Cento sigarette al giorno per amore, solo per amore. Pasquale Festa Campanile

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di Andrea Di Consoli

Pasquale Festa Campanile ha realizzato, in qualità di regista e sceneggiatore, alcune delle pellicole più popolari del cinema di commedia (a volte erotica) a cavallo tra anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Ecco alcuni titoli della sua lunga filmografia – che, come si evincerà immediatamente, pesano ancora molto nell’immaginario collettivo che latamente potremmo definire “basso”: Quando le donne avevano la coda (1970), Il merlo maschio (1971), Rugantino (1973), Conviene far bene l’amore (1975), Il corpo della ragassa (1979), Gegè Bellavita (1979), Qua la mano (1980), Culo e camicia (1981), Bingo Bongo (1982), La ragazza di Trieste (1982), Porca vacca (1982) e Un povero ricco (1983). Un cinema, quello di Festa Campanile, di trama e di trovate, di grandi attori e di consumo, di battute indimenticabili e di malizioso vitalismo, di incassi al botteghino e di freddezze della critica.

Pasquale Festa Campanile, però, ha scritto in questo stesso periodo – che potremmo definire “aureo” – anche i suoi romanzi migliori (dopo il folgorante esordio, nel 1957, con La nonna Sabella, al quale seguì un lungo silenzio letterario, che però non coincise affatto con un silenzio esistenziale e professionale): Conviene far bene l’amore (1975), Il ladrone (1977), Il peccato (1980), La ragazza di Trieste (1982), Per amore, solo per amore (1984) e La strega innamorata (1985). Sembrerebbe il percorso di un artista “scisso” (brutta parola che non significa quasi nulla), diviso a metà da due distinte pulsioni creative; in realtà, per chi sappia calarsi senza moralismi estetici in quest’ampio materiale artistico tumultuoso e a volte dispersivo, si tratta di opere tutte mosse dallo stesso grande sentimento che animò e travolse l’arte e la vita di Pasquale Festa Campanile: un amore curioso e insaziabile per la vita e per le storie delle persone. Un amore non astratto o introspettivo, ma tutto riversato “in esterna”, per strada, nelle case, tra le storie del popolo, nei corpi vivi e palpitanti, nei rumori della realtà; tanto che a quest’altezza del discorso diventa quasi evidente perché l’autore di origini melfitane non sprofondò mai nella letteratura: perché facendolo avrebbe tradito la vita, benché, così facendo, tradì almeno un poco la letteratura. Tuttavia va detto che tanti scrittori che non tradirono mai la letteratura scrissero molte opere volontaristiche tutto sommato trascurabili, mentre tanti “traditori” – e nel Novecento ce ne sono tanti – hanno sì scritto meno di quanto potessero (ma qual è la giusta misura?) ma al contempo arricchirono la propria curiosità, sapienza e generosità in ambiti diversi, in apparenza di minor prestigio, quali la televisione, il cinema, il teatro e il giornalismo: tutti mondi dove prevale il lavoro collettivo, la concretezza della comunicazione e un rapporto diretto e costante con il pubblico, spesso numericamente imponente. Ci sono scrittori che sanno stare per tutta la vita in silenziosa compagnia di se stessi, e ce ne sono altri che trovano irresistibile, magari per impazienza o inquietudine, “contaminarsi” con il lavoro collettivo e con la comunicazione più diretta. Va inoltre detto che i lavori “secondari” a volte pesano quanto se non di più di quelli “principali”, ma questo lo si può stabilire solo con il passare del tempo, quando le mode, le convenzioni e i luoghi comuni non incidono più in maniera determinante sulla ricezione delle “opere”. Il destino artistico di Festa Campanile ci pare globalmente inquieto, tormentato, frenetico; e, forse, un po’ infelice – oggi è sottovalutato come scrittore e sminuito come regista, anche se tutti ne parlano con simpatia e con affetto. Scriveva notte e giorno, convulsamente, fumando cento sigarette al giorno; e morì giovane, per tumore ai reni, a poco meno di sessant’anni. Eppure il suo nome risulta assai famigliare alla storia del cinema e della letteratura del secondo ’900, nonostante le sue continue fughe in avanti e di lato non permettano un’agevole “sistemazione” del suo percorso artistico; infatti incastrare Bingo bongo in Per amore, solo per amore crea qualche turbamento finanche nel critico a suo agio con le forme più aperte, ibride e compromesse del concetto di “opera”. La scrittura di Festa Campanile è semplice, dinamica, essenziale. Essa è al servizio della trama, che è sempre gustosa, articolata e fortemente “visiva”. Che si parli di eros, di malattia mentale o di temi religiosi, a prevalere è sempre la costruzione coerente della trama, a discapito della dimensione “ideologica” o stilistica. Scrittore popolare? Diciamo pure di sì, anche se sarebbe più corretto definirlo scrittore esperienzale, in diretta comunicazione con i fatti concreti della vita, pure quando sono spinti nei territori del fantastico o del paradosso.

Lo si può notare anche in questi quattro racconti ristampati per la prima volta dopo la loro pubblicazione su «La Fiera letteraria» tra il 1948 e il 1951 – una rivista allora diretta, e non ci pare solo un caso, da scrittori “traditori” quali Angioletti e Fabbri. Tutto, in questi racconti, nasce da un solido nucleo vissuto: un concorso ministeriale, la visita di leva di un prete, un processo militare, la morte di una nonna. I dettagli sono minimi, benché memorabili e calibrati, la scrittura è asciutta e diretta, la dinamica interna della trama è rapida e fluida – la si direbbe, appunto, cinematografica. Poi, certo, ci sono sempre elementi fantastici o un po’ caricaturali che mirano a colpire la curiosità del lettore, e più che “perturbanti” sono “trovate”, colpi di genio di un artigiano sapiente. Eppure una volta letti, questi racconti non si dimenticano più. Quanto più Festa Campanile vola rasoterra, tanto più trova il modo di entrare dalla porta principale dell’attenzione. Lo stesso discorso vale per i suoi film più di consumo: come dimenticare, per esempio, la parabola grottesca del “superdotato” Gegè Bellavita, Adriano Celentano che, sulle note di Uh... Uh..., piega un lampione per recuperare una lattina e il corpo struggente, irresistibile, tormentato di Lilli Carati ne Il corpo della ragassa? Come tutti gli artisti che troppo vissero e amarono, Festa Campanile ha lasciato dietro di sé tanti non detti e troppi non scritti. Sarebbe bellissimo leggere una sua biografia, conoscerlo meglio, illuminare i tanti punti in ombra della sua vicenda artistica ed esistenziale: il rapporto con la fede, con le donne e con l’amore, con la letteratura “impegnata”, con la Lucania, che trattò con affetto e rispetto ma verso la quale non manifestò mai tormenti, rancori o nostalgie vertiginose, in tal modo rivelandosi il più risolto tra i tanti emigrati della cultura. È dunque tutto un discorso ancora da scrivere, quello su Pasquale Festa Campanile; e magari La felicità è una cosa magnifica servirà anche a questo: a puntare un po’ di luce si di lui. Su un uomo di mondo al quale non si può non voler bene, e al quale sarebbe stato bello raccontare ogni cosa di se stessi, anche la più segreta, perché ogni cosa della vita, quest’uomo buono e tormentato, capiva e accettava, perché inesauribile era la sua fame di vita.

La cultura della sensibilità di Antonio Tabucchi

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Cos’è una pietra?
L’opera di Tabucchi nelle visioni
di Racconti con figure

di Andrea Cafarella

 

Lo scrittore guardava quelle pietre e pensava: cos’è una pietra? Dopo lungo pensare decise che una pietra è una pietra è una pietra è una pietra. D’accordo. Ma forse che una pietra significa qualcosa? No: una pietra in sé, così come un albero in sé, non significa niente.
Antonio Tabucchi, «Doppio enigma»

 

L’incontro

Ho conosciuto Tabucchi, come molti, entrando in aula e sedendomi al primo banco, consapevole del ruolo pedagogico di una scrittura che non avevo ancora mai ascoltato ma che era già attestata dentro di me come esemplare. Spesso questo tipo di predisposizione porta a sopravvalutare un’opera, per il semplice fatto che l’autore viene considerato, dalle fonti più disparate e non sempre affidabili, un maestro assoluto. Personalmente, all’opposto, questo approccio mi porta spesso indicibili delusioni che ho tentato di evitare, col passare del tempo, smitizzando tutti i grandi. E a volte funziona. Nel caso di Tabucchi, è stato invece esattamente come entrare in aula in attesa del grande maestro e trovarsi davanti uno sfrontato ed elegante professore anarchico. Uno che riempie le due ore di lezione con la densità dell’esperienza diretta, della carne, del sangue, ma riportando i suoi racconti a una dimensione metafisica e universale, il tutto con la nobile delicatezza di un insegnante di provincia degli anni settanta. Lui, il nostro intellettuale più europeo, italiano a metà, cittadino del mondo e viaggiatore instancabile.
Ho conosciuto Tabucchi, come molti, leggendo Notturno Indiano (Sellerio, 1984). Un romanzo onirico e visionario che come centro ha il viaggio, che non è solo il viaggio fisico di un corpo da un luogo a un altro luogo, ma soprattutto quello spirituale che compiamo dentro noi stessi e che riporta a un io interiore sbiadito e spettrale, uno specchio misterioso, un gemello inesistente che tutti noi conosciamo o vorremmo conoscere.
In seguito ho letto la maggior parte dei suoi libri, dai più conosciuti a quelli considerati secondari, fino alla costellazione di testi che coinvolge l’opera del suo caro Fernando Pessoa. Ma c’è uno di questi libri che considero un po’ come la bibbia di Tabucchi, uno di quei libri che riescono a dipingere la complicatezza di un’opera intera in un unicum maestoso e perfetto, pur nella sua incompletezza: Racconti con figure (Sellerio, 2011). Ho percepito immediatamente questa sua caratteristica illuminante quando, apertolo, dopo un’introduzione puntuale dell’autore, vi ho trovato il primo racconto «Tanti saluti» che, entrando subito in quel clima onirico che si diffonde per tutta la raccolta, ci rimanda, ancora, al tema del viaggio, come se stessi ricominciando a leggere Tabucchi dal principio, da Notturno Indiano. Qui però il viaggio non viene del tutto compiuto e vissuto, è quasi come se Tabucchi ci mostrasse la dimensione dello scrittore come viaggiatore in potenza, che prepara la lista delle cartoline che dovrà acquistare durante il viaggio e poi si ricorda di alcune altre cartoline, acquistate in una galleria d’arte, e decide che le userà, applicando i francobolli dei luoghi che si accinge a visitare, a raggiungere. Ma, come sempre in Tabucchi, il viaggio, ancor prima di cominciare, inizia con un incontro. E se il viaggiatore è lo scrittore, che rovista tra i suoi fogli-cartoline, nel suo faldone pieno di carte e inchiostri, l’incontro, forse, è proprio quello con il lettore e chissà che le cartoline di «Tanti saluti» non siano proprio i frammenti di Racconti con figure, lasciati a noi prima di inoltrarsi nel suo ultimo viaggio (Antonio Tabucchi muore nel 2012 un anno dopo la pubblicazione di Racconti con figure), fatti appunto di cartoline nuove, da comprare durante il pellegrinaggio, e vecchie, da riprendere in armadi vetusti e cassetti polverosi per rivestirle di nuovo con francobolli sgargianti che le ricollochino nell’unico viaggio, senza inizio né fine.

L’erede

C’è una generazione di scrittori italiani, che va da Landolfi e Buzzati passando per Manganelli e arriva fino a Calvino e Parise, che possiede una lingua di gusto finissimo, anzi, tutte le lingue sguinzagliate di questi grandi maestri, con le loro differenti ed essenziali peculiarità, hanno in loro un elemento comune, semplice ma essenziale: l’eleganza sopraffina della parola. Se prendiamo una pagina di Carlo Dossi, di Gadda, di Pasolini, nella loro diversità distante, hanno tutte una forma che si accende nella consapevolezza del veggente, dell’uomo prima dell’artista, del pensatore, del prosatore che nasce dalla lingua per generare significato attraverso il linguaggio riportando tutto, in un magnifico giro di corda, al principio: la parola.
Antonio Tabucchi è affratellato a questa generazione di grandi scrittori italiani come pochissimi altri, per l’ampiezza della sua opera, per la profonda coscienza della sua scrittura, ma soprattutto per l’attenzione cristallina verso la bella forma della lingua. Racconti con figure, in particolare, si compone delle più svariate prose e contiene testi che Tabucchi scrisse in differenti periodi della sua vita e della sua crescita artistica e che sono puri esempi di stile e bella scrittura, pur senza fermarsi al mero esercizio ma sprofondando nella sensibilità umana che sbircia la verità autentica nascosta nell’inconoscibile della Letteratura.

La cultura della sensibilità

Questa spiccata sensibilità del maestro Tabucchi, in questo strano libro fatto di brevissimi racconti ispirati da altrettanti dipinti, si può ravvisare già dal primo sguardo superficiale al libro: scorrendo l’indice. Per chi conosce Tabucchi, e inevitabilmente Pessoa, leggere un titolo come «Le vacanze di Bernardo Soares»  è evocativo ed emozionante. Ci si aspetta un riavvicinamento di Tabucchi al suo stesso maestro, che è stato per lui un faro, fino a portarlo a scegliere il Portogallo come sua patria elettiva e scrivere in portoghese uno dei suoi romanzi più belli: Requiem, su cui tornerò. Quando poi apriamo alla prima pagina del racconto e troviamo la terrazza di Pessoa dipinta da Modica, tutto torna, e sembra di ricevere un regalo, di accogliere di nuovo Bernardo Soares in casa nostra, anzi, in casa di Tabucchi che ci ha “casualmente” invitati alla stessa ora.  Sembra di poterci rituffare, grazie a questo dono personalissimo, in quell’opera straordinaria che Pessoa non portò mai a termine attraverso la scrittura di chi lo conosce meglio, di chi può anche invitarlo a casa per cena, di chi può evocare, convocare esattamente Fernando.
E se, per Tabucchi, Pessoa è stato l’ago della bussola, è nelle avventure di Pereira che risiedono le motivazioni che lo hanno portato all’autoesilio, che fu pur sempre doloroso e pieno di vergogna, come tutti gli esili. In Racconti con figure ritroviamo anche lui, Pereira, (« è arrivato il dottor Pereira») con la sua solita limonata, convocato in una forma ancora diversa. Pereira è effettivamente solo un dipinto su un foglio di carta, quella stessa immagine che apre il racconto, ma allo stesso tempo è, per Tabucchi-narratore, l’entità stessa di Pereira e di Pereira-personaggio, in un gioco di livelli narrativi, tra l’autobiografico, l’onirico e il puramente espressivo, che si ripropone con intelligenza e attenzione lungo tutto il libro.
Questo tipo di intima sensibilità, che si può ravvisare già dalla dedica a Elvira Sellerio, – cui aveva promesso questa raccolta e che riesce a consegnare soltanto alle sue memorie – condisce tutto il volume, regalandoci una sensazione costante di affettuosità amichevole, piena di personaggi fittizi e persone della vita dell’autore che egli sembra richiamare a sé – evocare – per un’ultima cena in famiglia.
(Un’affettuosità che tutti ma, ancor di più, tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’arte e della cultura, dovrebbero, secondo me, tenere sempre a mente, anche e soprattutto grazie al naturale contatto con questi esempi di splendida lucentezza).

Mosaici

Si dice spesso che scrivere – e leggere – racconti sia più difficile che scrivere romanzi. (Cosa vera se generalizzassimo, che in letteratura è sempre sbagliato.) Sicuramente però, la brevità è una caratteristica tecnica che complica la narrazione a livello strutturale ma soprattutto stilistico e linguistico. Difficilmente un racconto, senza una voce forte a sostenerlo, funziona, come potrebbe invece fare un romanzo o ancora di più, per sua stessa natura, un saggio. I racconti di Tabucchi, già dalle prime raccolte, come Il gioco del rovescio (il Saggiatore, 1981) o Piccoli equivoci senza importanza (Feltrinelli, 1985) sono sempre di qualità ineccepibile, onirici, visionari, tendono già all’immediatezza dell’incontro intangibile che simbolicamente mostra tutto, ma, allo stesso modo di altre raccolte che fanno della brevità la loro caratteristica di primo impatto, come il Sillabario di Parise o Centuria di Manganelli, Racconti con figure contiene delle intuizioni, dei lampi, dei brevissimi testi che si accostano perfettamente ai dipinti che li accompagnano perché pittorici, espressionistici. Si arriva addirittura a incontrare delle forme ibride, come i telegrammi a Olga Luna e Jean-Paul Philippe («Telegramma a Olga Luna» e «Telegramma a Jean-Paul Philippe») che sono scritti proprio a mo’ di telegrammi, diventando delle vere e proprie poesie narrative. Oppure come «Eureka, non-eureka» dove torna una poesia (l’unica della raccolta) che un centinaio di pagine prima il personaggio dello scrittore, protagonista di «Doppio enigma» (uno dei racconti della raccolta, quello da cui ho tratto l’epigrafe che ha dato l’abbrivio a questo mio ragionamento) ricorda riflettendo a proposito del significato delle pietre, creando quella magnifica comunicazione tra i testi che premia il lettore attento con illuminanti epifanie. Ci si sente bene a capire i piccoli enigmi di Tabucchi, come se, chiedendoci un leggerissimo sforzo, ci promettesse, mantenendo sempre la promessa, di portarci per qualche attimo a sbirciare oltre la siepe.

Sogni di sogni

I testi contenuti in Racconti con figure sono immagini, sono stralci di vita, sono suggestioni, ma prima di tutto sono sogni. Si potrebbe dire che tutti i libri di Tabucchi sono dei sogni. Requiem è uno di questi, ma anche Sogni di sogni, o Donna di Porto Pim. Ognuno di essi descrive il sogno-viaggio del viaggiatore-scrittore-uomo che con lo zaino-faldone-zibaldone in spalla s’inoltra nel lungo pellegrinaggio attraverso l’invisibile intangibile. E, ancora di più, in Racconti con figure si attraversa questo tema onnipresente: si va da un sogno («Sognando con Dacosta») nel quale Tabucchi stesso entra dentro il quadro, in cui si mischia nuovamente il dato biografico a quello onirico in un cammino interiore che sa di visione ad occhi aperti; fino ad arrivare ai sogni di «Una notte indimenticabile» o «Fermo così, non si svegli» nei quali la fantasia dell’autore e la forza di una prosa incorruttibile e delicata dipingono mondi complessi, i cui magnifici strati di finzione e verità nascondono visioni che non pretendono risposte ma che lasciano una sensazione di turbamento piacevole e accogliente.
Infine c’è il sogno nella sua forma più pura: la poesia. In racconti come «Notte di un sogno di mezzo inverno» la prosa poetica splendida e semplice si frammezza ad haiku della più grande tradizione giapponese in un’ode alla luna che è un’ode ai sogni e all’immaginazione e alla notte e all’estasi silenziosa della notte e del viaggio senza fondo attraverso l’inconoscibile.

Quando l’artista è vicino alla fine

La saggezza estasiante di questi frammenti pittorici e poetici, io credo, venga da quell’assurda forma di consapevolezza che spesso coglie gli artisti all’accostarsi della nera signora. Sembra come se l’olezzo di morte, la vicinanza agli spettri, la capacità di contemplazione di fronte al tempo di una vita o semplicemente l’esperienza o meglio: tutti questi aspetti contemporaneamente, contribuiscano a generare in alcuni artisti e anzi, più propriamente, in alcuni uomini, una capacità di visione straordinariamente ampia, una luccicanza in grado di svelare i segreti più profondi e regalarci uno splendore che solo un’opera complessa e densa, come quella di Tabucchi, può illuminare completamente. (Caratteristica che paradossalmente e con altre motivazioni possibili troviamo spesso anche nelle opere prime dei grandi maestri).

Mi parrebbe abbastanza, a proposito del valore di lascito che possiede questo libro, aver fatto riferimento alla dedica che Tabucchi fa a Elvira Sellerio – davanti a un ritratto di sé stesso eseguito da Valerio Adami ­– e l’aver accennato a tutta la serie di richiami alla sua stessa opera e alle opere che più ha amato, ma penso che il racconto che chiude la raccolta sia degno di un ulteriore commento in questo senso. S’intitola «Per un catalogo che non c’è» ed è affiancato dall’immagine di copertina di uno dei suoi libri, che ho già nominato, Requiem, nella sua versione inglese, in cui appare un dipinto del caro amico Bartolomeu Cid dos Santos, Paisagem. Tabucchi racconta le coincidenze che hanno portato quel dipinto (poiché l’editore che lo scelse non era a conoscenza della loro amicizia) a diventare l’immagine di copertina di un suo libro. L’episodio è un episodio minimo, uno stralcio di vita che si dilunga in un omaggio, di altissima prosa, alla pittura, ai dipinti e alla capacità evocativa che riescono a esprimere le immagini. Celebrazione che è certamente centro di tutto il volume. Infine Tabucchi si concede lo spazio per commemorare l’amico ma soprattutto l’artista, anch’esso, come la dedica, arrivato postumo perché «come si sa, a volte, quasi sempre, la morte è più lesta di noi».
Questo racconto suona quasi come un post scriptum, un ultimo messaggio prima di ricongiungersi ai suoi cari personaggi, quelli tangibili e quelli che esisteranno per sempre nelle sue pagine e nelle pagine dei suoi più amati autori, quasi li lasciasse, gli uni e gli altri, un po’ anche a tutti noi che restiamo.

