Le tre fate, di Giambattista Basile

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Le tre fate
(versione italiana)


C’era una volta nel casale di Marcianise una vedova, chiamata Caradonia, che era la mamma dell’invidia, e non poteva mai veder capitar bene a qualche vicina che non le si facesse un nodo alla gola; non udiva mai la buona sorte di qualche persona di sua conoscenza, che non la prendesse di traverso; né mirava mai femmina o uomo contento, che non le venisse l’angina. Aveva essa una figliuola chiamata Grannizia, che era la quintessenza dei cancheri, il primo taglio delle orche marine, il fior fiore delle botti crepate, con la testa pidocchiosa, i capelli scarmigliati, le tempie pelate, la fronte di mazzuolo, gli occhi gonfi, il naso a bernoccoli, i denti incalcinati, la bocca di cernia, il mento a forma di zoccolo, la gola di pica, le poppe a bisacce, le spalle a vòlta, le braccia ad aspo e le gambe a uncino; e, insomma, da capo a piede era una degna versiera, una squisita peste, un vero accidente, e, soprattutto, nanerottola, anitroccola, mostricciattolo; e, con tutto ciò, scarafaggino a mamma sua pareva bellino.
Ora accadde che questa buona vedova si rimaritò con un certo Micco Antuono, ricco massaro di Panicocoli (Villaricca ndr), che era stato due volte baglivo e sindaco di quel casale, stimato assai da tutti i panicocolesi, che ne facevano gran conto. Aveva Micco Antuono dal suo canto una figlia, chiamata Cicella, che non si poteva vedere cosa più bella e mirabile al mondo. Possedeva un occhio amoroso che ti affatturava, una boccuccia baciarella da mandare in estasi, una gola di fior di latte che fa- ceva sdilinquire la gente; ed era, insomma, cosi succosa, saporita, giocherella e leccherella, e aveva tanti vezzi, carezze, moine e tenerezze, che svelleva i cuori dai petti. Ma a che tante parole? basta dire che pareva fatta col pennello, ché, a esaminarla, non vi trovavi una pecca.
Caradonia, vedendo che Cicella, al paragone della figlia, si mostrava come un cuscino di velluto in quaranta accanto a uno strofinacciolo di cucina, uno specchio di Venezia accanto a un culo di pentola unta, una fata Morgana di fronte a un’Arpia, cominciò a guardarla con cipiglio e a tenerla in gola. Né la cosa fini qui, perché rompendosi fuori la postema fonnatasi nel cuore, e non potendo essa stare più sospesa alla corda, prese a tormentare a carta scoperta la mal capitata giovane. Alla figlia faceva vestire gonna di saia frappata e corpetto di seta, alla misera figliastra i peggiori cenci e stracci della casa; alla figlia dava pane bianco di semolino, alla figliastra croste di pane duro e muffito; la figlia faceva stare come l’ampolla del Salvatore, la figliastra faceva su e giù a scopare la casa, a stropicciare i piatti, a rifare i letti, a lavare i panni sudici, a dare il cibo al porco, a governare l’asino e a gettare il buon prò vi faccia. E a tutte queste cose la buona giovane, sollecita e diligente, accudiva con gran premura, non risparmiando fatica per dar nell’umore alla malvagia matrigna.
Volle la buona sorte che, andando la poveretta un giorno a gettare l’immondizia fuori di casa a un luogo dov’era un gran dirupo, le cadde giù il corbello; e, mentre essa ricercava con l’occhio come potesse azzeccarlo da quel fondo, che è, che non è? vide un coso scontraffatto, che non sapeva se era l’originale di Esopo o la copia del brutto pezzente Era un orco che aveva i capelli come setole di porco, neri neri, che gli ricadevano fino ai malleoli; la fronte grinzosa in cui ogni piega pareva un solco fatto dal vomero; le sopracciglia arruffate e pelose, gli occhi infossati e pieni di quella tal cosa che parevano botteghe sudice sotto due grandi sporgenti di palpebre; la bocca storta e bavosa, dalla quale spuntavano due zanne come di cignale; il petto tutto bernoccoli in un bosco di pelame da poterne riempire un materasso; e, soprattutto, alto di gobba, grande di pancia, sottile di gamba, storto di piede; sicché vi faceva scontorcere la bocca per lo spavento.
