Questo articolo è comparso nella rubrica 'Il Racconto dei racconti', in collaborazione con Minima&Moralia
Anna Maria Ortese
Un paio di occhiali
tratto da Il mare non bagna Napoli, Adelphi
di Rossella Milone
Eugenia è una bambina cresciuta in un vicolo della Napoli del dopoguerra. Le bombe hanno lasciato macerie e residui di un’umanità appesa alle ringhiere dei balconi. La città sfregiata non si è solo rotta, ma ha fatto venire a galla – come da un tombino troppo pieno – ciò che già c’era, e sempre c’è stato. I miserabili, i pezzenti, una forma di vita sfasciata, l’indolenza sotto al sole, macchiata da un atavico vittimismo borbonico. Eugenia sta lì, con il padre Peppino, la madre Rosa, zia Nunzia, una caterva di fratellini, una serie di personaggi limitrofi che danno lo sfondo al racconto. Il paesaggio, diciamo, che, secondo la poetica di Anna Maria Ortese, si esprime attraverso il racconto delle persone.Un coro greco che sottolinea le parole; incide l’azione dei personaggi nella trama, mettendola in risalto come un’immagine che sbuca da un cameo; a volte giudica o sostiene i protagonisti, ma il ruolo di questo coro è sempre a sfondo drammatico: è funzionale ai personaggi principali per coordinarne i gesti e le motivazioni.
Anche in un altro racconto de Il mare non bagna Napoli ‘La città involontaria’, il racconto dei luoghi avviene attraverso una lente particolare che si fissa sugli individui. Per raccontare il III e IV Granili di Napoli, per esempio, un inferno in Terra che dimostra la «caduta di una razza», la Ortese ci fa incontrare Antonia Lo Savio:
“una donnetta tutta gonfia, come un uccello moribondo, coi neri capelli spioventi sulla gobba e un viso color limone, dominato da un grande naso a punta che cadeva sul labbro leporino, stava pettinandosi davanti a un frammento di specchio, e tra i denti stringeva qualche forcina. Sorrise, vedendomi, e disse: «Nu minuto»”.
L’intero percorso delle esistenze che abitano quell’inferno, lo si vede prima sulle facce, nei capelli, nelle dita ritorte e nelle andature storpie degli individui. Come se fossero i corpi a subire, prima ancora delle menti e delle anime, le mutazioni dei luoghi, le brutture, i drammi, per tatuarsi per sempre sulla vita della gente.
In Un paio di occhiali Eugenia ha bisogno di occhiali nuovi perché, come dice il dottore, è completamente cecata. Poveri come sono, è solo grazie ai risparmi di zia Nunzia che riescono a comprarne un paio («Ottomila lire vive vive!»). Quelle lenti, desiderate più del latte, più di un piatto di pasta, sono per la bambina l’antidoto al buio: personale, collaterale alla sua famiglia e, in senso più allegorico, per la città intera. Eugenia non può vedere, cecata com’è, ciò che la gente del rione vede e, con lei, che anche noi percepiamo. Una realtà mischiata, in cui i vicoli spezzano la città in due: da un lato le strade coi vasi pieni di gerani, le signore imbellettate, la luce dorata del cielo aperto, i signori con le pipe, le case piene di ricchezza. Dall’altro un mondo scuro in cui il cielo è stretto, pieno di larve dove strisciano e s’arrampicano persone senza tempo, senza più l’aria.
Anna Maria Ortese, a questo punto, fa compiere la prima meraviglia che un racconto deve fare: evocare un mondo, o una parte di esso, senza dire, con la sola arte della omissione.
Eugenia è convinta che con gli occhiali scoprirà qualcosa che le è sconosciuto: l’origine di quel malessere che pure avverte ma che non sa spiegarsi, a cui non riesce a dare un nome. Non lo vede, non lo vediamo nemmeno noi. Ne sente il brusio, sulla pelle ne sente il formicolio sinistro, ne avverte la minaccia, riconosce il peso blu di un cielo sporco, sfocato. Nonostante il punto di vista del racconto non sia focalizzato internamente alla sola Eugenia ma, di volta in volta, pure negli altri personaggi, anche noi lettori ci sentiamo soccombere da un presagio in arrivo, come avvertito in lontananza. Eppure non c’è. Non lo vediamo. O, meglio, non siamo sicuri di vederlo. È omesso, ma leggibile.