Quando cominciò a scendere il ragazzino lo chiamò. «Però non è giusto...», gridò, «ma grazie, grazie davvero!».
L’uomo gli fece un cenno con la mano. «Tanti saluti» disse fra sé e sé.

Antonio Tabucchi, «Tanti saluti» da Racconti con figure (Sellerio, 2012)

 

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I racconti fantastici di Igino Ugo Tarchetti

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Racconti fantastici è la raccolta di racconti di Igino Ugo Tarchetti, composta e pubblicata da Lindau, in libreria dal 6 Luglio 2017. Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo la nota al testo a cura di Giovanni Tesio, e il racconto Le leggende del castello nero.

 

Le leggende del castello nero

«Non so se le memorie che io sto per scrivere possano avere interesse per altri che per me – le scrivo ad ogni modo per me. Esse si riferiscono pressoché tutte ad un avvenimento pieno di mistero e di terrore, nel quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo di un fatto, o desumere una conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il potrò, io attore e vittima a un tempo. – Incominciato in quell’età in cui la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose; continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni, circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuto – se cosí si può dire d’una cosa che non ebbe principio evidente – in una terra che non era la mia, e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di tenebre; io non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia vita che come un enimma insolvibile, come l’ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente d’un’esistenza trascorsa. Erano fatti, od erano visioni? L’uno e l’altro – né l’uno né l’altro forse. Nell’abisso che ha inghiottito il passato non vi sono più fatti od idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse – la verità è nell’istante – il passato e l’avvenire sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della vita.
Ma abbiamo noi avuta una vita antecedente? Abbiamo previssuto in altro tempo, con altro cuore e sotto un altro destino, alla esistenza dell’oggi? Vi fu un’epoca nel tempo, nella quale abbiamo abitato quei luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte ha rapito da anni, vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o cerchiamo la memoria nelle storie o nell’oscurità delle tradizioni? Mistero! – E nondimeno… sí, io ho sentito spesso qualche cosa che mi parlava d’un’esistenza trascorsa, qualche cosa di oscuro, di confuso, è vero, ma di lontano, di infinitamente lontano. Vi sono delle rimembranze nella mia mente che non possono essere contenute in questo limite angusto della mia vita, per giungere alla cui origine io devo risalire la curva degli anni, risalire molto lontano… due o tre secoli… Anche prima d’oggi mi era avvenuto più volte ne’ miei viaggi di arrestarmi in una campagna e di esclamare: “Ma io ho veduto già questo sito, io sono già stato qui altre volte!… questi campi, questa valle, questo orizzonte io li conosco!”. E chi non ha esclamato talora, parendogli di ravvisare in qualche persona delle sembianze già note: “Quell’uomo l’ho già veduto: dove? quando? chi è egli? non lo so, ma per fermo noi ci siamo veduti altre volte, noi ci conosciamo!”. Nella mia infanzia vedeva spesso un vecchio che certo aveva conosciuto fanciullo, da cui certo era stato conosciuto già vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come persone che sanno di conoscersi da tempo. – Lungo una via di Poole, rasente la spiaggia della Manica, ho trovato un sasso sul quale mi rammento benissimo di essermi seduto, saranno circa settant’anni, e ricordo che era un giorno triste e piovoso, e vi aspettava una persona di cui ho dimenticato il nome e le sembianze, ma che mi era cara. – In una galleria di quadri a Gratz ho veduto un ritratto di donna che ho amato, e la conobbi subito benché ella fosse allora più giovine, e il ritratto fosse stato fatto forse vent’anni dopo la nostra separazione. La tela portava la data del 1647: press’a poco a quell’epoca, risale la maggior parte di queste mie memorie.
Vi fu un tempo della mia fanciullezza durante il quale non poteva ascoltare la cadenza di certe canzoni che cantano da noi le donne di campagna nelle fattorie, senza sentirmi trasportare ad un tratto in un’epoca cosí remota della mia vita, che non avrei potuto risalirvi anche moltiplicando un gran numero di volte gli anni già vissuti nell’esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella nota per cadere sull’istante in uno stato come di paralisi, come di letargia morale che mi rendeva estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque fosse lo stato d’animo in cui essa mi avesse sorpreso. Dopo i venti anni non ho più riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltata quella nota? o la mia anima, già abbastanza immedesimata colla vita presente, si era resa insensibile a quel richiamo?
O che la mia natura è inferma, o che io concepisco in modo diverso dagli altri uomini, o che gli altri uomini subiscono, senza avvertirle, le medesime sensazioni. Io sento, e non saprei esprimere in qual guisa, che la mia vita – o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome – non è incominciata col giorno della mia nascita, non può finire con quello della mia morte: lo sento colla stessa energia, colla stessa pienezza di sensazione con cui sento la vita dell’istante benché ciò avvenga in modo più oscuro, più strano, più inesplicabile. E d’altra parte come sentiamo noi di vivere nell’istante? Si dice, io vivo. Non basta: nel sonno non si ha coscienza dell’esistere – e nondimeno si vive. Questa coscienza dell’esistere può non essere circoscritta esclusivamente negli stretti limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono essere in noi due vite – è sotto forme diverse la credenza di tutti i popoli e di tutte le epoche – l’una essenziale, continuata, imperitura forse; l’altra a periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno ripetuti: l’una è l’essenza l’altra è la rivelazione, è la forma. Che cosa muore nel mondo? La vita muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita non muore: tutto vive nel mondo.
Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non sia una vita a parte, un’esistenza distaccata dall’esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in quello stato? chi lo sa dire? Gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel sogno non sarebbero essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una memoria confusa di quegli avvenimenti?… Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in un ordine diverso di cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non possiamo conservare la coscienza nella veglia; viviamo in altro mondo e tra altri esseri che ogni giorno abbandoniamo, che rivediamo ogni giorno. Ogni sera si muore di una vita, ogni notte si rinasce d’un’altra. Ma ciò che avviene di queste esistenze parziali, avviene forse anche di quell’esistenza intera e più definita che le comprende. Gli uomini hanno sempre rivolto lo sguardo all’avvenire, mai al passato; al fine, mai al principio; all’effetto, mai alla causa; e non di meno quella porzione della vita a cui il tempo può nulla togliere o aggiungere, quella su cui la nostra mente avrebbe maggiori diritti a posarsi, e dalla cui investigazione potrebbe attingere le più grandi compiacenze, e gli ammaestramenti più utili, è quella che è trascorsa in un passato più o meno remoto. Perocché noi abbiamo vissuto, noi viviamo, vivremo. Vi sono delle lacune tra queste esistenze, ma saranno riempiute. Verrà un’epoca in cui tutto il mistero ci sarà rivelato; in cui si spiegherà tutto intero ai nostri occhi lo spettacolo di una vita, le cui fila incominciano nell’eternità e si perdono nell’eternità; nella quale noi leggeremo, come sopra un libro divino, le opere, i pensieri, le idee concepite o compiute in un’esistenza trascorsa, o in una serie di esistenze parziali che abbiamo dimenticate. – Se gli altri uomini serbino o no questa fede, non so; ma ciò non potrebbe né fortificare, né abbattere il mio convincimento. Ad ogni modo, ecco il mio racconto.

Nel 1830 io aveva quindici anni, e conviveva colla famiglia in una grossa borgata del Tirolo, di cui alcuni riguardi personali mi costringono a sopprimere il nome. Non erano passate più di tre generazioni dacché i miei antenati erano venuti ad allogarsi in quel villaggio: essi vi erano bensí venuti dalla Svizzera, ma la linea retta della famiglia era oriunda della Germania: le memorie che si conservavano della sua origine erano sí inesatte e sí oscure, che non mi fu mai dato di poterne dedurre delle cognizioni ben definite: ad ogni modo, mi preme soltanto di accertare questo fatto, ed è che il ceppo della mia casa era originario della Germania.
Eravamo in cinque: mio padre e mia madre, nati in quel villaggio, vi avevano ricevuto quell’educazione limitata e modesta che è propria della bassa borghesia. Vi erano bensí delle tradizioni aristocratiche nella mia famiglia, delle tradizioni che ne facevano risalire l’origine al vecchio feudalismo sassone; ma la fortuna della nostra casa si era talmente ristretta che aveva fatto tacere in noi ogni istinto di ambizione e di orgoglio. Non vi era differenza di sorta tra le abitudini della mia famiglia e quelle delle famiglie più modeste del popolo; i miei genitori erano nati e cresciuti tra di esse, la loro vita era tutta una pagina bianca; né io aveva potuto attingere dalla loro convivenza, né trarre dal loro metodo di educazione alcuna di quelle idee, di quelle memorie di fanciullezza che predispongono alla superstizione e al terrore.
L’unico personaggio la cui vita racchiudeva qualche cosa di misterioso e d’imperscrutabile, e che era venuto ad aggiungersi, per cosí dire, alla mia famiglia, era un vecchio zio legato a noi, dicevasi, da una comunanza d’interessi, di cui però non ho potuto decifrarmi in alcun modo le ragioni, dopo che, e per la morie di lui e per quella di mio padre, io venni in possesso della fortuna della mia casa.
Egli toccava allora – e parlo di quell’età a cui risalgono queste mie memorie – i novant’anni. Era una figura alta e imponente, benché leggermente curvata; aveva tratti di volto maestosi, marcati, direi quasi plastici; l’andamento fiero quantunque vacillante per vecchiaia, l’occhio irrequieto e scrutatore, doppiamente vivo su quel viso, di cui gli anni avevano paralizzata la mobilità e l’espressione. Giovine ancora, aveva abbracciato la carriera del sacerdozio, spintovi dalle pressioni insistenti della famiglia; poi aveva buttata la tonaca e s’era dato al militare; la Rivoluzione francese lo aveva trovato nelle sue file; egli aveva passato quarantadue anni lontano dalla sua patria, e quando vi ritornò – poiché non aveva rotti i voti contratti colla Chiesa – riprese l’abito di prete che portò senza macchie e senza affettazione di pietà fino alla morte. Lo si sapeva dotato d’indole pronta benché abitualmente pacata, di volontà indomabile, di mente vasta e erudita, quantunque s’adoprasse a non parerlo. Capace di grandi passioni e di grandi ardimenti, lo si teneva in concetto di uomo non comune, di carattere grande e straordinario. Ciò che contribuiva per altro a circondarlo di questo prestigio, era il mistero che nascondeva il suo passato, erano alcune dicerie che si riferivano a mille strani avvenimenti cui volevasi che egli avesse preso parte – certo egli aveva reso dei grandi servigii alla rivoluzione; quali e con quale influenza non lo si seppe mai: egli morí a novantasei anni portando seco nella sua tomba il segreto della sua vita.
Tutti conoscono le abitudini della vita di villaggio; non mi tratterrò a discorrere di quelle speciali della mia famiglia. Noi ci radunavamo tutte le sere d’inverno in una vasta sala a pian terreno, e ci sedevamo in circolo intorno ad uno di quegli ampii camini a cappa sí antichi e sí comodi, che il gusto moderno ha abolito, sostituendovi le piccole stufe a carbone. Mio zio che abitava un appartamento separato nella stessa casa, veniva qualche volta a prender parte alle nostre riunioni e ci raccontava alcune avventure de’ suoi viaggi e di alcune scene della rivoluzione che ci riempivano di terrore e di meraviglia. Taceva però sempre di sé; e richiesto della parte che vi aveva preso, distoglieva la narrazione da quel soggetto.
Una sera – lo ricordo come fosse ieri – eravamo riuniti, secondo il solito, in quella sala; era d’inverno, ma non vi era neve; il suolo gelato e imbiancato di brina rifletteva i raggi della luna in guisa da produrre una luce bianca e viva come quella di un’aurora. Tutto era silenzio, e non si udiva che il martellare alternato di qualche goccia che stillava dai ghiacciuoli delle gronde. Ad un tratto un rumore sordo e improvviso di un oggetto gettato nel cortile dal muracciuolo di cinta, viene ad interrompere la nostra conversazione; mio padre si alza, esce e si precipita fuori della porta che mette sulla via, ma non ode rumore alcuno di passi, né vede, per tutto quel tratto di strada che si distende d’innanzi a lui, alcuna persona che si allontani. Allora raccoglie dal suolo un piccolo involto che vi era stato gettato, e rientra con esso nella sala. Ci raccogliamo tutti dintorno a lui per esaminarlo. Era, meglio che un involto, un grosso plico quadrato in vecchia carta grigiastra macchiata di ruggine, e cucita lungo gli orli con filo bianco e a punti esatti e regolari che accusavano l’ufficio di una mano di donna. La carta, tagliata qua e là dal filo, e arrossata e consumata sugli orli, indicava che quel piego era stato fatto da lungo tempo.
Mio zio lo ricevette dalle mani di mio padre, e lo vidi tremare ed impallidire nell’osservarlo. Tagliatane la carta, ne trasse due vecchi volumi impolverati; e non v’ebbe gettato su gli occhi, che il suo volto si coperse di un pallore cadaverico, e disse, dissimulando un senso di dolore e di meraviglia più vivo: “È strano!”. E dopo un breve istante in cui nessuno di noi aveva osato parlare riprese: “È un manoscritto, sono due volumi di memorie che risalgono alle prime origini della nostra famiglia, e contengono alcune gloriose tradizioni della nostra casa. Io ho dato questi due volumi ad un giovine che, quantunque non appartenesse direttamente alla nostra famiglia, vi era congiunto per certi legami che non posso ora qui rivelare. Furono il pegno d’una promessa, cui non io, ma il tempo mi ha impedito di mantenere: sí, il tempo…” aggiunse tra di sé a bassa voce. “Io lo aveva conosciuto all’Università di ***, allorché vi studiava teologia: egli fu ghigliottinato sulla piazza della Greve, e la sua famiglia fu distrutta dalla rivoluzione, saranno ora quarant’anni… non uno gli sopravisse… È strano!…”.
E dopo un breve intervallo, osservando che verso la cucitura dei fogli si era accumulala una polvere rossastra leggerissima, ci disse, come si fosse risovvenuto di un pericolo: “Lavatevi le mani”.
“Perché?”.
“Nulla…”.
Ubbidimmo. Si passò tutta quella sera in silenzio: mio zio era in preda a tristi pensieri, e si vedeva che egli si sforzava di evocare o di scacciare delle memorie assai dolorose. Si ritirò assai presto, si rinchiuse nel suo appartamento, e vi stette due giorni senza lasciarsi vedere.

In quella sera io mi coricai in preda a pensieri strani e paurosi di cui non sapeva darmi ragione. Era preoccupato dall’idea di quell’avvenimento più che non avrei dovuto, più che un fanciullo della mia età non avrebbe potuto esserlo. Indarno io tenterei ora di rendere qui colla parola i sentimenti inesplicabili e singolari che si agitavano dentro di me in quell’istante. Parevami che tra quei volumi e mio zio, e me stesso, corressero dei rapporti che non aveva avvertito fino allora, delle relazioni misteriose e lontane, di cui non giungeva a decifrarmi in alcun modo la natura, né a comprendere il fine. Erano, o mi parevano rimembranze. Ma di che cosa? Non lo sapeva. Di che tempo? Remote. Nella mia giovine intelligenza tutto si era alterato e confuso.
Mi addormentai sotto l’impressione di quelle idee, e feci questo sogno.
Aveva venticinque anni: nella mia mente si erano come agglomerate tutte quelle idee, tutte quelle esperienze, tutti quegli ammaestramenti che il tempo mi avrebbe fatto subire durante gli anni che segnavano quella differenza tra l’età sognata e l’età reale; ma io rimaneva nondimeno estraneo a questo maggiore perfezionamento, benché il comprendessi. Sentiva in me tutto lo sviluppo intellettuale di quell’età, ma ne giudicava col senno e cogli apprezzamenti propri de’ miei quindici anni. Vi erano due individui in me, all’uno apparteneva l’azione, all’altro la coscienza e l’apprezzamento dell’azione. Era una di quelle contraddizioni, di quelle bizzarie, di quelle simultaneità di effetti che non sono proprie che dei sogni.
Mi trovava in una gran valle fiancheggiata da due alte montagne: la vegetazione, la coltivazione, la forma e la disposizione delle capanne, e un non so che di diverso, di antico nella luce, nell’atmosfera, in tutto ciò che mi circondava, mi dicevano ch’io mi trovava colà in un’epoca assai remota dalla mia esistenza attuale – due o tre secoli almeno. Ma come era ciò avvenuto? come mi trovava in quelle campagne? Non lo sapeva. Ciò era bensí naturale nel sogno: vi erano degli avvenimenti che giustificavano il mio ristarmi in quel luogo, ma non sapeva quali fossero; non aveva coscienza del loro valore, della loro entità, non l’aveva che della loro esistenza. Era solo e triste. Camminava per uno scopo determinato, prefisso, per un fine che mi attraeva in quel luogo, ma che ignorava. All’estremità della valle s’innalzava una rupe tagliata a picco, alta, perpendicolare, profonda, solcata da screpolature dove non germogliava una liana; e sulla sua sommità vi era un castello che dominava tutta la valle, e quel castello era nero. Le sue torri munite di balestriere erano gremite di soldati, le porte dei ponti calate, le altane stipate d’uomini e di arnesi da difesa; negli appartamenti del castello era rinchiusa una donna di prodigiosa bellezza, che nella consapevolezza del sogno io sapeva essere la dama del castello nero, e quella donna era legata a me da un affetto antico, e io doveva difenderla, sottrarla da quel castello. Ma giù nella valle a’ piedi della rupe ove io mi era arrestato, un oggetto colpiva dolorosamente la mia attenzione: sui gradini di un monumento mortuario sedeva un uomo che ne era uscito allora; egli era morto e tuttavia viveva; presentava un assieme di cose impossibile a dirsi, l’accoppiamento della morte e della vita, la rigidità, il nulla dell’una temperata dalla sensitività, dall’essenza dell’altra: le sue pupille che io sapeva essere state abbaccinate con un chiodo rovente, erano ancora attraversate da due piccoli fori quadrati che davano al suo sguardo qualche cosa di terribile e di compassionevole a un tempo. A quel fatto si legavano delle memorie di sangue, delle memorie di un delitto a cui io aveva preso parte. Fra me e lui e la dama del castello correvano dei rapporti inesplicabili. Egli mi guardava colle sue pupille forate; e col gesto, e con una specie di volontà che egli non manifestava, ma che io, non so come, leggeva in lui, m’incitava a liberare la dama.
Una via scavata lateralmente nella rupe conduceva al castello. Una immensa quantità di proiettili lanciatimi dai mangani delle torri m’impedivano di giungervi. Ma, strana cosa! tutti quei proiettili enormi mi colpivano, ma non mi uccidevano – nondimeno mi arrestavano. Attraverso le mura del castello, io vedeva la dama correre sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll’abito bianchi come la neve, protendendomi le braccia con espressione di desiderio e di pietà infinita; e io la seguiva collo sguardo attraverso tutte quelle sale che io conosceva, nelle quali aveva vissuto un tempo con lei. Quella vista mi animava a correre in suo soccorso, ma non lo poteva; i proiettili lanciatimi dalle torri me lo impedivano: a ogni svolto del sentiero la grandine diventava più fitta e più atroce; e quegli svolti erano molti – dopo questo un altro, dopo quello ancora un altro… io saliva e saliva… la dama mi chiamava dal castello, si affacciava dalle ampie finestre coi capelli che le piovevano giù dal seno, mi accennava colla mano di affrettarmi, mi diceva parole piene di dolcezza e di amore, né io poteva giungere fino a lei – era un’impotenza straziante. Quanto durasse quella terribile lotta non so; tutta la durata del sogno, tutto lo spazio della notte… Finalmente, e non sapeva in che modo, era arrivato alle porte del castello; esse erano rimaste indifese, i soldati erano spariti: le imposte serrate si spalancarono da sé cigolando sui cardini irruginiti, e nello sfondo nero dell’atrio vidi la dama col suo lungo strascico bianco, e colle braccia aperte, correre verso di me, attraversando con una rapidità sorprendente, e rasentando appena lo spazzo, la distanza che ci separava. Essa si gettò tra le mie braccia coll’abbandono di una cosa morta, colla leggerezza, coll’adesione di un oggetto aereo, flessibile, soprannaturale. La sua bellezza non era della terra; la sua voce era dolce, ma debole come l’eco di una nota; la sua pupilla nera e velata come per pianto recente, attraversava le più ascose profondità della mia anima senza ferirla, investendola anzi della sua luce come per effetto di un raggio. Noi passammo alcuni istanti cosí abbracciati: una voluttà mai sentita da me né prima, né dopo quell’ora, mi ricercava tutte le fibre. Per un momento io subii tutta l’ebbrezza di quell’amplesso senza avvertirla: ma non m’era posato su questo pensiero, non era appena discesa in me la coscienza di quella voluttà, che sentii compiersi in lei un’orribile trasformazione. Le sue forme piene e delicate che sentiva fremere sotto la mia mano, si appianarono, rientrarono in sé, sparirono; e sotto le mie dita incespicate tra le pieghe che si erano formate a un tratto nel suo abito, sentii sporgere qua e là l’ossatura di uno scheletro… Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile… Allora un fremito, un brivido di morte scorse per tutte le mie fibre; tentai svincolarmi dalle sue braccia, respingerla… e nella violenza dell’atto il mio sonno si ruppe – mi svegliai urlando e piangendo.