Cicella, tuttoché vedesse una mala ombra da spiritare, facendo buon animo, gli disse: «Uomo dabbene mio, porgimi quel cestello che m’è caduto: ch’io ti possa veder prendere una moglie ricca ricca!». L’orco rispose: «Vien qua, giovane mia e prenditelo». E la buona ragazza, afferrandosi alle radici, aggrappandosi ai sassi, tanto s’industriò che discese. E, in fondo al precipizio, che cosa mai trovò? Tre fate: una più bella dell’altra. Avevano i capelli d’oro filato, le facce di luna in quintadecima, gli occhi che parlavano, le bocche che facevano citazioni, a tenore di contratto, per essere soddisfatte di baci inzuccherati. Che più? una gola delicata, un petto morbido, una mano pastosa, un piede tenerino, e tale una grazia, insomma, che era onorata cornice a tante bellezze. Le fate fecero a Cicella tante carezze e gentilezze che non si potrebbero immaginare; e, presala per mano, la condussero a casa loro, in quella grotta dove avrebbe potuto abitare un re di corona, e la fecero sedere su tappeti turcheschi e cuscini di velluto piano con fiocchi di canapa. Posero poi l’una dopo l’altra le loro teste in grembo a Cicella e vollero che le ravviasse; e mentre essa, con un pettine di corno di bufalo lucente, faceva l’opera sua, le domandarono: «Bella giovane mia, che trovi in questa testolina?». Ed essa, con un bel garbo, rispondeva: «Vi trovo lendinelli e pidocchini, perle e granatini». Piacque alle fate la buona creanza di Cicella, e queste magne femmine, intrecciatesi i capelli che s’erano disciolte, la condussero in giro con loro, mostrandole a mano a mano tutte le meraviglie che erano in quel palazzo fatato: scrigni con bellissimi intarsi di castagno e di carpino, col coperchio di pelle di cavallo e le piastre di stagno; tavole di noce, lucide da specchiarvisi; riposti con castelletti di scodelle, che ti abbagliavano; tende di panno verde infiorato; sedie di cuoio con le spalliere; e tanti e tanti altri sfoggi che ogni altro, al vederli, sarebbe rimasto incantato. Ma Cicella, come non fosse il fatto suo, mirava le grandezze di quella casa senza gridare al miracolo, e senza ah! e uh! da villano. In ultimo, la fecero entrare in una guardaroba, piena zeppa di vestiti lussuosi, e le fecero vedere gamurre di teletta dello spagnuolo, robe con maniche a prosciutto di velluto a fondo d’oro, coperte di cataluffo guarnite con puntini di smalto, moncili di taffettà in tralice, frontali di fioretti naturali, e gingilli a foglie di quercia, a conchiglia, a mezzaluna, a lingua di serpente, grandiglie con puntali di vetri turchini e bianchi, spighe di grano, gigli e pennacchiere da portare sul capo, granatene di smalto con incastri d’argento, e mille altre figurette e cianciafruscole da portare appese alla gola; e le dissero di scegliere a voglia sua e prendere a piene mani di quelle cose. Ma Cicella, che era umile com’olio, lasciando stare le cose di maggior valore, tolse una gonnella sfilacciata, che non valeva tre calli. E le fate, a veder ciò, le domandarono: «Per quale porta vuoi uscire, grazietta cara?». Ed essa abbassandosi a terra e quasi stropicciandovisi tutta, disse: «Mi basta uscire per la stalla». Allora le fate, abbracciandola e mille volte baciandola, le misero un vestito magnifico, tutto ricamato d’oro; le acconciarono la testa alla scozzese, a canestretta e con tanti nastri e fettucce, che vedevi un prato di fiori, il tuppo a perichitto con l’imbottitura e le treccette pendenti; e l’accompagnarono fino alla porta, ch’era d’oro massiccio con la cornice incrostata di carbonchi. Qui le dissero: «Va’, Cicella cara, che ti possiamo vedere ben maritata; e, quando sei sotto quella porta, alza gli occhi, e vedi che cosa vi è sopra». La giovinetta, fatta una bella riverenza, si parti; e, come fu sotto l’arco della porta, levò la testa e le cadde una stella d’oro sulla fronte, ch’era una cosa bellissima. Stellata, dunque, come un cavallo, e linda e pinta, andò innanzi alla matri- gna, raccontandole da cima a fondo quanto le era accaduto. Ma il racconto fu una botta alla testa per quella femmina invidiosa, la quale non ebbe requie, e presto presto, fattosi indicare il luogo delle fate, vi avviò quella cernia di sua figlia. La quale, giunta al palazzo incantato e trovate quelle tre gioie di fate, quando le dettero a ravviare i capelli e le domandarono che cosa vi trovasse, rispose: «Pidocchi, che ognuno è quanto un cece, e lendini (uova di pidocchi ndr), che ognuno è grosso quanto una cucchiara». Ebbero le fate stizza e dispetto pel modo zotico della brutta villana, e, conoscendo dal mattino la mala giornata, pure dissimularono e la condussero nella stanza delle cose di lusso, dicendole di scegliere il meglio. Grannizia, vedendosi offrire il dito, si prese tutta la mano, e afferrò la più bella guamacca (veste ndr) che fosse in quegli armadi. Le fate, a queste villanie, l’una sull’altra, restarono interdette; ma tuttavia vollero vedere fino a qual segno sapesse giungere, e le fecero la domanda: «Per quale porta hai piacere di uscire, o bella ragazza? per la porta d’oro o per quella dell’orto?»; ed essa, con una faccia da punteruolo, rispose: «Per la migliore che c’è». Le  fate, vista la presunzione della donnicciuola, non le dettero nemmeno un pizzico di sale, e la rimandarono con l’istruzione: «Quando sarai sotto la porta della stalla, leva la faccia al cielo e vedi che ti viene». E quella usci tra il letame, e, alzata la testa passando sotto la porta, le cadde sulla fronte un testicolo d’asino, che si apprese alla pelle e pareva una voglia venuta alla madre quando era incinta di lei. Con questo bel guadagno, mogia mogia, tornò a Caradonia, la quale, al vederla e all’udire il racconto, gettò schiuma dalla bocca, e, rabbiosa come una cagna che ha partorito, fece subito spogliare Cicella, l’avvolse in un sozzo panno e la mandò a guardare i porci, mentre con gli abbigliamenti di lei infronzolì la figliuola.
