potuto vedere molti dei personaggi nati da quei brevi racconti, muoversi vivi sulla scena teatrale, respirare, soffrire, amare: dar voce vera e concreta alle sue parole.
Un'esperienza che deve averlo turbato non poco. Portandolo a smontare ancor più minuziosamente il giocattolo del mondo, delle esistenze che si sviluppano e che si intrecciano, moltiplicando la sua problematicità creativa, fino a interrogarsi in maniera estrema e severissima sulle dinamiche della creazione artistica, vista come estensione e arricchimento dell'opera di una misteriosa divinità.
E allora il mondo coincide con il teatro e viceversa, e capire il teatro significa capire il mondo nelle sue sfumature più intime, a volte oscure e nascoste.
È a questo punto che “Sei Personaggi” sperduti, naufraghi di chissà quale perversa fantasia ritrosa e pentita, fanno irruzione su di un palcoscenico (il mondo?) e invocano a gran voce il loro diritto a esistere.
Sei personaggi in cerca d'autore non è l'ultimo lavoro teatrale di Pirandello, ma è la sintesi più compiuta di tutta la sua opera. Quasi un manifesto artistico, una chiave di lettura anche per le sue opere narrative, come per il teatro e forse l’arte in generale. Un testo dove racconto e saggio sembrano incontrarsi e fondersi splendidamente.  
Pirandello, del quale si potrebbe dire, forse, che scriveva saggi in forma narrativa, usa la riflessione come strumento creativo. La riflessione intesa nel senso più strettamente etimologico del "vedere attraverso"; del rivedere come in uno specchio, tanto più fedele quanto più, in apparenza, si manifesti, in molti casi, deformante.

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Un mondo di uomini sperduti

Molte delle novelle di Pirandello muovono da movimenti minimi dell’animo umano. Sfumature a volte impercettibili che solo la sensibilità dello scrittore sa cogliere. Dettagli, riflessi che si incrociano, interagiscono, che costituiscono la struttura portante, pur se il più delle volte invisibile, dell’esistenza umana.
Tutto nasce dal caos, e Pirandello ne era perfettamente consapevole. Egli operava una sorta di processo di distillazione, come se la scrittura fosse il risultato ultimo prodotto da un complicato laboratorio interiore dentro il quale la gran massa di elementi che vanno a comporre l’esistenza umana (intesa sia in senso individuale che collettivo) venisse accolta, condensata, lasciata macerare e distillata, infine, goccia a goccia a riprodurre quell’essenza della quale, appunto, ogni sua novella si nutre e vive.
Situazioni comuni, a prima vista anche banali, ma attraverso le quali si manifestano sentimenti ed emozioni che investono e condizionano la sfera più profonda dell’esistere.
Coscienze messe a nudo, chiamate a confrontarsi con se stesse attraverso il rapporto con gli altri. Comportamenti, convenzioni, convenienze, sentimenti, aspirazioni, aspettative, illusioni, egoismi, aperture, chiusure, speranze, delusioni. E al centro di tutto questo esseri umani smarriti, confusi, interdetti. Che cercano un punto di riferimento. Un punto fermo solido su cui poggiare il peso della propria vita e cercare di sostenerlo.
Pirandello esplora le infinite varianti che determinano e caratterizzano vite umane in apparenza tutte uguali a loro stesse. Tutte segnate da un impulso di ricerca spasmodica, a volte quieta, silenziosa, altre volte febbrile, frenetica, di un senso, di un fine. Di un qualcosa che giustifichi il tutto e, prima di ogni altra cosa, se stessi.

La citata edizione dei Meridiani ci dà la preziosa possibilità di confrontare le rielaborazioni e le riscritture (che riguardano a volte singoli brani, altre volte interi racconti).
Molto significative, ad esempio, sia per la tecnica compositiva che per l’evoluzione della sua visione del mondo, sono le due versioni di uno stesso racconto pubblicate a circa nove anni di distanza l’una dall’altra (pubblicazioni che avvenivano, in genere, su riviste o quotidiani) con due diversi titoli: Il no di Anna (1897) e Lilina e Mita (1906).
La sostanza del racconto è uguale, le pulsioni che muovono i personaggi, come anche le ambientazioni, identiche. Cambiano i nomi di quasi tutti. E, in un certo senso, muta l’atmosfera nella quale essi sono immersi. È come se una vena di inquietudine si insinuasse in maniera più decisa nella seconda versione del racconto. Un vento più cupo soffiasse sugli uomini, sui fatti e soprattutto sui luoghi dove la storia è ambientata, e da qui si spargesse a impregnare di sé ogni aspetto della vita. La differenza sta tutta nella lunga descrizione iniziale della cittadina di mare dedita al commercio dello zolfo, in cui si svolge l’azione.
Nella prima versione ciò che viene messo in risalto è l’operosità, umile ma sicuramente dignitosa e non priva di una sua certa nobiltà:

 

I sacchi sul carro sono vuotati su un largo tappeto di juta grezza steso sulla via, e l’orzo e il frumento, misurati a tomoli e insaccati di nuovo, son portati a spalla entro i depositi ben guardati dall’umido. (…) Così fino al tramonto, con una breve tregua sul mezzogiorno.

Nella seconda versione ciò che l’autore evidenzia è invece la grettezza, la maniacalità, l’assenza di prospettive più ampie, l’inutilità dell’accumulo fine a se stesso. In una parola, la meschinità profonda e irrimediabile che impregna ogni cosa e intristisce la vita di quel borgo:

Si sentiva in esilio Lillina Lumìa in quel paesucolo che dalla mattina alla sera sbaccaneggiava di liti, tra stridore di carri e richiami alle bestie, giallo di zolfo e polveroso, in perpetuo arruffio di affari insidiosi.
Tutti quegli uomini imbestiati nella rissa del guadagno, bassa e feroce, le parevano pazzi, certe volte.


La storia è incentrata principalmente su tre personaggi, Anna/Mita, Rita/Lillina, e il giovane e allampanato medico del paese, Mondino Morgani, del quale la prima, di carattere insicuro, febbrile, e cagionevole di salute, si è innamorata, ma senza esserne ricambiata.

Nella prima versione il finale è narrativamente più esplicito, con Anna morente assistita dal giovane dottore che, preso da tardivo rimorso, le si dichiara, finalmente, subendo lui, stavolta, il rifiuto (Il no di Anna, appunto), essendo venuta a conoscenza, la ragazza, delle avances che lo stesso dottore aveva fatto alla sua amica Rita.

 

Dopo circa due settimane Anna morì.
Da sei anni ora giace nell’alto e solitario cimitero di Vignetta ricco di fiori e di cipressi; e più non può sapere, per sua pace, che da cinque anni Mondino Morgani e Rita Prinzi son marito e moglie, e che già hanno due figliuoli – Cocò e Mimì – biondi come papà.


Il finale della seconda versione resta invece sospeso. La fine di Mita (Anna) non viene descritta e l’azione si svolge in maniera diversa. Lillina (Rita nella prima versione), mortificata dalla scoperta dell’amica morente riguardo alla simpatia che sta maturando per il dottore, si avvicina al suo letto in lacrime, ed è la stessa Mita, che pur aveva avuto, con le poche forze rimastele, un moto di risentimento verso lei e il dottore, a consolarla:

 

(…) prese a carezzarle i bei capelli biondi e a dirle: - Perdonami...perdonami, Lillina… Io anzi voglio sai?… voglio che tu lo sposi… e vi ricorderete di me, è vero? Non piangere… non piangere…

 

Il racconto si chiude così. Un finale sospeso, che insieme alle altre variazioni operate al testo e alla cornice di maggior grettezza e aridità sociale in cui è calato, esprimono il segno di una maggiore inquietudine, di una sospensione dei fatti e con essi del giudizio, insieme al rifiuto di una meccanicità narrativa forse troppo scontata. Sintomo non solo di una maturazione dell'artista e della sua scrittura, ma anche di una visione più disincantata e disillusa delle cose e del mondo che egli rappresenta.

Libertà, un racconto di Giovanni Verga

Libertà era inserito nel volume Novelle rusticane del  1883

Libertà era inserito nel volume Novelle rusticane del 1883

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà! -
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! -
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! -
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te'! tu pure! - Al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! -
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l'ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te'! Te'! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d'oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch'esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo capestavano. Non gridava più. Sua madre s'era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L'altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l'ombra s'impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo - ahi! - ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L'orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all'uscire dal carcere, egli ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all'aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la liberta!... -

 

Racconti italiani, scelti e introdotti da Jhumpa Lahiri

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È in libreria RACCONTI ITALIANI, scelti e introdotti da Jhumpa Lahiri, edito da Guanda. Un testo prezioso e ricco che fa il punto con la tradizione breve italiana; uno sguardo che taglia in profondità le dinamiche letterarie e narrative del racconto italiano, la finestra esplorativa di tutto il panorama narrativo del novecento. Un libro imprescindibile per chi ama - ma soprattutto per chi ne è più a digiuno - del racconto nostrano.
Cattedrale vi propone un estratto dell’introduzione di Jhumpa Lahiri, che ha curato e raccolto questa edizione. Ringraziamo l’editore e l’autore per la cessione.