Tornai a’ miei quindici anni, alle mie idee, a’ miei apprezzamenti, alle mie puerilità di fanciullo. Tutto quel sogno mi pareva assai più strano, assai più incomprensibile che spaventoso. Quali erano i sentimenti che si erano impossessati di me in quello stato? Io non aveva ancora conosciuta la voluttà di un bacio, non aveva pensato ancora all’amore, non poteva darmi ragione delle sensazioni provate in quella notte. Ciò non ostante era triste, era posseduto da un pensiero irremovibile; mi pareva che quel sogno non fosse altrimenti un sogno, ma una memoria, un’idea confusa di cose, la rimembranza di un fatto molto remoto dalla mia vita attuale.
Nella notte seguente ebbi un altro sogno.
Mi trovava ancora in quel luogo, ma tutto era cambiato; il cielo, gli alberi, le vie non erano più quelli; i fianchi della rupe erano intersecati da sentieri coperti di madreselve; del castello non rimanevano che poche rovine, e nei cortili deserti e negli interstizii delle stanze terrene crescevano le cicute e le ortiche. Passando vicino al monumento che sorgeva prima nella valle e di cui pure non restavano che alcune pietre, l’uomo abbacinato che stava ancora seduto sopra un gradino rimasto intatto, mi disse porgendomi un fazzoletto bruttato di sangue: “Recatelo alla signora del castello”. Mi trovai assiso sulle rovine: la signora del castello era seduta al mio fianco – eravamo soli – non si udiva una voce, un’eco, uno stormire di fronde nella campagna – essa, afferrandomi le mani, mi diceva: “Sono venuta tanto da lontano per rivederti, senti il mio cuore come batte… senti come batte forte il mio cuore!… tocca la mia fronte e il mio seno: oh! sono assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga aspettazione… erano quasi trecento anni che non ti vedeva”.
“Trecento anni!”.
“Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le evochiamo”.
“Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate”.
“Le ricorderai dopo la tua morte”.
“Quando?”.
“Assai presto”.
“Quando?”
“Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno”.
“Ma allora?”.
“Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti”.
“Quali?”.
“Li ricorderai a suo tempo… ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire, tu hai attraversate undici vite prima di giungere a questa, che è l’ultima. Io ne ho attraversate sette soltanto, e sono già quarant’anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo compirai con questa fra venti anni. Ma non posso rimanere più a lungo con te, è necessario che ci separiamo”.
“Spiegami prima questo enimma”.
“È impossibile… Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui la sua promessa; te ne ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle pagine sí colme di affetto… le avrai, se quell’uomo che ci fu allora sí fatale non t’impedirà di averle”.
“Chi?”.
“Tuo zio… egli… l’uomo della valle”.
“Egli? mio zio!”.
“Sí, e lo hai tu veduto?”.
“Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato”.
“È il tuo sangue, Arturo,” diss’ella con trasporto, “sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua promessa”.
Dicendo queste parole la signora del castello sparve – io mi svegliai atterrito.

Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere; egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili, potrei ricostruire con uno sforzo potente di memoria degli interi periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni! Io non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e benché non giungessi mai ad evocare tutte le mie rimembranze per modo da dissipare le tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più possibile che io potessi metterne in dubbio l’esistenza. Il castello nero era spesso nominato in quei frammenti, e quella passione d’amore che pareva legarmi alla signora del castello, e quel sospetto di delitto che pesava sull’uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a ciò, per una combinazione singolare altrettanto che spaventevole, la notte in cui aveva fatto quel sogno era appunto la notte del venti gennaio: mancavano adunque venti anni esatti alla mia morte.

Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse un fondo di verità in tutto quell’assieme di fatti, era riuscito a persuadermi che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una continuazione di quelli; e degli affetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni erano venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e affannosa.
Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una testimonianza irrefragabile, che tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia morte doveva conseguentemente avverarsi.
Nell’anno 1849, viaggiando al nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al confluente della piccola Mosa, e m’era trattenuto a cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di una piccola catena di monti, mi era trovato ad un tratto in una valle nella quale mi pareva esser stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una memoria terribile venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente, e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro de’ miei sogni e della mia esistenza trascorsa. Benché tutto fosse mutato, benché i campi, prima deserti, biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere, ravvisai tosto quel luogo, e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in quell’istante nella mia anima conturbata.
Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: “Sono le rovine del castello nero; non conoscete la leggenda del castello nero? Veramente ve ne sono di molte e non si narrano da tutti allo stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io… se…”.
“Dite, dite” io interruppi, sedendomi sull’erba al suo fianco. E intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò mai, benché altri il possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto l’edificio di quella mia esistenza trascorsa.
Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino, d’onde fui trasportato, già infermo a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi.
Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del castello – è il primo giorno di settembre, mancano sei mesi all’epoca della mia morte – sei mesi, meno dieci giorni – giacché non dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che rimanga alcuna memoria di me. Assiso sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto l’impressione di un immenso terrore».

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L’autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso l’interno della Germania, morí il venti gennaio 1850, come gli era stato presagito, assassinato da una banda di zingani nelle gole cosí dette di Giessen presso Freiburgo. Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti, e le ho pubblicate.

 

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Igino Ugo Tarchetti:
uno «scapigliato» nel transito decadente

di Giovanni Tesio
 

Igino Ugo Tarchetti (1839-1869) è uno degli esponenti di maggior rilievo della cosiddetta Scapigliatura milanese. Nato a San Salvatore Monferrato, in provincia di Alessandria, dopo gli studi classici intraprende la carriera militare ma se ne congeda ben presto, trasferendosi a Milano, dove condivide l’esperienza letteraria di quella terza generazione romantica, che con diversa declinazione mira a rinnovare i contenuti convenzionali e le forme usurate della tradizione, anche e polemicamente in contrasto con l’esempio manzoniano: asimmetrie e discontinuità, stridori e maledettismi, iconoclastie e polemismi, effrazioni e satanismi in una fervida e diversa officina ostentatamente sperimentale, in cui entrano vagabondaggi, tormenti, contaminazioni, tematiche derisorie e profananti, mescole linguistiche ad alta e promiscua tensione.

L’opera di Tarchetti è caratterizzata – in poesia e in prosa – da un individualismo esasperato e nello stesso tempo dall’assimilazione di esperienze culturali plurime, non sempre decantate e fuse, ma sempre tuttavia attraversate da una spinta necessitante, da un’autentica vocazione espressiva. Nella più fonda melanconia e nella più forte propensione alla vita solitaria, Tarchetti sviluppa i suoi motivi di origine romantica: la noia della vita di ogni giorno, il gusto dell’orrido, l’ossessione della morte, l’incubo della pazzia.

Nei pur pochi versi del suo unico libro poetico, Disiecta (1879), che già fin dal titolo designa una materia sparsa e frammentaria, trovano collocazione motivi che fanno registrare – tra echi legati a Emilio Praga e ad Arrigo Boito, tra macabro cemeteriale e cantabilità arcadica – l’influenza di Baudelaire, di Heine, di Leopardi.

Ma Tarchetti va rintracciato soprattutto nella narrativa, dove ha dato il suo meglio. Sia tentando il romanzo sociale con Paolina (titolo intero: Paolina. Misteri del Coperto dei Figini, 1865-66), storia dedicata a una operaia, Celestina Dolci, prostituitasi per fame e poi morta in una soffitta. Sia tentando il romanzo antibellicista con Una nobile follia (1867), dove si rivolta contro lo spirito risorgimentale e critica severamente la vita militare e la guerra di Crimea. Due storie di contrasti tra ideale e realtà, che nel romanzo Storia di un ideale (1868) assume le vesti del personaggio di Alfredo, insoddisfatto sognatore di mondi fittizi.

Molto più convincenti e rilievo particolare assumono nell’opera di Tarchetti racconti come Amore nell’arte e Storia di una gamba, ricchi di accadimenti paradossali che si muovono tra corpo e anima, tra caso clinico e psicologia del profondo: la strada lungo la quale vanno collocati i Racconti fantastici (1869), appartenenti a un genere già codificato all’estero (da Hoffmann, Poe, Nerval, Erckmann-Chatrian) ma che Tarchetti acclimata con originalità di accenti e allucinante tensione. Sensazioni, percezioni, intuizioni, mondi segreti e misteriosi, stati grotteschi e morbosi, angosce e incubi, in cui si agitano – letterariamente disposti – i moti di quell’«inconscio» che sta ormai per esplorare scientificamente Freud.

In questa direzione il titolo più accreditato è Fosca, il romanzo pubblicato a puntate sul «Pungolo» nel 1869, e rimasto incompiuto per la morte dell’autore ma completato da Salvatore Farina sulla scorta delle indicazioni e delle intenzioni dello stesso Tarchetti.

Fosca è una storia in parte autobiografica – Tarchetti aveva incontrato a Parma una donna assai simile alla protagonista del romanzo – in cui un giovane ufficiale, Giorgio, che è anche l’io narrante e memoriale del romanzo, vive un amore per due donne opposte: la bella e serena Clara (nome stemma) e l’orribile e malata Fosca (nome ancor più emblematico), «isterismo fatto donna». Ne scaturisce una passione morbosamente esasperata che – lasciato da Clara – spinge Giorgio nelle braccia di Fosca in una sorta di delirante simbiosi e di speculare trasfusione.

Per qualche critico preannuncio di un’apertura naturalistica, per altri, invece, romantica esasperazione aperta alla sensibilità decadentistica, questo romanzo fa di Tarchetti – nell’esemplare escursione della sua costitutiva, caratteriale, contraddittorietà – uno degli scrittori più notevoli e inventivi del nostro secondo ’800.

 

 

I replicanti di Luigi Pirandello

I REPLICANTI DI LUIGI PIRANDELLO


di Antonio Tedesco

Stefano Giogli si accorge un giorno che Lucietta, la donna che forse ha un po’ troppo frettolosamente sposato, non ama lui in realtà, ma l’idea di lui che ella si è minuziosamente costruita nella testa. Una sorta di clone mentale rivisto e corretto a proprio uso e consumo, e nel quale il povero Stefano, ridestatosi dall’iniziale ubriacatura dell’innamoramento repentino, non si riconosce. Eppure si rende conto suo malgrado di essere ormai prigioniero di quest’altro uomo a lui estraneo e che invece è per la moglie l’unico vero Stefano che esiste.
Stefano Giogli uno e due, si intitola questa breve novella di Pirandello (scritta nel 1909) nella quale, però, si concentra, in maniera magistrale, l’enunciato del teorema letterario e artistico che l’autore svilupperà nella sua opera sotto molteplici forme. A partire dal suo ultimo, e per certi versi definitivo, romanzo, Uno, nessuno e centomila, nel quale questo tema si espande dall’ambito strettamente familiare, fino all’intero consesso umano, paventando una frammentazione dell’io pari almeno alla quantità di rapporti che ognuno intrattiene nel corso della propria esistenza quotidiana.
La “crisi d'identità” di Vitangelo Moscarda (il protagonista, appunto, di Uno, nessuno e centomila) si scatena a partire da una lieve imperfezione al naso che la moglie gli indica e che lui non aveva mai notato. Una sciocchezza quasi impercettibile, ma sufficiente per rompere la fragile diga delle proprie personali certezze. Una sorta di deriva in cui il proprio io, spesso faticosamente (e artificiosamente) costruito, si disperde irrimediabilmente. 
Così Stefano Giogli, il protagonista dell'omonimo racconto, ci viene presentato nella prima parte della storia come uomo piuttosto schivo e solitario. Caratteristiche che lo spingono ad allontanarsi volontariamente dalla vita sociale. Da una società che lo percepisce, a sua volta, come ombroso e sfuggente, se non oscuramente misterioso. Stefano si dedica completamente a coltivare i suoi studi e i suoi interessi personali. Fino a che l'incontro con Lucietta non lo allontanerà definitivamente da questi suoi propositi. E soprattutto aprirà questo buco, questa voragine, in quella che credeva essere inopinabilmente la sua personalità.
Lucietta, in definitiva, crea un nuovo Stefano Giogli. Il suo Stefano Giogli, che prescinde totalmente da ciò che il diretto interessato pensa di se stesso e della propria vita. Generando una sorta di mondo contiguo, presente e tangibile, ma, per altri versi, alieno. Come certi dettagli dell'arredamento della casa in cui vivono, che lei ha scelto e voluto convinta di assecondare i suoi gusti e che invece lasciano il marito fortemente perplesso. Stefano resta del tutto disorientato da questa scoperta. Non potendo più riconoscersi nello sguardo della moglie è come se si sentisse precipitato d'improvviso in una realtà parallela che percepisce concretamente intorno a sé, ma che gli è estranea allo stesso tempo (arriva persino a provare gelosia per quest'altro Stefano a lui sconosciuto). Come se la propria identità si perdesse, e con essa il suo mondo e le sue certezze.
Ed è solo l'inizio, perché questi mondi, per il suo omologo (e diretta derivazione), Vitangelo Moscarda, si moltiplicheranno all'infinito, in un susseguirsi vertiginoso nel quale la disintegrazione dell'io diviene una sorta di “atomizzazione”, particelle impazzite che sfuggono in tutte le direzioni e che, a contatto con altre particelle-persone, generano mondi di volta in volta nuovi e diversi. Qualcosa di simile ai “ricordi di altre vite presenti”, per dirla con Philp K. Dick, scrittore che seppur - e forse solo in apparenza - con metodi e finalità diversi rispetto a quelli di Pirandello, si è molto posto il problema dell'identità e del livello di realtà in cui ogni uomo vive (o forse crede di vivere). 

“Che cos'è l'identità? Si chiese. Dove finisce la commedia?”.

A parlare è Bob Arctor, il protagonista di Un oscuro scrutare, romanzo che molti considerano il capolavoro di Philip K. Dick. Ma a pronunciare la battuta avrebbe potuto essere benissimo Stefano Giogli, Vitangelo Moscarda, o un altro qualunque dei personaggi di Pirandello.
L'identità e la sua inafferrabilità, il senso sfuggente di realtà che si moltiplica nell'infinità dei mondi in cui siamo proiettati. Di questo parlano i romanzi di Dick, e Un oscuro scrutare in particolare.
In un futuro imminente (quasi come una minaccia), ambientazione consueta per i romanzi dello scrittore americano, un agente della narcotici sotto copertura (Bob Arctor, appunto) finisce per dover spiare se stesso. La tuta “disindividuante” che gli hanno fornito per proteggerlo dalle numerose spie infiltrate nella stessa polizia, gli fa cambiare tratti somatici e voce ogni nanosecondo. Esponendo il suo aspetto visibile agli altri ad una vorticosa girandola di mutamenti che lo rendono in pratica impossibile da identificare. Solo nell'ambiente dei drogati, dove condivide la casa con alcuni tossicodipendenti formando uno strano e strampalato gruppo di amici, assume stabilmente le sembianze di Bob Arctor, sconosciute ai suoi stessi superiori che gli impongono, così, di spiarsi. Generando nell'uomo una sorta di scissione, uno sdoppiamento che lo porterà a vivere una crisi violenta, una messa in discussione radicale della propria identità. Un senso di smarrimento lo coglie fin quasi a stordirlo. E l'unico rifugio sicuro, per lui, a questo punto, rimane la follia.
E non è proprio la follia quella a cui tendono tanti personaggi di Pirandello come ultima speranza di libertà?
E questa scissione che avviene in Bob Arctor non è forse comparabile a quella dei “Sei personaggi” che irrompono in un teatro e chiedono agli attori (che, anche qui in una vorticosa girandola di senso, stanno provando una commedia dello stesso Pirandello, che non a caso si intitola Il gioco delle parti ) di ascoltare la loro storia e di interpretarla sulla scena? Qui la separazione tra l'uomo- personaggio e l'attore che deve farsi carico della sua vicenda, del suo “dramma”, non rimanda, forse, allo sdoppiamento di Bob Arctor quando – per conto della polizia - deve spiare se stesso? Vivere e guardarsi vivere questa e un'altra vita (numerose altre vite) allo stesso tempo? Ed è solo un caso che Dick abbia scelto per il protagonista della sua storia questo nome, Arctor, che contiene assonanze più che sospette con “actor”? E cosa fa un attore se non ripercorrere il processo con cui un essere umano cerca di dare “forma” alla sua vita e si costituisce in “persona” indossando, in senso reale e metaforico, una sorta di maschera che ne definisce un carattere? Qualcosa di stabile e di definitivo, si direbbe. Che però resta tale solo finché non viene a contatto con altri personaggi-maschera che interagendo con lui lo guarderanno da altre prospettive, da punti di vista diversi, modificandone di volta in volta, e in maniera irrimediabile, quelli che credeva essere i suoi peculiari caratteri. 
Nessuno di questi due scrittori ha mai creduto che la realtà fosse qualcosa di immutabile e oggettivo.
Nella sua narrativa Philip K. Dick ha dato varie forme a questa scissione, a questa   mutevolezza e inafferrabilità, del reale. In Do Androids Dream of Electric Sheep (In italiano Il cacciatori di androidi) concepisce, poi, un’idea quasi definitiva di simulacro (“I Simulacri” è anche il titolo di un altro dei suoi libri). Esseri umani artificiali uguali in tutto e per tutto all'originale ma con un tempo di vita predeterminato. Quelli che Blade Runner, celebre film che da questo romanzo ha tratto, nel 1982, Ridley Scott, renderà universalmente famosi come i “Replicanti”.  Chi sono questi ultimi se non i “simulacri”, appunto, di un'umanità che si illude di conoscere se stessa ma che annaspa, invece, cercando appigli in un'oscura penombra? Esseri smarriti in un mondo che, dopo averli creati, non li riconosce più e cerca in ogni modo di liberarsene. Non sono essi stessi “personaggi in cerca d'autore” che anelano solo ad uno spazio possibile dove poter raccontare la loro storia (“ne ho viste cose che voi umani...”). Così come a loro volta i “personaggi” di Pirandello dicono: “Il dramma è in noi, siamo noi, e siamo impazienti di rappresentarlo”.
Sia questi ultimi, dunque, che gli androidi-replicanti di Dick sono angosciati dall'eventualità che la loro esperienza, la loro storia, vada perduta per sempre. Che si dissolva “come lacrime nella pioggia”.
 

Stefano Giogli chi?

Ma lui stesso, Stefano Giogli, doveva riconoscere che quella di Lucietta era in fondo la più spontanea e naturale delle creazioni. Lasciata nella più ampia libertà di disporre a suo capriccio  di tutti questi elementi, ella ne aveva cavato fuori un marito come le piaceva, si era creata quello Stefano Giogli che più le conveniva; gli aveva dato a suo talento gusti e pensieri e desideri e abitudini. C'era poco da dire! Era quello il suo Stefano Giogli. Se l'era fabbricato lei con le sue mani, e guai a toccarglielo.

Stefano Giogli viene sottoposto a un vero e proprio processo di spersonalizzazione da parte di sua moglie Lucietta. Questa lo “svuota” dei suoi contenuti originari e, in un certo senso, ne ridisegna i contorni secondo un proprio personale criterio. Il tutto, e questo rende la cosa ancora più angosciante, in perfetta buona fede, o peggio, addirittura come atto di amore e di devozione nei confronti del marito. Fa di lui, in pratica, “una rappresentazione esteriore non rispondente alla realtà”, che è, appunto, una delle definizioni che la Treccani dà di “simulacro”.
Un simulacro al posto della persona vera (ammesso che questa esista in assoluto) sul quale riversare il proprio amore (per rispecchiarsi e compiacersi?).

Era una personalità nuova tratta da sua moglie dal disgregamento del suo essere; un personaggio che viveva ed operava affatto indipendente da lui,con una sua propria intelligenza e una coscienza sua propria.

Non è forse un replicante antelitteram quello che, secondo la precisa descrizione di Pirandello, si costruisce Lucietta a partire dalla materia informe che Stefano Giogli credeva essere la propria identità?

La “fantascienza”, per lo scrittore siciliano, è tutta dentro la natura umana.  Ma chi dice che anche per Philiph Dick non fosse così? Sono solo due prospettive, due modi diversi di affrontare lo stesso problema. L’identità come illusione e come paradosso. L’inconsistenza di ciò che crediamo, ci sforziamo di credere, che ci definisca e ci distingua.

