Vacanza tedesca, di Marcello Venturi

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Lindau propone Vacanza tedesca, un libro con tre racconti che Venturi scrisse tra l’ottobre del 1957 e il febbraio del 1958, in un momento di transizione per il nostro Paese, a cavallo tra la guerra appena finita, ma i cui veleni circolavano ancora, e gli anni del boom economico in cui tutto sarebbe sembrato possibile. In una prosa nitida e asciutta, Venturi mette in scena tre personaggi mossi da sentimenti contrastanti di colpa e rivalsa, tre espressioni differenti della violenza e della miseria morale del dopoguerra.

Cattedrale vi propone l’incipit del primo racconto, per gentile concessione dell’editore.

Vacanza tedesca

Mi chiamo Hans Wassel e sono tedesco, di Francoforte. Fu per l’estate del ’56, per il mese delle vacanze, che decisi di tornare in Italia. Sentivo nostalgia di rivedere i posti dove avevo combattuto col mio battaglione S.S. Hermann Goering, e, più precisamente, volevo rivedere il paese in cui Karl morì, il punto esatto in cui fu colpito e cadde. La sua tomba.
Da qualche mese il pensiero della sua tomba abbandonata tra i boschi degli Appennini italiani mi stava perseguitando. La notte mi capitava spesso di avvicinarmi alla finestra, in punta di piedi perché Martha non si accorgesse, e guardare lungamente gli alberi sulla sponda del fiume. Martha continuava a dormire nel grande letto matrimoniale, sentivo il suo respiro regolare, leggero, dietro di me: e tra il tepore della sua presenza, e il freddo del fiume, gli alberi, i ricordi oltre la finestra, il rimpianto si faceva più forte.
Persino durante il giorno, in certi momenti del mio lavoro, quel pensiero sopraggiungeva improvviso a interrompermi un gesto o a smorzarmi una parola sulle labbra.
«Qualcosa che non va, dottore?» chiedeva il cliente osservandomi impaurito.
Allora dovevo concentrarmi di nuovo sui miei strumenti, sorridere, per rassicurare il paziente che la sua salute era a posto, o comunque, che per lui non c’era niente di grave.
L’ambulatorio stava al piano terra della nostra casetta della Friedrichstrasse, ci passavo quasi l’intera giornata, dalle prime ore del mattino alla sera. Al piano di sopra sentivo il passo lieve di Martha, che si muoveva nella camera per rifare il nostro letto; la sentivo passare in salotto, e anche qui sapevo ogni suo gesto: spolverare i libri della scansia, rimettere a posto i fiori finti nel grande vaso azzurro di Murano al centro del tavolo, spazzare le mattonelle di maiolica. Ed eccola in cucina, col rumore attutito delle stoviglie; lo scatto del fornello elettrico, il sapore denso del caffè.
E poi lo scroscio dell’acqua nella stanza da bagno. Non sentivo il fruscio del pettine sui suoi capelli lunghi, biondi, abbandonati sulle spalle, ma riuscivo a indovinarlo. Di lì a pochi minuti Martha sarebbe apparsa, pulita e fresca, sull’uscio dell’ambulatorio per salutarmi prima di uscire al mercato. Con la borsa di pelle infilata al braccio, più simile ad una studentessa che ad una massaia, mi avrebbe guardato con una luce di gioia negli occhi. Sarebbe scomparsa quasi fuggendo, e correndo sarebbe rientrata e salita in cucina. Da quel momento io potevo seguire le sue operazioni ai fornelli sino all’ora del pranzo.
Martha pareva si divertisse come a un gioco da bambini: il gioco del marito dottore e della moglie del marito dottore. Per me costituiva una distrazione e una compagnia sentirmela vicina anche durante il lavoro. Mi distraeva dalla monotona litania dei pazienti, dal loro grigiore; mi aiutava a vincere la ripugnanza fisica che sempre mi viene a contatto di un corpo malato.
Questo i primi tempi.
Ma negli ultimi mesi avevo smesso di seguire i suoi movimenti e di ascoltare i suoi passi. Mi accadeva di perdermi dietro il ricordo delle montagne italiane, le pianure italiane, i paesi italiani che erano rimasti per tanto tempo nascosti nella memoria: e che adesso, all’improvviso, balzavano fuori col nome di Karl.
Avevo tentato di non pensarci più, né alla guerra né a Karl, e, tanto meno, alla tomba rimasta lassù. Forse una ragione del mio matrimonio con Martha era stata anche questa, un tentativo di dimenticare, di rientrare nel giro della vita insulsa di un modesto borghese. Ma adesso, alla finestra della camera, osservando nella notte invernale i banchi di bruma risalire il corso nero del fiume, inghiottire gli alberi, adesso dovevo ammettere il fallimento del mio tentativo.
Non che a Martha non volessi bene: semplicemente non mi bastava, non mi era bastata mai. Dovevo ammettere che la vita incolore del medico non era la mia; neanche la vita di famiglia, sia pure con una ragazza giovane e bella.
Qui, sotto la distesa grigia del cielo tedesco, senza sole e senza stelle, si ridestava in me il bisogno di altri orizzonti: lo stesso bisogno fisico che mi aveva fatto arruolare nelle S.S., e marciare nei paesi stranieri verso il Mediterraneo, verso altri cieli, insieme all’amico Karl.


