Le solitarie di Ada Negri

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Di Anna Lo Piano

 

V’è chi cammina, solo, pei deserti. — V’è chi naviga, solo, pei mari. — Vi sono vite di donne intessute cosi, a filo liscio, bianco su bianco. — Si ignora tuttavia se questa monotona bianchezza, che può anche essere di sepolcro, nasconda in sè minor tragicità di altre tele d’esistenza a trame aggrovigliate d’oro, di gemme e di sangue. 

“Storia di una taciturna” in “Le Solitarie”

 

 

Quando nel 1913 Ada Negri scrive la prima novella de “Le solitarie”, ha quarantatre anni ed è una poetessa letta e tradotta in tutta Europa. È lontana da casa, in Svizzera, dove è andata per vedere la figlia Bianca che per volontà del padre frequenta un collegio a Zurigo, ed è sola. Il suo matrimonio con Giovanni Garlanda, a causa di crescenti incomprensioni e dolori insuperati, è finito. In questo ritiro, da cui tornerà in fretta l’anno seguente prima che l’imminenza della guerra chiuda le frontiere, sperimenta quella distanza che si rende a volte necessaria per guardare la propria vita, la propria scrittura, da una prospettiva diversa. L’esigenza di raccontare questa volta non trova sfogo nei versi, ma sceglie la forma, in prosa, del racconto. Stando alla lettera che scrive a Margherita Sarfatti, che farà da prefazione alla raccolta, si avventura in questa impresa senza molta convinzione. È insieme all’amica che un giorno “ripescano e rileggono” questo “grigio, torbido, manoscritto”, ed è la Sarfatti a incoraggiarla a pubblicare, sostenendo che in queste novelle “c’è una parte viva di lei”. E sicuramente è vero che c’è questa parte viva, e si sente.  Attraverso le storie di queste donne sole, ognuna delle quali ha un modo diverso e unico di essere “spostata”, per usare un sorprendente aggettivo usato per descrivere le maestrine in “Anima bianca”, di essere vittima di un deragliamento involontario rispetto al binario imposto dei ruoli di figlia, moglie e madre, è l’autrice stessa che si racconta.  Lo fa da lontano, in un’età che appartiene alle sue protagoniste più riuscite, che è quella di mezzo, indefinibile, tra la giovinezza e la vecchiaia. 

Nella sua vita ha accumulato moltissime esperienze, ha conosciuto la povertà, l’umiliazione, la delusione amorosa, il dolore per la perdita di una figlia ad appena un mese di vita, ma anche il successo, la passione politica nei circoli milanesi frequentati da Filippo Turati, Anna Kuliscioff e all’epoca anche Benito Mussolini.  È entrata in contatto con le istituzioni filantropiche e l’associazionismo politico che fanno parte del panorama culturale milanese. Con Ersilia Majno ha fondato l’Asilo Mariuccia per dare riparo e assistenza alle donne e bambine costrette a prostituirsi. Su queste esperienze scrive diversi reportage per una rubrica del Corriere della Sera, “Cronache del bene”, di cui è titolare dal 1903 al 1911.
L’esperienza del racconto di stampo giornalistico si ritrova anche nelle Solitarie, che offrono uno spaccato a volte dettagliatissimo sulle condizioni di vita delle donne, sui loro stipendi inferiori a quelli degli uomini “allora, verso il milleottocentosettanta, le paghe femminili non salivano piú in là. .. In quei tempi non si parlava ancóra di cooperative operaie, di sindacati e di scioperi” (Il posto dei vecchi), alle difficoltà per lasciare i figli durante le ore di lavoro, fino alle descrizioni delle città, dei mezzi pubblici, delle case. Lo sguardo dell’autrice però non si ferma alla cronaca, ma entra nei loro pensieri, ne segue gli arrovellamenti, i moti di speranza, di autoinganno, di rassegnazione.  Per raccontarle le trasfigura, ne dipinge le fattezze con tratti quasi espressionistici, che dicono tutto del loro modo di stare al mondo. Anin, che è “stata creata per essere serva” ,  è  “tozza di corpo e grossolana di volto, con occhi obliqui di giapponese rilucenti di calda bontà in una faccia sbozzata con l'accetta”(La serva), mentre Feliciana, che annulla la sua vita nella fabbrica per dar da mangiare ai figli, ha “occhi di fosforo” e diventa anche lei un ingranaggio tanto da sentirsi  “come se andasse e venisse con le spolette d'acciaio: come se accordasse le pulsazioni del cuore e dei polsi a quelle dei licci, dei brancali, delle leve, di quei piccoli e silenziosi bracci di macchina che sembrano moncherini dal gesto tragicamente preciso”. (Il posto dei vecchi). Le case, le città, gli elementi naturali del paesaggio non si limitano a fare da sfondo ma prendono vita e diventano parte integrante delle loro vicende. Quando Raimonda esce dall’ufficio, la sera, col bavero del cappotto rialzato per nascondere le cicatrici che ha sul volto, si immerge in una nebbia “cosí densa, cosí opaca (…), che si sarebbe potuta tagliar col coltello. Penetrava nella bocca e nelle narici, mozzava il respiro, dava il senso dell'asfissia. Vie e case scomparivano, dissolte nell'impalpabile massa dei vapori. Atmosfera di sogno. Ma un sogno sinistro, pieno d'agguati.” (Nella  nebbia). La cava di marmo dove Cristiana ha appuntamento con l’amante per dirgli che è incinta di lui, è “fibrosa e spasimosa come lacerazione in corpo vivo” (Il crimine), come se già sapesse che la donna vive il travaglio di scegliere se abortire o no. Di fronte a questa natura partecipe delle storie, troviamo l’indifferenza e l’ostilità degli esseri umani. Sono spesso uomini, amanti, come il “magretto dai piccoli baffi, dal profilo femmineo” che “se ne stava freddo, come noiato”(Il Crimine), o l’uomo che  “non cercava nemmeno di stordirla con un po' di carezze. Aveva cominciato a svestirsi, lui, gettando soprabito e giacca a sghimbescio sulla spalliera d'una sedia, in fretta, senz'ombra d'esitazione, restando, in bretelle turchine incrociate su una camicia a righe bianche e lilla” (L’appuntamento), ma anche i datori di lavoro, o meglio i padroni, e quella pletora di madri, suocere e nuore, dalle quali bisogna nascondersi o difendersi.