Un’interessante variazione su questo tema è quella formulata da Richard Linklater che ha portato sullo schermo Un oscuro scrutare. Per la trasposizione in film del romanzo di Dick, il regista americano ha utilizzato un particolare procedimento di ripresa detto “rotoscoping”. Una sorta di processo di “cartonizzazione” degli attori che si ottiene attraverso una tecnica di animazione che– semplificando la complessa procedura – consiste essenzialmente nel ridisegnare sul fotogramma le immagini riprese dal vivo. Così le fisionomie di attori molto noti (da Keanu Reeves – che è Bob Arctor, il protagonista – a Winona Rider), vengono riconosciute dallo spettatore, ma percepite come segni grafici definiti dalle linee nere che ne contornano le sagome, e quindi allo stesso tempo celati, se non annullati, come persone reali dall'azione del disegno. Il risultato è l'ottenimento di un effetto iperrealista, ma allo stesso tempo fortemente straniante in quanto ciò che resta dell'interprete originale è solo una traccia fisiognomica, un involucro, un contorno puramente visivo.
Solo immagine svuotata della sua sostanza.

Uno svuotamento che i “Sei personaggi”, avvertono nell’incapacità degli attori di sentire realmente il loro dramma. Ma ribellandosi ai simulacri di se stessi si condannano a rimanere per sempre vacui fantasmi, entità astratte che aleggiano informi e indefinite sullo sfondo della scena.
E non va certo meglio a Stefano Giogli che del suo simulacro è rimasto, invece, prigioniero.

Nel finale del racconto c’è un affettuoso battibecco con sua moglie Lucietta, che dietro insistenza del marito gli confessa i piccoli grandi sacrifici che è disposta a fare per lui. Per esempio modificare la sua pettinatura. Stefano, dal canto suo, non sapeva spiegarsi perché avesse cambiato modo di pettinarsi dal giorno delle nozze. Preferiva di gran lunga l'acconciatura che usava farsi in precedenza, quando l'aveva conosciuta.
Ma non c'era verso.
Lucietta è irremovibile perché sa cos'è che piace al “suo” Stefano.
Sarcastica e inquietante, a questo punto, la chiusura del dialogo e del racconto:

E gli carezzò tre volte la guancia. La carezzò a quell'altro, beninteso, non a lui.

 

Cogito ergo sum: Giovanni Papini

Cogito ergo (infeliciter) sum: Giovanni Papini,
Non voglio più essere quello che sono

di Alessandro Abbate

 

"Io, come artista, come scrittore" sosteneva di sé Giovanni Papini (1881-1956), "ho creato un genere, nuovo in Italia, di storie assurde, inverosimili, irreali".

Pur non volendo entrare nel merito di questa affermazione di paternità (che renderebbe necessario, se non altro, ragionare sull'esperienza della Scapigliatura milanese e i ripetuti cedimenti dei più formidabili campioni del Verismo alle tentazioni del misterioso e soprannaturale), è indubbio che il riconoscimento di uno status almeno in parte privilegiato nello scenario del filone fantastico nazionale derivi dal fatto che egli è l'unico autore italiano inserito nel 1940 dal triumvirato argentino Borges, Ocampo, Bioy Casares nella loro celebre "Antologia della letteratura fantastica" (restando tale anche nella successiva e accresciuta riedizione dell'opera, datata 1965, ovvero quando i nomi di Landolfi, Buzzati e Calvino avrebbero potuto ragionevolmente consentire una maggiore rappresentanza tricolore all'interno della raccolta). Del resto, lo scrittore fiorentino è anche il solo Italiano cui Borges abbia dedicato uno dei trentatré volumi monografici della sua, per altro quanto mai universale, "Biblioteca di Babele", prelibata collana di letture fantastiche realizzata per l'editore Franco Maria Ricci alla fine degli anni '70.

 

La forma breve appartiene alla produzione giovanile di Papini; si condensa in poco più di un decennio (1906-1914), e in quattro raccolte. Nelle prime due, "Il tragico quotidiano" (1906) e "Il pilota cieco" (1907), lo scrittore appare soprattutto ossessionato dal problema dell'identità, che variamente declina, sempre in chiave surrealista e paradossale, e con un forte carico di angoscia esistenziale, secondo i diversi spunti di meditazione offerti dal medesimo sentimento di insanabile dualismo: oltre alla riproposizione del classico Doppelgänger (Due immagini in una vasca), l'antitesi ontologica che genera sconcerto è quella tra finzione e realtà (Storia completamente assurda), sogno e veglia (L'ultima visita del Gentiluomo Malato), vita e morte (Il suicida sostituto), individuo e società (Chi sei?).

Si nota, inoltre, la ricerca espressiva di un canone inverso che si sostanzia spesso in un anti-racconto, attraverso l'estrema riduzione della materia narrativa e la scarnificazione di personaggi e situazioni a tutto vantaggio di un'atmosfera, una voce quasi disincarnata, un dubbio, un delirio mentale. D'altra parte, parole e pensieri orbitano in un sistema gravitazionale che attrae ogni singolo elemento (anche in presenza del gusto per l'invenzione stravagante e dell'istrionismo linguistico) verso un sofferto nodo di malinconia mai completamente espresso, nel cui profondo sembra nascondersi l'origine di ogni paradossale esagerazione.

Ritengo Non voglio più essere quello che sono, (da "Il tragico quotidiano"; apparso inizialmente su "Leonardo" nell'aprile 1905) esemplare di questa scrittura imbevuta di sperimentazione stilistica, cimento filosofico e umana trepidazione. L'intreccio è quasi del tutto assente, sostituito dall'esposizione di uno stato emotivo; la costruzione narrativa è quella senza tempo né verso di un'ossessione passata al setaccio di un ragionamento azzoppato dalla disperazione; se c'è una storia, essa va cercata nei fatti che precedono (e seguono) il transitorio momento della scrittura.

"Soltanto dieci ore fa mi sono accorto della mia orribile condizione" esordisce Papini, stabilendo una coincidenza fra esperienza e scrittura che potrebbe suggerire una natura diaristica del testo. Eppure, c'è davvero poca introspezione nella sua voce: la confessione non è intima, ma di tipo spettacolare; lo sconcerto quasi si stempera nel compiacimento del caso straordinario da mettere in mostra.

Sin dal principio, l'autore appare mosso dal proposito di coinvolgere i lettori su un piano di soggezione: non soltanto interpellandoli direttamente con un dubbioso "capite?" che già allude alla qualità eccessiva, inusitata, probabilmente inafferrabile ai più, della sua inquietudine; soprattutto, cercando di suscitare la loro meraviglia prima ancora di rivelare l'oggetto del racconto, attraverso un preambolo che utilizza una strategia sensazionalistica in cui modi verbali, aggettivi e avverbi contribuiscono alla creazione di un'alephiana iperbole di quella "terribilità" in cui il narratore afferma di essere "laureato", avendo egli "provato, pensato, immaginato, sognato tutto quel che c'è, che sarà, che ci potrebbe essere di più pauroso, di più tormentoso, di più raccapricciante, di più mostruosamente e forsennatamente angoscioso".

 

Ciò su cui Papini teme di non essersi spiegato bene abbastanza è il fatto, l'improvvisa e scioccante scoperta, che egli non potrà mai cessare di essere se stesso. Tale rivelazione, in bilico fra banalità e audacia speculativa, assume ai suoi occhi i contorni di un disastro irreparabile e dalla gravità inaudita. Mescolando sconforto e irritazione, egli si sofferma per dare qualche esempio dei finti e superficiali rinnovamenti oltre i quali non è possibile mutare ciò che si è. Accade allora che l'irrequietezza ontologica dello scrivente si traduca in ridondanza espressiva dello scritto: Papini vorrebbe cambiare, ma "completamente, interamente, radicalmente"; non si contenta delle consuete e ridicole trasformazioni di cui ognuno è più o meno capace:  "si tratta di spolveratine, di sgomberi, d'imbiancature"; adottando la metafora del libro, osserva come, pur cambiandone le apparenze materiali (copertina, caratteri di stampa, frontespizio), si resta sempre "inesorabilmente, implacabilmente" con "la stessa vecchia, uggiosa, lamentevole storia"; insiste nel ribadire che, dopo ventiquattro anni di vita, la sua non è soltanto noia: "dite pure che io sono disgustato, ributtato, nauseatodi questo me stesso".

Si assiste dunque a una moltiplicazione lessicale che sembra il sintomo di una volontà (o meglio, anelito) di indeterminatezza; la stessa singola parola non esaurisce in sé il proprio valore semantico, ed è avvertita come irrimediabilmente insufficiente. La significazione si disintegra nella sequenza di doppi o tripli lessicali (per lo più sinonimici) che ribadiscono sul piano verbale tanto la crisi quanto il rifiuto dell'identità costituita. 
 

L'angoscia esistenziale di questo (anti)racconto germina dal rigetto della consolazione cartesiana: la "salda e certa verità" di questo indubitabile "io" (come definita dal freddoloso istitutore della reginaCristina di Svezia) non è di giovamento alcuno. Al contrario: Papini non vuole erigere una fortezza metafisica partendo da questo inamovibile primo mattone, bensì distruggere l'intero edificio del proprio essere. Adoperando il cogito, egli maledice il sum, in quanto prigione, condanna, "corpo dal quale non può sloggiare", "anima che non può gettare in qualche mare".

Non sorprende questo rovesciamento di prospettiva: è ben noto il suo atteggiamento provocatorio e dissacrante (ma pure frutto di una robusta conoscenza della materia) nei confronti di ogni sistema filosofico (con la sola eccezione, forse, del Pragmatismo americano). Si ricordi che l'esordio letterario di Papini fu quel "Crepuscolo dei filosofi" inteso come "massacro, pieno di volontà di uccidere, di annientare, di sbranare" che, pur concentrandosi sui principali pensatori del XIX secolo, finisce con l'assumere il significato di una liquidazione del pensiero filosofico tout court.

 

Non voglio più essere quello che sono esprime un'aspirazione poetica più che un ragionamento filosofico. Difatti, mi pare che il dilemma metafisico venga esposto con meno lucidità argomentativa di quanto non fiocchino invece i toni di affranta e faustiana liricità: "Chi mi insegnerà, dunque, tra questi uomini amanti di focolari e di fiori secchi, a liberarmi dal mio corpo e dalla mia anima? Chi potrà far sì ch'io non sia più io, e che mi tramuti in un altro, sì da non ricordarmi neppure di quello che son ora? Chi potrà, uomo o demonio, darmi quello ch'io chiedo con tutta la disperazione della mia anima furiosa contro se stessa?".

Il riferimento alla poesia m'è parso inevitabile, soprattutto dopo aver chiamato in causa l'autore del "Discorso sul metodo". In Cartesio il poeta, saggio pubblicato nel 1937 su "Nouvelles Littéraires" (riapparso poi il 28 febbraio 1950 su "Il messaggero" e infine incluso nel volume "La loggia dei busti", 1955), Papini scriveva del filosofo e matematico francese: "Credette di trovare incontestabile assioma che gli permettesse di ricostruire la scienza sul vero nel famoso cogito ergo sum. Formula, se ben si guarda, tutt'altro che razionale, perché non è concepibile dire 'io penso' se prima non si ha un'idea dell'essere in generale, la certezza dell'autonomia dell'io".  La causa di questa carenza speculativa, secondo Papini, è da cercarsi nel fatto che Cartesio preferiva di gran lunga "il fuoco della poesia al ghiaccio della ragione"; non a caso, egli rammenta, il cogito ergo sum è formula non del tutto originale, bensì ricavata da Agostino d'Ippona, "il quale non era solamente un santo e un teologo, ma aveva caldissima anima di poeta".

 

Fin quasi a conclusione del testo, non si rende esplicito il motivo di questa smania, di questa frustrata disaffezione verso se stesso. Che però non ha nulla del desiderio di morte. Papini rifiuta il suggerimento di un "demonio" che vorrebbe istigarlo a uccidersi (come Cartesio sottrae l'indubitabile "io" all'inganno sistematico del "genio maligno"). Il suicidio non è una soluzione; l'annichilimento sarebbe una negazione dell'essere, non una sua rigenerazione. E invece Gianfalco (che appena l'anno prima aveva conosciuto Bergson al Congresso Internazionale di Filosofia di Ginevra) non è ancora "un uomo finito", ed esprime a chiare lettere l'élan vital che lo agita, la sua "prepotente voglia di essere in altro modo, di essere un altro".

 

L'intima sorgente di questa sua ossessione emerge quindi in dirittura d'arrivo, e ha il sapore di una masochistica agnizione: "Ho una disperata volontà di non essere quello che sono, perché io son tale che voglio ciò che non potrò mai avere. Io voglio non essere me, perché so che non potrò mai non essere me". In chiave cartesiana, l'incessante sforzo intellettivo, la lunga elucubrazione che costituisce il racconto, è al tempo stesso strumento e causa di fallimento del suo sforzo di sfuggire a se stesso. Insistendo nel pensare, nel ragionare, egli rimane stretto nelle spire di questo serpente che si mangia la coda, che non è altro che il suo "io" pensante. "Io sono, io esisto; è certo" dice di sé Cartesio nella seconda delle sue Meditazioni sulla filosofia prima. "Ma per quanto tempo? Certamente per tutto il tempo che penso". Papini è una "cosa pensante": fin tanto che pensa di non essere più Papini, resta Papini.

 

Tuttavia, è nel pensiero stesso che l'autore cerca infine di darsi una speranza. Gli viene nottetempo suggerita da un metafisico interlocutore, uno dei suoi "demoni familiari", specchio fuggente e stendhaliano, il quale, osservandolo nella tormentata gestazione del racconto e leggendo ciò che sta scrivendo, gli fa notare come egli assomigli a quel medico che cercava la mula mentre la cavalcava: "Voi siete un poco come lui, stasera. Cercate di essere un altro. Ma chi ha un desiderio che nessuno ebbe, è già, dinanzi a tutti gli uomini, sulla via per non essere ciò che è. E voi siete in questo caso, ottimo e frettoloso amico".

Anziché all'assillo metamorfico dello scrittore, la fretta sembra piuttosto appartenere a questa considerazione conclusiva del racconto. Credo che Borges ne sia stato un commentatore di mirabile acutezza e profonda sensibilità umana (seppure estremamente sintetico) nell'invalidarne quel non poco compiaciuto e a tratti presuntuoso sentimento di dramma esclusivo (ovunque percepibile fra le pagine; anche soltanto nello scroscio di un pronome indefinito che nella negazione si arroga il privilegio dell'unicità: "nessuno può sapere ciò che io dico e ciò che voglio. Nessuno saprà mai quello ch'è in me, in questi paurosi momenti. Nessuno, proprio nessuno"); e perciò affermando, nell'introduzione al volume papiniano de "La Biblioteca di Babele", che "Non voglio più essere quello che sono" rappresenta, al contrario, "l'espressione perfetta di un anelito che tutti gli uomini hanno sentito".

 

La guerra perpetua di Moravia

Dove nessun uomo è mai giunto prima:
Alberto Moravia, La guerra perpetua

di Alessandro Abbate

 

A differenza da quanto accade in Mamamel e Vusitel, racconto affine e coevo, nel quale due popoli si combattono in conseguenza di inconciliabili (ma parimenti balorde) concezioni del tempo (assodato che il presente non conta nulla, bisogna vivere in funzione del passato o del futuro?), le due nazioni che si dividono la grande isola visitata dal narratore de La guerra perpetua (dalla raccolta "L'epidemia", 1944; successivamente confluito in "Racconti surrealisti e satirici", Bompiani, 1956) hanno da secoli ingaggiato un conflitto di cui non si rivela il motivo. É lecito immaginare che nemmeno le parti avverse ne siano ormai a conoscenza, dopo così tanto tempo. Non è questo, però, l'aspetto più inquietante della vicenda. Lo scontro armato, infatti, è platealmente assurdo non tanto per l'apparente mancanza di una ragione fondante (se mai una qualsiasi guerra possa essere ragionevole), quanto per l'aberrante normalizzazione dello stato di durevole belligeranza: "La pace scomparve e fu guerra per sempre. Ma non una guerra intesa come fatto deprecabile e contrario alla natura umana, bensì come stato normale e, se è permesso il bisticcio, pacifico dell'umanità. Gli uomini delle due nazioni, a quanto sembra, considerarono un bel giorno la guerra come un modo di vita affatto naturale e perciò stesso automatico."

Moravia scrive nei primi anni '40: gli infausti riverberi del secondo conflitto mondiale sono dunque fin troppo udibili nella sua voce. Sulla barbarie storica, vera, contemporanea, richiamato da un'esigenza di dissimulazione dettata dai ripetuti problemi di censura causati dal suo appurato antifascismo, lo scrittore opera una traslazione swiftiana della materia crudele e dolorosa di cui tratta il racconto, presentandola, dunque, e alleggerendola, secondo il topos dell'esplorazione fantastica di territori incogniti, e corredata del giusto connubio di umorismo e assunto moralistico. Critica ciò che è sotto gli occhi di ognuno, purché disposto a vedere; sconfina nel paradosso per una più efficace messa a fuoco.

La prima parte del testo si presenta come una lucida e precisa esposizione di ciò che il viaggio ha reso noto al narratore/visitatore. Non v'è segno di sconcerto alcuno nel resoconto; al contrario, il tono, scorrevolissimo, è quello di una provocatoria celebrazione e invito all'emulazione del "grado elevatissimo di civiltà" condiviso dalle nazioni belligeranti. Naturalmente, in questa fase il racconto spiega in cosa consista tale ammirevole superiorità, chiarendo perciò come sia stato possibile togliere finalmente alla guerra "il suo carattere furioso, irrazionale, disordinato". É una mera questione di pianificazione, di organizzazione, di controllo assoluto. L'invenzione surrealistica evoca in modo palpabile il mostro totalitario che pervade in Europa; una logica follia aritmetica, necessariamente disumanizzante, sembra capace di ammutolire qualsiasi obiezione: "Il problema dunque della guerra perpetua non è altro che il problema della produzione perpetua. Una produzione che si mantenga sempre allo stesso livello della distruzione. Una produzione non soltanto di armi, non soltanto di beni ma anche di uomini." Il Leviatano si fa artefice di un'abietta armonia finalizzata alla morte sistematica; spaventosa, ma pure di inoppugnabile efficienza: "Che avverrà allora? Che, invece di lottare per sopraffarsi, i due avversari si metteranno d'accordo per regolare produzione e distruzione l'una in funzione dell'altra, alimentando la guerra in modo uniforme e costante."

Nel grottesco fervore utopistico che lo caratterizza (specchio del desolato progetto satirico moraviano), il narratore anticipa le obiezioni che verosimilmente saranno portate all'attendibilità del suo racconto (troppo bello per essere vero). Presagisce che gli diranno: "I vostri racconti hanno tutta l'aria di essere inventati. Sono piuttosto brillanti e logici paradossi che calde descrizioni di cose realmente vedute. Il loro rigore vi tradisce. Purtroppo noi sappiamo che una cosa sono gli ideali e un'altra la realtà. Voi ci avete descritto un mondo come vorreste e noi tutti vorremmo che fosse." Offre quindi in lettura (ed è questa la seconda parte del testo) la trascrizione di un dialogo avvenuto fra il ministro della guerra e quello della produzione di una delle due nazioni contendenti, al fine di avvalorare viva voce quanto finora sostenuto.

Questa conversazione è uno spettacolo di proterva e ragionevolissima ottusità. L'impianto umoristico scricchiola sotto il peso, insostenibile a tratti, di un assioma perverso che, se da un lato coincide con quella peculiare "necessità dell'assurdo" cui si riferisce Piero Cudini nell'introduzione al volume (la stessa che, per fare un paio di esempi fra i tanti disponibili nella raccolta, giustifica che il giorno di Natale il tacchino sieda a tavola piuttosto che rosolare in padella, spostando l'attenzione su questioni matrimoniali; o che una signora della piccola borghesia consideri del tutto normale il disagio di portarsi un coccodrillo vivo sulle spalle per assecondare le proprie ambizioni sociali), dall'altro spalanca l'orizzonte narrativo a una mostruosità in cui convergono burocratizzazione dell'esistenza e aberrazione psicologica, le quali si alimentano a vicenda, nel tragico circolo vizioso individuo/società tipico dei regimi totalitari.

Non mancano le affinità con distopie di tipo orwelliano (ma forse ancora più contigue al Mondo nuovo di Huxley), come nel caso della regolamentazione dell'eros ("Da secoli sono stati aboliti matrimonio e famiglia e stabiliti accoppiamenti a data fissa per tutte le donne e tutti gli uomini senza eccezione. Da secoli le nostre donne non smettono di procreare figli per la guerra, a partire dai primi anni della pubertà fino alla vecchiaia"), o nell'esplicito consenso alla mercificazione dell'umano ("Voi dimenticate sempre che la guerra è distruzione e quindi produzione prima di tutto di uomini").