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Jhumpa Lahiri

Molti degli autori qui presenti si conoscevano. Si sostenevano a vicenda, si influenzavano, si scontravano. Promuovevano, rileggevano e recensivano l’opera l’uno dell’altro. Facevano parte di una comunità, di una rete, erano uniti da vivaci amicizie personali e professionali e, in un caso, persino dal matrimonio. E mentre consideravo e scrutavo questo panorama letterario nel tentativo di cogliere ogni aspetto delle loro vite e della natura della loro creatività, mi sono resa conto che erano quasi tutti individui ibridi, con molteplici inclinazioni, identità, caratteristiche e ombre. Erano scrittori di narrativa e allo stesso tempo erano anche altro: poeti, giornalisti, artisti, musicisti. Molti di loro avevano responsabilità editoriali importanti, erano critici, insegnanti. Alcuni erano scienziati di professione o politici. Altri erano militari, ricoprivano incarichi amministrativi o lavoravano nella diplomazia. E in gran parte erano traduttori, che vivevano, leggevano e scrivevano a cavallo tra due o più lingue. L’atto di tradurre, fondamentale per la loro formazione artistica, e` la rappresentazione linguistica del loro innato ibridismo. La maggioranza di questi scrittori oscillava tra il dialetto e l’italiano standard; sebbene tutti scrivessero in italiano, l’italiano non era per tutti la lingua dell’infanzia, o la prima che avessero imparato a leggere e scrivere, o quella nella quale erano state pubblicate le loro prime opere. Quattro sono nati fuori dai confini attuali dell’Italia e molti hanno trascorso una parte considerevole della propria esistenza all’estero, per studiare, viaggiare o lavorare. Alcuni si sono avvicinati ad altre lingue, hanno scritto romanzi in francese o portoghese, hanno sperimentato con l’inglese e il tedesco, hanno imparato un altro dialetto, rendendo ancora più complessi i propri testi e la propria identità. I loro percorsi sono stati segnati dallo sperimentalismo, linguistico o stilistico, e da un’ostinata volontà di trasformazione. Erano artisti che per tutta la vita si sono interrogati e si sono ridefiniti, alcuni prendendo provocatoriamente le distanze dalle fasi precedenti del proprio lavoro. Un segno evidente di questo ibridismo e` rappresentato dal numero impressionante di nomi inventati o alterati. Elena Ferrante e` lo pseudonimo di una scrittrice che ha conquistato il mondo letterario, ma molto prima di lei altri autori italiani si sono creati degli alter ego per ragioni politiche o personali, per difendersi dalla legge o non essere associati alle proprie origini. Otto degli scrittori presenti in questo libro sono nati con un nome diverso, mentre altri hanno pubblicato alcune opere sotto pseudonimo. Cambiare nome significa modificare il proprio destino, rivendicare un’identità autonoma, e per uno scrittore e`, quasi letteralmente, un modo per riscrivere se stesso. Non stupisce quindi che molti di questi racconti affrontino il tema dell’identità, dell’individualità fluttuante, e si soffermino in particolare sulla questione del nome. I personaggi hanno spesso un rapporto complicato con il proprio nome, e alcuni non ne hanno affatto: forse un ammiccamento a uno dei personaggi centrali dei Promessi sposi, chiamato, appunto, l’Innominato. Sempre legata al discorso sull’identità è la questione femminile: il modo in cui le donne erano considerate e quello in cui erano viste. Molti di questi racconti sono ritratti di donne, che ora affrontano e sfidano l’ideologia patriarcale, ora rivelano una mentalità nella quale le donne sono ridotte a oggetti, denigrate, calunniate. Ho preso in considerazione la possibilità di escludere questi testi dalla mia selezione, in segno di protesta contro rappresentazioni tanto discutibili. Ma, così facendo, avrei fornito un’immagine distorta della società italiana e del modo in cui si rispecchia nella letteratura. Come donna e come scrittrice, questi racconti mi hanno aiutata a comprendere meglio il contesto culturale del femminismo italiano e ad ammirare ancora di più le conquiste fatte dalle donne di questo Paese. Il punto e` che molte delle più toccanti descrizioni femminili qui presenti sono state scritte da uomini. Il matrimonio e` un tema ricorrente: per la precisione, il modo in cui l’identità di una donna può essere alterata, compromessa e negata da un uomo, e anche dalla maternità. Ma tutto il Novecento, che ha assistito al collasso di una serie di grandi istituzioni sociali, compreso il matrimonio, e` stato un laboratorio nel quale le identità individuali sono state perse e ritrovate, riconquistate e scartate. L’ibridismo si manifesta anche attraverso il gran numero di animali che si trovano in queste pagine, una metafora ricorrente che mette in evidenza la barriera porosa tra mondo umano e animale. In tal senso, alcuni testi sono riconducibili alle favole di Esopo, alle Metamorfosi di Ovidio e alla tradizione folclorica, nella quale il regno animale ha sempre rivestito un ruolo di primo piano. L’importanza degli animali nella letteratura satirica e ` stata colta anche da Giacomo Leopardi, i cui Paralipomeni della Batracomiomachia sono una parodia del racconto epico, ispirata a un antico poema greco rivisitato da Leopardi per criticare le politiche dell’Impero austriaco e il falso patriottismo italiano.2 In molti racconti compaiono animali che parlano, agiscono e pensano come esseri umani. Svolgono il ruolo di amici, amanti, interlocutori filosofici, coniugi. Fungono da specchio, da filtro, riflettendo e rivelando una moltitudine di psicologie e stati d’animo. Al lettore non sfuggirà la presenza di numerosi personaggi che sembrano più animali che umani, o che hanno tratti sia animali sia umani. La valenza paradossale degli animali merita grande attenzione, perchè rappresentano una condizione di libertà e sottomissione, di innocenza e ferocia. Come emerge chiaramente da questi racconti, sono creature allo stesso tempo amate e divorate, venerate e sacrificate, esseri che definiscono e approfondiscono il significato stesso di «umano». Mentre riflettevo sui vari e intriganti incontri tra uomo e animale in quest’antologia, sono rimasta colpita da una frase di Benito Mussolini: «Il fascismo nega [...] la ‘equazione benessere felicità’, che convertirebbe gli uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla pura e semplice vita vegetativa».3 Questa osservazione, in antitesi con la natura intermedia, trasversale, proteiforme di molti di questi scrittori e delle loro opere, ci autorizza a introdurre anche un altro, più inquietante principio organizzativo: la realtà del fascismo.Giovanni Verga e` morto nel 1922, l’anno della marcia su Roma. Tutti gli altri hanno vissuto sotto il fascismo e sono stati toccati direttamente dalla sua eredita`. La più crudele delle manifestazioni del fascismo e` stata disumanizzare, trattare le persone come animali, o anche peggio. Il paradosso e` che, per raggiungere i propri obiettivi, sono stati proprio coloro che erano al potere a comportarsi come animali. Il fascismo e` stato declinato anche in modo linguistico, fino al punto di imporre un «italiano puro», privo di parole ed espressioni straniere. Sotto il fascismo, il croissant diventa un cornetto, il bar un quisibeve e il football, inventato dagli inglesi,calcio. Proibito persino l’uso del lei come forma di cortesia (contrapposto al voi), perché si riteneva fosse un prestito spagnolo, oltre che per il suono «femminile». Quando si parla di letteratura italiana del Novecento, non si può prescindere dalla questione linguistica. Il regime ha tentato di normalizzare e appiattire la lingua, di estirpare i dialetti e altre anomalie e, più di tutto, di chiuderla in se stessa. E` proprio in quell’epoca che gli scrittori italiani, o per lo meno un numero rilevante, si aprono provocatoriamente verso l’esterno. Tutto il Ventesimo secolo può essere considerato come uno scontro frontale tra il muro che il fascismo aveva tentato di erigere intorno all’Italia e alla sua cultura e le persone – tra cui molti degli autori qui presenti – che, pur correndo gravi rischi, erano determinate ad abbatterlo. I quaranta scrittori di questa antologia provengono da ogni parte del Paese, anche se devo ammettere che il mio legame con Roma e il mio amore per l’Italia meridionale hanno influenzato le mie scelte. Sono cresciuti in famiglie povere e ricche. Hanno avuto formazioni politiche diverse e gradi molto differenti di impegno politico. Sul piano stilistico, tutte le principali correnti sono rappresentate: realismo, neorealismo, avanguardia, fantastico, modernismo, postmodernismo. Alcuni hanno coltivato la propria fama letteraria, altri hanno fatto di tutto per sottrarvisi. Molti sono stati personaggi celebri, potenti, autorevoli. Qualcuno non ha mai visto le proprie opere pubblicate mentre era in vita. Se dovessi indicare un tema dominante, direi che e` la Seconda guerra mondiale. La scrittrice Cristina Campo la definisce «l’abisso che avrebbe spezzato il secolo»;4 ed e` effettivamente questa drammatica cesura a unire la grande maggioranza degli autori. Due sono stati prigionieri in campi di concentramento nazisti e un altro e` scappato durante la deportazione. Almeno una dozzina e` stata costretta a nascondersi, o perchè apparteneva alla Resistenza, o perchè ebrea. La Seconda guerra mondiale e le sue conseguenze hanno trasformato radicalmente e in modo irrevocabile la società italiana, permeando la coscienza collettiva, traumatizzandola, ma infine rivitalizzandola sul piano culturale ed economico. Il moltiplicarsi delle riviste letterarie nel dopoguerra, le iniziative e i progetti editoriali sempre più innovativi e lo spirito di comunità e collaborazione tra gli scrittori fanno sì che quel periodo sia oggi considerato come una sorta di eta` dell’oro della cultura letteraria italiana. Detto questo, e nonostante gli innumerevoli legami personali tra molti degli autori, l’antologia comprende alcune intense riflessioni sull’alienazione, l’isolamento, la solitudine. L’unico vero terreno a cui appartengono tutti gli autori e` la lingua italiana, essa stessa un’invenzione, definita da Leopardi «piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola».5 E ` stata imposta a una popolazione linguisticamente e culturalmente diversificata intorno alla fine dell’Ottocento, quando le regioni d’Italia sono state unificate in nome dell’identità nazionale.

Le radici del racconto italiano moderno sono a loro volta ibride: insieme profonde e superficiali, straniere e «nostrane». Mentre lavoravo a questa antologia, la raccolta di Racconti italiani del Novecento curata da Enzo Siciliano per «I Meridiani» Mondadori e` stata una vera miniera di informazioni. Siciliano e` stato uno scrittore, critico e giornalista romano, ed e` diventato direttore di Nuovi Argomenti, importante rivista letteraria, dopo la morte del suo fondatore, Alberto Moravia. Esistono due versioni dell’antologia di Siciliano: una in un solo volume di più di millecinquecento pagine, senza note (nella quale figurano settantuno autori, pubblicata nel 1983), e una in tre volumi (con una nuova introduzione e un totale di novantotto autori, tra cui Siciliano stesso, pubblicata nel 2001). Nella sua introduzione, Siciliano fa risalire le origini del racconto italiano al Medioevo, al Novellino, raccolta anonima duecentesca che contiene episodi e personaggi biblici e della tradizione classica e medievale, al Decameron di Giovanni Boccaccio (composto probabilmente tra il 1349 e il 1351) e a Matteo Bandello, le cui Novelle cinquecentesche (ne scrisse più di duecento) potrebbero aver ispirato la trama della Dodicesima notte e di Molto rumore per nulla di Shakespeare attraverso una traduzione francese. Tra Bandello e Boccaccio non va dimenticato Masuccio Salernitano, a sua volta autore di un Novellino, pubblicato postumo, che tra i suoi cinquanta racconti ne annovera uno famoso per essere stato tra le fonti di Romeo e Giulietta. Ma che cos’è un novellino?, potrebbe chiedersi il lettore. E ` un libro che raccoglie varie novelle, termine che indica un racconto o una favola. Anche se Boccaccio scelse il titolo Decameron per il suo capolavoro, definisce «novelle» i racconti che contiene. Siciliano analizza la differenza tra «novella» e «racconto», termini in apparenza intercambiabili, entrambi contrapposti a romanzo. La parola racconto, di origine latina, è etimologicamente legata al verbo inglese recount: dire ancora. Obiettivo del racconto è trasmettere una storia, personalmente e deliberatamente, a un ascoltatore. Di conseguenza raconteur, termine francese entrato anche nella lingua inglese, si riferisce specificamente a una figura umana, un narratore, in particolare un narratore capace di sedurre i suoi ascoltatori. Lo spirito del racconto implica un rapporto dinamico, nel quale siano coinvolte almeno due persone; benchè distinto dal dialogo, indica una forma, immediata e di solito breve, di scambio. Nell’italiano contemporaneo, il verbo «raccontare» e` usato correntemente nelle conversazioni, quando le persone vogliono narrare qualcosa in modo naturale ma vivace, conferendo a questo termine letterario un’accezione quotidiana. La scelta della parola «racconti» nel titolo dell’antologia di Siciliano è di fatto una dichiarazione programmatica, che colloca questa forma in una linea decisamente moderna, nel solco di autori quali Guy de Maupassant, Gustave Flaubert e Čechov, distinguendo in tal modo il racconto dalla più tradizionale novella. Fuggevoli per natura, i racconti, nonostante l’inevitabile concisione e densità, sono infinitamente flessibili, aperti, indagatori, inafferrabili, tanto da suggerire che il genere stesso sia di natura fondamentalmente volubile, ibrida, persino sovversiva. Riferendosi ai numerosi Racconti romani di Moravia – una pietra miliare nella tradizione del racconto italiano novecentesco – Siciliano cita l’illuminante osservazione di Moravia secondo cui il racconto sarebbe un qualcosa che nasce da un’intuizione. Sono d’accordo. In un certo senso in Italia l’intruso, il genere d’importazione, e` il romanzo. Manzoni e Verga si sono rivolti ai modelli francesi e inglesi, Grazia Deledda ai russi, Italo Svevo alla tradizione mitteleuropea. Il romanzo, sostiene Moravia, è frutto della ragione ed è permeato dalla struttura narrativa, elementi per natura estranei al racconto. Genere profondamente italiano, il racconto ha prosperato per secoli e rappresenta, molto più del romanzo,un terreno di incontro e di scambio con la letteratura del resto del mondo. I volumi curati da Siciliano, quei mattoncini blu allineati sulla mia scrivania con i segnalibri in seta cuciti nella rilegatura, sono stati indispensabili nei miei viaggi avanti e indietro sull’Atlantico, e ne raccomando la lettura a chiunque desideri ampliare la propria conoscenza della forma breve. Il primo consiglio che darei a chi è in cerca di suggerimenti di lettura è di scorrere l’indice. Sfogliare quelle pagine significa provare il brivido di intravedere dall’alto la grande distesa dell’oceano, invece di navigare nelle acque più sicure ma in parte inesplorate della baia che ho delimitato qui.