Cicella, con flemma grande e con una pazienza da Orlando, sopportò la trista vita a cui era stata assegnata. O crudeltà da muovere le pietre della strada, che quella bocca, degna di proferire concetti d’amore, fosse sforzata a suonare un corno e a gridare: «Cieco-cieco, enze- enze!»; che quella bellezza, degna di stare tra proci, fosse posta tra porci; che quella mano, degna di tirare per la cavezza cento anime, si cacciasse avanti con una bacchetta cento scrofe: malannaggia ai vizi di chi la comandò a questi boschi, dove, sotto la tettoia delle ombre, la Paura e il Silenzio stavano a ripararsi dal Sole! Ma il Cielo, che calpesta i presuntuosi e solleva gli umili, fece che capitasse colà un signore di alto grado, chiamato Cuosemo; il quale, a vedere tra il fango un gioiello, tra i porci una fenice, e tra le nuvole rotte di quei cenci il Sole splendente, ne rimase preso cosi forte che mandò a domandare chi essa fosse e dove abitasse. E, appena avute queste notizie, si presentò alla matrigna e gliela richiese per moglie, promettendo di controdotarla di millanta ducati. Caradonia mise subito l’occhio sul partito che si offriva, pensando a sua figlia; e perciò rispose a Cuosemo che tornasse sul far della notte, perché, intanto, voleva invitare i parenti. Quegli andò via tutto giubilante, e gli parve ogni ora mille anni che il Sole si coricasse al letto d’argento, preparatogli dal fiume dell’India, per coricarsi a sua volta con quel Sole che gli ardeva il cuore. E l’altra, in quel mezzo, ficcò Cicella in una botte e ve la chiuse con disegno di darle una bollitura; e, giacché essa aveva abbandonato i porci, con l’acqua calda lessarla come si fa del porco. L’aria era imbrunita e il cielo era diventato simile a bocca di lupo, quando Cuosemo, che aveva il parosismo e moriva dalla brama, per dare con una stretta alle amate bellezze un po’ di largo all’appassionato cuore, avviandosi con grande esultanza verso la casa di lei, diceva: «Questa è l’ora appunto di andare a incidere l’albero, che Amore ha piantato in questo petto, per farne sgorgare manna di dolcezze amorose! Questa è l’ora appunto di scavare il tesoro, che la Fortuna mi ha promesso! Perciò, non perder tempo, o Cuosemo: quando ti è offerto il porcello, corri con la cordicella! O notte, O felice notte, o amica degli amanti, o anima e corpo, o pentola e mestolo d’Amore, corri corri a precipizio, perché sotto la tenda delle ombre tue io possa ripararmi dal calore che mi consuma!». Giunse, con questi pensieri, alla casa di Caradonia, e, in luogo di Cicella, trovò Grannizia, un barbagianni in cambio di un cardellino, un’erba porcacchia in luogo di una rosa sbocciata: la quale, sebbene si fosse messa le vesti di Cicella, e sebbene si dica: «Vesti Ceppone, che pare barone», con tutto ciò pareva uno scarafaggio in una tela d’oro; né i conci, gli empiastri e gli stiramenti e lisciamenti, fattile dalla madre, avevano potuto toglierle la forfora dalla testa, le cispe dagli occhi, le lentiggini dalla faccia, il calcinaccio dai denti, i porri dalla gola, le pustole dal petto e la sozzura dai talloni; e l’afa putida della sentina si sentiva lontano un miglio. Lo sposo, vedendo questa sembianza, non sapeva che cosa gli fosse accaduto; e, dato indietro come all’apparir del diavolo, disse fra sé e sé: «Sono svegliato o mi sono calzato gli occhi alla rovescia? Son io o non son io? Che cosa vedo? Sciagurato Cuosemo, ti è stata rovinata la barca! Questa non è la faccia che stamattina mi ha afferrato per la gola; questa non è l’immagine che mi è rimasta dipinta nel cuore. Che vuol dir ciò, o Fortuna? Dove, dov’è la bellezza, l’uncino che mi aggranfiò, l’argano che mi tirò, la freccia che mi trapassò? Sapevo bene che né femmina né tela a lume di candela; ma questa io me l’accaparrai a lume di sole. Oimè, che l’oro di stamattina mi si è, stasera, mutato in rame e il diamante in vetro!». Queste altre parole mormorava tra i denti; pure, alla fine, costretto dalla necessità, dié un bacio a Grannizia, ma come se baciasse un vaso antico, ché avvicinò e scostò più di tre volte le labbra prima di toccare il muso della sposa; alla quale accostatosi, gli parve di trovarsi alla marina di Ghiaia, la sera, quando quelle magne femmine portano tributo al mare d’altro che di odori d’Arabia. E, poiché intanto il Cielo, per parer giovane, si era fatta la tinta nera alla barba bianca, e la terra di questo signore era molto distante, egli fu costretto a portarsi la sposa a una casa poco lontana dai confini di Panicocoli, dove, acconciato un saccone sopra due casse, si coricò con lei.