Pur anche in chiave paradossale, funziona così bene la postulazione della giustezza di una guerra perpetua che quasi non stupisce il fatto che il viaggiatore di Moravia ne sia talmente affascinato da farsene ambasciatore. L'annichilimento del senso critico (o, se si vuole, di un buon senso che preservi la distinzione fra umanitarismo e utilitarismo) non è tuttavia l'unica possibile risposta alla già menzionata "necessarietà dell'assurdo"; come rivela il comportamento del capitano James Kirk, comandante dell'astronave Enterprise, una volta approdato su Eminiar VII per stabilire relazioni diplomatiche. Su questo pianeta, gli spiega il governatore Anan, è in corso, da secoli, uno scontro col vicino mondo di Vendikar. 
 

Così come il racconto pubblicato nel 1944 è imprescindibile dalla catastrofe bellica derivata dalla brutalità nazifascista, i cinque secoli di battaglia fra Eminiar VII e Vendikar riecheggiano l'infausto slogan Vietcong «Combatteremo per 1000 anni!»: l'episodio della serie televisiva "Star Trek" (intitolato A Taste of Armageddon; in Italiano: Una guerra incredibile) fu scritto da Robert Hammer e Gene L. Coon sul finire del 1966, quando il pieno coinvolgimento (e progressivo, sanguinoso impaludamento) delle forze armate statunitensi in Vietnam s'era ormai compiuto.
L'automazione della guerra come fatto naturale, tratto psicologico, valore culturale e politico in Moravia, diventa automazione tecnologica in 'Star Trek'.
 

Se nel racconto le atrocità perpetrate (e subite) sussistono ancora come vero "termometro della guerra", sebbene all'interno di una gestione "esemplare" nella sua equilibrata calibratura, nel telefilm, il dispositivo tecnico (la cabina di disintegrazione volontaria) amplifica la normalizzazione ontologica del massacro attraverso una pratica di asettica autodistruzione individuale.

In un'ottica di sterminio di massa pianificato ed edulcorato da uno spregevole fine totalizzante, che vorrebbe spacciarsi per "piano altissimo di civiltà [...] in cui gli uomini non agiscono più secondo l'impulso delle passioni bensì secondo i dettami di un'alta e ferma ragione che si esprime in piani chiarissimi e ben meditati", anche il sacrificio del singolo non appare più generoso né encomiabile, giacché fondato su una logica totalmente perversa e responsabile di perpetuare la carneficina di cui si pasce l'uroboro sociale. 

Queste parole della giovane Mea, figlia di Anan, sottintendono lo stesso senso di scellerata immolazione cui accenna il ministro della produzione, quando, novello Licurgo, afferma con macabra soddisfazione che "l'abitudine a far figli che sono destinati a perire in guerra è diventata nelle nostre donne una specie di seconda natura. Si potrebbe dire che, come mettono al mondo un figlio, già lo vedono cadavere in qualche campo di battaglia."

Sia in "Star Trek" che in Moravia, il fattore determinante è l'equilibrio costante e invariato fra produzione e distruzione durante il conflitto, che ne permette l'infinito prorogarsi (in accordo con l'inconcepibile traguardo di non avere "né vincitori né vinti"). In A Taste of Armageddon la distruzione è del tutto eliminata, se non quella umana; le civiltà di Eminiar VII e Vendikar progrediscono materialmente sui cadaveri della propria gente. Ne La guerra perpetua tale equilibrio è raggiunto a costo di grandi sforzi nazionali, che diventano il folle motore della vita collettiva. In entrambi i casi, tuttavia, essenziale è il rispetto delle quote, vale a dire, la riduzione del significato della vita a mero fattore di bilancia commerciale. "I nostri avversari sono leali e puntualissimi, noi dobbiamo imitarli", esorta il ministro della guerra in Moravia; in maniera analoga, il governatore Anan è soprattutto angosciato dal pericolo di violare un accordo che non sembra andare al di là della logica dell'import/export.

Il racconto di Moravia si conclude con la morte dei due ministri: la trascrizione del loro dialogo termina bruscamente, a causa di un bombardamento (ovviamente "programmato" anch'esso, e di cui erano perciò a conoscenza) che li seppellisce entrambi. L'eroismo del singolo non ha diritto di cittadinanza negli spersonalizzanti ingranaggi dello stato totalitario: "possiamo assicurare", spiega il narratore, "che nessuno in quella nazione si sognò di trovare nulla di ammirevole o comunque di straordinario nella morte dei due ministri. Ciò rientrava, ci dissero, nel quadro della produzione. E poi, morto un ministro, era oltremodo facile farne un altro." Non si intravede speranza di ravvedimento, dunque: il testo si accommiata restando saldamente all'interno del lugubre paradosso, augurandosi ancora una volta che il modello della guerra perpetua si diffonda al di là del mare, oltre i confini dell'isola. L'episodio di "Star Trek", al contrario, suggerisce una possibilità di superamento della fllia collettiva, semplicemente restituendo alla guerra le sue vere, orribili, sembianze. Prende atto lo smascheramento dell'assrdo, che si rivela tutt'altro che "necessario".

Il Capitano Kirk distrugge, concretamente, i computer con cui Eminiar VII e Vendikar si combattono da cinque secoli. 

Dopo cinque secoli, quindi, riappare la possibilità di scelta (imprescindibile spartiacque fra l'individuo pensante e la carne da macello).

 

Mi sembra che l'episodio di "Star Trek" si possa leggere come un "salto di qualità" nel criminale azzardo di pianificazione e funzionale neutralizzazione della catastrofe bellica raccontato da Moravia,  e che permette il proseguimento infinito della strage. In data astrale 3192.1, lo scioccante sogno di superlativa efficienza distruttiva e disumanizzante è reso concreto dalla realizzazione di un incubo tecnologico (è verosimile che i due ministri, se potessero, utilizzerebbero le macchine di Anan).

Il confronto fra i due testi - all'interno del quale ci si può muovere comodamente in virtù della libertà dell'accostamento assolutamente gratuito ma non irragionevole - è stata una tentazione di semiotica arrischiata cui non ho saputo resistere. Lo difendo, se necessario, con l'evidenza, particolarmente fertile in sede di analisi, di come la circolazione, riproposizione, variazione di un'idea o di un tema offra l'occasione, pur nella palese accidentalità delle coincidenze, per un'accresciuta riflessione sui modi estetici, le formule narrative, il significato storico di un testo. É una non-causa che produce effetti fruitivi tutt'altro che irrilevanti. Mi sembra, inoltre, che questa liquidità intertestuale (che mi piace credere parimenti "perpetua") sia a tutto vantaggio del lettore, e della sua curiosità.

Per chi vuole, suggerisco di proseguire nel gioco confrontando il sanguinoso e infernale climax di Carrie, lo sguardo di Satana (film diretto da Brian De Palma nel 1976) con l'ultima pagina dellaCenerentola di Dino Buzzati (dalla raccolta "Le notti difficili", 1971; e con buona pace di Stephen King).

Lavinia fuggita di Anna Banti

  

 

 

Questo articolo è comparso nella rubrica Il Racconto dei racconti, in collaborazione con Minima&Moralia
 

Anna Banti
Lavinia Fuggita

di Rossella Milone

 

Ho letto questo racconto di Anna Banti, per la prima volta, moltissimi anni fa. Si chiama Lavinia fuggita, ed era inserito nella raccolta di racconti Le donne muoiono pubblicata nel 1951 da Mondadori (riedito da Giunti nel 1998), che le valse il Premio Viareggio nel 1952.

Secondo Emilio Cecchi, questo è il componimento in cui si ha «la piena, splendida misura del talento della Banti»; mentre per Cesare Garboli era addirittura il racconto più bello di tutto il Novecento. Comunque, per quanto possano tornare utili le affermazioni assolutistiche e definitive dei critici letterari, in effetti questo tra i racconti – ma direi tra l’intera opera della Banti – è il più significativo, complesso, riuscito della produzione della scrittrice fiorentina, tanto è vero che è anche il più noto. In una parola, questo racconto è semplicemente bello.

Poiché ho letto e leggo moltissimi racconti, e di racconti semplicemente belli per fortuna ne esistono moltissimi, mi sono chiesta da dove derivasse questa bellezza propriamente bantiana; cosa generasse in me lettore una specie di incantamento; come mai mi regalasse una piena sensazione di appagamento come solo una sorsata d’acqua dopo una corsa può fare.

Allora ho cominciato a compiere un percorso a ritroso nel mio rapporto con questo racconto – con Lavinia – e nella mia memoria mi è apparsa chiara subito una cosa: che questo era un testo diverso ogni volta che tornavo a rileggerlo. Che Lavinia, e tutta la vicenda in cui si trova coinvolta, mi raccontavano sempre una storia differente e ogni volta sempre più articolata, pur rimanendo la stessa storia sempre, fissata sin da quando la Banti ha messo mano alla penna.

La storia racconta di Lavinia che, come molte altre orfane, agli inizi del Settecento, viene raccolta dall’Istituto della Pietà di Venezia, in cui le giovani imparano a suonare e a cantare. Lavinia, infatti, è maestra di coro ma a differenza delle sue amiche Orsola e Zanetta, è scossa da un’irresistibile istinto per la composizione, spinta da una scellerata, invincibile, quasi dolorosa forza creatrice che la porta a sostituire le partiture che le danno da copiare con le sue invenzioni musicali. Una di queste è L’Ester, che sostituirà proprio una delle esecuzioni del maestro Don Antonio Vivaldi, precettore presso l’Istituto. Scoperto il fatto e il quaderno che contiene tutte le composizioni della ragazza – forse proprio perché Lavinia lo confessa al Don, istigata dalla sua amica Orsola – viene pesantemente punita e umiliata durante un giorno in cui sono in gita alle Zattere.

Quel giorno, Lavinia scompare e di lei nessuno saprà più nulla. La vita all’Istituto continua, ma per molte le cose sono cambiate. Orsola smetterà di suonare l’oboe e si cercherà un buon partito da sposare. Il giorno del suo matrimonio le compagne della Pietà la festeggeranno con allegri schiamazzi, mentre lei , quasi sposa, salirà sulla gondola guidata da Iseppo Pomo – futuro marito, invece, di Zanetta. Quel giorno sarà Zanetta a gettare per aria i fogli del quadernino di Lavinia, e sarà proprio Iseppo a raccoglierli e salvarli. In seguito, Orsola e Zanetta si trasferiranno a Chioggia; si ritroveranno tutti i pomeriggi a casa di Orsola a cucire e a ricordare ciò che è davvero accaduto, ciò che non hanno mai davvero compreso, fino a quando Orsola non morirà.

***

Ecco, diciamo che questo è più o meno ciò che succede nel racconto. Però non è il racconto che leggerete. Nel senso che il racconto non comincia con Lavinia. Né con Orsola, né con Zanetta. Lavinia compare all’ottava pagina; mentre il fatto cruciale, la fuga – ciò che potremmo chiamare l’evento scatenante della storia – avviene a metà racconto. A dare inizio alla storia è Iseppo Pomo, proprio nel momento in cui si trova a salvare i fogli della giovane compositrice, di cui lui – tantomeno noi poveri lettori – non sa ancora nulla. Noi, al momento, crediamo che siano solo fogli. Mentre a Iseppo, nella nebbia, gli fanno un effetto strano: Curioso e sveglio, il ragazzo si volta in su e davvero come di uccelli smarriti remiga per la nebbia rarefatta un volo di fogli che l’aria conduce lentamente.

Iseppo è un personaggio che rimarrà lì, nelle prime pagine, come un amo che abbia tirato su un grosso pesce luccicante, e che ritornerà soltanto a tratti, senza che nessuno gli dia troppa importanza fino a quando non si capirà, alla fine, il disegno intricato che ha composto la Banti. Saranno dedicate a lui, infatti, le ultime parole della vicenda: [Orsola] voleva chiederle un regalo, quel loro feticcio, il quaderno strapazzato che affronta il tempo nella casa di Iseppo fornaio. 
nel perfetto incastro di questo racconto geometrico, che si chiuderà sfericamente sull’unica persona che ha salvato il quaderno di Lavinia fuggita. L’unica che, in realtà, non ne sa davvero niente.

L’inizio e la fine. È da qui che bisogna partire per capire cosa ci sta in mezzo. Perché la fabula che compone il racconto, così lineare, con gli eventi disposti in ordine cronologico come ve li ho raccontati io, non è il racconto della Banti. Il racconto della Banti più che della storia in sé, vive del suo intreccio. Il racconto della Banti è una perfetta, raffinatissima, quasi miracolosa coesione di forma e di contenuto.

Un contenuto aulico, aderente allo sguardo coinvolto dell’autrice sulla condizione del genere femminile quando si fa artista; sulla voluttà e la potenza di una forza creatrice che impone a chiunque – maschi e femmine – di rompere le regole, di forzare l’ordine delle cose, di superare il limite. E una forma – quella che per Kundera, nella narrativa, è libertà illimitata – a matrioska, in cui ogni evento viene preceduto o anticipato da un altro, che le serve per esaltare, come un pezzetto di vetro nella sabbia, ciò che Lavinia fa, ciò che Lavinia è.
 

La Banti costruisce questo intreccio per piccoli blocchi narrativi, ognuno dei quali sfocia nell’altro in un silenziosissimo, quasi impercettibile sconfinamento.

Parte, appunto, con Iseppo Pomo che conduce la sua gondola per recuperare la sposa. Presso la banchina la Banti sposta il punto di vista dall’uomo a un’onniscienza più allargata e ci dirotta negli occhi di Zanetta, che vede per la prima volta il ragazzo, ma lui non vede lei. Solo qualche paragrafo più avanti, mentre già voleranno per aria i fogli del quadernetto, Iseppo resterà stregato dal sorriso di Zanetta, che dalla grata della finestra della Pietà ha già visto il suo futuro sposo raccogliere alcuni di quei fogli preziosi. Ma questo – ci dice un’onniscienza ancora più allargata – se lo racconteranno solo più avanti; e la Banti compie il primo flashforward che serve a farci comprendere, nello spazio di pochissime righe, solo due cose: come andrà a finire la storia tra Zanetta e Iseppo e, cosa più importante, che questa è una storia secondaria, di contorno alla principale, che per ora rimane segreta. Insinuazione e indicazione che obbliga il lettore ad essere un partecipante attivo alla lettura, un salto in avanti (il lettore lo intuisce, lo sa) che comporterà un salto all’indietro rispetto al quale deve prepararsi, sentirsi assolutamente pronto.

Questo blocco si chiude (e quando dico si chiude intendo sempre con le parole, perché in tutto il racconto la Banti non inserisce alcuno spazio bianco) con Orsola che sale sulla gondola e in un approfondito flashback in cui ci viene raccontata più dettagliatamente la sua storia; tutto ciò confluirà senza interruzione di sorta, ma solo attraverso un flusso linguistico pieno di grazia, in una piccola magia stilistica in cui l’autrice racconta, in un ritmico, poetico sommario, tutto ciò che la storia ha di nascosto:[…] Iseppo Pomo che da battellante si fece fornaio il giorno che la prese in moglie. Zanetta fresca sposa, Zanetta in duolo perché Orsola è morta senza riveder Venezia […] Zanetta madre e nonna di bambini petulanti, custodì sempre il quaderno di musica come il Bambino di cera, di faccia al letto nuziale.

Fino a questo momento noi crediamo che il tempo presente, quello in cui ci viene mostrato Iseppo gondoliere che raccoglie la sposa, sia il tempo del racconto in cui si susseguono i vari salti temporali avanti e indietro rispetto al tempo della storia. E invece la Banti ci stordisce con un’altra, sorprendente verità: il tempo presente, il tempo del racconto, è quello di un’altra scena, in cui vediamo Zanetta e Orsola – già spose, già madri, già avanti negli anni (ma prima che Orsola muoia – e in questo la Banti dimostra una sopraffina arte dell’intendimento coi suoi lettori, perché sa che noi già sappiamo) – cucire beatamente all’ombra di una lampada fievole, a casa di Orsola. Un passatempo, comprendiamo, quasi giornaliero, che le due donne condividono per rispettare e conciliare un altro bisogno di condivisione più urgente: quello del ricordo della fuga della loro amica Lavinia, una vicenda che non hanno mai davvero compreso ma in cui, soprattutto Orsola, si sente troppo coinvolta. È una condivisione, questa, fatta di silenzi, pensieri taciuti svelati solo al lettore, piccole domande che non vogliono ricevere risposte, allusioni, supposizioni dolorosissime, oppure liberatorie.

Da questo terzo blocco in avanti, il lettore sa che è quella stanza lì il tempo del presente da cui nasce tutto il racconto, tanto è vero che questa immagine comincia a essere raccontata attraverso il passato remoto, per poi trasformarsi, mano mano, in un presente indicativo che non dà scampo. In questo modo la Banti, traslocandoci dall’immagine di Iseppo sul canale, alla reale situazione da cui nascono i ricordi dentro quella stanza del cucito, da cui sarà possibile scaturire il ricordo di Lavinia fuggita, ha inserito noi lettori, noi osservatori, nel ricordo stesso, costringendoci ad agire in un tempo che non esiste più nemmeno per i personaggi, ma facendoci complici di una storia di cui ancora non ne sappiamo nulla.

***

È solo da questo momento che la Banti comincia a raccontare del giorno in cui Lavinia è fuggita, pur restando nel ricordo delle due amiche. Ci trasferiamo così nella storia passata in cui le tre amiche – finalmente Lavinia compare, finalmente la Banti le dà un volto (quel suo magro profilo aquilino e le corde del collo tese come una vecchia, eppure era giovane ma si vedeva che non era una delle solite e sapeva quel che diceva) – condividono la gita alle Zattere, giorno in cui Lavinia viene convocata nel capanno con i direttori della Pietà e il Don, da cui uscirà piangendo. Capiamo che ci troviamo dinanzi a un nodo narrativo importante, anche se non ne conosciamo ancora la causa. La Banti ci ricorda che a raccontarci la storia sono Orsola e Zanetta, attraverso l’incursione di piccole battute fugaci (Cosa le avranno fatto?), che se per un verso ci rassicurano (ok, siamo in un ricordo), da un altro punto di vista ci destabilizzano perché ci fanno intuire che Zanetta e Orsola sanno qualcosa che noi ancora non sappiamo. Sappiamo che una storia segreta si sta aggrovigliando a quella visibile, ma ancora non riusciamo a individuarne un sentiero chiaro.

Durante il ritorno alla banchina, Lavinia si imbatterà in un turco (L’avrà riconosciuta il turco?), e pochi attimi dopo Lavinia scompare.

Da questo ulteriore blocco narrativo, e solo da questo, viene a galla il fatto principale: cioè che Lavinia è fuggita. Ma alla Banti non interessa raccontare la fuga; non le interessa muovere il racconto intorno a un fatto, diciamo, di cronaca, dal facile intreccio. Tanto è vero che sin dal titolo, senza che la Banti abbia pudore a nasconderlo, noi sappiamo che una certa Lavinia fuggirà. Come a dire che l’evento principale, il segreto di una storia, è già da subito svelato.

Alla Banti, infatti, interessa raccontare altro: non il fatto in sé ma come si arriva a quel fatto; quali sono le dinamiche umane, e narrative, che portano una vicenda a costruirsi in quel modo preciso, e cosa ciò comporta in termini emotivi e psicologici in uno o più personaggi. Direbbe Cortázar che la Banti costruisce questo racconto per intensità, più che per tensione, proprio perché attraverso la forma vuole sgranare le maglie di una specifica umanità e per farlo ha bisogno di una struttura che le consenta di accumulare densità, di riempirla di senso.

Da questo nuovo dramma narrativo – in cui la storia segreta viene lentamente svelata – parte la vera storia di Lavinia, in cui viene sviscerata la sua tormentata passione per la composizione, preclusa, o, quantomeno, avversa a qualsiasi comportamento decente, a qualsiasi forma di logica del tempo. La donna esegue la musica, ma non sia mai detto che possa crearla, che possa generare altro che non sia un figlio. La forza creatrice della donna deve riporsi lì, nell’utero, non nelle mani, non nella testa e nell’anima; e la sola idea che Lavinia abbia potuto non solo creare l’Ester, ma addirittura sostituirla a un’opera di Vivaldi, getta la direttrice della Pietà – e l’istituto intero – in una disperazione e in una vergogna indicibili (Così tante innocenti pagheranno per una sola scellerata).

Il lettore sa – perché la Banti glielo ha fatto intuire tenendolo stretto per mano – che tutto questo avviene prima rispetto alla fabula, cioè rispetto all’ordine cronologico della vicenda: nel tempo della storia ci troviamo in un tempo antecedente al giorno delle Zattere, anche se nell’intreccio noi veniamo a saperlo solo dopo.

È proprio questo spostamento a permettere il delicatissimo equilibrio architettonico del racconto, e a rendere edificabile quella che Ricardo Piglia chiama storia segreta: cioè una seconda storia che il racconto nasconde rispetto alla prima. Perché, come dice lui, un racconto narra sempre due storie.
La seconda storia, la storia segreta di Lavinia, viene così a galla da un gioco complicatissimo di incastri e rimandi temporali, e tale segretezza permette alla Banti di fornirle tutta la forza emotiva e di senso che il tormento della ragazza – più che la fuga – comporta.