Della mia amicizia con Karl non mi era mai capitato di parlare a lungo con Martha; solo qualche volta gliene avevo accennato, a proposito della foto che tenevo sulla scrivania dell’ambulatorio. Martha stessa aveva ogni volta troncato il discorso, per evitare l’argomento guerra.
Il mio passato di S.S. non la interessava; o meglio, c’era in lei l’ostinata volontà di ignorarlo. Come volesse ignorare una parte di me. Medico mi aveva conosciuto e medico ero. Ai miei tentativi di raccontarle avventure in terre lontane, Martha aveva sempre opposto un imbarazzato silenzio, riuscendo infine a cambiare, o a interrompere, il discorso. Così io ero rimasto, ai suoi occhi, il pallido, magro dottore di provincia; un dottore leggermente invecchiato, cui si preparano le pantofole per la notte e la tazza calda di camomilla, cui si toglie di bocca l’ultima sigaretta con un gesto infantile e insieme materno. Per queste sue premure, ai primi tempi, avevo provato una sorta di tenerezza, avevo rinunciato a farle conoscere l’altro me stesso, quello di prima. Un dolce torpore mi aveva tenuto stordito tra le quattro pareti della Friedrichstrasse. Fino a quando, alla vigilia di Natale, non avevo cominciato a vedere con maggiore chiarezza i veri limiti dell’ambulatorio, della strada, del fiume, e persino di lei.
Da quel giorno Karl, in divisa nera, mi guardava dalla foto della mia scrivania sempre più a lungo: lo sguardo puro dell’eroe, i lineamenti precisi. E dietro di lui, oltre la foto incorniciata, il pensiero mi era tornato più insistentemente alle strade della guerra dove insieme avevamo camminato, al vento delle foreste, alla pioggia degli inverni, al sole delle brucianti estati marine.
La vigilia del Natale 1956 un ebreo era entrato nel mio ambulatorio per farsi visitare. A colpo d’occhio avevo indovinato le oscure radici della sua razza. Il piccolo ebreo si era tolta la camicia, la maglia; col torace bianco e ossuto era rimasto in piedi davanti a me, perché io, a pagamento, auscultassi i suoi polmoni.
Non avevo potuto rifiutarmi, avevo dovuto vincere il senso di ribrezzo e toccarlo con le mie mani; applicargli sulla schiena lo stetoscopio.
Karl mi guardava dalla foto con lo sguardo impassibile, impietrito. Un sudore freddo mi imperlava la fronte, l’odore sottile che emanava dalla pelle del piccolo ebreo mi dava la nausea.
Senza rispondere alle sue domande scrissi con mano tremante una ricetta; lui mi osservava stupito, mentre rimetteva la maglia e la camicia. Con le punte delle dita respinsi la banconota sull’orlo della scrivania e restai immobile a guardarlo, che usciva dall’ambulatorio alzandosi il bavero del cappotto. Prima di scomparire nella strada volse la testa verso di me in una mossa rapida.
Non poteva essere un abitante della Friedrichstrasse, né del quartiere, altrimenti avrebbe saputo. O forse era un abitante del quartiere, venuto apposta per umiliarmi.