Ma chi può dire la mala notte che passarono l’uno e l’altra? che, quantunque fosse di estate e non giungesse a otto ore, pure parve loro più lunga della più lunga notte dell’inverno. Dalla sua parte, la sposa, irrequieta, tossiva, si spurgava, tirava qualche calcio, sospirava e, con parole mute, chiedeva il censo della casa affittata; ma Cuosemo faceva finta di russare e tanto si ritirò sulla sponda del letto per non toccare Grannizia, che, mancatogli il saccone, cadde sopra un o- rinale, e la cosa riuscì a puzzo e vergogna. Oh quante volte lo sposo bestemmiò i morti del Sole, che indugiava tanto per tenerlo più lungo tempo sotto quel pressoio! Quanto pregò che la Notte corresse a precipizio, rompendosi il collo, e le stelle sprofondassero, per togliersi da canto, con la venuta del giorno, quel brutto giorno! Ma non così presto l’Alba uscì a cacciare le gallinelle e svegliare i galli, egli saltò dal letto, a stento si appuntò le brache e andò di corsa alla casa di Caradonia per rinunziarle la figlia e pagamele l’assaggio con un manico di scopa. Non la trovò nell’entrare, ché era andata al bosco per un fascio di legna con l’intento di mettere al fùoco l’acqua per bollire la figliastra; la quale stava tappata dentro la tomba di Bacco, laddove meritava di essere esposta nella culla d’ Amore. Cuosemo, cercando invano Caradonia per la casa, e vedendo che era sparita, cominciò a gridare: «Olà, dove state?». Ed ecco che un gatto soriano, che covava la cenere, all’improvviso mandò una voce: «Gnao-gnao! tua moglie è dentro la botte, chiusa e inchiodata: gnao-gnao!». Cuosemo si accostò alla botte e senti un certo lamentio cupo e fioco; onde, presa subito un’accetta che era appesa presso il focolare, sfasciò la botte, e il cader giù delle doghe parve il cader della tela di una scena, sulla quale una Dea si avanzi a recitare il prologo. Non saprei dir come, a tanto splendore, Cuosemo non cascasse morto di colpo; ma stette per un certo tempo come chi ha visto il monachetto (spiritello ndr), e poi, tornato in sé, corse ad abbracciare Cicella, interrogandola affannosamente: «Chi ti aveva posto in questo triste luogo, o gioiello del mio cuore? Chi mi ti aveva nascosta, o speranza della mia vita? Che cosa è questa? La leggiadra colombella in una gabbia di cerchi? e venire, invece di lei, al fianco mio, l’uccello grifone? Come va questo fatto? Parla, boccuccia mia bella; consola questo spirito, lascia sfogare questo petto!». Cicella gli raccontò tutto l’accaduto, senza lasciarne un iota, quanto aveva in passato sofferto in casa dal giorno che la matrigna vi mise piede, via via fino al momento che, per toglierle la vita, l’aveva sotterrata in una botte. Udito ciò, Cuosemo la fece rimpiattare dietro la porta; e, rimessa insieme la botte, andò a chiamare Grannizia e ve la ficcò dentro, dicendole: «Sta’ qui un po’, tanto ch’io faccia eseguire un incantamento, affinché i mali occhi non ti possano nuocere». Poi, abbracciata Cicella, la levò su un cavallo e se la portò a Pascarola, che era la terra sua. Tornata Caradonia con una gran fascina, accese un gran fuoco e vi pose sopra una grande caldaia d’acqua; e, quando l’acqua cominciò a bollire, la versò attraverso il buco nella botte e spolpò tutta la figlia, che digrignò i denti come se avesse mangiato l’erba sardonica, e le si staccò la pelle come al serpente, allorché getta la scoglia. E, quando giudicò che Cicella avesse steso i piedi, ruppe la botte. Ma, trovando invece (ahi, vista! ahi, conoscenza!) la propria figlia cotta da una cruda madre, si strappò le ciocche, si graffiò la faccia, si picchiò il petto, batté le mani, cozzò con la testa contro i muri, pestò i piedi a terra, e fece tanto lutto e piagnisteo che vi accorse tutto il casale. E, poi ch’ebbe fatto e detto cose dell’altro mondo, che non bastarono conforti a consolarla né consigli a mitigarla, andò di corsa a un pozzo, e colà zuffete, con la testa in giù, si ruppe il collo, mostrando quanto sia vera quella sentenza: Chi sputa in cielo, gli ritorna in faccia.

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Versione napoletana

Cicella, male trattata da la matreia, è regalata da tre fate. Chella ’mediosa ’nce manna la figlia, che ne receve scuorno, pe la quale cosa mannato la figliastra a guardare puorce se ne ’nammora no gran segnore, ma pe malizia de la matreia l’è dato ’ncagno la figlia brutta e lassa la figliastra drinto na votte pe la scaudare. Lo signore scopre lo trademiento, ’nce mette la figlia, vene la matreia, la sporpa co l’acqua cauda e, scopierto l’arrore, s’accide.
Fu stimato lo cunto de Ciommetella de li chiù belle che s’erano contate, tanto che Iacova, vedenno tutte ammisse pe lo stopore, decette: «Si non fosse a lo commannamiento de lo prencepe e de la prencepessa, lo quale è n’argano che me tira e no straolo che me strascina, io farria punto finale a le chiacchiare meie, parennome troppo chelleta de mettere lo colascione scassato de la vocca mia co l’arceviola de le parole de Ciommetella. Puro, perché cossì vole sto signore, me sforzarraggio de fareve na recercatella ’ntuorno a lo castico de na femmena ’mediosa, che, volenno sproffonnare la figliastra, la portaie a le stelle.