In tutto il racconto Orsola è forse la voce a cui il lettore si affida di più: è dietro il suo sguardo che si camuffa l’onniscienza del punto di vista, proprio perché è Orsola la testimone delle segrete scritture di Lavinia. Sarà lei, infatti, ad avere il privilegio di eseguire un’aria composta dalla sua amica -esperienza che la rende complice, e che un giorno – nella sua camera del cucito, ormai vecchia – la porterà a chiedere alla sua amica Zanetta: Cosa le abbiamo fatto? Trasformando la domanda iniziale (Cosa le avranno fatto?) in una colpa comune che accusa la società tutta, che si prende il peso di un misero fallimento collettivo.

In dirittura di arrivo, la Banti, attraverso il ricordo di Orsola, insinua una supposizione. Lavinia le parlava dell’Oriente, delle terre del levante da cui era convinta fosse venuta; perché, in realtà, la vicenda, tutta la vicenda, ha a che fare con lo sradicamento, con la forza distruttrice dell’abbandono – quelle delle orfane –che rende quasi vana qualsiasi possibilità di adattamento: Devo tornare laggiù, qui non c’è posto per me, e ho bisogno di spazio. Mi vestirò da uomo, farò il pastore, all’aperto, sotto il sole e la luna.
Una supposizione che non vuole risolvere nulla, che lascia sospeso un epilogo e che intende solo consegnare nella mano del lettore una specie di regalo, di cui sarà compito suo prendersi cura.

Lavinia tornerà da dove è venuta: dal nulla. La chiusura del racconto si consolida intorno alla figura iniziale di Iseppo che conserva e custodisce il quaderno con le creazioni di Lavinia. Al lettore non serve sapere nulla di più. Nulla di meno. Né dove è fuggita, né se tornerà.

Leggere e rileggere questo racconto, significa rileggere ogni volta una storia diversa, perché cambiano le angolazioni, i tempi si schiariscono di continuo, la segretezza della storia sotterranea si fa ogni volta più cristallina e lucida.

Ecco, da cosa deriva questa bellezza propriamente bantiana. Dalla complessità.

La bellezza è la complessità. E raccontare una cosa complessa come la realtà, significa fare i conti con uno strumento – quello della letteratura – che non può, non deve cedere a uno sguardo esemplificativo, che non deve trovare il compromesso con un lettore pigro che si accontenta di uno scrittore pigro.
Nella sua carriera di autrice, spesso incompresa soprattutto dai critici, Anna Banti ha fatto i conti con questa zona d’ombra e molto ambigua che sta a metà sulla strada che fa incontrare un lettore con lo scrittore: una zona in cui ci si chiede, a vicenda, di fare uno sforzo, perché vivere richiede uno sforzo.

 

 

Edmondo De Amicis senza cuore

Senza Cuore: Edmondo De Amicis, Tra due mosche

di Alessandro Abbate

 

Ma pure senza dignità, senza vergogna, senza valori, senza Dio. É così che si mostra l'umanità ai caleidoscopici occhi di una coppia di ditteri domestici, mentre, nella calura di un pomeriggio estivo, agitando nell'aria pesante le loro minuscole antenne, conversano sulla disgrazia di convivere con il "meschino colosso". Il giudizio è tanto disastroso quanto inequivocabile, nel variegato accumulo degli epiteti che si succedono lungo il testo: "gli uomini sono una razza trista e feroce", "odiosa", "disprezzabile", "maledetta"; nient'altro che "buffoni", "vili e malvagi", "stupide bestie"; l'uomo è "ignorante", allo stesso tempo "debole e violento", "ingiusto e irragionevole".

L'ultimissimo De Amicis, scrivendo sulle pagine della "Illustrazione Italiana" (popolare rivista settimanale creata dall'amico ed editore Treves di Milano), si congeda dal lettore con una serie di elzeviri e brevi narrazioni di tono polemico e deprecatorio, venati di ironica amarezza, nei quali l'indiscutibile abilità bozzettistica si fa strumento d'indagine e denuncia delle molteplici turpitudini e contraffazioni che regolano l'esistenza nel consorzio umano. Emerge, in questa sua conclusiva produzione, un'ossessiva urgenza di palesamento della falsità dominante; uno sguardo tenacemente inquisitorio che spazia, fra gli altri, dal linguaggio imbalsamato oggetto di Complimenti e convenevoli (dove, con garbata acutezza, si enumerano i vuoti formalismi di una comunicazione quotidiana che di frequente s'impantana nel lessico dell'ipocrisia), fino alle elucubrazioni fisiognomiche de La faccia, di vago sapore lombrosiano, il cui discorso sulle grottesche e ingannevoli maschere sociali muove da una questione di deformità estetica a un'altra di più intima abiezione, di bruttezza morale.

Una ventina di anni fa, la casa editrice romana Salerno ha riesumato quattro di questi singolari componimenti, per troppo tempo e scioccamente disertati, in un volumetto che affascina e sorprende tanto per le sue assonanze con l'emergente teoria psicoanalitica e con alcune forme della sperimentazione letteraria del primo Novecento (l'introspettiva divagazione cui si dedica il Cavaliere protagonista di Cinematografia Cerebrale - racconto che dà il titolo alla raccolta - lambisce gli sfuggevoli territori dello stream of consciousness, così come trasforma l'ozio pomeridiano in un'anticamera verso il subconscio e la rivelazione di un Io disintegrato), quanto per l'immagine del tutto desueta che restituisce dello scrittore di Oneglia (ma piemontese d'adozione), pressoché inconciliabile con quella stereotipata di un autore tutto buoni sentimenti, positivistica fiducia nel genere umano, e da affrontare col fazzoletto alla mano.

Di questa breve antologia, Tra due mosche (che vide la luce il 29 dicembre 1907, poco più di tre mesi prima della morte di De Amicis) può apparire quello meno complesso nel generale disegno di censura, non fosse altro che per il genere (favolistico) cui si richiama. La semplicità di superficie, tuttavia, serve ad affondare meglio il colpo. L'intento moralistico del classico apologo con animali diventa qui condanna inappellabile dell'agire umano, priva di qualsiasi finalità educativa, giacché articolata senza alcun segno tangibile di immedesimazione, né sul piano emotivo né su quello della costruzione formale. Siccome l'antropomorfismo (quanto meno verbale) non regge una narrazione di senso metaforico, mantenendo piuttosto ben distinto e separato l'insetto dall'uomo (nella funzionale, contraddittoria convivenza all'interno del testo), più che guardare indietro ai modelli di Esopo, Fedro o La Fontaine, il racconto sembra piuttosto anticipare il registro beffardo, insolente (ma pure a tratti disilluso) delleBestie del 900 di Palazzeschi (si pensi alle apotropaiche dichiarazioni di avversione da parte della gallina Pompona nei confronti della massaia megera dal "naso grifagno e le grinfie d'arpia": "Ti si aprisse la cateratta! Ti si accavallassero le budella!"; alla sboccata diffidenza del pesce Liù, meravigliosa regina, mentre il pittore che ne sta facendo il ritratto già si chiede come cucinarla: "Lazzarone! Belva umana! Ho ragione di gridare? Fritta... lessa... e servita con una salsettina piccante... Cornuto integrale!"; alle melanconiche considerazioni di Kan, vecchio leone vegetariano di cui nessuno ha più paura ormai: "Mi pare d'essere uno di quei vestiti che vengono rovesciati prima di buttarli nelle immondezze, perché dall'altra parte possono ancora servire").
 

Lo spunto, come già anticipato, riguarda le difficoltà incontrate da una mosca per sottrarsi alle mille insidie dell'ambiente domestico, agli incessanti tentativi di sterminio da parte dell'uomo: "Le case degli uomini sono covi d'insidie, dove si rischia la vita ogni momento e si vive in affanno continuo". Da un tale, futile pretesto, De Amicis imbastisce la paradossale esposizione di una bestialità umana che è speculare a quella dell'insetto, finanche maggiore (e non certo per una mera questione di dimensioni fisiche). Il chiaro e misurato fraseggio (è di pochi anni precedente la sua finale teorizzazione di una "lingua media" affidata a L'idioma gentile) è messo al servizio di un sarcasmo spinto fino ai limiti dell'iperbole, che spazia dalle abitudini alimentari ("E non ti puoi figurare quanti piccoli insetti ripugnanti ingoiano con le frutta, i legumi, col cacio. Ah, che schifo! E trattano noi come animali immondi!"), passando per l'organizzazione domestica, l'educazione della prole, fino a interpellare le pratiche igieniche ("O cos'è tutto questo schifo che hanno per le mosche? Noi siamo più pulite di loro. Loro si lavano il viso e le mani una volta al giorno; noi lungo il giorno facciam pulizia mille volte"). Ma soprattutto, allargando lo spettro delle considerazioni fatte dai due muscidi, De Amicis redige una dissacrazione tout court dell'istituto familiare, catalogando e mettendo alla berlina gli squallori, le crudeltà, le menzogne di individui fobici, ottusi, egoisti, violenti.

Il nucleo familiare è un coacervo di promiscuità: il padrone di casa se l'intende con la cuoca, suo figlio con la cameriera; la figlia maggiore s'intrattiene in illeciti passatempi con vari giovanotti; la signora usa sollazzarsi con il pingue parroco, dopo che questi s'è abbondantemente rifocillato ai pranzi cui viene regolarmente invitato (e che non manca di benedire). Alle stoccate anticlericali, De Amicis aggiunge una sensibilità animalista ante litteram, per altro giustificata da un vero e proprio spettacolo da Grand Guinol: "Nella loro stanza del fuoco [la cucina] io vedo strozzare e scannare, scorticare animali vivi, e vivi gettarli nell'acqua bollente, dove si torcono fra così atroci spasimi [...] Brandelli di carne, visceri, zampe, teste tagliate, da ogni parte: ogni giorno è una strage, un macello che insanguina tavole, panni, mani, ogni cosa". Una simile ferocia, nell'uomo bruto, si accompagna alla più insanabile stupidità: "Ha visto migliaia di noi, ci vede di continuo, e non ci conosce, non sa come siam fatte. Egli pensa di coglierci di sorpresa, avvicinando a noi la mano aperta, lentamente di dietro, come se non la potessimo scorgere". Pur nell'ironica fallacia del punto di vista di un insetto, certe perversioni affiorano in tutta la loro disgustosa plausibilità: "Più d'una volta ho veduto la femmina della polvere [la domestica] cogliere a volo una mosca, ammazzarla e cacciarla in fondo alla tazza del caffè che portava poi alla padrona, e questa ha ingolato tutto. Senza dubbio quella le mette le mosche nel caffè perché sa che le piacciono".

In questa disgustata revoca dell'idealizzazione dei saldi e genuini legami familiari che erano stati il fulcro del progetto pedagogico di Cuore; nell'evidente smorzamento degli entusiasmi di progresso antropologico del tricolore post-risorgimentale, permane tuttavia un residuo della "umbertina" aspirazione di De Amicis all'unità di un popolo italiano (non ancora tale) che superi le distinzioni etniche e territoriali, così come di un socialismo umanitario tendente all'armoniosa convivenza fra le classi (senza però cancellarle). Delle due mosche, infatti, l'una è cittadina; l'altra "era una mosca di campagna, ch'era venuta sul dorso d'un bove in città con la speranza di menarvi una vita più agiata e più gaia che nella solitudine dei campi; e immaginando che la sorella cittadina sopraggiunta abitasse nella casa lì accanto, le espresse il desiderio di prendervi domicilio sotto la sua protezione". Questo progetto di mobilità (al pari della narrazione dialogata, dunque corale, e della condivisione del problema di fondo) allude a una felice sintesi delle diversità geografiche e sociali, che a sua volta ripropone, pur nella trasfigurazione della fabula irriverente, la matrice dell'auspicata unità e identità nazionale (del "ragazzo calabrese" che nomina la "patria" in un scuola elementare di Torino, per dirla col De Amicis del 1886). Ciononostante, è avvenuta una inversione di prospettiva: da artefice di evoluzione civica e culturale, l'uomo è ridotto adesso a fallimentare oggetto di indagine impietosa, come per effetto di un paradossale processo di entomologia rovesciata.

E forse non è un caso che, sotto la lente d'ingrandimento, l'immagine più repellente sia proprio quella del bambino, del "figliuol piccolo", nel quale si manifesta "tutta la crudeltà di questa gente": "Costui passa a volte un'ora intera a darci la caccia [...] Ma non per liberarsi della nostra molestia: per il solo gusto di torturarci lavora. A quante n'acchiappa strappa le ali, le zampe e le teste [...] Le une infilza con uno spillo, le altre brucia alla fiamma d'una candela; ne stronca qualcuna e la lascia libera per vederla andar barcollando con le interiora fuor del corpo". Sono spariti ormai gli eroici fanciulli celebrati dal maestro Perboni. L'edificante e lacrimevole sacrificio dei vari scrivani fiorentini, vedette lombarde e tamburini sardi ha lasciato il posto all'istinto assassino di un sadico moccioso: "dei patimenti orrendi di tutte, che spia e indovina, gode, il piccolo mostro, tanto che gli scintillano gli occhi e gli fa la bava alla bocca". La classe di Errico Bottini è deserta: v'è rimasto soltanto Franti, a maturare ulteriormente nella propria cattiveria, in virtù del disastro formativo che gli viene somministrato (espresso dalla "infima" mosca con meste parole che riecheggiano lo Shylock shakespeariano): "E sai cosa gli dicono, quando lo vedono all'opera orrenda, il padre e la madre? - Che non perda a quel modo il suo tempo! - Null'altro! Par che non pensino che noi soffriamo, perché siam piccole".

Questo breve racconto è un aspro divertissement da cui trapela un'ansia di esorcizzare non soltanto l'entusiasmo, ormai scaduto, che in Cuore aveva dato voce alla patetica santificazione dell'ordine borghese; ma pure, e sopratutto, più dolorosi e scomodi spettri autobiografici. Il naufragio familiare, il lerciume nascosto nelle quattro mura, toccò De Amicis in prima persona. Il suo matrimonio con Teresa Boassi è di recente emerso (grazie alle ricerche di Luciano Tamburini) essere stato all'insegna della violenza domestica, del sistematico sopruso, dell'inganno. Conclusione, il logorroico romanzo (a metà strada fra il delirio e la vendetta; oggi superstite in sole due copie) dato alle stampe dall'ex signora De Amicis subito dopo il molto litigioso divorzio fra i coniugi e il suicidio del primogenito Furio, ci consegna la figura di un marito canaglia, di un orco, un dissoluto, un perfido (l'epigrafe al volume è quanto mai eloquente: "a tutte le martiri che si sono sacrificate invano"). É plausibile l'agire di un anelito espiatorio, quindi, o quanto meno di un ineluttabile vincolo di confessione, nel fatto che il "bestione" a capo della sciagurata famiglia moschicida sia proprio uno scrittore, il quale "sta tutto il giorno a far segni neri su dei fogli bianchi con un cannetta che intinge in un vaso pien di porcheria".

La "porcheria" dell'inchiostro, per metonimica attinenza, evoca l'Edmondo De Amicis con cui colloquia Giorgio Manganelli nelle sue Interviste impossibili, quando si definisce "un badilante della prosa", "uno scrittore infimo, disonesto, vigliacco". Sorge l'interrogativo se Manganelli (che scriveva a metà degli anni '70) ricamasse, pur con acume critico, sul prediletto adagio della "letteratura come menzogna"; ovvero se fosse effettivamente a conoscenza degli incresciosi scheletri nascosti nell'armadio di casa De Amicis, guardando come la dolente disistima che il fittizio autore di Cuore ammette di se stesso travalichi infine l'ambito professionale: "Ero convinto di essere un brav'uomo, di avere sentimenti [...] impeccabili: quanto poco tutto ciò era vero. [...] Sono costretto ad accorgermi di essere, tutto considerato, una figura losca, impura, disonesta". In ogni caso, sono parole, queste, che le nostre due mosche non avrebbero esitato a sottoscrivere.

La casa di Silvio D'Arzo

Questo articolo è comparso nella rubrica Il Racconto dei racconti, in collaborazione con Minima&Moralia

Silvio D'Arzo
Casa d'altri

di Rossella Milone

 