A proposito di questa omissione che rende percepibile ciò che non è scritto, Anna Maria Ortese è una maga. E per far funzionare questo incantesimo compie qualcosa di molto diverso da ciò che fa Ernest Hemingway a proposito della ‘teoria dell’iceberg’: invece di lasciare sotto la superficie della narrazione tutto un universo di significazione, di storia, di conflitti, per far rimanere a galla solo la punta estrema di questo enorme masso di ghiaccio, la Ortese compie un altro gesto narrativo: quello di inforcare una visione.
A differenza di molti narratori – specie quelli nord americani – questo nascondimento, questo atto ellittico del non detto, Ortese lo interpreta, nel racconto, in altro modo. Lei è una scrittrice che vuole vedere. Che porta a galla, anziché seppellire, che mostra, gettando sulla pagina una massa abbondante di informazioni soprattutto di tipo percettivo.
“Uscì sul balcone. Quant’aria, quanto azzurro! Le case, come coperte da un velo celeste, e giù il vicolo, come un pozzo, con tante formiche che andavano e venivano… come i suoi parenti… Che facevano? Dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi portando grosse briciole di pane, questo facevano, avevano fatto ieri avrebbero fatto domani, sempre. E intorno, quasi invisibile nella gran luce, il mondo fatto di Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande. Stava lì col mento inchiodato sui ferri, improvvisamente pensierosa, con un’espressione di dolore che la imbruttiva, di smarrimento”.
Ciò che viene omesso non è un fatto (come avverrebbe, appunto, in un racconto di Hemingway) ma una parte del mondo che la scrittrice contempla – in questo caso la Napoli ricca, quella più agiata; la città colorata del benessere e della cultura – che pure, in qualche modo, rientra nel campo visivo del narrato. Questa percezione di ciò che non vediamo, la presenza pesante di questo mondo ‘altro’ dal vicolo, che sta lì fuori, sospeso come un cielo cattivissimo, a sussurrare appena, rende, attraverso il contrasto, ancora più maledetto, più incomprensibile e oscuro il mondo in cui vive Eugenia, perché fa da contraltare a ciò che, invece, la bambina (e noi con lei) avverte benissimo, nonostante sia mezza cieca. Quella maledizione, appunto, quel malessere che non sa nominare sta lì: nella omissione che la Ortese compie sulla pelle della protagonista.
Questo gesto narrativo della Ortese, avviene non attraverso gli occhi (come se anche lei fosse miope e avesse bisogno di occhiali), non attraverso un semplice sguardo: è la traiettoria di questo sguardo a fornire alla scrittura della Ortese gli strumenti adatti, ed esatti, con cui evocare questo mondo altro.
Ha una traiettoria strana, questo sguardo: si posa dove non dovrebbe, s’infila con l’agilità del gatto di strada negli angoli più incavati di cose e luoghi, raccoglie le briciole più piccole, quelle quasi invisibili a un occhio normale; è lo sguardo irrequieto di chi coltiva l’inquietudine come lente di messa a fuco sul reale. È uno sguardo doloroso, che fa fatica a convivere in pace con la vita, eppure è il solo che ne possa catturare l’essenza.
“Seduta sullo scalino di un altro basso, Eugenia guardava un pezzo di giornale per ragazzi, con tante figurine colorate. Ci stava col naso sopra, perché se no non leggeva le parole. Si vedeva un fiumiciattolo azzurro, in mezzo a un prato che non finiva mai, e una barca che andava, andava chissà dove. Era scritto in italiano, e per questo lei non capiva troppo, ma ogni tanto, senza un motivo, rideva”.
Questa visione è prima di tutto privata, personalissima, di donna ed essere umano (tanto che il libro, apparso nei Gettoni della Einaudi nel 1953, fu interpretato dalla critica come un testo contro Napoli, che le costò un ostruzionismo tale da non farla mai più tornare nella sua città adottiva, ma che, soprattutto, la relegò ai margini di una vita povera e incompresa). Seppure isolata dagli ambienti mondani e letterari, la sua dedizione alla letteratura era attiva e totalizzante, e questa totalità si riverberava anche sulla sua postura di scrittrice.