Era ne lo casale de Marcianise na vedola chiammata Caradonia, la quale era la mamma de la ’midia, che non vedeva mai bene a quarche vecina che no le ’ntorzasse ’n canna, non senteva mai la bona sciorte de quarche canosciente che le pigliava travierzo, né vedeva femmena ed ommo contento che non le venessero li strangogliune.
Aveva chesta na fegliola femmena chiammata Grannizia, ch’era la quinta essenzia de le gliannole, lo primmo taglio de l’orche marine, l’accoppatura de le votte schiattate: aveva la capo lennenosa, li capille scigliate, le chiocche spennate, la fronte de maglio, l’uocchie a guallarella, lo naso a brognola, li diente ’ncaucinate, la vocca de cernia, la varva de zuoccolo, la canna de pica, le zizze a besaccia, le spalle a vota de lammia, le braccia a trapanatore, le gamme a crocco e li tallune a cavola; ’nsomma da la capo a lo pede era na bella scerpia, na fina pesta, na brutta nizzola e sopra tutto era naima, scotonella, scociummuccio. Ma con tutto chesto, scarafuniello a mamma pentillo le parea! Ora successe mo che sta bona vedola se maritatte co no cierto Micco Antuono, massaro ricco ricco de Panecuocolo, ch’era stato doi vote vaglivo e sinneco de chillo casale, stimato assai da tutte li panecocolise, che ne facevano no cunto granne. Aveva Micco Antuono isso perzì na figlia mentovata Cicella, che non se poteva vedere chiù spanto né chiù bellezze cosa a lo munno: teneva n’uocchie a zennariello che t’affattorava, na voccuccia vasarella da farete ire ’n estrece, na canna da latte natte che faceva spantecare le gente ed era ’nsomma cossì cianciosa, saporita, ioquarella e liccaressa ed aveva tante squasille, gniuoccole, vruoccole, vierre e cassesie che scippava li core da li piette: ma che tante dicote e dissete! vasta dicere che pareva fatta co lo penniello, che no ’nce ashiave no piecco.
Ma vedenno Caradonia ca la figlia se mostrava, a pietto de Cicella, comme no coscino de velluto ’n quaranta a paragone de no scupolo de cocina, no culo de tiella sodonta a faccie de no schiecco veneziano, na fata Morgana e respetto de n’Arpia, commenzaie a guardarela co la gronna ed a tenerela ’muozza.
Né fornette loco lo chiaieto, ca, sbottanno fora la posteoma fatta a lo core, né potenno chiù stare appesa a la corda, pigliaie a tormentare a carta scoperta sta negrecata figliola, pocca la figlia faceva ire co na gonnella de saia ’nfrappata e corpetto de scierghiglia e la negra figliastra co le peo zandraglie e pettole de la casa; a la figlia deva lo pane ianco comme a le shiure, a la figliastra tozze de pane tuosto e peruto, a la figlia faceva stare comme l’ampolla de lo Sarvatore, a la figliastra faceva ire comm’a navettola, facennole scopare la casa, scergare li piatte, fare lo lietto, lavare la colata, dare a magnare a lo puorco, covernare l’aseno e iettare lo buon-prodeve-faccia, le quale cose la bona fegliola, solleceta e proveceta, faceva cod ogne prestezza, no sparagnanno fatica pe dare a l’omore de la marvasa matreia.
Ma, comme voze la bona sciorte, ienno la scura figliola a iettare la monnezza fora de la casa a no luoco dov’era no granne scarrupo, le cascatte lo cuofano a bascio ed essa, occhianno mente de che manera potesse pescarelo da chillo scantraccone, quanto – ched è? ched è? – vedde no nigro scirpio, che non sapive s’era l’originale d’Isuopo o la copia de lo Brutto pezzente. Chisto era n’uerco, lo quale aveva li capille che comme a setole de puorco nigre nigre l’arrivavano fi’ a l’ossa pezzelle la fronte ’ncrespata, c’ogne chiega ’ncrespata pareva surco fatto da lo vommaro; le ciglia ’ngriccate e pelose; l’uocchie gaize e trasute ’nintro e chiene de comme-se-chiamma, che parevano poteche lorde sotto doie gran pennate de parpetole; la vocca storta e bavosa, da la quale spontavano doi sanne comme a puorco sarvateco; lo pietto vrogniuoluso e ’muoscato de pile, che ne potive ’nchire no matarazzo e, sopra tutto era auto de scartiello, granne de panza, sottile de gamma, stuorto de pede, che te faceva storzellare la vocca de la paura.
Ma Cicella, co tutto che vedesse na mal’ombra da spiritare, facenno buon armo le disse: «Ommo da bene mio, pruoieme chillo cuofano che m’è cascato, che te pozza vedere ’nzorato ricco ricco!». E l’uerco responnette: «Scinne a bascio, figliola mia, e pigliatillo».
