di Anna Lo Piano
“Festa grande, Donna Bobò?”
“Come Dio vuole, Donna Mara”.
“Son tutti arrivati i parenti dello sposo?”
“Sono arrivati tutti, da Palermo, carichi di regali. Il padre, la madre, la sorella…”
“Figuriamoci Donn’Angela!”
“Rose rosse”, il racconto che apre la raccolta Ragazze siciliane di Maria Messina, inizia con uno scambio di battute tra vicine, da una finestra all’altra, in occasione di un imminente matrimonio. Ma basta che Donna Mara evochi il nome della temibile cognata perché Bobò ammutolisca, come se “Donna Angela in persona si fosse mostrata per chiamarla”, interrompendo “come sempre” la conversazione. Allora, come sorpresa a far qualcosa di sbagliato, rientra nel guscio della casa e chiude le imposte “adagio adagio, per non fare rumore”.
In questa manciata di righe Messina mette in scena il destino che lega i personaggi dei suoi racconti, a cui sono negati insieme voce e movimento. Non si tratta solo di donne, anche se, certo, nel sistema patriarcale in cui sono inserite, sono loro a farne principalmente le spese. Ricorda Valeria Palumbo nel saggio Non per me sola, in cui ritrae la situazione sociale e culturale dell’Italia post unitaria attraverso le voci delle scrittrici, che per buona parte del ‘900 la condizione di sottomissione delle donne è sancita a livello giuridico da leggi che affidano a padri, fratelli e mariti il diritto di tutela e correzione nei loro confronti. In una situazione piena di contraddizioni, sono poche quelle che osano uscire dal recinto di un’appartenenza, riconoscendo il proprio diritto di esistere e prima di tutto come persone. A vari livelli, in tutto il territorio, e ancora di più al sud, le leggi nazionali coincidono e rafforzano quelle ancestrali del maschile forte che si nutre dell’onore e del possesso delle proprie donne, creando una gabbia culturale dalla quale è impossibile uscire perché non si è nemmeno in grado di vederne le sbarre. È un sistema così radicato che il femminismo italiano, per quanto vitale grazie anche alla presenza di una figura come Anna Kuliscioff, rimane un fenomeno circoscritto. Se Sibilla Aleramo si dichiara apertamente femminista e partecipa al dibattito schierandosi a fianco delle sue compagne di lotta, una figura influente come Matilde Serao, che pure ha sfidato gran parte dei tabù e dei limiti della sua epoca, non ne capisce il senso, e, anzi, denigra certe rivendicazioni di uguaglianza. Anche in Maria Messina non c’è traccia di istanze femministe, malgrado dipinga una situazione di profonda ingiustizia nei confronti delle donne. Ma in qualche modo riesce ad arrivare a un nodo più profondo del problema. I suoi personaggi si muovono all’interno di un sistema oppressivo che chiede ai suoi membri di vincere a scapito di altri, una cappa soffocante di ingiustizia che schiaccia chi non sa adattarsi a queste regole. La sopraffazione che si mette in scena non è tanto quella degli uomini contro le donne, quanto dei predatori contro le prede. Come le scriveva Ada Negri in una lettera poi inserita come prefazione alla raccolta Briciole del Destino, i suoi personaggi sono quegli Umili che “non posseggono la forza di offendere, né quella di ben difendersi”. Sono la povera gente “senza risorse, senza fortuna, e forse sì, senza coraggio”. Per ritrarli, per farne materia viva sulla carta, Messina si è affidata a quella intuizione del novellatore che l’amica scrittrice le riconosce, capace di rivelare i moti dell’anima “insoddisfatta e torbida” in una poetica dell’impedimento, della reclusione e del silenzio.
Figure esemplari sono in questo senso Concetto e Bobò di “Rose Rosse”. Ancora ragazza, e in possesso di una piccola dote, Liboria detta Bobò riceve le visite di Concetto che parla “come un mulino a vento”, ma appena si trova faccia a faccia con la ragazza non riesce a dire una parola. Rimasta orfana, Bobò viene presa in casa del fratello e della cognata, Donna Angela, che vivono in un’altra città. Quello che appare come un gesto caritatevole ha in realtà lo scopo di impedirle il matrimonio, così che la dote possa andare interamente alla nipote Michelina. Concetto segue l’innamorata, trasferendosi anche lui, ma rimane una figura mite e indecisa, e non riesce a opporsi alla volontà di Donna Angela che con gesti risoluti man mano chiude porte e finestre impedendo a Bobò di incontrarlo, e arrivando persino a strappare i suoi messaggi. Angela è una figura violentissima. Forse la più violenta nella schiera di suocere, cognate e finte amiche che popola i racconti. Sono queste le predatrici, pronte a far fuori qualsiasi rivale si presenti all’orizzonte. Le altre donne sono tutte nemiche, perché nella loro visione l’unico modo di salvarsi è aggrapparsi a un uomo, garantendosi una zona di controllo. Come invasori occupano gli spazi, si mettono a guardia delle porte e delle fontane. Hanno corpi saldi e rosei, o sensuali e aspri, che mettono soggezione.