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Ogni lingua e` un’entità circondata da mura, e l’inglese può contare su fortificazioni particolarmente robuste. Uscire dal mondo anglofono significa rendersi conto del dominio pressochè totale della lingua inglese riguardo a ciò che oggi e` considerato letteratura. Si tratta di un dominio sul quale pochi, perlomeno dal lato inglese, si soffermano a riflettere. Sono consapevole del fatto che il mio attuale orientamento – guardare al di fuori della letteratura anglofona, riproporre autori che persino in Italia oggi sono trascurati – mi allontana dalle correnti letterarie dominanti, sia in Italia sia nel mondo anglofono. Mi colpisce il numero enorme di autori di lingua inglese esposti in bella mostra nelle librerie italiane e recensiti ogni settimana su quotidiani e riviste, cosı ` come la quantita` di premi, residenze e festival organizzati per ospitare e celebrare autori anglofoni. Io stessa ho partecipato con grande piacere ad alcuni di questi eventi, premi e residenze. Tuttavia, la discrepanza e` evidente. Non si puo` ignorare il fatto che per piu ` di un secolo gli scrittori italiani, nel bene e nel male, hanno cercato ispirazione al di fuori dei confini del loro Paese, e che la solida tradizione di traduzioni dall’inglese, almeno per conto degli editori italiani, ha influenzato in maniera cruciale il panorama letterario. Dei quaranta racconti, sedici non erano mai stati tradotti in inglese prima d’ora, e nove sono stati ritradotti per l’edizione inglese. Di questi quaranta, molti sono stati ignorati e di conseguenza quasi dimenticati persino in Italia. Gran parte delle riviste in cui questi racconti sono stati pubblicati per la prima volta non esiste più. C’e` stato un periodo, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, in cui le piccole riviste letterarie, molte delle quali fondate dagli scrittori qui presenti, hanno goduto di grande fortuna. Alcune hanno avuto vita breve ma un impatto editoriale clamoroso. Ognuna incarnava una speranza, un indirizzo particolare, un clima culturale o un punto di vista nuovo. Queste riviste hanno dato grande risalto ai racconti. La loro esistenza corrisponde a un periodo di eccezionale fermento letterario, e il oro direttori si vantavano di promuovere voci nuove, eterodosse. Tale fenomeno e` la dimostrazione che i racconti pubblicati individualmente, fuori dai meccanismi economici dell’editoria libraria, sono per definizione testi autonomi: una sacca di resistenza, un modo per sperimentare la creatività, anche correndo qualche rischio. Per fortuna, ci sono ancora scrittori italiani di talento che praticano la forma del racconto, e ogni tanto, in Italia come altrove, una raccolta di racconti riesce a intrufolarsi nella selezione di un premio letterario nazionale. Un altro segnale incoraggiante e` la nascita, nel 2016, di Racconti Edizioni, casa editrice romana che si dedica a pubblicare raccolte di racconti. Fino a poco tempo fa, in Italia le scuole di scrittura creativa erano una rarità. Di recente il loro numero e` cresciuto, anche se rimangono slegate dalle istituzioni accademiche. Le espressioni «scrittura creativa» e «storytelling» sono entrate nel vocabolario corrente, ma il loro significato rimane in parte avvolto nel mistero, e sono percepite, non a torto, come un fenomeno straniero. Ciò che è accaduto negli Stati Uniti e, in misura minore, anche in Gran Bretagna– il regno del Master of Fine Arts, grazie al quale il mestiere di scrivere diventa un corso di studio accademico, ossia del matrimonio d’interesse tra arte e università –, in Italia non si e` ancora realizzato pienamente, di conseguenza la maggior parte degli scrittori italiani orbita in torno a un altro centro di gravità, che sia il giornalismo, l’università o l’editoria o, in alcuni casi, tutti e tre. In Italia la separazione tra scrittori e editori e` meno rigida, e l’ambiente editoriale, più intimo, meno aziendale che in America, può a sua volta vantare una storia appassionante. Studiarne l’evoluzione e le dinamiche e` fondamentale per capire come e perchè in Italia si siano scritti così tanti racconti nel secolo scorso, e in stili tanto diversi. La Cronologia alla fine di questo volume si muove su due piani: fornire un quadro degli eventi storici e politici che fanno da sfondo alle vite di questi scrittori, senza tuttavia trascurare la storia dell’editoria italiana. Mentre il mio lavoro su questo progetto si avvicinava alla fine, in Italia si votava per eleggere un nuovo governo. I partiti xenofobi guadagnano consensi e si diffonde la violenza neofascista nei confronti degli immigrati, mentre il governo si ostina a negare la cittadinanza ai figli di genitori stranieri nati in Italia. Nonostante questa realtà inquietante, l’Italia e` diventata la mia seconda casa, e gli italiani hanno per lo più accolto con calore i miei sforzi di esplorare la loro letteratura e cimentarmi nella loro lingua con la sensibilità di chi viene da fuori. A dispetto di chi vuole chiudere le frontiere e creare un Paese in cui vengano «prima gli italiani», l’identità dell’Italia – compresa la definizione stessa di «italiani» – si sta trasformando radicalmente, e la letteratura, da sempre aperta agli influssi esterni e arricchita da questi cambiamenti, continua a sperimentare strade nuove.
La lingua e` l’essenza della letteratura, ma e` anche ciò che la rinchiude in se stessa, relegandola nel buio e nel silenzio. La traduzione e` l’unica soluzione possibile. Questo libro, che celebra le figure di così tanti scrittori-traduttori, e` sia un omaggio ai racconti italiani, sia una conferma della necessità –estetica,politica, etica – dell’atto di tradurre. Nel tradurre sei di questi racconti in inglese, ho raddoppiato il mio impegno in questo senso. Soltanto le traduzioni possono allargare l’orizzonte letterario, aprire le porte, abbattere i muri. Ho disposto i racconti in ordine alfabetico inverso, in base al cognome degli autori. Una scelta arbitraria, certo, ma che per una fortunata coincidenza ha fatto sì che il libro si apra con il nome di Elio Vittorini. Nel 1942 Vittorini ha pubblicato Americana, un’antologia di trentatrè autori americani pressoché sconosciuti, tra cui Nathaniel Hawthorne, Henry James e Willa Cather. Non si trattava pero` di una semplice raccolta: e` stata un’imponente impresa di traduzione collettiva, alla quale hanno contribuito alcuni dei più importanti scrittori italiani del tempo, come Moravia, Pavese e Montale. L’obiettivo di Americana era far conoscere al pubblico italiano le grandi voci della letteratura statunitense. Perché nell’immaginario di molti italiani di quella generazione, l’America era anche una proiezione favolosa: una terra leggendaria simbolo di giovinezza, ribellione, libertà e futuro. Ma quella proiezione, o per lo meno la versione di Vittorini, non era un’evasione dalla realtà, bensì l’espressione di un dissenso creativo e politico, un tentativo eroico e coraggioso di stabilire, attraverso la letteratura, un legame con un mondo nuovo. La prima edizione di Americana, in pubblicazione per Bompiani, e` stata messa all’indice dal regime mussoliniano. Ha superato il vaglio della censura soltanto dopo che Vittorini ha rimosso le sue osservazioni critiche sugli autori ed e` stata inserita un’introduzione di Emilio Cecchi, critico in buoni rapporti col governo fascista. Sfogliare oggi quel volume, lungo più di mille pagine,equivale ad attraversare un ponte a dir poco rivoluzionario. Vittorini è stato il mio faro mentre lavoravo a questo libro.
Mi sono ispirata a lui scrivendo le brevi biografie degli autori – concepite come abbozzi parziali, e non come interpretazioni conclusive – che introducono i racconti, ed e` in omaggio a lui e alla sua fondamentale antologia – alla volontà di celebrare le opere di colleghi lontani, di rivolgere lo sguardo al di fuori dei confini e trasformare l’ignoto in qualcosa di familiare – che propongo questo mio contributo.