In questa raccolta, composta come un mosaico, attraverso le diverse età, ceti sociali, situazioni emotive e psicologie differenti, ogni volta il punto di vista risulta leggermente spostato, apre prospettive nuove. Ma il risultato finale è quello di una condizione femminile che appare come una gabbia. Lo sguardo di Ada Negri, che ci accompagna in questo viaggio, si modula come una lente, avvicinandosi e allontanandosi dalle protagoniste, inglobando la visione di chi è complice di questa loro prigionia. C’è quasi una scala di livelli di consapevolezza. La vita di Anin, la servetta che vive “la gioia organica di chi si trova in armonia con il proprio destino” è raccontata quasi tutta con le azioni e decisioni dei padroni che, attraverso il filtro dell’ironia, ci dicono la vita di miseria e contraddizione che doveva fare la poveretta:

 

Quando un abito è ragnato alle cuciture o ha stinto tutto il colore, lo si regala alla serva; (…) mentre in sala da pranzo e in salotto, alla luce di tutte le lampade, si chiacchiera e si gioca, allegramente, intorno al tavolino del tè, o al vassoio dei liquori, la serva deve starsene quieta nel cantuccio presso i fornelli, abbassando la fiamma del gas per non fare spreco.

La parabola di Rosanna, la maestra, è racchiusa tra le dicerie dei paesani sul suo aspetto fisico all’inizio e alla fine del racconto, quando la violenza inaspettata che ha subito, e della quale non si dà ragione, la riduce a una larva.
Poi ci sono le protagoniste sulle quali lo sguardo si posa più da vicino, le segue nei tormenti, nei desideri, nelle improvvise consapevolezze, spesso intime. Si parla di sessualità, di desiderio. L’amore materno, sebbene scontato, passa dal sacrificio alla consapevolezza di starsi annullando per i figli, viene messo al secondo posto rispetto alla passione di coppia, combattuto per non dover portare l’eredità di un uomo che non si ama più.  L’autrice lascia invece loro la parola quando prendono coscienza di possedere “occhi in dentro”, di sapersi guardare da sole, come Raimonda, che da tempo ha abolito gli specchi per non doversi confrontare con la sua immagine sfregiata, ma che al momento di fare una scelta inaudita, concedere un bacio allo sconosciuto che la segue nella nebbia, è padrona delle proprie azioni, non ha dubbio, non se ne pente ma anzi conserva per sé questo ricordo come una conquista della propria vita. Forse lo sguardo più lucido lo troviamo in Antonella, la più giovane, appena sedicenne, che ragiona con il suo fidanzatino su cosa aspettarsi dalla vita, sulle loro speranze di non ritrovarsi a essere come i propri genitori, chiusi in matrimoni infelici, in dissidi mai sciolti per paura di dover fare i conti con se stessi.  È nel dialogo, nel poter osservare e dire quello che davvero succede a casa che si attua la loro consapevolezza (Gli adolescenti).
Ne le “Confessioni”, brevi racconti, quasi una raccolta in sé, le protagoniste incontrano l’autrice in un albergo svizzero, e si confidano a lei. Ognuna si porta dentro un segreto, un tormento, ma il fatto di prendere la parola e trasformarlo in racconto ha un effetto salvifico, di assoluzione.
Certo, nessuna di queste donne esce dalla prigione. Lottano, provano strade nuove, cercano soluzioni che appaiono però come sconfitte, come tentativi di fuga che le portano a sbattere ancora più violentemente contro le pareti. Rimangono impigliate nel loro destino perché non sono in grado neanche di immaginare che potrebbe esserci qualcosa al di là delle sbarre.

