Cogito ergo (infeliciter) sum: Giovanni Papini,
Non voglio più essere quello che sono
di Alessandro Abbate
"Io, come artista, come scrittore" sosteneva di sé Giovanni Papini (1881-1956), "ho creato un genere, nuovo in Italia, di storie assurde, inverosimili, irreali".
Pur non volendo entrare nel merito di questa affermazione di paternità (che renderebbe necessario, se non altro, ragionare sull'esperienza della Scapigliatura milanese e i ripetuti cedimenti dei più formidabili campioni del Verismo alle tentazioni del misterioso e soprannaturale), è indubbio che il riconoscimento di uno status almeno in parte privilegiato nello scenario del filone fantastico nazionale derivi dal fatto che egli è l'unico autore italiano inserito nel 1940 dal triumvirato argentino Borges, Ocampo, Bioy Casares nella loro celebre "Antologia della letteratura fantastica" (restando tale anche nella successiva e accresciuta riedizione dell'opera, datata 1965, ovvero quando i nomi di Landolfi, Buzzati e Calvino avrebbero potuto ragionevolmente consentire una maggiore rappresentanza tricolore all'interno della raccolta). Del resto, lo scrittore fiorentino è anche il solo Italiano cui Borges abbia dedicato uno dei trentatré volumi monografici della sua, per altro quanto mai universale, "Biblioteca di Babele", prelibata collana di letture fantastiche realizzata per l'editore Franco Maria Ricci alla fine degli anni '70.
La forma breve appartiene alla produzione giovanile di Papini; si condensa in poco più di un decennio (1906-1914), e in quattro raccolte. Nelle prime due, "Il tragico quotidiano" (1906) e "Il pilota cieco" (1907), lo scrittore appare soprattutto ossessionato dal problema dell'identità, che variamente declina, sempre in chiave surrealista e paradossale, e con un forte carico di angoscia esistenziale, secondo i diversi spunti di meditazione offerti dal medesimo sentimento di insanabile dualismo: oltre alla riproposizione del classico Doppelgänger (Due immagini in una vasca), l'antitesi ontologica che genera sconcerto è quella tra finzione e realtà (Storia completamente assurda), sogno e veglia (L'ultima visita del Gentiluomo Malato), vita e morte (Il suicida sostituto), individuo e società (Chi sei?).
Si nota, inoltre, la ricerca espressiva di un canone inverso che si sostanzia spesso in un anti-racconto, attraverso l'estrema riduzione della materia narrativa e la scarnificazione di personaggi e situazioni a tutto vantaggio di un'atmosfera, una voce quasi disincarnata, un dubbio, un delirio mentale. D'altra parte, parole e pensieri orbitano in un sistema gravitazionale che attrae ogni singolo elemento (anche in presenza del gusto per l'invenzione stravagante e dell'istrionismo linguistico) verso un sofferto nodo di malinconia mai completamente espresso, nel cui profondo sembra nascondersi l'origine di ogni paradossale esagerazione.
Ritengo Non voglio più essere quello che sono, (da "Il tragico quotidiano"; apparso inizialmente su "Leonardo" nell'aprile 1905) esemplare di questa scrittura imbevuta di sperimentazione stilistica, cimento filosofico e umana trepidazione. L'intreccio è quasi del tutto assente, sostituito dall'esposizione di uno stato emotivo; la costruzione narrativa è quella senza tempo né verso di un'ossessione passata al setaccio di un ragionamento azzoppato dalla disperazione; se c'è una storia, essa va cercata nei fatti che precedono (e seguono) il transitorio momento della scrittura.
"Soltanto dieci ore fa mi sono accorto della mia orribile condizione" esordisce Papini, stabilendo una coincidenza fra esperienza e scrittura che potrebbe suggerire una natura diaristica del testo. Eppure, c'è davvero poca introspezione nella sua voce: la confessione non è intima, ma di tipo spettacolare; lo sconcerto quasi si stempera nel compiacimento del caso straordinario da mettere in mostra.