Roma, 2018

Tutti i diritti riservati.© 2019 Gunda Editore



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La paura, un racconto di Federico De Roberto

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La paura

Contento di aver prevenuto il senso di tristezza espresso da quel canto, Alfani si affacciò alla feritoia che gli serviva da osservatorio, appuntando il cannocchiale sulla linea nemica. Già troppo bene dissimulata, essa non si poteva discernere contro la luce saliente dietro il Montemolon. «Be’, ragazzi» disse ai suoi uomini «se hanno voglia di rompersi le corna, li serviremo a dovere, i camerati!» Stette ancora in ascolto, ma non udì altro che il silenzio della montagna. «Chi è di vedetta al posto del canalone?». «Vicenzino» rispose il capoposto, storpiando il nome di Visentini come soleva storpiare tutti gli altri. «Ma mo’ chesta è l’ora d’ ’o cambio.» «Fa’ venir qui un momento chi va sulla piazzola.» «Nummero dodece: ohé Galletta!» Mentre i cinque uomini del secondo turno, dal numero 7 all’11, sostituivano i compagni del primo ai posti interni, Caletti, che aveva sentito approssimarsi anch’egli la sua volta, riempiva di bombe a mano il tascapane, nella riservetta. «Presente!» rispose, udendosi chiamare e accorrendo.
Era un ragazzo ancora imberbe, con un viso bianco e roseo che pareva una mela, con occhi chiari, pieni di stupore. Pochissimo amante dei lavori manuali, tutte le volte che bisognava adoperare la piccozza e il badile rispondeva invariabilmente: “Songo malato!” ma Alfani, che conosceva uno per uno tutti i suoi uomini, sapeva di poter fare assegnamento sulla prontezza e il coraggio dell’infingardo quando era il momento di affrontare i nemici. «Caletti, stammi bene attento, perché quei brutti ceffi si sono destati di malumore, stamattina.» «Non dubita, sor tenente.» «Apri bene gli occhi, e a posto!» Di momento in momento il chiarore del giorno cresceva: il cielo dell’alba luceva come uno specchio freddo e terso; solo un fiocco di nuvolaglia, lungo e sottile, strisciava a guisa d’un serpe sul muraglione del Montemolon e s’insinuava fra le due Grise. «El promett on’altra gran bella giornada» osservò il sergente. «Non tanto. Quella bambagia lì non è buon segno.» Riportando lo sguardo sul terreno fronteggiante la trincea, Alfani vide il soldato uscire dal camminamento col fucile a bilanciarm e procedere fra le asperità del passo scoperto, curvandosi appena, con la sicurezza che gli veniva dalla lunga pratica e dalla tranquillità dei nemici. «No! No!» voleva gridargli, poiché i nemici s’eran destati. «Più basso!… Copriti!» E parve veramente che Caletti avesse udito le parole pensate dal suo tenente; perché, dinanzi all’ultimo tratto, il più pericoloso, si fermò un momento; poi si buttò in ginocchio, s’allungò e strisciò su per la breve erta, verso la piazzola. Giuntovi vicino, levò un poco il capo, forse nell’udirsi chiamare dal compagno che veniva a rilevare; ma allora, improvvisamente, al sinistro ta-pum d’una fucilata, il corpo s’accasciò. «Porci Croati!» L’ufficiale non aveva ancora finito di esprimere il suo rancore, che un altro colpo rintronò: ta-pum! «E due!» disse una voce. «Visentini!» esclamò il sergente. «Come, Visentini?… Che ti salta?» «L’ha minga vist? El Visentini el s’è movu’, l’ha miss foeura el coo!… G’han tiraa anca a lu!» Alfani strinse il pugno ed affissò lo sguardo torvo sulla linea nemica, come cercando il punto dove poter ritorcere i colpi. «Capoposto!» chiamò rivoltandosi. «Manda chi viene dopo.» «Siconna squadra; nummero uno d’ ’o primmo turno!» Ma poiché nessuno rispondeva, e alcuni esprimevano il loro stupore apprendendo che il servizio della prima squadra era così presto finito, il caporale chiamò per nome: «Marmotta!… Ahò, Marmotta!… Addo’ sta, sto Marmotta?» Maramotti dormiva, con l’elmo in capo, i ginocchi sul ventre, in fondo al ricovero. Dormiva d’un sonno greve, dal quale fu tratto a fatica. «Jammo, ja’, Marmo’, tocca a te de vedetta.» Maldesto, il soldato si stropicciò gli occhi, bestemmiando: «Corpo!… Sangue!… Mi son de vedetta ai cinqu’ôr!… Mi son dopo del Caletti!». Con la punta del dito il caporale segnò in aria una croce. «Galletta sta ’mparaviso» «Cossa?» «E Vicenzino isso puro!… Emb’, jammo, guaglio’… Fa’ vede’ ’a giberna… ’o fucile… E vatt’a piglià l’ova toste!» Non capiva ancora, Maramotti. Aveva il fucile carico e la giberna piena, come bisognava; ed ora provvedeva anche di bombe a mano, secondo la prescrizione rammentatagli dal caporale; ma non capiva perché mai toccasse a lui, come mai Visentini e Caletti fossero morti. «Avanti, avanti Maramotti!» lo spronò l’ufficiale, vedendolo procedere un poco traballante, come avvinazzato. «Tu sei un ragazzo di giudizio, Maramotti?» Dinanzi al superiore il soldato si riscosse e sgranò gli occhi. Sulla faccia bruna, magra, cotta dall’aria e dal sole, il bianco dei grandi occhi dalle pupille di giaietto pareva latteo. «Come crede, signor tenente.» «Guarda di non farti beccare anche te. Quante volte ve l’ho detto? Non bisogna esporsi, non bisogna esporsi, non bisogna esporsi! L’ho da porre in musica?» «Sissior…» «Oggi i sassi hanno messo gli occhi, da quella parte! Stammi bene attento, che ne va della pelle, ne va!» Buttatosi il fucile a spallarm con la canna in giù, il soldato si diede uno scossone come per assestarsi la roba addosso, trasse il sottogola dal fondo dell’elmetto dove stava calcato e se lo passò sotto il mento: poi s’avviò. Giunto dinanzi all’ultimo tratto, il più pericoloso, sostò più a lungo; poi riprese a spingersi su; poi si fermò ancora e mosse appena il capo a destra e a manca, senza sollevarlo, perché aveva dovuto smarrire il senso della direzione; poi si protese ancora, di traverso; guadagnò ancora un palmo di terreno, e poi un altro, fino a raggiungere i piedi del compagno immobile. Doveva averlo chiamato ed essere rimasto senza risposta, perché istintivamente si sollevò un poco a vedere che cosa avesse, ed ecco: ta-pum! si abbatté inerte accanto al corpo inerte. «E tre!» «E quattro, e cinque, e sei!» gridò Alfani, torcendo improvvisamente lo sguardo dai caduti e volgendolo intorno a sé. «Chi è quel bravo che sa così bene l’aritmetica?»
Nessuno fiatò. Il tenente era molto amato, ma anche molto temuto. Quando assumeva questo tono non si scherzava. Ma non soltanto la severità del loro comandante faceva muti i soldati. Un senso d’inquietudine si diffondeva tra loro alla vista dei compagni colpiti, al pensiero che chi doveva andare sulla piazzola correva lo stesso pericolo. «O credete che si possa tralasciar la consegna perché i vostri compagni ci sono rimasti?… Se bersagliano la vedetta è segno che non vogliono esser visti, che preparano qualche colpo, che ammassano gente nel canalone, per piombarci addosso senza mandarcelo a dire, e massacrarci tutti quanti!» A grado a grado l’acredine della voce si veniva temperando, mentre lo sguardo frugava le posizioni avversarie e la mano stringeva forte il calcio della pistola. «Ecco perché avranno appostato qualche tiratore scelto, con un fucile di precisione, montato probabilmente su cavalletto!… Sperano che non ci manderemo più nessuno, per poter quindi accomodarsi!… Chi si contenta di lasciarli fare?» Molti risposero insieme: «Ma coma!» «Ma nissun!» «Abbisogna annà!» «Chi l’è che dis de no?» Quando il coro dei consensi tacque, una voce osservò, posatamente: «Ci va chi l’è di turno.» «Naturalmente! Bella scoperta!… Caporale, chi è di tu…» Ma prima che l’ufficiale compisse la domanda, Gusmaroli, un altro dei lombardi che abbondavano nel plotone, un ragazzone atticciato e nerboruto, si fece avanti. «Scior tenent, vo mi!» «Tocca a te?» «Nossignor: tocca al Zocchi; ma el Zocchi el g’ha miée e fioeu… E poeu, mi ghe foo vedè a tücc come l’è che se schiva i ball del Cecchin!» «Bravo Gusmaroli! Questo è parlar da soldato! Non già stare a cavare i numeri del lotto!… Ah, bene: va!»
Svelto, giocondo, con l’elmo sulle ventitré, il volontario andò a fornirsi di bombe, si fece saltare il fucile dalla sinistra nella destra impugnandolo sotto l’alzo, e salutò il compagno al quale si sostituiva. «Alègher, Zocchi, che vo mi!… Ma com’è?… Cosa l’è sto muson?… Te set no content?… Cosa l’è che te ghet?» Non pareva molto rassicurato, Zocchi: un anziano dell’ ’84, alto e magro, con sul viso scarno e nelle cave occhiaie i segni delle lunghe fatiche. «Te spetti dessôra, de chi dò ôr, neh?… Se ghe resti anca mi, te lassi in testament i scatolett!…E manda l’elmo a cà!…»
Zocchi non rise come altri compagni, né gli occhi dissero che egli era grato al volontario per la sostituzione, gli occhi che si volgevano intorno inquieti e sospettosi. «Alegri, ragassi!… Ciao, caporal!» E l’ardimentoso s’avviò, regolando il passo col canto:

E mi comandi ch’el mio corpo in sei tocchi el sia taglià:

el prim tocch al Re d’Italia, el second tocch al Battaglion!…

«Bravo!» ripeté forte Alfani, come se il partente potesse udirlo, ma indirettamente parlandoai rimasti. «E bagnargli il naso, a quelli che se la fanno nei calzoni!» La voce si andava ora spegnendo in fondo al camminamento e le parole si indovinavano più che non si udissero:

El terz tocch a la mia mamma,

per regordagh el so fioeu… El quart tocch a la mia tosa, per regordagh el prim amor!…

L’esempio, il canto avevano dissipato il senso di freddo diffuso nella trincea. E quantunque le parole fossero tristi, parecchi canticchiavano allegramente, o fischiettavano, e il coro sommesso compiva la canzone perdutasi nella lontananza:

Il quinto pezzo alle montagne, che lo fioriscano di rose e fior:

il sesto pezzo alle frontiere, che si ricordino del fucilier!