Certo, Eugenio Montale definì Casa d’altri un «racconto perfetto» in quanto perfettamente compiuto e, nello stesso tempo, da compiersi solo attraverso, e grazie a, la partecipazione del lettore. E scrisse sul Corriere che si trattava di un testo fatto di aria, trasparente e pieno di vapori. E poi sì, sappiamo che piacque moltissimo anche al più giovane scrittore Pier Vittorio Tondelli, che praticò un’attenta operazione di recupero dell’opera di D’Arzo e di altri autori «eterodossi della tradizione» per lo più gravitanti intorno all’aerea emiliana-romagnola. È poi stato definito uno dei racconti più belli del Novecento. E va bene, questo testo è stato più volte preso come esempio per raccontare in che modo funzionano in narrativa certi meccanismi:
D’Arzo crea per quasi tutto il tempo del racconto una serie di suggestioni, incastrandole le una sulle altre fino a ottenere un effetto di accumulo. Ci parla delle condizioni climatiche (quasi sempre piovose, uggiose, invernali). Ci mostra delle atmosfere, uno dei pregi più visibili e preziosi del testo, attraverso cui fa emergere con lentezza i personaggi – come ombre che si scollano da un nulla. Sono atmosfere concrete, fatte di aria acqua terra e fuoco; come Georges Simenon le costruisce prima lungo i margini, da un orizzonte che piano piano si avvicina – i monti lontani, i latrati ovattati dei cani, le torce dei contadini che tornano dai campi di torba – per poi arrivare al centro di una nebbia sottile o sull’uscio di una porta da cui si affacciano gli occhi delle capre, o in un cielo viola che piomba sul personaggio, nel punto esatto dove si svolge l’azione.
L’azione è un altro meccanismo messo più volte in rilievo in questo testo: anzi, la non-azione. Nessun racconto è stato utilizzato tanto come esempio di ellissi quanto questo. “Un’assurda storia da un soldo” che può essere riassunta così: un vecchio prete di montagna, rassegnato e ormai abituato alla ordinaria vita di un paese in cui non accade mai nulla, incontra Zelinda, una sessantenne che lava i panni al fiume, che, esausta della sua vita, vuole suicidarsi e, in quanto credente, chiede a lui il permesso per farlo. Il prete allibito non la comprende, non sa cosa fare e dire («Le parole mi fanno vergona, ecco il fatto»), e lei si ammazza.
In questa storia non esiste intreccio; per amore di Čechov, non esiste la famigerata trama; non ci sono ganci narrativi che possano portare il lettore a incuriosirsi di una vicenda avvincente. In questo racconto ciò che vive, palpitante nel fondo come un incendio, è il mistero. E il mistero – specie in un racconto – lo si ottiene togliendo quasi tutto, scippando i fatti salienti, nascondendo agli occhi del lettore ciò che c’era prima e attorno al fatto principale (in questo caso il suicidio).
Accumulando suggestioni, costruendo le atmosfere, sottraendo, rendendo ellittici i meccanismi che portano la storia al finale, D’Arzo crea quel misterioso lato oscuro che un racconto deve avere; l’altra parte del cuore, quella che pure batte ma rivolta alla schiena, al buio e in silenzio.
Questa certosina operazione di nascondimento, è un tratto caratteriale dell’autore stesso, che si deve essere impresso nello sguardo dello scrittore perché appartiene prima ancora all’uomo. Silvio D’Arzo, infatti, è uno pseudonimo di Ezio Camparoni: un uomo ossessionato dall’anonimato, tanto da scrivere in un carteggio a Emilio Vallecchi:  “figuratevi che nessuno – dico nessuno – sa ch’io scrivo: il mio nome è solo uno pseudonimo… nessuno sa il mio nome, nessuno…”.  Una volontà di sottrarre se stesso al mondo e agli occhi del mondo, tanto elusiva e intransigente che nella scrittura diventa metodo, stile e senso.
Incontrai questo racconto molto, molto tempo fa. Durante una lettura di gruppo in cui ognuno di noi si trovò in mano un centinaio di fogli fotocopiati e il nome di questo sconosciuto scritto a penna, in basso a destra. Qualcuno lo lesse ad alta voce, in un’aula distratta, rumorosa, con una serie di pensieri a portarmi lontano da lì. E io ricordo perfettamente di non averci capito nulla. Cioè, a fine lettura pensai: oddio, perché piace così tanto a tutti? Mi sono persa qualcosa.
A dirlo me ne vergogno un po’; però, in realtà, a ripensarci a distanza di anni, dopo averlo riletto, studiato e ristudiato, capisco perfettamente – ora – quel disorientamento dell’epoca.
Casa d’altri è un racconto che va letto da soli, in silenzio.
E non perché sia un racconto, come dicevamo, con un intreccio troppo difficile da seguire. E nemmeno perché possiede tutti quei bei meccanismi cari alla narrativa a cui abbiamo accennato.
Casa d’altri nasconde nel suo stomaco qualcosa che a me sta più a cuore, come lettrice e come narratrice. È qualcosa che ha a che fare con un’arte complicata e complessa, difficile da tradurre in scrittura, che appartiene a chi si avvicina alla letteratura più alta e ne conosce il segreto. È qualcosa che, oggi, mi pare di scorgere sempre meno, o, meglio, con minore attenzione, cura, dedizione e, soprattutto, capacità da parte di chi scrive.
È quella cosa che fa Alice quando attraversa lo specchio. La Alice di Attraverso lo specchio compie quel salto mortale che tutti gli scrittori fanno (o dovrebbero fare) quando si mettono a scrivere una storia. Immergersi in un mondo di ombre e demoni da cui uscire (se si riesce a uscire) non solo con la storia, ma anche con l’anima di quella storia.
All’inizio del racconto di Lewis Carroll, Alice è da un lato dello specchio: quello della vita reale, dove gioca col suo gatto. Mentre l’altra Alice, il suo riflesso, il suo doppio, il suo ‘Hyde’ è dall’altro lato, in un mondo altro e alternativo dove, forse, risiedono le storie.  Non è vero che Alice guarda i gatti, guarda gli specchi: da un lato la vita, dall’altro quello della vita inventata, quello della letteratura. Un lato guarda dentro e un lato guarda fuori.
Alice è una che non vuole distruggere gli specchi a favore di un lato o di un altro, allora che fa: ci passa attraverso. Si immerge nel mondo altro e invece di distruggere il suo doppio si unisce a lui. Crea un’Alice immaginata, irreale, fatta di invenzioni e di sogni, che vive in nessun posto se non nella fantasia. Quando la vera Alice ritorna nel lato della vita vera, porta con sé la storia che ha visto e vissuto dall’altra parte dello specchio, e la racconta al gatto.
Lo scrittore quando inventa una storia diventa Alice, e quando la scrive è il momento in cui passa attraverso lo specchio: la storia nasce da un doppio che s’immergere in un mondo non vero, che può interrompere il tempo e raccogliere infinite storie, riportarle a galla, e poi raccontarcele.
Scrivere una storia è l’incontro con un posto strano pieno di bagliori. In questo mondo si aggirano spettri, chimere, scheletri e fantasmi. È illuminato da luci e oscurato da ombre. Per andare lì, in quest’altro mondo, un narratore compie uno sforzo difficile, a volte doloroso, altre meno, ma sempre rischioso perché le storie nascono dal fondo limaccioso di quel mondo in cui tutto, ogni cosa, viene sepolta e poi ripescata. Lo scrittore che s’immerge in quel luogo, deve fare i conti con quel fondo torbido; deve fare i conti con tutti quegli spettri lì; parlarci, conoscerli, stringere con loro un rapporto, e poi riportarli su, in superficie dove vivono i vivi.
Come dice la Sibilla Cumana a Enea che le chiede come fare a intraprendere il suo viaggio,
…facile la discesa all’Averno: notte e giorno la porta del nero Dite sta aperta: ma riportare su il passo, uscire all’aria di sopra, questo è l’impegno, qui è la fatica. 
lo scrittore deve prendersi l’impegno di affrontare questo tipo di sforzo. Andare a fondo. Scavare.
Per scrivere una storia si deve riportare all’aria di sopra ciò che non esiste, ciò che è mortifero e pauroso anche solo perché ignoto, regalarlo ai vivi, farlo ri-vivere.
Solo affrontando questa discesa la storia riceverà un’anima e una forza emotiva tale da farla sopravvivere al tempo.
Ecco, Silvio D’Arzo passa attraverso lo specchio. Va a fondo. S’immerge nel fango. Scava.
Casa d’altri possiede la carica emotiva di chi ha conosciuto gli spettri e traduce quel rapporto sulla pagina. È questo ciò che amo di più di questo racconto – aldilà di tutti gli aspetti tecnici o dei motivi che spieghino la sua perfezione. Perché è un racconto che non ha paura di ferire, di colpire il lettore in faccia con uno strofinaccio bagnato, costringerlo a spostarsi di qualche metro dalla sua solita posizione confortevole e domandarsi: come mi sento adesso?
Sono pochi gli scrittori capaci di incanalare nelle proprie storie tale terremoto. D’Arzo possiede uno sguardo che sa coglierne le vibrazioni, accoglierne gli smottamentiper poi trasformarli in parole. Anche se era uno che non amava spostarsi dalla sua provincia, è un esploratore di antri umidi e scuri, in cui va a raccogliere le anime per raccontarle.
Oltre a questo suo sguardo particolarissimo, tale magia può avvenire soprattutto attraverso lo stile della scrittura. Suggestiva, piena di atmosfere, capace di controllare gli artifici narrativi – come abbiamo detto. Ma soprattutto è grazie a un particolare modo di combinare lirismo e prosa a uno sguardo visionario e sognante, che quel mondo misterioso può svelarsi lentamente agli occhi del lettore.
Le parole, rigorose e precise, vengono sfruttate per costruire immagini astratte e vaporose; frasi che in una sola riga evocano mondi realistici e nello stesso tempo mondi nascosti, come segreti da andare a svelare. È nel linguaggio che D’Arzo realizza il suo doppio. Un lirismo concreto – che si artiglia al reale rendendolo ancora più crudo e più credibile – che s’inabissa in un’atmosfera immaginifica, quasi fiabesca. È quel suo modo visionario di guardare agli oggetti, alla natura leopardiana, alle persone che gli permettono di avere sempre un occhio rivolto all’indietro, verso quel lato dello specchio dove sogno, finzione, allucinazione tratteggiano i tratti più onirici della sua narrazione. Oscillando tra questi due registri, D’Arzo costringe ogni lettore a mettersi da solo in una stanza, piegarsi sul libro e interrogarsi sulla sua privata umanità.

Mi guardai un po’ d’intorno. Stava per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila e la Melide li cuce dentro il lenzuolo e io li porto al cimitero di monte, e i bambini che per l’intera stagione se ne stanno dentro le stalle a scaldarsi col fiato dei muli… Un inverno di cinque o sei mesi.
E lei cosa avrebbe fatto, la vecchia?
Nelle ossa sentivo l’inverno vicino. Guardai un momento le nuvole che adesso erano più grandi di un prato, e poi mi avviai alla parrocchia. Le nuvole mi venivano dietro. Sempre dietro, come se qualcosa sapessero. Vengono delle idee, certe volte. Ma che altro potevo fare, mi dite?

Lacrime si va in scena, Gesualdo Bufalino

Lacrime, si va in scena: Gesualdo Bufalino, Il ritorno di Euridice


di Alessandro Abbate

 

In un racconto che pure ha nel crudele sconcerto della sua frase di chiusura un capolavoro di beffardo scintillio narrativo, l'incipit non è meno folgorante. Per la ragione opposta; per la sua dimessa prosaicità: "Era stanca" dice Bufalino di Euridice, immediatamente introducendo il suo progetto di riduzione del mito a cose terrene, il cui obiettivo ultimo è quello di strappare il velo dell’idillio favolistico da uno scenario che invece abbonda di frustrazioni e meschinità.

Questa stanchezza non è soltanto fisica (che pure non manca: “si guardò i piedi, le facevano male”), causata dal malagevole tragitto inverso in direzione della seconda e definitiva sepoltura. Riguarda soprattutto lo sfibramento di un cuore di donna spossato dai faticosi equilibrismi della vita matrimoniale, dagli amari bocconi ingurgitati per esistere e resistere all’interno di un sodalizio così palesemente inadeguato alle sue più intime aspirazioni, dai piccoli e grandi dispiaceri quotidiani, dalle ondivaghe successioni di delizie e delusioni - tutte cose che rendono stancante anche una storia d'amore che si vorrebbe esemplare nella sua tragica tenerezza, come quella fra la più famosa delle driadi e il figlio della musa Calliope.

Stanca, dunque, e aspettando presso una sponda dello Stige l’arrivo di Caronte, in un’attesa che alla lugubre ambientazione infernale unisce le dinamiche incerte e turbolente di un comune servizio di trasporto pubblico (“Erano mille e mille, le anime, e aspettavano tremando di freddo e starnazzando, con una sorta d'impazienza affamata. [...] Anche a mettersi in fila, sarebbero passate ore prima che giungesse il suo turno”), ha tutto il tempo che le serve per riflettere, Euridice; per ricordare; per cercare di capire cos'è il "curioso agrume" che le duole in petto più del rammarico per la fallita resurrezione; quel "presagio, sospetto, vergogna" o chissà cosa, "incapace per ora di farsi pensiero, ma ostinato a premere dentro in confuso"; e che da ultimo, chiarito finalmente, la condurrà alla disastrosa consapevolezza che suo marito, se solo i casi che avvengono nell'Ade facessero giurisprudenza, sarebbe incriminabile di uxoricidio (con l'aggravante dei futili motivi, se è sostenibile la tesi che l'applauso dei tanti non valga l'abbraccio di una).
 

Rivive con la mente le sue vicende coniugali; s'inoltra in una meticolosa reminiscenza che occupa gran parte del racconto (da L'uomo invaso e altre invenzioni, edito da Bompiani nel 1986), e che si rivela tutt'altro che romantica. Ammette innanzi tutto d'essersi innamorata controvoglia, nel disagio di cedere a un uomo troppo celebre, troppo esposto agli appetiti delle altre donne: a "un seduttore d'orecchi", a "un accalappiatopi da non fidarsene".

Certo, almeno per i primi tempi, non erano mancati "giorni e notti celesti", il vertiginoso coinvolgimento dei sensi, il languido abbandono a quelle frasi di inimitabile dolcezza che soltanto la bocca di Orfeo era capace di sussurrare, fra un bacio e l'altro. Ferma sulla riva sulfurea a riposarsi, aspettando d'essere ricondotta nel grigio regno degli spettri, le ritorna in mente la visione di un'edenica Tracia, di un luogo di vita e di amore inesauribili, sterminati come il cielo, "solo nuvole in corsa sulla sua fronte e manciate di petali, quando li strappava dal terreno coi pugni, nel momento del piacere".

Ma tutto questo non era stato sufficiente a renderla pienamente felice, se non nei fugaci frangenti dell'estasi. Euridice voleva un marito, non un poeta. "Poeta" lo chiamava nell'intimità, fra motteggio e adulazione, con la sottile abilità muliebre di farlo innervosire e di blandirlo allo stesso tempo, ovvero di conservare sempre desta la cognizione del problema, l'origine della sua insoddisfazione, l'ineluttabile intrusione del terzo incomodo fra loro.

Bufalino tratteggia una psicologia femminile di mirabile e verissima complessità. Gli slanci sentimentali, così come le voluttuose concessioni ai lirici incantesimi di cotanto sposo, confliggono col richiamo alla praticità domestica, al desiderio di una solida normalità, al buonsenso delle piccole cose quotidiane, che in questa Euridice che avrebbe letto più volentieri Daniel Defoe che Lord Byron sembrano essere la reale sostanza della sua carne, e che ella conserva anche quando svaporata in gelida ombra. Terminata la lunga attesa, mentre la barca di Caronte la sta già traghettando verso l'ultima dimora, l'occhio le cade sulla vela logora, maldestramente rammendata: "Ero più brava io, a cucire” non si trattiene dal rivendicare. “Sono stata una buona moglie". Così come ammette di "non avere mai creduto sul serio di poterne venire fuori": rivelazione, questa, di un assennato e disilluso pronostico che sembra afferire non tanto alla debolezza di Orfeo (a quella sua fatale, involontaria esitazione), quanto alla vanità dell’irresistibile seduzione esercitata dal suo canto.

Avesse cantato un po’ di meno, il poeta, e badato maggiormente al sodo delle cose, al nutrimento della pancia come del cuore, all’amor proprio di una donna che necessitava sentirsi desiderata nei fatti, prezioso gioiello da custodire attentamente e preservare dagli sguardi altrui. E invece egli viveva così, travolto dal distratto egotismo delle sue rime ("quante arie si dava"), ebbro di un’insensibilità edulcorata ad arte, “senza dire mai dove andava, senza preoccuparsi di lasciarla a corto di provviste, deserta d’affetto, esposta ai salaci approcci di un mandriano del vicinato. Si fosse degnato di andontarsene, almeno, di fare una scenata. Macché. Si limitava, tanto per la forma, a intonare un lamento dell’amor geloso, di cui, dopo un minuto, s’era già scordato”.

Eppure lei lo aveva amato; in ogni cosa di lui; anche e soprattutto per il semplice fatto che "non sapesse cucinare un uovo": erano in mancanze come queste che ella avrebbe voluto realizzare se stessa, ansiosa di assurgere a una felicità matrimoniale in cui la padella sarebbe stata più importante della cetra. Scomoda e infelice sulla vetta del Parnaso, l’Euridice di Bufalino aspirava a un più umile paradiso fatto di omelette da portare in tavola al suo "adorabile buonannulla". 
 

E invece c'era sempre stata la poesia d'intralcio; e alle belle chiacchiere non avevano corrisposto i fatti. Da ultimo, era subentrato il dubbio di non essere amata altrettanto; se non come disincarnato simbolo di ispirazione poetica, magari il più sublime, quello più intriso di patetico struggimento, purché definitivamente morta e irraggiungibile, anziché compagna di (seconda) vita. Ed è proprio portando a termine questa amara riflessione sullo svilimento strumentale della sua persona, mentre già l’approdo sulla riva opposta dello Stige s’intravede fra i pestilenziali vapori, che Euridice sente infine sciogliersi “quell’ingorgo nel petto” con cui s’è cimentata durante tutto il corso della traversata, e “trionfalmente, dolorosamente” capisce: “Orfeo s’era voltato apposta”.

Rielaborando lo stesso mito, quarant'anni prima di Bufalino, Cesare Pavese, in uno dei suoi Dialoghi con Leucò, aveva già introdotto lo scandalo del gesto volontario. Dando voce, però, a un Orfeo che ha riconosciuto per tempo l'inutilità e l'errore di un canto che impietosisce fino all'oltraggioso sovvertimento delle regole naturali; a un uomo, prima che poeta, il quale, fra saggezza eraclitea e suggestioni proustiane, rifiuta l’abbaglio di ciò che non può essere una seconda volta, inconsolabilmente offrendosi al rimpianto di un tempo perduto che eccede la scomparsa della donna amata, ma che riguarda in primo luogo se stesso, “non più sposo né vedovo”, la propria giovinezza, e un comune destino di fugacità che non si può né si deve sconfiggere.

Ne Il ritorno di Euridice, Orfeo ha ben altro spessore: ben più misero, gretto, emotivamente ottuso. Fra tutti gli uomini diversamente “invasi” che popolano il volume di Gesualdo Bufalino, nell'unico racconto declinato al femminile, egli ruba la scena con lo squallore di un guitto professionista: “L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava ‘Che farò senza Euridice?’, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta…”.

Quale maldestro sciupio di un preziosissimo dono! E non s’intende, qui, il suo raffinatissimo canto.

Gli occhiali vecchi di Anna Maria Ortese

Questo articolo è comparso nella rubrica 'Il Racconto dei racconti', in collaborazione con Minima&Moralia

Anna Maria Ortese

Un paio di occhiali
tratto da Il mare non bagna Napoli, Adelphi

di Rossella Milone

Eugenia è una bambina cresciuta in un vicolo della Napoli del dopoguerra. Le bombe hanno lasciato macerie e residui di un’umanità appesa alle ringhiere dei balconi. La città sfregiata non si è solo rotta, ma ha fatto venire a galla – come da un tombino troppo pieno – ciò che già c’era, e sempre c’è stato. I miserabili, i pezzenti, una forma di vita sfasciata, l’indolenza sotto al sole, macchiata da un atavico vittimismo borbonico. Eugenia sta lì, con il padre Peppino, la madre Rosa, zia Nunzia, una caterva di fratellini, una serie di personaggi limitrofi che danno lo sfondo al racconto. Il paesaggio, diciamo, che, secondo la poetica di Anna Maria Ortese, si esprime attraverso il racconto delle persone.Un coro greco che sottolinea le parole; incide l’azione dei personaggi nella trama, mettendola in risalto come un’immagine che sbuca da un cameo; a volte giudica o sostiene i protagonisti, ma il ruolo di questo coro è sempre a sfondo drammatico: è funzionale ai personaggi principali per coordinarne i gesti e le motivazioni.

Anche in un altro racconto de Il mare non bagna Napoli ‘La città involontaria’, il racconto dei luoghi avviene attraverso una lente particolare che si fissa sugli individui. Per raccontare il III e IV Granili di Napoli, per esempio, un inferno in Terra che dimostra la «caduta di una razza», la Ortese ci fa incontrare Antonia Lo Savio:

“una donnetta tutta gonfia, come un uccello moribondo, coi neri capelli spioventi sulla gobba e un viso color limone, dominato da un grande naso a punta che cadeva sul labbro leporino, stava pettinandosi davanti a un frammento di specchio, e tra i denti stringeva qualche forcina. Sorrise, vedendomi, e disse: «Nu minuto»”.

L’intero percorso delle esistenze che abitano quell’inferno, lo si vede prima sulle facce, nei capelli, nelle dita ritorte e nelle andature storpie degli individui. Come se fossero i corpi a subire, prima ancora delle menti e delle anime, le mutazioni dei luoghi, le brutture, i drammi, per tatuarsi per sempre sulla vita della gente.

In Un paio di occhiali Eugenia ha bisogno di occhiali nuovi perché, come dice il dottore, è completamente cecata. Poveri come sono, è solo grazie ai risparmi di zia Nunzia che riescono a comprarne un paio («Ottomila lire vive vive!»). Quelle lenti, desiderate più del latte, più di un piatto di pasta, sono per la bambina l’antidoto al buio: personale, collaterale alla sua famiglia e, in senso più allegorico, per la città intera. Eugenia non può vedere, cecata com’è, ciò che la gente del rione vede e, con lei, che anche noi percepiamo. Una realtà mischiata, in cui i vicoli spezzano la città in due: da un lato le strade coi vasi pieni di gerani, le signore imbellettate, la luce dorata del cielo aperto, i signori con le pipe, le case piene di ricchezza. Dall’altro un mondo scuro in cui il cielo è stretto, pieno di larve dove strisciano e s’arrampicano persone senza tempo, senza più l’aria.
Anna Maria Ortese, a questo punto, fa compiere la prima meraviglia che un racconto deve fare: evocare un mondo, o una parte di esso, senza dire, con la sola arte della omissione.
Eugenia è convinta che con gli occhiali scoprirà qualcosa che le è sconosciuto: l’origine di quel malessere che pure avverte ma che non sa spiegarsi, a cui non riesce a dare un nome. Non lo vede, non lo vediamo nemmeno noi. Ne sente il brusio, sulla pelle ne sente il formicolio sinistro, ne avverte la minaccia, riconosce il peso blu di un cielo sporco, sfocato. Nonostante il punto di vista del racconto non sia focalizzato internamente alla sola Eugenia ma, di volta in volta, pure negli altri personaggi, anche noi lettori ci sentiamo soccombere da un presagio in arrivo, come avvertito in lontananza. Eppure non c’è. Non lo vediamo. O, meglio, non siamo sicuri di vederlo. È omesso, ma leggibile.
A proposito di questa omissione che rende percepibile ciò che non è scritto, Anna Maria Ortese è una maga. E per far funzionare questo incantesimo compie qualcosa di molto diverso da ciò che fa Ernest Hemingway a proposito della ‘teoria dell’iceberg’: invece di lasciare sotto la superficie della narrazione tutto un universo di significazione, di storia, di conflitti, per far rimanere a galla solo la punta estrema di questo enorme masso di ghiaccio, la Ortese compie un altro gesto narrativo: quello di inforcare una visione.
A differenza di molti narratori – specie quelli nord americani – questo nascondimento, questo atto ellittico del non detto, Ortese lo interpreta, nel racconto, in altro modo. Lei è una scrittrice che vuole vedere. Che porta a galla, anziché seppellire, che mostra, gettando sulla pagina una massa abbondante di informazioni soprattutto di tipo percettivo.

“Uscì sul balcone. Quant’aria, quanto azzurro! Le case, come coperte da un velo celeste, e giù il vicolo, come un pozzo, con tante formiche che andavano e venivano… come i suoi parenti… Che facevano? Dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi portando grosse briciole di pane, questo facevano, avevano fatto ieri avrebbero fatto domani, sempre. E intorno, quasi invisibile nella gran luce, il mondo fatto di Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande. Stava lì col mento inchiodato sui ferri, improvvisamente pensierosa, con un’espressione di dolore che la imbruttiva, di smarrimento”.