“Le altre due cognate, no, non piacevano a Vanna. Le ammirava perché erano forti e formose, ma sapeva che non le avrebbe mai amate.
Mentre Vanna discorreva sulla terrazza, si udivano le loro voci imperiose chiamar Ninetta e dare ordini alla domestica. Esse sole si occupavano della casa. Tenevano le chiavi e amministravano gli interessi comuni. Gli stessi suoceri erano soggetti a Remigia e Viola. Fra di loro due erano sempre d’accordo, anche nel contrariare gli altri e specie Maria che aveva un’indole mansueta. Contrariavano per un bisogno del loro spirito autoritario.” (“Casa paterna”, in Le briciole del destino)
La sottomissione delle “mansuete” avviene tramite una progressiva manomissione della loro identità.
Liboria di “Rose rosse” è deprivata del suo stesso nome. Anche da adulta continuano a chiamarla col nomignolo di ragazza, Bobò, o zia, o “mia cognata”, o “tua sorella”, o “la signorina”. Anche se la stessa Angela ammette che è ridicolo, nessuno riesce a fare altrimenti.
Vanna di “Casa Paterna” subisce l’impossibilità di nominare i luoghi:
“Quando Vanna era bambina, ogni stanza aveva il suo nome. Un fatto qualunque che si ripetesse o che eccitasse la fantasia dei ragazzi, dava origine a un nuovo e bizzarro nome. Così c’era la stanza “dei fichidindia”, quella “dei libri”, quella “color rosa”.”
Adesso, invece, le stanze non hanno più i vecchi nomi, hanno cambiato disposizione e il mondo rifugio della sua infanzia, che sperava di ritrovare fuggendo dal marito, non esiste più.
Non sono pochi i personaggi che subiscono una progressiva afasia.
Mariangelina, la sarta de “Lo scialle”, è un cuor contento.
“Tutta la sua persona minuta e grassoccina aveva un’espressione di feschezza e vivacità che faceva pensare ai passeri quando si mettono sulle grondaie e girano il capino di qua e di là,
senza fermarsi un momento. “
In qualunque momento chi passa sente la sua voce che sfringuella, e anche quando lavora “parla che sembra un moscone”. Ai complimenti, alle provocazioni, risponde sempre a tono. “Un’altra sarebbe passata per civetta”, di lei nessuno osa pensare male. Ma quando si mette in testa di cucirsi uno scialle, un capo di abbigliamento che spetterebbe solo a donne di un rango superiore, tutto precipita. Va a Palermo a cercare la stoffa e in mezzo a quella confusione, ai suoni, alla folla, per la prima volta non riesce a replicare a un complimento. La cattiva reputazione della madre le fa ombra, e il suo desiderio dello scialle viene visto dalle clienti come un atto di superbia, e cominciano ad abbandonarla. A poco a poco si fa sbalordita, taciturna. Non parla quasi più e non sa cosa rispondere alle male lingue. Si interrompe anche il discorso con la madre.
“dovevano dirsi qualche cosa, l’una all’altra. Lo sapevano. Specie alcune serate, eterne, opprimenti, che la scema sonnecchiava su una panca e tutto era velato di silenzio e loro due erano sole, faccia a faccia, lavorando in silenzio, tormentate da uno stesso pensiero. Non si dissero nulla.”
Trovare le parole giuste da dire è difficile, osare farlo ancora di più. Quando Vanna torna a casa, nessuno ha il coraggio di interrogarla per timore della risposta. Lei stessa, infelicissima a Roma insieme al marito, non è riuscita a scrivere “le parole per farsi capire”. Anche con la propria madre.
“Non so com’è. O sono cambiata io, o è cambiata lei. Ho tentato di parlarle come prima , quando lei accoglieva tutte le mie confidenze di bimba. Ma non è la stessa cosa. Non sente più ciò che è al di là delle mie parole dette, non vede ciò che di oscuro, di profondo, di inesplicabile mi resta nell’anima.”
Le parole rischiano di essere una maschera dei sentimenti che non sempre è possibile penetrare. Per farlo, bisognerebbe essere in grado di rovesciare il discorso che tiene tutti prigionieri. Ma invece nel discorso spesso ci si finisce invischiati.