Sin dal principio, l'autore appare mosso dal proposito di coinvolgere i lettori su un piano di soggezione: non soltanto interpellandoli direttamente con un dubbioso "capite?" che già allude alla qualità eccessiva, inusitata, probabilmente inafferrabile ai più, della sua inquietudine; soprattutto, cercando di suscitare la loro meraviglia prima ancora di rivelare l'oggetto del racconto, attraverso un preambolo che utilizza una strategia sensazionalistica in cui modi verbali, aggettivi e avverbi contribuiscono alla creazione di un'alephiana iperbole di quella "terribilità" in cui il narratore afferma di essere "laureato", avendo egli "provato, pensato, immaginato, sognato tutto quel che c'è, che sarà, che ci potrebbe essere di più pauroso, di più tormentoso, di più raccapricciante, di più mostruosamente e forsennatamente angoscioso".
Ciò su cui Papini teme di non essersi spiegato bene abbastanza è il fatto, l'improvvisa e scioccante scoperta, che egli non potrà mai cessare di essere se stesso. Tale rivelazione, in bilico fra banalità e audacia speculativa, assume ai suoi occhi i contorni di un disastro irreparabile e dalla gravità inaudita. Mescolando sconforto e irritazione, egli si sofferma per dare qualche esempio dei finti e superficiali rinnovamenti oltre i quali non è possibile mutare ciò che si è. Accade allora che l'irrequietezza ontologica dello scrivente si traduca in ridondanza espressiva dello scritto: Papini vorrebbe cambiare, ma "completamente, interamente, radicalmente"; non si contenta delle consuete e ridicole trasformazioni di cui ognuno è più o meno capace: "si tratta di spolveratine, di sgomberi, d'imbiancature"; adottando la metafora del libro, osserva come, pur cambiandone le apparenze materiali (copertina, caratteri di stampa, frontespizio), si resta sempre "inesorabilmente, implacabilmente" con "la stessa vecchia, uggiosa, lamentevole storia"; insiste nel ribadire che, dopo ventiquattro anni di vita, la sua non è soltanto noia: "dite pure che io sono disgustato, ributtato, nauseatodi questo me stesso".
Si assiste dunque a una moltiplicazione lessicale che sembra il sintomo di una volontà (o meglio, anelito) di indeterminatezza; la stessa singola parola non esaurisce in sé il proprio valore semantico, ed è avvertita come irrimediabilmente insufficiente. La significazione si disintegra nella sequenza di doppi o tripli lessicali (per lo più sinonimici) che ribadiscono sul piano verbale tanto la crisi quanto il rifiuto dell'identità costituita.
L'angoscia esistenziale di questo (anti)racconto germina dal rigetto della consolazione cartesiana: la "salda e certa verità" di questo indubitabile "io" (come definita dal freddoloso istitutore della reginaCristina di Svezia) non è di giovamento alcuno. Al contrario: Papini non vuole erigere una fortezza metafisica partendo da questo inamovibile primo mattone, bensì distruggere l'intero edificio del proprio essere. Adoperando il cogito, egli maledice il sum, in quanto prigione, condanna, "corpo dal quale non può sloggiare", "anima che non può gettare in qualche mare".
Non sorprende questo rovesciamento di prospettiva: è ben noto il suo atteggiamento provocatorio e dissacrante (ma pure frutto di una robusta conoscenza della materia) nei confronti di ogni sistema filosofico (con la sola eccezione, forse, del Pragmatismo americano). Si ricordi che l'esordio letterario di Papini fu quel "Crepuscolo dei filosofi" inteso come "massacro, pieno di volontà di uccidere, di annientare, di sbranare" che, pur concentrandosi sui principali pensatori del XIX secolo, finisce con l'assumere il significato di una liquidazione del pensiero filosofico tout court.