Diversi anni fa, curai, con altre realtà cittadine, un evento legato ad Anna Maria Ortese presso il Palazzo delle Arti di Napoli. Per raccogliere materiale e studiare la sua poetica, lavorammo per un certo periodo all’Archivio di Napoli, in cui è raccolto parte del patrimonio ortesiano depositato nell’Archivio, nel 2002, dalla nipote Rita Ortese. La maggior parte dei documenti sono rappresentati da epistolari, appunti, pagine di diari e opere inedite. Ma la mia memoria si è fossilizzata su un suo pacchetto di sigarette (ovviamente vuoto) con ancora la pellicola di plastica, e un appunto scritto da lei, a penna blu, sul cartoncino, parecchio lungo, tanto da occupare quasi tutto il bianco del pacchetto. Non si capiva nulla, di quello che c’era scritto. Singole parole, le congiunzioni, qualche verbo. Ma il senso del pensiero completo non riuscii a decifrarlo, era incomprensibile. Dopo tanti libri letti della scrittrice, in realtà fu quello a farmi comprendere quanto fosse radicata, profonda e dolorosa quella visione che caratterizzò tanto la sua scrittura: la grafia, così sbilenca e isterica e nervosa, era la prova di uno sguardo che raccoglie il pensiero in modo veloce, rapace e aggressivo, quasi che potesse sfuggirle dalle dita e non acchiapparlo mai più.
Il senso di questa rapacità si evince, completamente, nella sua scrittura. È nella scrittura che si trova la sola chiave di lettura di un testo e il tentativo di una sua eventuale verità. Fu lei stessa a dichiarare che nei racconti de Il mare non bagna Napoli:
‘la scrittura ha un senso di esaltato, di febbrile, dà nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di troppo: sono palesi i chiari segni di una autentica nevrosi. […] Se all’origine di tale lacera condizione vi era appunto la infinita cecità del vivere, ebbene era questo vivere che io chiamavo in causa, […] e perciò tramite questa nevrosi, io gridavo’.
Nei racconti soprattutto, questa specifica angolazione, questa traiettoria dello sguardo, sorretta da una scrittura tanto bellicosa, rende possibile le omissioni che Hemingway lasciava sotto la superficie. La Ortese tiene la narrazione lì, a galla, ma spostata di qualche millimetro, raccontata con occhi sghembi, tanto da ottenere quell’effetto di presagio imminente, quel brusio in lontananza che di pagina in pagina quasi ci soffoca, pur non capendo da dove provenga.
Questa visione, in Un paio di occhiali, è funzionale a una cosa soltanto: al finale. E, in questo senso, Ortese usa il racconto nel modo più classico della tradizione moderna, assecondando Joyce o Woolf o Mansfield. Si avvia verso un traguardo epifanico, che esplode nell’ultima pagina quando, finalmente, Eugenia riuscirà a inforcare gli occhiali nuovi. Riuscirà a vedere. E quindi a sapere.
Per arrivare lì, per giungere col fiato sospeso fino a quella pagina, Ortese, quindi, crea un coro; crea un mondo visibilissimo e oscuro; parallelamente ne forma un altro meno visibile, omettendolo, di cui ne percepiamo solo le risonanze; inforca una visione; attraverso quella traiettoria dello sguardo che si posa obliqua sul narrato, crea una tensione scomoda imponendo al lettore una serie di livelli percettivi che gli permettono di sapere, pur non vedendo; accumula, accumula, e, nel finale, accende la luce epifanica.
Anna Maria Ortese avverte una certa vicinanza con Ernest Hemingway, tanto che nel luglio del 1961, commentando l’improvvisa scomparsa dello scrittore, lo descriveva come colui che le sembrava appartenere a quel tipo di persone che possiedono una certa «santità animale», estranee a una intelligenza «che oggi ha scarnificato l’uomo»: con le sue opere, infatti, Hemingway raccontava l’esistenza del Tutto di cui l’uomo è parte, descrivendolo attraverso una «tranquilla e maestosa Natura».
Come lui, anche la scrittrice percepisce il peso che il mondo ha sull’essere umano. Anche lei avverte questa vicinanza a un mondo che è altro dall’uomo; è interessata a capire come, questo mondo, cambia le persone e ancora di più, come l’essere umano venga condizionato dalle brutture e dalle storpiature della realtà circostante. Però, diversamente dallo scrittore americano, la sua postura è ravvicinata, contaminata da un bisogno civile più che affabulatorio, che, spesso, ne condiziona lo stile, assolutamente contrapposto a quello più minimalista e disciplinato, quasi sempre in sottrazione, che tanto caratterizza la short story nord americana; e che oggi, a torto, consideriamo l’unica forma di narrativa breve contemporanea.
‘Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di quei cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente’.
Nella Ortese tale visione dà il meglio di sé nei racconti, ne risalta la scrittura e la narrazione.
Per lei la forma racconto – e questo racconto, in particolare – è intesa nel modo più classico, ma anche più ancestrale e significativo rispetto alla sua funzione letteraria: arrivare al grumo di sangue che lascia l’ago quando punge la pelle. Un puntino soltanto, un dolore circoscritto che porta a galla un grido – di Eugenia o di chiunque altro, magari anche il nostro.