“una sera il fratello, dopo aver sentito la moglie che non ne poteva più della sua sorveglianza, fece una strapazzata a Bobò: le disse che le femmine si somigliano tutte e basta che vedano un uomo (un vizioso morto di fame qualunque!) per perdere ogni ritegno. Credendo di farle bene, le disse parole brutali. Bobò ascoltò senza fiatare, con la gola stretta: aveva la sensazione di essere messa nuda davanti a tutti”
(“Rose rosse”, in Ragazze siciliane)
Non c’è bisogno di infliggere ferite fisiche per esercitare violenza, come ben sa il marito di Vanna, che a ragione si vanta che “essere a capo di un giornale significa avere un’arma tra le mani”.
La perdita della parola come menomazione è la metafora dietro la figura di Ciancianedda, termine dialettale per indicare la campanella. Da bambina cantava sempre, ma di quel tempo le è rimasto solo il soprannome. Colpita da una malattia ad appena 16 anni, ha perso l’uso della voce e dell’udito. Immersa in un silenzio profondo, comunica solo a gesti, o con gli occhi, e il padre non vorrebbe darla in sposa perché teme che non possa difendersi. “Tu le puoi fare qualunque tradimento, alle spalle, e lei non ti sente. La puoi ingiuriare e lei non ti ode…” spiega a Graziano, che insiste per sposarla. Alla fine cede di fronte all’amore che lega i due ragazzi, che “si intendono come se parlassero”. Ciancianedda pare felice, e non si avvede delle chiacchiere delle vicine.
“ma la notte , quando al silenzio che la fasciava tutta si aggiungeva anche l’oscurità, allora si sentiva serrare il cuore pensando che mai, mai, essa avrebbe potuto parlare a Graziano con la voce….sapeva quante cose si possono dire, con la voce, quante cose si possono sentire in una parola”
Una volta sposata, Ciancianedda spia i gesti del marito, cerca di leggergli il volto. Tolta dalla casa dove è nata, non riesce ad adeguarsi al nuovo quartiere.
Alla fontana incontra Silvestra, che:
“la guardava con curiosità, dondolandosi un poco sui fianchi, poi respinse la brocca della sposa muta per mettervi la propria. Ciancianedda impallidì sotto lo sguardo degli occhi beffardi, neri come fossero fatti con la tinta dell’orbace.”
Silvestra è anche lei una predatrice. Seduce Graziano sentendosi nel giusto, in diritto di farlo perché la menomazione di Ciancianedda la rende inadeguata al ruolo di moglie legittima. Di fronte al mutismo della ragazza, oppone un canto di sirena che fa risuonare ogni sera, stregando Graziano che rimane “incantato, in ascolto. E la sua faccia pareva rischiarata”. Inutilmente Ciancianedda cerca di richiamarlo a sé.
In perenne attesa, sempre più sola nel suo silenzio, passa quasi tutto il giorno sull’uscio, in una postura di confine che è tipica di tante figure dei racconti di Messina. Non osa confidarsi con il padre temendo che per l’onore ucciderebbe Graziano, e allora si decide lei ad andare da Silvestra, con una pistola sotto lo scapolare.
Il finale di questi racconti è il trionfo di questa progressiva afasia. Mariangelina rimane sola con la sorella “scema”, in mezzo ai rumori del vicolo dai quali sono entrambe sempre più escluse. Ciancianedda non ha il coraggio di sparare e torna a casa immersa in una nebbia che riflette il suo silenzio. Concetto e Bobò si incontrano ancora, ma sono capaci solo di scambiarsi frasi smozzicate, che rievocano un tempo passato. Vanna si consola del rumore del mare. Solo nella solitudine di quel mormorio vasto e pauroso sente che il suo spirito si placa. Così, dopo aver perso ogni via di fuga, ed essersi resa conto che non ha la forza di tornare alla sofferenza degli ultimi anni, si libera con frasi di circostanza dal chiacchiericcio della casa e si dirige verso la spiaggia.
Solo in due racconti di Ragazze siciliane, l’ultima raccolta pubblicata da Messina nel 1928, si trovano personaggi che hanno il coraggio di prendere la parola. Non certo per fare discorsi articolati o ribellarsi, ma semplicemente per dire no a un matrimonio forzato.
Dice Messina nel testo Congedo, posto a epilogo della raccolta:
“Camilla o Bobò, Caterina o Bettina, non vivono nelle grandi città siciliane dove le giovanette si preparano a lottare – né più né meno come le loro compagne d’oltre mare.
No. Esse vivono in piccoli paesi chiusi e sperduti, dove l’abitudine segna un ritmo uguale, dove le novità e il rumore giungono tardi, come voci smorzate dalla distanza.”
Ci avverte Maria Messina che nessuna di queste ragazze cambia la propria sorte. Eppure nel dire no, nel far sentire una voce squillante, nel respirare senza sentirsi soffocare, c’è una presa in carico di sé, la possibilità di scegliere almeno la propria solitudine, di uscire dal “cerchio della vita per entrare nel proprio mondo spirituale”.