Poi Gusmaroli apparve fuori del camminamento, ritto quant’era lungo. Voltosi verso i compagni, levò l’arma in segno di saluto e si lanciò di corsa verso l’appostamento. Alfani sentì rimescolarsi il sangue dall’ammirazione e dall’angoscia. Ma, rapidamente spostandosi, il corpo del soldato poteva meglio sfuggire alla mira, e giunto sulla piazzola il parapetto lo avrebbe coperto. Vi fu in un lampo, entrò nel raggio di sole che scendeva allora dal Palalto, e prima di accosciarsi si voltò ancora una volta verso i compagni agitando trionfalmente il fucile; poi l’arma gli sfuggi di mano e le braccia batterono l’aria e il corpo cadde riverso, mentre la fucilata echeggiava di balza in balza. Tutti i cuori tremarono; la voce dell’ufficiale gridò: «Borga! Dov’è il porta-ordini?» «Travelli!» chiamò a sua volta il sergente.
Travelli accorse, intanto che Alfani scriveva rapidamente qualche rigo sopra una pagina del suo taccuino. «Corri subito al comando del Battaglione: hai capito? Di’ che mi mandino uno scudo da parapetto: questo è il buono di prelevamento: hai capito?» «Sciorsì!» e fece per andare. «Un momento!» Tracciate ancora poche parole sopra un altro foglio, per riferire la novità, consegnò anche quello. «Al signor maggiore in persona. E portami lo scudo! Se non c’è al Battaglione cercalo al Reggimento: non perdere il tempo in chiacchiere: scappa!» Poi, brevemente, al capoposto: «A chi tocca?» Si avanzò Zocchi, già in pieno assetto, tacitamente preparatosi dopo aver visto cadere il compagno. Lo presentiva, che la sua volta sarebbe subito venuta: per questo non si era molto rallegrato della sostituzione, del troppo breve respiro. E pareva ora più piccolo che non fosse, perché teneva le spalle leggermente aggobbite e il capo un poco chino sotto il peso dell’elmetto acciaccato e calcato molto basso. Sarto a casa sua, provvidenza dei compagni tutte le volte che avevano strappi e sdruci da farsi rammendare, non era molto marziale, Zocchi, in verità, con quel suo viso largo di zigomi e appuntito sul mento, un gran naso sottile, gli occhi piccoli e fuggenti, il collo lungo e scarno, le orecchie grandi e spalmate come manichi di pignatta. «Animo, Zocchi: tocca a te.» La testa si chinò ancora un poco, per dir di sì. «Tu sei un ometto a posto… Senza spavalderie, dunque, che costano caro.» S’avviò senza aprir bocca, l’anziano. Quando stava per imboccare il camminamento, si fermò come se avesse dimenticato qualche cosa e tornò sui propri passi. «Che c’è?» Sollevato lo sguardo in faccia all’ufficiale, inghiottì in modo che il pomo di Adamo gli viaggiò per il collo; poi disse, con stento: «Sor tenente, io ci ho moje e tre bambini… Caso mai, il Governo ce pensa lui, alla mia famija?» «Ma sì: il Governo ci pensa, ci penserà: lo sapete tutti che il Governo ci ha pensato!… Ma stammi allegro, perdio! Cos’è sta fifa?» La paura era nel suo sguardo tremulo, nelle sue labbra pallide, nei suoi ginocchi che si piegavano, nella mano che pareva sul punto di abbandonare il fucile. E Alfani lo conosceva anch’egli il brivido tremendo dinanzi al pericolo certo, presente, inevitabile. Finché la minaccia è imprecisata, nello scoppio d’una granata che non si vede arrivare, in una raffica di mitragliatrice o in una scarica di fucileria inaspettata, che possono e non possono colpire, il coraggio riesce ancora facile; ma se la morte è lì, acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello. Un senso di rimorso vinceva il cuore dell’ufficiale dinanzi al soldato immobile e muto: il rimorso d’avere augurato che i nemici si ridestassero, se il risveglio doveva consistere in quell’eccidio e un prepotente bisogno di evitare il pericolo a quello sciagurato; e una pena ineffabile per non trovare il come. «Via, Zocchi: tu hai fatto la guerra, tu sai che le pallottole sono cieche, che il nostro destino è in mano di Dio… Guardati, e va’!» Sopraggiungevano in quel punto gli uomini di corvée40, col calderotto del caffè, per la distribuzione mattutina. I soldati porgevano le gavette, nelle quali il distributore versava la bevanda attinta con la tazza dal lungo manico. «Chì, vôi!» chiamò il sergente. «Servii prima el scior tenent!» «No, grazie.» Non si sentiva di prender nulla; volle seguire l’anziano che già procedeva lungo il fosso, che si traeva da parte, nei cunicoli; per lasciar passare gli uomini che risalivano. Lo raggiunse mentre stava per entrare nel camminamento; gli raccomandò: «Bada a tenerti più sulla sinistra, Zocchi, ché il terreno è più riparato.» «Sissignore.» «E di buon animo; che se spunta il solo naso d’un austriaco, te lo concio per le feste.» Ripresa la via, il soldato si fermò un momento allo svolto, si fece il segno della croce e sparì. Ora gli uomini spezzavano il pane nelle gavette, vi facevano la zuppa e la mangiavano golosamente. Pochi, oltre le sentinelle, stavano affacciati alle feritoie per veder riuscire i compagni allo scoperto, ma senza smettere di lavorare con i cucchiai e le mascelle. «Zocchi la fa franca.» «Ghe resta anca lu!» «Cossa l’è che te scommett?» Un umbro disse, sentenziosamente, masticando: «Pecora nera, pecora bianca: chi more more, chi campa campa.» E un abruzzese cantilenò: Lu nasce e lu murì, ’icea Quagliuccia, vanne accucchiate come la saggiccia… Per poco non impegnarono scommessa sul destino del compagno, sfamandosi con la zuppa dolce e calda, accendendo le pipe, divenuti filosofi col risveglio degli istinti egoistici, mentre invisibili occhi, dirimpetto, fra le nude rocce, aspettavano al varco il predestinato. A un tratto, nella gran pace, un sibilo, uno strido, e poi, più netto, un crocchiar cadenzato,per aria, sul canalone. «I scorbatt!» Roteavano altissimi, digradando lentamente verso la piazzola, attirati dall’odore del sangue. «Spetta, carogna!» Una fucilata li disperse e Alfani non ebbe cuore di rimproverare chi trasgrediva il divieto d tirare senza ordini. «Ma Zocchi?» domandò ai graduati. «Com’è che non spunta ancora?» «Va’ ti a vedé!» ingiunse il sergente al caporale. Ed ecco, nel silenzio tornato profondo, un altro suono, il suono d’una voce lontana… Unlamento?… Sì, ecco: un Ahi! e poi ancora, lunghi e fiochi, altri Ahi! Ahi!… Alfani volle poter dubitare. «Cos’è?» «Gh’è on quaichedun, là dessôra, che l’è viv ancamò, scior tenent!» spiegò Borga a bassa voce. «Non è Zocchi?» «Nossignor! El sent?…» confermò, più piano. «La ven de pussee lontan, la vôs!» Ma i soldati avevano anch’essi compreso, e accostati al parapetto, nuovamente turbati e inquieti, scambiavano domande e osservazioni: «Chi sarà quel disgrassiato?» «Ha da mori’ comm’un cane?» «Pôro fijo de mamma sua!» Con le mascelle contratte e gli occhi rossi, Alfani tornò a puntare il binocolo sul gruppo dei caduti. Non si vedeva muovere nessuno dei corpi, ma il gemito giungeva più distinto e straziante: Ahi!… Ahi!… Ahi!… Tutto il cielo del nord, dietro il Lamagnolo, appariva ora appreso in una tetra lastra di piombo, mentre stracci di vapori uscivano dal fondo della Fòlpola, come da una caldaia e si alzavano intorno al sole. Il passo del caporale che tornava fece rivoltare l’ufficiale. «Ebbene, Zocchi?» Il graduato restò un poco in silenzio. «Si può sapere dove s’è cacciato?». «Signor tenente, s’è sciogliuto ’o corpo…» Ma subito dopo più voci annunziarono: «Eccolo, Zocchi!» Riappariva infatti in quel punto fuori del camminamento. Sporse prima la testa; poi la ritrasse; poi si gettò a terra. Impossibile essere più guardinghi. Schiacciato, spiaccicato, Zocchi pareva fare una cosa col suolo. Nondimeno avanzava, impercettibilmente, senza lavorar di gomiti per non sollevarsi d’una linea, cercando a tastoni con le mani e i piedi le sporgenze alle quali s’afferrava per tirarsi su o s’appoggiava per spingersi innanzi. Quando uscì nel terreno più scoperto fu visto obliquare a sinistra e poi annaspare senza che si comprendesse perché; forse per essersi impigliato, lui o il fucile; e a un tratto la canna dell’arma emerse: immediatamente rintronò la schioppettata austriaca seguita da un grido lacerante e da voci furenti e minacciose: «Ciappa su!» «A ti!» «Mori ammazzato!» E, di scatto, parecchi colpi partirono. L’ufficiale tacque ancora a quella nuova infrazione della consegna. Come incolpare i soldati se, esasperati nel veder cadere tanti compagni, non potevano trattenersi dal difenderli contro il rostro dei rapaci e dal rispondere ai nemici, sia pure invano? Ora lo faceva anch’egli, mentalmente, il conto che facevano tutti: cinque colpiti, tra morti e mal vivi, senza che si potesse pensare a ritirarli, senza che si potesse soccorrerli. Aveva anch’egli il petto oppresso dall’angoscia che stringeva tutti, oramai, i primi del turno come i più lontani; perché il turno si svolgeva troppo rapidamente, perché quanti tentavano di raggiungere quel posto maledetto tanti ce ne restavano. E lo pensava a sua volta, ciò che qualcuno cominciava a dire sottovoce: «Non c’è mica gusto, a fass’ ammazza’ così!» «Passiensa ciapè d’le bote; ma sôssì a s’ciama fé la mort d’l ratt!» Dopo avere tentato inutilmente di convincere i superiori dell’inutilità della missione, il tenente Alfani si trova costretto a proseguire. E nel silenzio tornato sovrano, nel tenebrore del cielo sovrapposto al tenebrore della terra ricominciarono a venire, dal gruppo dei caduti, le voci di lamento, più forti e più lugubri, gli Ahi!… Ahi!… prolungantisi invano in Aiuto!… A pugni stretti, fremente, Alfani fissava la piazzola. Mai, in due anni di guerra, nelle mischie terribili, sotto il grandinare della mitraglia, fra le messi sanguinose degli uomini falciati a manipoli, a schiere, egli aveva provato il raccapriccio che ora lo invadeva dinanzi a quella lenta, metodica e inutile strage. Nelle circostanze più gravi, nelle situazioni più imbarazzanti, per temperamento e per ragionamento egli era stato sempre certo di non sbagliare attenendosi strettamente alla consegna; ora no, ora esitava, ora sentiva che quella consegna costava già troppe vite. Infrangerla? Assumersi la responsabilità delle conseguenze?… Il Consiglio di guerra, allora; il plotone di esecuzione… Ah, no! Una pistolettata nella tempia, prima!… O andare sulla piazzola, piuttosto: accorrere presso i caduti, piantarsi egli stesso al posto dei suoi soldati! E mosse un passo. Ma Borga, che ne spiava le mosse, che gli aveva letto in viso, alzò la voce: «A chi l’è che tocca?» «Nummero uno d’a siconna squadra!» Tutti gli uomini del secondo turno della prima giacevano a terra.
«Morana!» chiamò il capoposto. Nessuno dei soldati ripeté il nome, mentre il nuovo chiamato si avanzava, pallido ma con passo fermo. Era un prode, un veterano d’Africa: aveva il petto fregiato del nastrino azzurro per una medaglia di bronzo guadagnatasi in Libia con una motivazione degna di quella d’argento. Bel giovane, alto, forte, animoso: Alfani lo aveva esperimentato in molte occasioni, e sempre se n’era lodato, predicendogli che quel nastrino ne avrebbe presto figliato altri. Poiché l’atroce ingranaggio ricominciava a funzionare, poiché il destino inesorabile doveva compiersi meccanicamente, egli disse, studiandosi di dare fermezza alla voce: «Be’, Morana: questa è la volta di far vedere come si compie il proprio dovere.» Senza lasciare con gli occhi gli occhi del superiore, il soldato rispose: «Signor tenente, io non ci vado.» Alla prima, Alfani credette d’aver frainteso. «Cos’hai detto?» Livido, Morana rispose, più forte: «Signor tenente, io non ci vado.» Invaso da un immenso stupore, l’ufficiale volse lo sguardo agli astanti. Taciti, immobili, agghiacciati, evitavano tutti di guardare il loro comandante, evitavano di guardarsi tra loro. L’orrore di ciò che avevano visto era superato dal terrore di ciò che udivano, da quel rifiuto d’obbedienza freddo, risoluto, premeditato. E dinanzi all’inaudito rifiuto il sentimento della disciplina insorse nella coscienza dell’ufficiale. «Avete sentito, voialtri?» Nessuno rispose. Egli rise d’un falso riso. «Oh, oh!… Questa davvero che è nuova!» Poi non volendo e quasi non potendo credere: «Andiamo, Morana: guarda che non è tempo di scherzi. Piglia il tuo fucile, e svelto!» Parve un momento che lo sguardo del soldato si smarrisse. Poi diede un lampo, e la voce strozzata ripeté la terza volta: «Signor tenente, io non ci vado». Alfani avvampò. Appuntandogli un dito contro il viso terreo e avanzandosi d’un passo, esclamò: «Tu?… Sei tu che ti neghi?… Un valoroso come te?… O non sei più il Morana del Passo dell’Antenna e del Casello di Breno? O non sei più quello che ha visto a faccia a faccia i diavoli di Libia e li ha fatti scappare?» Improvvisamente, il soldato fu preso da un tremore che dalle mani e dalle braccia si diffuse a tutta la persona. Ed anche Alfani rabbrividì, mentre per l’aria agghiacciata stillavano le prime gocce di neve strutta.
«Ma cos’è?… Hai paura?… Anche tu?» Gli occhi smarriti, le labbra paonazze dicevano di sì, che egli aveva paura, tanta paura, una paura folle, ora che non si doveva combattere in campo aperto, ora che l’orrida morte era accovacciata lassù. E la pietà, una pietà impotente, tornò ad invadere il cuore dell’ufficiale dinanzi a quell’uomo che la legge della guerra gli dava il diritto di uccidere. «Ma tu non sai che cosa significano le tue parole? Lo sai, è vero, che cosa importa rifiutare un ordine, qui?» Gli occhi, i soli occhi assentirono. «O dunque, va’!» Non rispose, ricominciò a tremare, arretrandosi come per istinto: e Alfani raccolse tutta la sua forza per riprendere ad esortarlo: «Or via, non me lo far ripetere!… Vedrai che l’austriaco non tirerà… Aspettiamo un poco: crederanno che abbiamo rinunziato a staccar la vedetta… Farò riprendere il fuoco dell’artiglieria, finché non lo ridurremo a star zitto!» Ma l’altro si traeva ancora indietro, quasi sotto la minaccia del colpo mortale; e non tanto il rifiuto quanto l’irragionevolezza dalla quale gli pareva dettato arrovellò l’ufficiale. «Ma come?… Preferisci sei pallottole nella schiena ad una che può anche lasciarti vivo?» La morte, infatti, stava dinanzi al soldato; ma più certa e inesorabile e ignominiosa lo guatava anche alle spalle. Né lo sciagurato traeva più indietro il capo: lo abbassava, anzi protendendo tutto il corpo, come sul punto d’essere abbattuto dalla molteplice e infallibile scarica. Con più duro sforzo, con voce velata dalla commozione, Alfani riprese: «E forse che non siamo qui tutti per dare la nostra pellaccia?… Non ci siamo preparati tutti a crepare, dal giorno che partimmo?… Vuoi proprio mettere con le spalle al muro il tuo tenente che ti vuol bene, che vi vuol bene tutti, che darebbe la sua vita per quella dei suoi ragazzi?… Gli ordini, li sai?… Lo sai, che io debbo eseguirli?» Vedendo che gli sguardi del tremebondo si volgevano ora ansiosi e supplici ai compagni, egli incalzò: «O vorresti che andasse ancora un altro?… Ma lo sai anche da te che il turno è sacrosanto, se non ci sono volontari.» Poiché lo sciagurato non si muoveva e si guardava ancora intorno, Alfani gridò sdegnosamente rivolto ai suoi uomini muti ed esterrefatti: «Soldati! Qui c’è un vigliacco che vorrebbe esser saltato!» Alla sferzata Morana sussultò, alzò il capo, e le guance livide, investite dalla pioggia, furono rigate da grosse gocce che parevano lagrime. «Chi di voi vuol prendere il posto del vigliacco?» Risposero il silenzio delle altitudini, i rantoli dei caduti e il gracchiar dei rapaci roteanti di nuovo sulla piazzuola.
«Allora, se non va nessuno…» E invaso dal disgusto, dal corruccio, dal ribrezzo, in una violenta reazione di tutto l’intimo essere suo, scotendo da sé la viltà dalla quale si sentiva guadagnare anch’egli, rompendo il ferreo cerchio dal quale si sentiva serrare, Alfani afferrò il moschetto del sergente rimasto appoggiato contro la scarpata interna, e si slanciò verso il pericolo in mezzo alle prime folate di nebbia che giungevano sulla trincea. Ma si sentì tosto inseguito, afferrato e trattenuto. Rispettoso ma concitato, il sottufficiale lo richiamava in sé, disarmandolo. «Scior tenent!… Cossa el fa!… Lu el po minga!» «Lasciami andare, perdio!» «Lu no!… Lu el dev no lassà el so post!» Poi, tornando indietro, deposta l’arma dentro un cunicolo, investì violentemente il soldato: «Insomma, Morana: te vet, sì o no?» «E gli danno anche le medaglie!» gridò Alfani riavvicinandosi, in preda a un’eccitazione terribile dinanzi alla persistente immobilità e al cieco diniego di quell’uomo. «E portano il segno del valore!» Parve che si desse un pugno in petto; ma col gesto violento si strappò i nastrini e li buttò a terra. «Via, questi stracci, se han da portarli i vili!» Il tremore del soldato crebbe, spaventosamente; le stesse labbra scomparvero dalla faccia cadaverica. Nel silenzio attonito, più greve, ovattato dai vapori, una voce annunziò: «L’ispession!… El scior maggior!…» Afferrato allora il riluttante con le due mani per le spalle, Borga lo scosse forte, e gli gettò in faccia: «Di’, vôi, come l’è che femm?» Improvvisamente gli occhi di Morana lampeggiarono, mentre il corpo si torceva per sottrarsi alla stretta: «Ecco… così…» E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto.