E la bona peccerella, appicecannose pe le radeche, afferrannose pe le prete, tanto fece che ne scennette; dove arrivata, cosa da non credere, trovaie tre fate, una chiù bella de l’autra; avevano li capille d’oro filato, le faccie de luna ’n quintadecema, l’uocchie che te parlavano, le bocche che citavano sopra tenore de strommiento ad essere sodisfatte de vase ’nzoccarate; che chiù? na canna mellese, no pietto ceniedo, na mano pastosa, no pede tiennero e na grazia ’nsomma ch’era na cornice ’norata a tante bellezze.
Avette Cicella de cheste tante carizze e gnuoccole che non se porria ’magenare e, pigliatala pe la mano, la portattero a na casa sotto chille scaracuoncole, che ’nce averria potuto abitare no re de corona, dove arrivate che foro e sedute sopra trappite torchische e coscine de velluto chiano co shiuocchi de filato e cocullo, poste le capo ’n sino a Cicella se facettero le maghe pettenare li capille e mentre, co na dellecatura granne essa, co no pettene de cuorno de vufaro stralucente faceva lo fatto suio, le demannavano le fate: «Bella figliola mia, che ’nce truove a sta capozzella?». Ed essa co no bello procedere responneva: «Ce trovo lennenielle, pedocchielle e perne e granatelle!».
Piacquette a le fate chiù de lo chiù la bona crianza de Cicella e ste magne femmene, ’ntrezzatose li capille che erano sparpogliate, la portaro cod esse, mostrannole de mano ’n mano tutte l’iscie bellizze che erano a chillo palazzo fatato. Loco c’erano scrittorie co ’ntaglie bellissime de castagna e de carpeno, co lo scrigno copierto de coiero de cavallo, co le chiastre de stagno; loco tavole de noce che te ce specchiave drinto; loco repuoste co castellere de privito che t’abbagliavano; loco sproviere de panno verde shiuriate; loco seggie de cuoiero co l’appoiaturo e tant’autre sfuorgie, c’ogn’autro ’n vedennolo sulo ne saria restato ammisso. Cicella, comme non fosse fatto suio, mirava le grannezze de chella casa, senza farene li miracole e li spante-villane.
All’utemo, trasutola drinto na guardarobba zeppa zeppa de vestite sforgiate, le facettero vedere camorre de teletta de lo spagnuolo, robbe co maneche a presutto de velluto a funno d’oro, coperte de cataluffo guarnuto co pontille de smauto, moncile de taffettà a la ’nterlice, frontere de shiorille naturale e scisciole a fronte de cercola, a quaquiglia, a meza luna, a lengua de serpe, granniglie co pontale de vrito torchine e ianche, spiche de grano, giglie e pennacchiere da portare ’n capo, granatelle de smauto ’ncrastate d’argiento e mill’autre figure e ’ntruglie da portare appese ’n canna, decenno a la figliola che scegliesse a voglia soia e pigliasse a buonne chiù de chelle cose.
Ma Cicella, ch’era umele comm’uoglio, lassanno chello che chiù valeva, dette mano a na gonnella spetacciata che non valeva tre cavalle. Chesto vedenno le fate leprecattero: «Pe quale porta te ne vuoi scire, saporiello mio?». Ed essa, abbasciannose sotta terra e quase ’mbroscionannose tutta, disse: «Me vasta scire pe la stalla».
Tanno le fate, abbracciannola e mille vote vasannola, le mesero no vestito de trinca ch’era tutto recamato d’oro, acconciannole la capo a la scozzese ed a canestrelle, co tanta cioffe e zagarelle che vedive no prato de shiure: lo tuppo a perichitto co la ’mottonatura e le trezzelle a ietta ed, accompagnannola pe fi’ a la porta, ch’era massiccia d’oro co le cornice ’ncrastate de carvonchia, le dissero: «Và, Cicella mia, che te pozza vedere bona maritata! và, e quanno sì fora chella porta auza l’uocchie ad auto e vide che ’nce sta ’ncoppa!».
La figliola, fatto belle leverenzie, se partette e, comme fu sotto a la porta, auzaie la capo e le cadette na stella d’oro ’n fronte, che pareva na bellezzetudene cosa, tale che stellata comme a cavallo e lenta e penta iette ’nante a la matreia, contannole da capo a pede lo fatto.
Chesto non fu cunto, ma fu saglioccolata a la femmena gottosa, che, non trovanno abiento, subeto fattose ’mezzare lo luoco de le fate, ce abbeiaie la cernia de la figlia. La quale, arrivata a lo palazzo ’ncantato, trovato chelle tre gioie de le tre fate, ’mprimmo ed antemonia le dezero a cercare la capo e, demannatole che cosa trovava, disse: «Ogni peducchio è quanto a no cecere e liennene che è quanto a na cocchiara».
Ebbero le fate crepantiglia ed annozzaro de lo termene rustico de la brutta villana, ma semmolarono e canosciettero da la matina lo male iuorno. Perché, portatola a le cammare de le sfuorge e decennole che s’accapasse lo meglio, Grannizia, vedennose offerire lo dito, se pigliaie tutta la mano, afferranno la chiù bella guarnaccia che era drinto li stipe.
Le maghe, vedenno ca la cosa le ieva ’nchienno pe le mano, restaro ammesse; co tutto chesto ne vozero vedere quanto ’nce n’era, dicennole: «Pe dove haie gusto de scire, o bella guagnona mia, pe la porta d’oro o pe chella dell’uorto?». Ed essa, co na facce de pontarulo, respose: «Pe la meglio che ’nc’è!».