Ciò che viene omesso non è un fatto (come avverrebbe, appunto, in un racconto di Hemingway) ma una parte del mondo che la scrittrice contempla – in questo caso la Napoli ricca, quella più agiata; la città colorata del benessere e della cultura – che pure, in qualche modo, rientra nel campo visivo del narrato. Questa percezione di ciò che non vediamo, la presenza pesante di questo mondo ‘altro’ dal vicolo, che sta lì fuori, sospeso come un cielo cattivissimo, a sussurrare appena, rende, attraverso il contrasto, ancora più maledetto, più incomprensibile e oscuro il mondo in cui vive Eugenia, perché fa da contraltare a ciò che, invece, la bambina (e noi con lei) avverte benissimo, nonostante sia mezza cieca. Quella maledizione, appunto, quel malessere che non sa nominare sta lì: nella omissione che la Ortese compie sulla pelle della protagonista.
Questo gesto narrativo della Ortese, avviene non attraverso gli occhi (come se anche lei fosse miope e avesse bisogno di occhiali), non attraverso un semplice sguardo: è la traiettoria di questo sguardo a fornire alla scrittura della Ortese gli strumenti adatti, ed esatti, con cui evocare questo mondo altro.
Ha una traiettoria strana, questo sguardo: si posa dove non dovrebbe, s’infila con l’agilità del gatto di strada negli angoli più incavati di cose e luoghi, raccoglie le briciole più piccole, quelle quasi invisibili a un occhio normale; è lo sguardo irrequieto di chi coltiva l’inquietudine come lente di messa a fuco sul reale. È uno sguardo doloroso, che fa fatica a convivere in pace con la vita, eppure è il solo che ne possa catturare l’essenza.

“Seduta sullo scalino di un altro basso, Eugenia guardava un pezzo di giornale per ragazzi, con tante figurine colorate. Ci stava col naso sopra, perché se no non leggeva le parole. Si vedeva un fiumiciattolo azzurro, in mezzo a un prato che non finiva mai, e una barca che andava, andava chissà dove. Era scritto in italiano, e per questo lei non capiva troppo, ma ogni tanto, senza un motivo, rideva”.

Questa visione è prima di tutto privata, personalissima, di donna ed essere umano (tanto che il libro, apparso nei Gettoni della Einaudi nel 1953, fu interpretato dalla critica come un testo contro Napoli, che le costò un ostruzionismo tale da non farla mai più tornare nella sua città adottiva, ma che, soprattutto, la relegò ai margini di una vita povera e incompresa). Seppure isolata dagli ambienti mondani e letterari, la sua dedizione alla letteratura era attiva e totalizzante, e questa totalità si riverberava anche sulla sua postura di scrittrice.

Diversi anni fa, curai, con altre realtà cittadine, un evento legato ad Anna Maria Ortese presso il Palazzo delle Arti di Napoli. Per raccogliere materiale e studiare la sua poetica, lavorammo per un certo periodo all’Archivio di Napoli, in cui è raccolto parte del patrimonio ortesiano depositato nell’Archivio, nel 2002, dalla nipote Rita Ortese. La maggior parte dei documenti sono rappresentati da epistolari, appunti, pagine di diari e opere inedite. Ma la mia memoria si è fossilizzata su un suo pacchetto di sigarette (ovviamente vuoto) con ancora la pellicola di plastica, e un appunto scritto da lei, a penna blu, sul cartoncino, parecchio lungo, tanto da occupare quasi tutto il bianco del pacchetto. Non si capiva nulla, di quello che c’era scritto. Singole parole, le congiunzioni, qualche verbo. Ma il senso del pensiero completo non riuscii a decifrarlo, era incomprensibile. Dopo tanti libri letti della scrittrice, in realtà fu quello a farmi comprendere quanto fosse radicata, profonda e dolorosa quella visione che caratterizzò tanto la sua scrittura: la grafia, così sbilenca e isterica e nervosa, era la prova di uno sguardo che raccoglie il pensiero in modo veloce, rapace e aggressivo, quasi che potesse sfuggirle dalle dita e non acchiapparlo mai più.
Il senso di questa rapacità si evince, completamente, nella sua scrittura. È nella scrittura che si trova la sola chiave di lettura di un testo e il tentativo di una sua eventuale verità. Fu lei stessa a dichiarare che nei racconti de Il mare non bagna Napoli:

‘la scrittura ha un senso di esaltato, di febbrile, dà nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di troppo: sono palesi i chiari segni di una autentica nevrosi. […] Se all’origine di tale lacera condizione vi era appunto la infinita cecità del vivere, ebbene era questo vivere che io chiamavo in causa, […] e perciò tramite questa nevrosi, io gridavo’.

Nei racconti soprattutto, questa specifica angolazione, questa traiettoria dello sguardo, sorretta da una scrittura tanto bellicosa, rende possibile le omissioni che Hemingway lasciava sotto la superficie. La Ortese tiene la narrazione lì, a galla, ma spostata di qualche millimetro, raccontata con occhi sghembi, tanto da ottenere quell’effetto di presagio imminente, quel brusio in lontananza che di pagina in pagina quasi ci soffoca, pur non capendo da dove provenga.
Questa visione, in Un paio di occhiali, è funzionale a una cosa soltanto: al finale. E, in questo senso, Ortese usa il racconto nel modo più classico della tradizione moderna, assecondando Joyce o Woolf o Mansfield. Si avvia verso un traguardo epifanico, che esplode nell’ultima pagina quando, finalmente, Eugenia riuscirà a inforcare gli occhiali nuovi. Riuscirà a vedere. E quindi a sapere.
Per arrivare lì, per giungere col fiato sospeso fino a quella pagina, Ortese, quindi, crea un coro; crea un mondo visibilissimo e oscuro; parallelamente ne forma un altro meno visibile, omettendolo, di cui ne percepiamo solo le risonanze; inforca una visione; attraverso quella traiettoria dello sguardo che si posa obliqua sul narrato, crea una tensione scomoda imponendo al lettore una serie di livelli percettivi che gli permettono di sapere, pur non vedendo; accumula, accumula, e, nel finale, accende la luce epifanica.
Anna Maria Ortese avverte una certa vicinanza con Ernest Hemingway, tanto che nel luglio del 1961, commentando l’improvvisa scomparsa dello scrittore, lo descriveva come colui che le sembrava appartenere a quel tipo di persone che possiedono una certa «santità animale», estranee a una intelligenza «che oggi ha scarnificato l’uomo»: con le sue opere, infatti, Hemingway raccontava l’esistenza del Tutto di cui l’uomo è parte, descrivendolo attraverso una «tranquilla e maestosa Natura».
Come lui, anche la scrittrice percepisce il peso che il mondo ha sull’essere umano. Anche lei avverte questa vicinanza a un mondo che è altro dall’uomo; è interessata a capire come, questo mondo, cambia le persone e ancora di più, come l’essere umano venga condizionato dalle brutture e dalle storpiature della realtà circostante. Però, diversamente dallo scrittore americano, la sua postura è ravvicinata, contaminata da un bisogno civile più che affabulatorio, che, spesso, ne condiziona lo stile, assolutamente contrapposto a quello più minimalista e disciplinato, quasi sempre in sottrazione, che tanto caratterizza la short story nord americana; e che oggi, a torto, consideriamo l’unica forma di narrativa breve contemporanea.

‘Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di quei cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente’.

Nella Ortese tale visione dà il meglio di sé nei racconti, ne risalta la scrittura e la narrazione.
Per lei la forma racconto – e questo racconto, in particolare – è intesa nel modo più classico, ma anche più ancestrale e significativo rispetto alla sua funzione letteraria: arrivare al grumo di sangue che lascia l’ago quando punge la pelle. Un puntino soltanto, un dolore circoscritto che porta a galla un grido – di Eugenia o di chiunque altro, magari anche il nostro.

La bestia addormentata nel bosco, Tommaso Landolfi

La bestia addormentata nel bosco. Tommaso Landolfi, Lettere dalla provincia

di Alessandro Abbate

Mi sembra che nelle cinque lettere che Anne scrive dalla sua residenza di campagna all'amica Solange, residente a Parigi, si dia espressione ai patemi di un personaggio che disperatamente cerca di sottrarsi al genere letterario cui appartiene. Il fantastico, in questo racconto di Tommaso Landolfi (dal volume "Ombre", 1954), allude alla trasfigurazione dell'umano in bestiale. La metamorfosi tuttavia non altera il corpo, ma le sue funzioni. Si sostanzia in un apparato esterno, eppure avvolgente, che fagocita col tepore del suo abbraccio: nelle grosse sacche di pelle penzolanti dalle travi delle abitazioni, "orribile e fetide", in cui svernare nell'oblio del letargo, come usano gli animali.

Ambientata nella Francia imperiale, Lettere dalla provincia è la storia di una giovane donna che ha avuto le sue buone ragioni per lasciare la raffinata frenesia della capitale e rifugiarsi nei suo possedimenti agricoli. All'iniziale entusiasmo per le semplici gioie della vita campestre ("Ma qui, Solange, è il paradiso terrestre!")  si sostituisce un po' alla volta lo smarrimento che accompagna il calo della temperatura e la coltre di neve che ricopre ogni cosa, mentre, uno dopo l'altro, i villici si addormentano, uomini e donne, adulti e bambini. Lo stupore sfocia infine nell'orrore, quando la completa solitudine in cui si ritrova mette Anne di fronte all'inevitabile prospettiva di una morte per inedia (ovvero alla ripugnante alternativa di riparare anch'ella nel letargo).

Questa storia, che, non solo per attinenze cronologiche e territoriali, vibra del prediletto '800 degli E.T.A. Hoffmann e dei Villiers de L'Isle-Adam, Landolfi la racconta dosando con parsimonia l'esuberanza di lessico che lo caratterizza. Concede alla sua protagonista una lingua di spontanea trasparenza, attraverso cui si tradiscono tanto le sue nevrosi (principalmente nostalgiche) quanto le sue reticenze (dove si annida l'inesprimibile paura, che non è già quella della mera sopravvivenza, a mio avviso).

Il trasferimento della cosmopolita Anne nella "ottusa e bigotta" provincia risponde al topos fantastico della "trasgressione", che il più delle volte è un passaggio spaziale, un attraversamento fisico; una forma di violazione più o meno volontaria, tangibile in prima istanza, ma che preclude al sovvertimento d'ogni consona percezione. Landolfi abbandona crudelmente la donna sulla soglia. La conclusione del racconto si colloca a metà strada fra l'epilogo rassicurante e il salto nell'irreparabile (in altri termini, al di qua o al di là del mostruoso). Lo scioglimento della vicenda appartiene al "non detto"; a quel futuro prossimo, eccedente, che risiede nella sensibilità del lettore. Più semplicemente, è nelle mani del cavalleggero portaordini d'un tratto apparso all'orizzonte muto e candido delle pianure innevate che circondano il suo castello dormitorio, e al quale Anne affida la sua ultima missiva, in cui supplica la cara Solange di venirla a salvare.

Ed è notevole il beffardo contrappasso per cui tale speranza di salvezza, l'affrettata stesura di questo disperato messaggio, sia cadenzata dagli scalpitii e dagli sbuffi del cavallo dell'ussaro che, giù nel cortile, freme per riprendere la propria corsa. Accade dunque che l'istinto animale sia messo a tutela dell'umanità minacciata. La bestialità (letteralmente intesa) produce repulsione e auspicio.

 

Landolfi - Ombre.jpg

Siccome ho parlato di un varco (che unisce e separa) fra il quotidiano e l'arcano; siccome anche qui il fantastico si annida nell'apparentemente mite, salubre, finanche banalissima cornice di provincia, mi sembra quasi inevitabile riesumare le allucinazioni pastorali de La pietra lunare, primo romanzo (breve) di Landolfi (1939). Per evidenziare una fondamentale differenza nel trattamento di un cliché di genere.  Diversamente dalle montagne che circondano il gretto e sonnacchioso paesino di P., il fantastico (e mostruoso) di Lettere dalla provincia non si situa in un altrove relativamente prossimo ma solo segretamente accessibile. Non necessita di lunghe camminate notturne su per i pendii, bensì di aprire la porta di una qualsiasi cucina e osservare le innumerevoli sacche pendenti dalle travi. Si tratta insomma di un fantastico tutto interno, domestico, pervadente, in bilico fra "sostanza" e "costume". Si chiede Anne, confusamente: "É questa pratica una pratica appunto, cioè come dire un'abitudine, ovvero qualcosa che si riferisce alla natura particolare di questa gente e in generale a tutti quanti cadono in letargo, ovvero ancora l'abitudine è per loro diventata una seconda natura?".

Non soltanto può fare a meno dipassaggi segreti in recondite capanne bagnate dal plenilunio; il fantastico di Lettere dalla provincia nemmeno si manifesta nel singolo individuo, nell'unica creatura mostruosa. É invece un perturbante pandemico: qui tutti partecipano in qualche modo della condizione spuria di Gurù, la "verania" de La pietra lunare, donna dal bacino in su, ma per il resto ovina. La scissione non è propriamente fisica, immediatamente visibile nel corpo; piuttosto, è sindrome stagionale. Progressivamente si palesa con l'incedere del freddo, con l'inverno che sospende la vita (e in questo, senza dubbio, secondo uno schema ciclico che si ricollega alle fasi lunari cui soggiace la sartina/capra mannara).

 

"Il corpo femminile si fa soglia del passaggio tra quotidiano e meraviglioso, tra razionale e indecifrabile" sostiene Simona Micali in un bel saggio sulle "retoriche del neofantastico". L'eroina di Landolfi vorrebbe fuggire questo destino che le grava sulle palpebre. In altre parole, Anne non vuole addormentarsied entrare così a far parte del bestiario landolfiano, ritrovandosi nella sconcertante compagnia di blatte vendicative, vermi sciupafemmine, orgasmici armadilli, scrupolosi licantropi, gechi ubiquitari e scimmie blasfeme, fra gli altri. Si rifiuta di diventare una creatura "dallo statuto zoologico ambiguo", quali il Gregor Samsa di Kafka o gli axolotl dagli occhi d'oro di Cortázar.

Come la fanciulla capra de La pietra lunare, tuttavia, Anne non può ignorare né nascondere (tanto a Solange quanto a se stessa) la propria ibridazione: che s'è già compiuta, oltre la letargia incombente, nella forma di sradicamento sociale, scaturita dalla diserzione del luogo di origine a favore della reclusione in un territorio "altro", ovvero dal tragitto non solo simbolico che conduce alle porte del fantastico. Il suo corpo "soglia" ne ha raggiunta un'altra, laddove si sostanzia l'irriducibile dicotomia fra città e provincia, anch'essa qui latrice di minacciosi segnali. Sebbene Anne sia prima quasi piacevolmente incuriosita, quindi sconcertata di fronte allo svelarsi del mostruoso, infine inorridita, ella non può evitarsi di ammettere progressivamente alla sua amica parigina di appartenere ormai sempre meno alla metropoli, che è condizione umana, e d'essere ormai sempre più parte della "bestialità" rurale ("Parigi e tutto il suo mondo mi fanno ora l'effetto di un sogno affannoso...").

 

Ne La pietra lunare, l'imbranato poetucolo Giovancarlo è l'unico a vedere la natura mostruosa di Gurù. Se non proprio insolito, un simile trattamento della materia "scomoda" si pone come una fra le molteplici strategie narrative adottate da Landolfi, fra le cui pagine, al contrario, non mancano quelle in cui il fantastico (che sia inverosimile, o sinistro, o incomprensibile) irrompe senza mezzi termini, senza il filtro di un'ambiguità percettiva. Lettere dalla provinciariprende questa modalità di incertezza. Ancora più sottilmente,  affidandosi a una voce omodiegetica radicalizzata nella forma epistolare, che di per sé pone un ulteriore problema di credibilità: il narratore che scrive lettere è indebitamente prestato alla nostra lettura; la sua eventuale fallacia appartiene all'imponderabile testuale, e tuttavia non si può né biasimare nè eludere. La realtà di ciò che Anne riporta nella sua corrispondenza può dunque ragionevolmente inciampare nel dubbio di una psicosi generata dallo straniamento geografico e sociale, dalla nostalgia di Parigi che ella stessa, nel continuare a negare, non fa altro che riconoscere: "Oh, ma perché mi scrivi tanto di rado, perché non mi racconti mai un po' per bene di Parigi e della vostra vita? Cosa credi, che io sia diventata davvero una selvaggia?".

 

Se nella sua vasta produzione diaristica Landolfi non è mai stato troppo incline all'autoironia ("alibi da quattro soldi"), i suoi racconti e romanzi spesso non mancano di momenti satirici. Anche quest'incubo agreste non fa eccezione: d'altronde, le inquietanti circostanze e la presunta involontarietà del registro sarcastico colorano il sorriso delle congeniali tinte del grottesco. Già nella sua prima lettera a Solange, Anne non esita a confessarle di provare una spiccata simpatia per un certo signorotto del luogo. L'ammissione è tutt'altro che abbottonata: "Egli è giovane, è bello, è fantasioso, è romantico, cavalca come un inglese, legge i nostri poeti e li recita con voce ardente...". Di seguito, però, e nel bel mezzo della più classica scena sentimentale, laddove finalmente s'arriva ad azzardare il primo contatto fisico fra i due innamorati, sembra quasi che Achille Campanile s'impossessi della pena di Jane Austen. Il rovesciamento è di un nero esilarante:

 "Con orrore ho veduto in fondo al suo sguardo come un languore, ma non del genere che puoi pensare, no, come un intontimento, persino un'indifferenza, l'indifferenza da ultimo dell'uomo che è sul punto di addormentarsi. [...] Per un po' ha tenuto tra le sue la mia mano senza far nulla, guardandomi sempre più imbambolato, parendo dimentico del supremo istante e di tutto il resto, poi si è in parte riscosso, ha lasciato questa povera madida mano, ha sbadigliato (sebbene assai urbanamente), si è avvicinato alla finestra, ha tamburellato sui vetri, ha pretestato non so che mal di capo, ha borbottato in aggiunta alcunché di incomprensibile, e, senza neppure attendere licenza (io ero troppo allibita per parlare), ha levato i tacchi". Alla costernata donna non resta la certezza che "senza dubbio la sua sacca sarà di zibellino".

Al di là delle implicazioni di metamorfosi animale, il mostro (i mostri) di Lettere dalla provincia è tutto sommato innocuo, pacifico, letteralmente inattivo; lo spaventoso è nient'altro che il sonno prolungato, la scelta volontaria (o necessità) dell'oblio temporaneo. A cosa vuole sfuggire quella parte di Landolfi, se c'è, che inorridisce attraverso la voce di Anne? La donna, leggiamo nell'ultima sua lettera, teme che nel totale isolamento cui è ormai ridotta non sarà capace di badare a se stessa. Mi sembra che qui, nel finale, resti inespresso (ma solo a livello verbale, giacché è quasi inevitabile percepirlo) il vero terrore, che è quello dell'ultima, unica scelta disponibile, la ricerca di una sacca in cui addormentarsi come gli altri. Come del resto, probabilmente, era solito fare anche quello zio da cui Anne ha da pochi mesi ereditato la proprietà di campagna (non mancano le ragioni per sospettarlo: "E veramente mi par di rammentare ora che, lui così preciso in ogni altra circostanza, alle mie lettere invernali usasse rispondere soltanto a primavera...").

É l'angoscia di un provincialità pienamente compiuta a terrorizzare la donna; condizione che si realizza nell'assecondare il bestiale richiamo letargico, ma che pure, suo malgrado, è probabile che le scorra già nelle vene. Il conseguente rifiuto, l'inevitabile raccapriccio, genera tuttavia da un'omologazione che significa non solo regressione, involuzione, ma che rimanda a un senso di emarginazione sociale, al definitivo distacco dai balli dell'Imperatrice, dalle frequenti visite al Palais Royal, dalle carrozze che arrivano all'Opéra, e che la claudicante retorica della fiera negazione non basta a eludere: "Oh, credi che soffra di queste nostalgie? Disingannati: sono i miei nervi che mi giocano talvolta qualche brutto tiro. Eppoi devo resistere, me lo son promesso".

Cercando dunque la voce di Landolfi fra le parole di Anne, potrebbe forse in questa provincia francese agitarsi lo spettro non agevole da esorcizzare dell'esclusione dalla mondanità letteraria? Detto altrimenti, potrebbero le mille luci e l'aria vibrante della Parigi imperiale, ormai remote, riflettere quelle dei salotti romani a metà degli anni '50?  Arduo da sostenere, trattandosi di uno scrittore schivo come pochi altri, irriducibilmente refrattario a farsi personaggio pubblico, che considerava i propri sgomitanti colleghi esseri "incomprensibili, estranei, remoti". Se proietta un timore dell'autore, la provincia da cui scrive Anne non indica certamente un luogo; se non metaforico, di imperscrutabile complessità, come i recessi di un anima di "inesplicabile miscredenza", e affollata di "ombre". Un luogo dove forse si trasfigura la sua imperterrita frequentazione della "morta periferia del vocabolario italiano", e dove risiede il coraggio della sua difficile grandezza. Ovvero - nel contrasto con l'assordante frenesia della capitale - un luogo in cui si rivela un vago ma ineluttabile presentimento di quella dolorosa tensione "tra il silenzio e l'espressione" che più avanti negli anni gli diventerà peculiare.

In fin dei conti, era proprio nella "mostruosa" provincia natia, nella sonnolenta reclusione della borbonica Pico, che Landolfi si rifugiava il più delle volte per scrivere. Forse in quelle oscene e maleodoranti sacche di pelle appese alle travi si sogna. Forse, al risveglio, quei sogni possono diventare splendidi racconti.