"Io scriverei racconti per tutta la vita". Italo Calvino e la forma breve

Questo articolo è uscito su Il fascino degli intellettuali. Ringraziamo la testata per la concessione.

Questo articolo è uscito su Il fascino degli intellettuali. Ringraziamo la testata per la concessione.

di Alessia Carsana

Tra gli scrittori più amati, citati, studiati e in parte anche abusati del Novecento italiano brilla Italo CalvinoNoto soprattutto per una delle sue sfumature, quella più sognante, avvolta in un’aura fantastica, quasi sovrannaturale. Multiforme, leggero, cristallino nell’uso della lingua e con uno stile adatto a più livelli di lettura: di Calvino si è scritto, si è pensato, si è immaginato proprio tutto. Le sue opere sono state analizzate, sezionate, scomposte in mille pezzi. La critica ha avuto fin troppo pane per i suoi denti e la scuola italiana ha fatto di lui uno degli autori portanti nei programmi di studio sin dalla tenera età. La trilogia de I nostri antenatiLe cosmicomiche e Le città invisibili è tra i titoli più noti della nostra letteratura. Eppure Calvino rivela ogni volta qualcosa di inedito, cambia continuamente le nostre prospettive, e, se si è disposti ad andare oltre quello che di lui da sempre ci è famigliare, mostra al lettore un volto molto più sfaccettato.

Per esempio, che cosa sappiamo del Calvino delle origini? Quel Calvino appassionato di fumetti, cinema e teatro, così poco studiato perché ancora titubante sulla grana della propria stoffa, orgogliosamente impaurito all’idea di restare impantanato nel sottobosco della mediocrità letteraria da eccedere nel suo perfezionismo e travestito da agronomo per volere della famiglia? E’ un autore che subisce un rifiuto, per quanto sia difficile crederlo. Ed è Einaudi a chiudergli la porta, nel 1942, quando diciottenne si fa coraggio e tira fuori un manoscritto di racconti dal titolo Pazzo io o pazzi gli altri, a cui la nota casa editrice risponde con un «la nostra casa non accoglie per principio che libri unitari», ossia un romanzo. Ma in queste origini Calvino ha un’esigenza viscerale che non può mettere da parte: il racconto. È così che vorrebbe presentarsi al pubblico librario quando nel 1946 pensa di raccogliere tutte le prove realizzate fino a quel momento. È Cesare Pavese a spingerlo verso il romanzo: «Io pensavo di fare un librettino di racconti, tutto bello pulito stringato, ma Pavese ha detto no, i racconti non si vendono, bisogna che fai il romanzo. Ora io la necessità di fare un romanzo non la sento: io scriverei racconti per tutta la vita» dice in una lettera del ‘46 allo scrittore Silvio Michieli. I racconti quindi, perché i racconti? Perché per lui la scrittura è «partire in una direzione, giocare tutto su una carta però con la coscienza che ce ne sono delle altre», questa la definizione che darà di se stesso ad Elsa Morante nel 1950: prendere un’opzione e utilizzarla più di una volta, con riformulazioni diverse, per sperimentarla sotto tutte le angolazioni possibili. E per poter fare questo è decisamente più congeniale una forma di narrazione breve.

In questa preistoria calviniana, rimasta a lungo nell’ombra, spiccano tra gli altri un fascio di ventisei testi poco conosciuti, pubblicati solo postumi e realizzati tra il 1943 e il 1944: i cosiddetti Apologhi esistenzialistici o Raccontini di dopodomani. Siamo in piena guerra, una contingenza che entra con forza nel giovane Calvino, e la scelta del racconto è strettamente collegata all’oppressione fascista. Dice l’autore nei suoi Appunti: «Quando l’uomo non può più dar chiara forma al suo pensiero lo esprime per mezzo delle favole». Nel buio più totale, quindi, una fede positiva, la parola. Si tratta di esperimenti che testimoniano una precoce predilezione per una scrittura antiemotiva, antipsicologistica, asciutta e nervosa. Rapidi, con il sapore della gag fumettistica, costruiti su dialoghi assurdi, aperti con incipit dal taglio indeterminato che catapultano il lettore nella scena già in corso e chiusi con finali spiazzanti.