Ma le fate, visto la presenzione de sta pettolella, no le dezero manco sale e ne la mannaro decennole: «Comme sì sotto la porta de la stalla, auza la facce ’n cielo e vide che te vene». La quale, sciuta fore pe miezo la lotamma, auzaie la capo e le cascatte ’n fronte no testicolo d’aseno, c’afferratose a la pella pareva golio venuto a la mamma quanno era prena, e co sto bello guadagno, adasillo adasillo, tornaie a Caradonia.
La quale, commo a cane figliato iettanno scumma pe bocca, fece spogliare Cicella e, cintole no panno a culo, la mannaie a guardare cierte puorce, ’nciriccianno de li vestite suoie la figlia. E Cicella co na fremma granne e co na pacienzia d’Orlanno sopportava sta negra vita; oh canetate da movere le prete de la via! e chella vocca merdevole de dire concette d’ammore era sforzata a sonare na vrogna, ed a gridare cicco cicco, enze enze, chella bellezza da stare tra Pruoce era puosta tra puorce, chella mano degna de tirare pe capezza ciento arme cacciava co na saglioccola ciento scrofe, che mannaggia mille vote li vische di chi la commannaie a sti vuosche, dove sotto la pennata dell’ombre steva la paura e lo silenzio a repararese da lo Sole! Ma lo cielo, che scarpisa li presentuse e ’ngricca l’umele, le mannaie pe denante no signore de gran portata chiammato Cuosemo, lo quale, vedenno drinto la lota na gioia, tra li puorce na fenice e tra le nuvole rotte de chelle brenzole no bello sole, restaie de manera tale ’ncrapicciato che, fatto adommannare chi era e dove teneva la casa, a la stessa pedata parlaie co la matreia e la cercaie pe mogliere, promettenno contradotarela de millanta docate. Caradonia ’nce appizzaie l’uocchie pe la figlia e disse che tornasse la notte ca voleva ’mitare li pariente. Cuosemo tutto preiato se partette e le parze ogn’ora mille anne che se corcasse lo Sole a lo lietto d’argiento che l’apparecchia lo shiummo de l’Innia, pe corcarese co chillo sole che l’ardeva lo core. Aveva Caradonia ’ntanto schiaffato Cicella drinto na votte e, ’ntompagnatala co designo de farele no scaudatiello e, già che aveva abbannonate li puorce, la voleva spennare commo a puorco co l’acqua cauda.
Ma, essenno oramaie abrocato l’aiero e fatto lo cielo commo a bocca de lupo, Cuosemo, c’aveva li parasiseme e moreva allancato, pe dare co na stretta a l’amate bellezze na allargata a l’appassionato core, co na preiezza granne abbiannose cossì deceva: «Chesta è l’ora a punto da ire a ’ntaccare l’arvolo che ha chiantato Ammore drinto a sto pietto pe cacciarene manna de docezze ammorose; chesta è l’ora a punto de ire a scavare lo tresoro che m’ha prommisso la fortuna; e perzò non perdere tiempo, o Cuosemo: quanno t’è prommisso lo porciello, curre co lo funiciello! o notte, o felice notte, o ammica de ’nammorate, o arme e cuorpe, o chillete e cocchiare, o Ammore, curre, curre a brociolune perché sotto la tenna de l’ombre toie pozza reparareme da lo caudo che me conzumma!».
Cossì dicenno ionze a la casa de Caradonia e trovaie Grannizia a luoco de Cicella, n’ascio ’n cagno de no cardillo, n’erva noale pe na rosa spampanata, che si be’ s’avea puosto li panne de Cicella e potive dicere vieste Cippone ca pare barone, co tutto chesto pareva no scarafone drinto na tela d’oro, né li cuonce, ’mpallucche, ’nchiastre e stelliccamiente fattele da la mamma pottero levare la forfora da la capo, le scazzimme dall’uocchie, le lentinie da la facce, le caucerogna da li diente, li puorre da la canna, le sobacchimme da lo pietto e lo chiarchio da li tallune, che l’afeto de sentina se senteva no miglio.
Vedenno lo zito sta mala ’Meriana non sapeva che l’era socciesso e, fattose arreto comme si le fosse apparzeto Chillo-che-squaglia, decette fra se stisso: «So’ scetato o m’aggio cauzato l’uocchie a la ’merza? so’ isso o non so’ isso? che vide, nigro Cuosemo? hai cacata la vraca? non è la facce chesta che iere matina me pigliaie pe canna, non è chesta la ’magene che m’è restata penta a lo core! che sarrà chesto, o Fortuna? dove, dov’è la bellezza, l’uncino che m’afferraie, l’argano che me tiraie, la frezza che me smafaraie? io sapeva che né femmena né tela resce a lumme de cannela, ma chesta la ’ncaparraie a lumme de sole! Ohimè, ca l’oro de stammatina m’è scopierto a rammo, lo diamante a vrito e la varva m’è resciuta a garzetta!».
Cheste ed autre parole vervesiava e ’mbrosoliava fra li diente, ma puro all’utemo, costritto da la necessitate, dette no vaso a Grannizia, ma, comme vasasse no vaso antico, che avvecinaie ed arrassaie chiù de tre vote le lavra primma che toccasse la vocca de la zita, a la quale accostato le parze de trovarese a la marina de Chiaia la sera, quanno chelle magne femmene portano lo tributo a lo maro d’autro che d’adure d’Arabia.