Nel femminismo delle scrittrici italiane a cavallo tra otto e novecento ci sono contraddizioni che peseranno sul loro futuro. Pur essendo sensibili ai temi sociali della condizione femminile, e incarnando esse stesse modelli di emancipazione, spesso si fecero un vanto di dichiararsi antifemministe, come Neera o Matilde Serao. La solidarietà verso le donne in difficoltà passò dalle denunce, dalle inchieste, dalla filantropia, ma non fu capace di farsi movimento, presa di posizione intellettuale, e soprattutto di scardinare certi modelli legati alla maternità, ai ruoli. Tutto il fermento che c’era stato in quegli anni, la pluralità di voci, venne travolto dagli anni del fascismo, e poi dalla guerra. Anche Ada Negri venne travolta.  Si avvicinò alle posizioni di Mussolini, ricevette incarichi, onorificenze. Come nella protagonista dell’ultimo racconto, quello più autobiografico, venne a patti con la realtà, con “il denaro”. O forse fu l’attesa dell’uomo forte, quella speranza di trovare “un uomo, la sua carezza e il suo pugno, la sua protezione e il suo dominio” che viene continuamente evocata nei racconti. Veronetta alla fine  trova pace tra le braccia del suo uomo, si sente completa nel pensare a quel momento come breve, da vivere intensamente senza pensare al futuro, senza pensare di farlo durare per sempre.

 

Si sentí di carne, piegò su se stessa, si rannicchiò, piccola e trepida, nell'ombra del suo uomo. Non ricordava, non sapeva piú nulla, fuor che d'essere vivente in lui; Fausto se la schiacciò sul petto, le ferí la bocca con un lungo bacio, la tenne come egli voleva, fanciulla e donna, col suo passato e il suo presente offerti all'amore. Ed entrambi ebbero coscienza della brevità di quell'ora e della sua eternità.

 C’è però un altro personaggio che mi pare di riconoscere una versione più interessante di un possibile alter ego della protagonista, ed è Clara Walser, l’artista. In questo incontro, che fa parte delle “Confessioni”, l’autrice visita una sua mostra, dove è esposto il suo lavoro di artista tessile, e guardandolo “ha l’impressione che somigli alla sua artefice, che lo stesso ritmo di vita governi l’uno e l’altra”.  D’altronde, come dice lei stessa, si può essere madri o continuare la propria forza, la propria sensibilità, in un’opera d’arte.

 

Credete che l’anima sia solo dell’essere umano? Credete che qualche molecola o irradiazione dell’anima non possa vivere in una trina, in una maiolica, in un legno scolpito, in un ricamo?”

C’è nella vita di questa donna, sicuramente, un uomo che “era passato per devastare”, ma “il buon terreno si era ricomposto.

 

Clara, però, a differenza di altre, non mostra l’ombra ma la vittoria. Nella sua vita attraverso il “molto amare, molto errare, molto piangere” c’è stata un’evoluzione interiore, dello spirito. “Conviene, renderci a poco a poco superiori al dolore egoistico, purificarci da ogni scoria, uccidere in noi il tormento del desiderio. Rinascere, insomma”. E il suo battesimo è avvenuto nella natura, attraverso quel nomadismo di cui parlava Whitman, del quale Ada Negri era un’appassionata lettrice.  Clara è l’unica donna che parla di libertà, che trova uno slancio vitale per dedicarsi ad altro, ad altri.  Lei, come artista, “il filo liscio, bianco su bianco, sul quale sono intessute tante vite di donna”, lo domina e lo usa per esprimere se stessa. È l’unica alla quale, alla fine, la sua stessa autrice chiede: “Perché non vorreste condurmi con voi a Eriswil?”

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