Tre sono i nuclei tematici fondamentali che si mescolano tra loro: la vita rappresentata come insondabile, sfuggente, assurda e annoiata; poi la polemica politica di ispirazione anarchica contraria allo statalismo autoritario e al conformismo delle masse; e infine la guerra, l’atmosfera storica.

Due sono i tipi umani che si muovono sulle scene: le identità deboli e quelli che possono essere definiti i “profeti muti”. A dominare i racconti è un personaggio dall’io non rilevato, anonimo, la cui interiorità è ben poco caratterizzata. Le figure danno l’impressione di essere nuove al mondo, estranee, e nelle loro azioni si susseguono, posti sullo stesso piano della bilancia, gesti minimi insignificanti, come chiamare qualcuno per nome, e gesti gravi e irreversibili, come darsi la morte. Nei loro destini si alternano momenti di stasi e momenti di catastrofe: è l’esistenza che procede sonnacchiosa nella noia e poi accelera di colpo tragicamente, è la vita nella sua precarietà. E l’identità dell’individuo? Per Calvino è sfuggente e mutevole, dal momento che il rapporto tra l’uomo e il suo ruolo sociale, o addirittura tra l’uomo e il suo nome, è intermittente e reversibile. Lo dimostra il brevissimo racconto Invece era un’altra:

Quello che mi faceva arrabbiare era pensare che lei veniva con me come sarebbe andata con un altro, per esempio con Ferruccio. Mentre eravamo sul prato glielo dissi.

– Senti, tu vieni con me perché sono io o come vieni con me potresti andare con un altro, per esempio Ferruccio?

E lei rispose: – Vengo con te perché sei te.

E io le dissi: – Giuralo, Teresa.

E lei fece: – Teresa?

– Così – dissi io.

Invece lei: – Ma io sono Bianchina- disse.

Era vero. Era Bianchina, non Teresa.

– E Teresa? – chiesi. – Non so- disse. – Mi sembra di averla vista andare con un altro, per esempio con Ferruccio.

A me seccava, poi ci pensai.

– Ferruccio? – chiesi. – Così – disse lei.

Allora mi ricordai: – Ma sono io Ferruccio.

Era vero. Ero Ferruccio, non Michele.

– Ci si confonde sempre – disse lei.

– Davvero – dissi io – capita sempre di confondersi uno con l’altro.

Ma adesso siamo a posto.

– Sì – fece lei – tanto poi è lo stesso. E si rimase sul prato fino a sera.

Uomini e donne che si muovono impacciati fra le cose e la gente, incapaci, impotenti, che faticano a inserirsi con armonia nel mondo che li circonda, e con i sentimenti atrofizzati a tal punto che la vita acquista valore solo per un attimo, per esempio nell’acquisto di un gelato al lampone come in Passatempi. A fare da contrappeso ci sono i “profeti muti”. Figure individuali o collettive che sembrano a prima vista capaci di una qualche azione e in grado di comprendere a pieno la realtà. Ma anche questa comprensione è temporanea, fugace, a volte solo ipotetica: è il bisogno di risposte, la speranza dubbiosa di Calvino in un contesto storico di difficoltà. Nasce così il sapiente reticente, incapace di parlare, del racconto Il profeta muto, una sorta di controfigura declassata di Cristo che alla domanda «Perché tu taci maestro? Come puoi abbandonarci così? Svelaci la tua verità (…)» risponde al lettore «Tanti anni sono passati dal tempo in cui queste cose ebbero luogo che più non ricordo se in realtà io fossi un viandante creduto per errore un profeta o non piuttosto un vero profeta, che aveva avuto paura.»

In alcuni casi è la guerra la protagonista principale. Non raccontata nell’azione dello scontro ma nei suoi effetti sulla coscienza di chi la subisce. Come nella storia del reduce Luigi, che tornato dal fronte non riesce a fare altro che camminare dietro agli altri e guardare in basso, perché fa parte di lui ormai la sensazione della fila lenta dei soldati in marcia. 
Ma il Calvino di questo periodo è anche un autore politico e polemico. Fortemente contrario allo sviluppo di uno statalismo autoritario e al conformismo delle masse, ne fa un ritratto paradossale dall’ironia amara nel testo Disorganizzazione: una donna cammina, piange per i figli ammazzati e due agenti la fermano perché «non si può piangere per strada, non è ordinato», ci sono luoghi apposta per piangere, sennò è un arbitrio, un’anarchia, «poi non sappiamo in che senso è che voi piangete: potrebbe essere in un senso sbagliato».

Eppure dallo scetticismo più pessimista di questi primi racconti, Calvino riesce a poco a poco a far emergere qualche punto fermo, l’avvio per una fede positiva, nell’uomo e nella scrittura. Dalla mediocrità, dall’inettitudine l’individuo si deve riscattare per portare il proprio contributo, prendendo atto della necessità di connessione con l’umanità, di superamento della prospettiva egoistica e frammentata per farsi come Noè e «salvare quelle poche cose, tutto quello che basta all’uomo per ricominciare» (Come non fui Noè). È la ritrovata fiducia nel carattere insostituibile dell’individualità umana di cui si fa portavoce il personaggio del racconto Importanza di ognuno. Antonio spala la terra, come gli altri, sempre nella stessa maniera, ma è l’unico ad accorgersi che ogni momento è irripetibile, ogni individuo è irripetibile, che non ci sarà nessun altro che spalerà come lui nello stesso posto e nello stesso modo, che «la storia del mondo diventa differente se io spalo o non spalo». E non è certo un caso che Antonio, l’unico tra gli uomini ad avere questa intuizione, fosse stato un poeta, prima di mettersi a lavorare la terra.

Tutti i racconti, di Beppe Fenoglio

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Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo alcuni brani estratti dalla prefazione al volume a cura di Luca Bufano.

 

In un saggio degli anni cinquanta del secolo scorso, che ripercorreva l’intero arco della narrativa italiana, da Boccaccio a Gadda, alla luce del binomio narrare lungo/narrare breve, Leone Piccioni parlava di Moravia come di un raro esempio di scrittore italiano che nasce con la vocazione del «narratore lungo», e indicava nella più diffusa vocazione al «narrar breve» un ostacolo alla costante e inappagata aspirazione al romanzo della narrativa italiana. Lo stesso Moravia, del resto, era pienamente cosciente di quali fossero le sue qualità di narratore: «È terribilmente difficile scrivere delle buone novelle» confessò in una lettera a Nicola Chiaromonte. «E poi a me, ogni volta che incomincio una novella, mi viene fuori un romanzo». Esattamente l’opposto succedeva a Fenoglio, il quale, quando decise di abbandonare la storia di Johnny per dedicarsi a una nuova raccolta di racconti, aveva già rinunciato al suo primo romanzo, La paga del sabato, per ricavarne due testi brevi. Similmente rinuncerà alla prima storia di Milton, il romanzo oggi noto col titolo L’imboscata, per ricavarne una seconda serie di racconti sul tema della guerra civile; mentre non ci è dato sapere quale sarebbe stata la sua decisione finale riguardo a Una questione privata, la postuma summa poetica dal titolo probabilmente redazionale. Forse erano le caratteristiche stesse del genere breve, a lungo studiate negli esempi dei grandi maestri (Poe, Maupassant, i più amati), a esaurirlo in una ricerca di perfettibilità senza fine: ricordarne alcune non sarà un esercizio accademico.
Nel romanzo prevale l’analisi, nel racconto la sintesi. Ma non si può dire che il racconto sia un romanzo in sintesi, né che un genere sia superiore all’altro. Paragonare le dieci o venti pagine di un racconto breve alle duecento o trecento di un romanzo è una leggerezza. Calvino scrisse il suo primo romanzo in poco più di un mese, ma impiegò tre anni a comporre il suo primo libro di racconti. Riprendendo lo spunto di Leone Piccioni, si potrebbe dire che la differenza fondamentale tra un genere e l’altro risieda nella direzione: quella del romanzo è orizzontale, quella del racconto, verticale; oppure, come i due modi della conoscenza secondo Galileo, che la prosa del romanzo è estensiva, mentre quella del racconto è intensiva. Anche per questo l’autore di racconti esercita uno stretto controllo sui personaggi e sul loro destino. Se agli autori di romanzi, come essi amano ripetere, accade spesso che i loro eroi si ribellino e agiscano secondo il proprio istinto dando origine a sviluppi imprevisti, nel racconto la situazione è diversa: l’autore è il padre padrone dei personaggi e non può tollerare obiezioni. La necessità dell’autore di dominare l’intreccio si traduce in tensione, ovvero in intensità. L’intensità di un racconto non è una conseguenza obbligata della sua dimensione breve, ma il frutto della volontà dell’autore che esercita una vigilanza costante sulle proprie emozioni. L’esercizio richiede una tecnica, e la tecnica è preponderante in questo genere letterario. In una lettera al critico Aleksej Suvorin, il quale lo aveva accusato di essere troppo «oggettivo» nei suoi racconti, indifferente al discernimento del bene e del male e privo d’ideali, Ωechov si difendeva indicando nel rispetto delle condizioni imposte dalla tecnica del racconto una necessità ineludibile: «Certo che sarebbe piacevole poter combinare l’arte con un sermone, ma per me personalmente è estremamente difficile, se non impossibile, dovendo rispettare le condizioni impostemi dalla tecnica. Per descrivere un ladro di cavalli in settecento righe devo costantemente pensare al loro modo e con la loro sensibilità, altrimenti, se introduco la soggettività, l’immagine diviene sfocata e il racconto non sarà compatto come tutti i racconti devono essere». Il riferimento di Ωechov alla «compattezza» rinvia a un’altra necessità del racconto: quella della soppressione di tutto ciò che non è strettamente necessario all’enunciazione del fatto, particolari o digressioni che avrebbero l’effetto di allentare la tensione. Naturalmente lo scrittore deve avere piena consapevolezza di ciò che sopprime e, soprattutto, l’abilità di lasciarne l’eco nella scrittura: la parte omessa avrà così l’effetto di rafforzare il racconto e il lettore la sensazione di leggere oltre il breve enunciato. Questa, che potremmo chiamare tecnica dell’omissione, è una caratteristica primaria della moderna short story, peculiare cifra stilistica di colui che l’avrebbe rinnovata creando un modello per molti scrittori della generazione di Beppe Fenoglio. In Morte nel pomeriggio, romanzo-saggio che ha per tema l’arte di scrivere non meno che quella di uccidere tori, Hemingwayafferma: «Se un prosatore sa bene di che cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le avesse scritte. Il movimento dignitoso di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavo della sua mole sporge dall’acqua». La metafora dell’iceberg illustra perfettamente il racconto breve moderno: la sua dimensione apparente, la sua compattezza, nascondono dimensioni profonde; il non detto avrà eguale importanza che il detto ai fini di una piena intelligenza della storia, tanto più se nella dimensione del primo si trova l’antecedente al fatto. Esemplare, da questo punto di vista è Gli inizi del partigiano Raoul, dove la vita del giovane protagonista viene colta in un momento cruciale: il suo ingresso in una formazione partigiana. La forza del racconto risiede principalmente nel contrasto fra la vita del giovane studente di buona famiglia e quella del neopartigiano; e la prima è quasi del tutto taciuta. Corrado Alvaro, ottimo narratore breve, nel 1947 annotava nel suo diario il seguente pensiero: «Per la composizione di racconti brevi, trovare il momento culminante d’una vita, che lascia scoprire il passato e indovinare il futuro». È esattamente quanto avviene nei migliori racconti: di una vita colgono un momento di crisi o un frammento, ma un frammento capace di riflettere un’intera esistenza.  Intensità, sintesi, omissione: questi fattori fanno del racconto moderno un formidabile congegno destinato a compiere la sua missione narrativa con la massima economia di mezzi, a un ritmo incalzante. Più che il numero delle pagine, ciò che differenzia il racconto breve dal racconto lungo, è il suo ritmo. E il ritmo è stabilito dall’incipit. In alcuni casi, come The Cask of Amontillado, The Killers, Andato al comando e Il trucco,rispettivamente di Poe, Hemingway, Calvino e Fenoglio, il «fatto» viene sottratto all’attenzione del lettore, mantenuto nel fondo della narrazione, per essergli rivelato soltanto nel finale; in altri, come nella maggior parte dei Racconti romani di Moravia, Libertà di Verga o I ventitre giorni della città di Alba, viene rivelato immediatamente. Nell’arco della sua carriera Fenoglio ultimò due raccolte: Racconti della guerra civilee Racconti del parentado, ma nessuna di esse venne pubblicata con quel titolo e con quell’ordinamento. I ventitre giorni della città di Alba, suo volume d’esordio e unica raccolta a vedere la luce in vita, ebbe una gestazione sofferta, passata attraverso il rifiuto di due libri, lo smembramento, la riscrittura, quindi la loro parziale fusione: quasi un presagio del velo di problematicità che avrebbe avvolto l’intera sua opera. Anche il rapporto dello studioso con i racconti di Fenoglio, quindi, è risultato a lungo difficile. Hanno contribuito a questa difficoltà fattori oggettivi: lo stato e la storia interna dei testi; e fattori soggettivi: una spontanea disattenzione da parte del filologo agli aspetti tecnici e formali della narrazione breve, a tutto vantaggio dei contenuti. 