Ma perché lo cielo, pe parere giovene, s’aveva fatta la tenta negra a la varva ianca, e la terra de sto signore era muto destante, fu astritto a portaresella a na casa poco lontano da li confine de Panecuocolo pe chella notte; dove, acconciatose no saccone sopra doi casce, se corcaie co la zita.
Ma chi pò dicere la mala notte che passaro l’uno e l’autro, che, sì be’ fu de state, che n’arrevava a otto ora, le parze la chiù longa de ’nvierno: la zita verruta da na parte rascava, tosseva, tirava quarche cauce, sosperava e co parole mute cercava lo cienzo de la casa affittata; ma lo Cuosemo faceva affenta de gronfiare e tanto se reterai ’m ponta lo lietto, pe no toccare Grannizia, che, mancatole lo saccone, schiaffai ’ncoppa no pisciaturo e rescie la cosa a fieto e a vergogna. Oh quanta vote lo zito iastemmaie li muorte de lo Sole, che penzeniava tanto pe tenerelo chiù luongo tiempo a sta soppressa! quanto pregava che se rompesse lo cuollo la Notte e sparafonnassero le stelle, pe levarese da canto co la venuta de lo iuorno chillo male iuorno! Ma non tanto priesto scette l’Arba, a cacciare le Gallinelle ed a scetare li galle, ch’isso, sautato da lo lietto e appontatose a pena le brache, iette de carrera a la casa de Caradonia pe renonziare la figlia e pagarele la ’ncignatura co na mazza de scopa. E, trasuto a la casa, non ce la trovaie, ch’era iuta a lo vosco pe na fascia de legna pe fare no scaudatiello a la figliastra, che steva ammafarata drinto la sepetura de Bacco, dov’era degna de stare sciamprata drinto la connola d’Ammore. Cuosemo, cercanno Caradonia e trovannola sparafonnata, accommenzaie a gridare: «Olà, dove site?». E ecco no gatto soriano, che covava la cennere, sparai contra tiempo na voce: «Gnao, gnao, mogliereta è drinto la votte ’ntompagnao!».
Cuosemo, ’nzeccatose a la votte, ’ntese no cierto gualiarese ’n cupo e sottavoce; pe la qualemente cosa pigliaie n’accetta da vecino lo focolaro e sfasciaie la votte, che a lo cadere de le doche parze no cadere de tela da na scena dove sia na dea da fare lo prolaco. Non saccio comme a tanto lostrore non cadette ciesso; la quale cosa vedenno lo zito, stato pe no piezzo comme a chillo che ha visto lo monaciello e po’ tornato ’n se stisso, corze ad abbracciarela decenno: «Chi t’aveva puosto a sto nigro luoco, o gioiello de sto core? chi me t’aveva accovato, o speranza de sta vita? che cosa è chesta, la penta palomma drinto sta gaiola de chierchie e l’auciello grifone venireme a canto? comme va sto chiaito? parla, musso mio, conzola sto spireto, lassa spaporare sto pietto!».
Alle quale parole responnette Cicella contannole tutto lo fatto, senza lassarene iota: quanto aveva sopportato a la casa de la matreia da che ’nge pose lo pede, fi’ che, pe levarele la cannella, Bacco l’aveva sotterrata a na votte. Sentuto chesto Cuosemo la facette accovare e agguattare dereto la porta e, tornato a mettere ’nziemme la votte, fece venire Grannizia e ’nforchiatacella drinto le decette: «Statte ccà no poccorillo, quanto te faccio fare no ’nciarmo azzò li maluocchie non te pozzano» e, ’ntompagnato buono la votte, abbracciaie la mogliere e, schiaffatosella ’ncoppa a no cavallo, se la portaie de ponta a Pascarola, ch’era la terra soia.
E venuta Caradonia, co na grossa fascina, facette no gran focarone e, puostoce na grossa caudara d’acqua, comme sparaie a bollere la devacaie pe lo mafaro drinto la votte e sporpaie tutta la figlia, c’arrignaie li diente comme s’avesse manciato l’erva sardoneca e se l’auzaie la pelle comme a serpe quanno lassa la spoglia. E comme parze ad essa che Cicella avesse pigliato lo purpo, stennecchiato li piede, scassaie la votte, e ashianno – oh che vista! – la propria figlia cotta da na cruda mamma, sceccannose le zervole, rascagnannose la facce, pisannose lo pietto, sbattenno le mano, tozzanno la capo pe le mura e trepetianno co li piede, fece tanto trivolo e sciabacco che ’nce corze tutto lo casale. E, dapo’ ch’ebbe fatto e ditto cose dell’autro munno, che non vastaro confuorte a conzolarela, conziglie a miticarela, iette de carrera a no puzzo e, zuffete, co la capo a bascio se roppe lo cuollo, mostranno quanto sia vera chella settenza: chi sputa ’n cielo le retorna ’n facce».
Era fornuto a pena sto cunto che secunno l’ordene dato da lo prencepe se vedettero sguigliare là ’nanze Giallaise e Cola Iacovo, l’uno cuoco e l’autro canteniero de corte, li quale, vestute da viecchie napoletane, recetaro l’egroca che secota.

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