L’impossibilità in cui mi ero trovato a dire di no mi aveva fatto sentire concretamente i limiti della mia nuova esistenza. Gettai la banconota sul pavimento e la calpestai sotto lo sguardo di Karl; ma neppure questo era servito a togliermi il malumore di dosso. Così accadde il primo incidente con Martha. Dopo essermi disinfettato le mani, salii al piano di sopra e mi sedetti in silenzio al mio posto, al mio solito posto della tavola apparecchiata ormai da anni.
Martha mi guardò appena e capì, sorrise.
«Stamani ho visto la signora Brummer,» disse, ben sapendo che la cosa per me non aveva alcuna importanza.
«Bene,» risposi.
«Ci invita a casa sua,» disse Martha sedendosi all’altro capo del tavolo. «Domenica prossima».
C’era qualcosa di straordinario nella capacità di Martha a tirare per le lunghe un argomento privo di qualsiasi interesse. Pareva avvertisse il pericolo di una rivelazione imminente.
Continuò a parlare della signora Brummer, informandomi con abbondanza di particolari della sua salute, del buffo vestito che indossava e persino degli affari di suo marito, l’avvocato Otto Brummer.
Io la lasciavo parlare pensando ad altro, più irritato da questa sua paura a conoscere l’altra parte di me che per le sciocchezze che andava dicendo.
Infine dissi: «Basta».
Martha arrossì, un silenzio massiccio cadde tra noi, sulla tavola che ci divideva. Attesi invano, a lungo, una domanda; e più attendevo più Martha si confondeva, più le tremava la forchetta nella mano. Io smisi di mangiare, spinsi il piatto in mezzo alla tavola.
«Sono disgustato, – dissi lentamente. – È questo che non volevi sapere?».
«So di non essere una buona cuoca,» bisbigliò Martha abbozzando una smorfia. Mentiva, si attaccava ad una banale menzogna nella speranza di rimandare ancora.
«Sono disgustato per altre ragioni,» dissi. Volevo udire quella domanda, la domanda abituale, naturale, che una moglie rivolge al proprio marito.
Per questo non aggiunsi altro, la guardai con pazienza.
Martha si sentiva presa nella rete, i suoi occhi non riuscivano a sfuggire il mio sguardo, vi rimasero dentro quasi affascinati.
«Quali ragioni,» disse. Lo disse, non mi poneva una domanda; disse qualcosa cui non si doveva rispondere, cui non voleva risposta.
«È venuto un ebreo,» dissi io. La guardai irrigidita e pallida, non più rossa, all’altro capo del tavolo, che adesso sembrava essere lontano, irrealmente lontano.
«Sì,» bisbigliò Martha di laggiù.
«Uno schifoso ebreo è entrato nel mio ambulatorio,» dissi.
Mi piegai in avanti sul tavolo, per vederle meglio il pallore del volto. «Non è una cosa disgustosa?» domandai.
Martha non riusciva a parlare, sembrava volesse alzarsi e che fosse inchiodata alla sedia. Fece un cenno vago con la testa.
«Spiegati, – dissi. – Non ho capito. Sei d’accordo con me?».
Le erano venute le lacrime agli occhi.
«Oppure sei amica degli ebrei?» domandai. Temetti che scoppiasse in pianto, non posso soffrire il pianto delle donne e dei bambini. Non l’avevo mai vista piangere. Invece fu buona a vincere le lacrime, le ingollò. «Io sono amica di tutti,» disse Martha.
Lo immaginavo. L’avevo capito dalla sua paura. Mi alzai dal tavolo e scesi in ambulatorio. Prima di uscire sulla strada spalancai le finestre.