Precoce nacque in Fenoglio il desiderio di scrivere racconti. L’amore fu il suo primo tema e un’aula scolastica la prima palestra. Ma un avvenimento storico dalle dimensioni imprevedibili lo avrebbe per sempre distolto da quella materia intimista procurandogli una nuova coscienza. Più che negli studi liceali, compiuti in Alba sotto la guida d’insegnanti d’eccezione, o in quelli universitari, iniziati a Torino nell’autunno del 1940 e interrotti due anni dopo dalla chiamata alle armi, anche Beppe Fenoglio, come molti suoi coetanei cresciuti all’ombra del fascismo, visse con la guerra partigiana l’esperienza più alta e formativa. La Resistenza divenne il centro della sua vita, l’evento che lo rivelò a se stesso determinando il suo destino di uomo e di scrittore. Recensendo I ventitre giorni della città di Alba Giorgio Luti indicò in Soldier’s Home di Ernest Hemingway una fonte sicura di questo racconto, al pari di Nove lune nato dalla rinuncia al romanzo La paga del sabato. Proprio in Soldier’s Home, incluso da Vittorini nell’antologia Americanacol titolo Il ritorno del soldato Krebs, troviamo quello che potrebbe essere un ritratto fedele dell’ex partigiano Beppe nel difficile anno 1945-46:

Durante questo tempo, era estate inoltrata, egli restava a letto fino a tardi, si alzava, usciva a passeggiare per la città e andava in biblioteca a prendere un libro, pranzava a casa, leggeva sotto il portico finché si annoiava, poi traversava la città per andare a passare le ore più calde nella fresca penombra della sala biliardi. Gli piaceva giocare a biliardo.

Per molti ex partigiani gli appunti presi a caldo durante la guerra servirono da supporto a una narrazione che avrebbe preso la forma finale del racconto o del diario. Fenoglio, invece, sembra voler fare degli appunti un genere a sé: rielabora le proprie annotazioni a distanza di tempo dai fatti vissuti mantenendo il presente storico, la prima persona narrativa, il proprio nome, le osservazioni e i commenti tipici di una forma estemporanea. Ma sono l’inventività del linguaggio e una diffusa tendenza alla sintesi a gettare un ponte verso i primi riusciti racconti. C’è già negli Appuntila mano dell’artista che punta all’essenziale, alle sensazioni più segrete che si agitano nell’animo, così come la rinuncia a un piatto descrittivismo in favore di una rappresentazione espressionistica, a tratti allucinata, della realtà. C’è lo stile, c’è il lessico, ci sono i temi, manca la tecnica. È in questo cruciale momento che agisce la lezione dei grandi maestri del genere breve.
 

L’estate del 1954 segna un momento di profonda crisi nella vita di Fenoglio. Il suo secondo libro, La malora, è appena uscito col noto «risvolto» di Vittorini, pieno d’incomprensione e quasi denigratorio nel tono; sicuramente sentito tale dall’autore, che sei anni più tardi avrebbe confessato a Calvino: «Forse non ci crederai, ma il mio abbandono dell’Einaudi ha turbato me più d’ogni altro. E ancora mi turba, e vorrei non aver provato quello stupido risentimento per il risvolto di Vittorini. Il risentimento fu, debbo ammettere, infinitamente più sciocco del risvolto che lo provocò. Vidi, ecco l’errore, il risvolto unicamente con l’occhio del dirigente industriale che non si capacita che un altro industriale, l’Einaudi, svaluti il suo prodotto nella stessa presentazione». Nel tentativo di controllare le ansie e i dubbi che lo tormentano decide di fissare in un diario le sue impressioni quotidiane e inizia copiando, a modo di epigrafe, un pensiero del filosofo esistenzialista russo Lev √estov (Fenoglio segue la lezione francese «Chestov»): «Lo scrittore, fintantoché scrive, rappresenta un certo valore, ma al di fuori delle sue funzioni è il più nullo degli esseri umani». Quelle poche pagine di quaderno, che il lettore troverà riprodotte in appendice al presente volume, diventano per noi un prezioso documento che ci aiuta a ricostruire il difficile cammino dello scrittore verso la maturità. Durante la composizione del libro d’esordio Fenoglio era venuto esplorando una nuova materia da affiancare a quella della guerra partigiana. Erano così nati i primi racconti langhigiani e, subito dopo, La malora. Quell’antica ragazza e Pioggia e la sposa, rispettivamente ottavo e dodicesimo della prima raccolta, sono quindi da considerarsi gli incunaboli di questa nuova esperienza narrativa; e sarà particolarmente la strada indicata dal secondo, con la scoperta del narratorebambino, capace di esprimere con freschezza, al di fuori di frusti schemi neorealistici, la straordinarietà dei fatti, a condurre ai capolavori brevi fenogliani: Un giorno di fuoco, Ma il mio amore è Paco. Lo scrittore sta ora cercando un motivo unificante per i suoi nuovi racconti, tale da giustificare una nuova raccolta: «Conto di scriverne a fondo – scrive nel diario, – non so ancora in quale forma. Certo si è che il camposanto vecchio di Murazzano mi ha fatto potentemente invidiare il grande spunto di E. L. Masters». Pochi giorni dopo, sotto la voce Autocritica, ancora un appunto significativo: «Riletto la mia Malora; mi pare d’aver piantato i paracarri e non aver fatto la strada». Più che un cedimento alla critica di Vittorini, questo pensiero potrebbe interpretarsi nel modo seguente: con La maloralo scrittore aveva creato un linguaggio e un ambiente nuovi, un suo quasi perfetto strumento di scrittura e una realtà; ma di quella realtà non aveva colto i fatti profondi, i momenti catalizzatori capaci di rivelare i conflitti latenti nell’apparente immobilismo della vita paesana, quei fatti, insomma, che offriranno il tema ai migliori racconti «parentali».

C’è una frase che Fenoglio scrive più volte negli ultimi quaderni, una frase che evidentemente occupa la sua mente in quei giorni d’attesa. È un passo del Coriolano di Shakespeare, e la sua  vicinanza al manoscritto dei Penultimiè stata interpretata come la volontà di farne una sorta di epigrafe per il nuovo libro annuciato nella lettera del 20 novembre al fratello: la storia dei «Fenoglio di Monchiero negli anni della prima guerra mondiale». La stessa frase, però, figura anche sul foglio di guardia del quaderno contenente i quattro racconti già ricordati; il suo significato potrà perciò riferirsi a tutti i lavori degli ultimi giorni. È la frase che il portavoce dei ribelli plebei, decisi a condurre uno sconsiderato assalto al Senato, rivolge a Menenio Agrippa quando questi, nel tentativo di calmarli, chiede di poter raccontare loro una storia: «Well, I’ll hear it, sir. Yet you must not think to fob off our disgrace with a tale. But, an’t please you, deliver». «Bene, l’ascolterò, signore. Non crediate di farci dimenticare la nostra disgrazia con una storiella. Se comunque vi fa piacere, raccontatela pure». E Agrippa racconterà il celebre apologo delle membra del corpo che si ribellarono contro lo stomaco accusandolo di starsene pigro, senza partecipare al duro lavoro degli altri, ricevendo in risposta, dallo stomaco stesso, un’alta lezione di democrazia. Qual è il legame coi nostri racconti? Forse una risposta indiretta alla sfida che «il Fenoglio» protagonista della Licenza, lo zio Amilcare dei Penultimi, lancia ai borghesi riuniti nel più bel caffè di Alba, «il caffè dei signori»? Ma la ribellione dei plebei del Coriolano sullo sfondo della guerra coi volsci troppo superficialmente si collega a quella dello zio Amilcare sullo sfondo della prima guerra mondiale. Forse la citazione va letta come uno sfogo privato, un pensiero che Fenoglio rivolge soprattutto a se stesso, alla sua coscienza di uomo e di scrittore. La disgrazia che ti ha colpito, sembra voler dire, dovrebbe farti pensare ad altro che a raccontare storie. Ma se questa è la tua natura, se questo il tuo nutrimento, va’ pure avanti, racconta! È nota la frase con cui Fenoglio, nel pieno della maturità, concluse un raro commento autobiografico: «Scrivo with a deep distrust and a deeper faith». Nessun’altra sua opera, come questo volume, testimonia una fede profonda nelle risorse della parola. 
 

© 2007 e 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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