Non voglio più essere quello che sono esprime un'aspirazione poetica più che un ragionamento filosofico. Difatti, mi pare che il dilemma metafisico venga esposto con meno lucidità argomentativa di quanto non fiocchino invece i toni di affranta e faustiana liricità: "Chi mi insegnerà, dunque, tra questi uomini amanti di focolari e di fiori secchi, a liberarmi dal mio corpo e dalla mia anima? Chi potrà far sì ch'io non sia più io, e che mi tramuti in un altro, sì da non ricordarmi neppure di quello che son ora? Chi potrà, uomo o demonio, darmi quello ch'io chiedo con tutta la disperazione della mia anima furiosa contro se stessa?".
Il riferimento alla poesia m'è parso inevitabile, soprattutto dopo aver chiamato in causa l'autore del "Discorso sul metodo". In Cartesio il poeta, saggio pubblicato nel 1937 su "Nouvelles Littéraires" (riapparso poi il 28 febbraio 1950 su "Il messaggero" e infine incluso nel volume "La loggia dei busti", 1955), Papini scriveva del filosofo e matematico francese: "Credette di trovare incontestabile assioma che gli permettesse di ricostruire la scienza sul vero nel famoso cogito ergo sum. Formula, se ben si guarda, tutt'altro che razionale, perché non è concepibile dire 'io penso' se prima non si ha un'idea dell'essere in generale, la certezza dell'autonomia dell'io". La causa di questa carenza speculativa, secondo Papini, è da cercarsi nel fatto che Cartesio preferiva di gran lunga "il fuoco della poesia al ghiaccio della ragione"; non a caso, egli rammenta, il cogito ergo sum è formula non del tutto originale, bensì ricavata da Agostino d'Ippona, "il quale non era solamente un santo e un teologo, ma aveva caldissima anima di poeta".
Fin quasi a conclusione del testo, non si rende esplicito il motivo di questa smania, di questa frustrata disaffezione verso se stesso. Che però non ha nulla del desiderio di morte. Papini rifiuta il suggerimento di un "demonio" che vorrebbe istigarlo a uccidersi (come Cartesio sottrae l'indubitabile "io" all'inganno sistematico del "genio maligno"). Il suicidio non è una soluzione; l'annichilimento sarebbe una negazione dell'essere, non una sua rigenerazione. E invece Gianfalco (che appena l'anno prima aveva conosciuto Bergson al Congresso Internazionale di Filosofia di Ginevra) non è ancora "un uomo finito", ed esprime a chiare lettere l'élan vital che lo agita, la sua "prepotente voglia di essere in altro modo, di essere un altro".
L'intima sorgente di questa sua ossessione emerge quindi in dirittura d'arrivo, e ha il sapore di una masochistica agnizione: "Ho una disperata volontà di non essere quello che sono, perché io son tale che voglio ciò che non potrò mai avere. Io voglio non essere me, perché so che non potrò mai non essere me". In chiave cartesiana, l'incessante sforzo intellettivo, la lunga elucubrazione che costituisce il racconto, è al tempo stesso strumento e causa di fallimento del suo sforzo di sfuggire a se stesso. Insistendo nel pensare, nel ragionare, egli rimane stretto nelle spire di questo serpente che si mangia la coda, che non è altro che il suo "io" pensante. "Io sono, io esisto; è certo" dice di sé Cartesio nella seconda delle sue Meditazioni sulla filosofia prima. "Ma per quanto tempo? Certamente per tutto il tempo che penso". Papini è una "cosa pensante": fin tanto che pensa di non essere più Papini, resta Papini.
Tuttavia, è nel pensiero stesso che l'autore cerca infine di darsi una speranza. Gli viene nottetempo suggerita da un metafisico interlocutore, uno dei suoi "demoni familiari", specchio fuggente e stendhaliano, il quale, osservandolo nella tormentata gestazione del racconto e leggendo ciò che sta scrivendo, gli fa notare come egli assomigli a quel medico che cercava la mula mentre la cavalcava: "Voi siete un poco come lui, stasera. Cercate di essere un altro. Ma chi ha un desiderio che nessuno ebbe, è già, dinanzi a tutti gli uomini, sulla via per non essere ciò che è. E voi siete in questo caso, ottimo e frettoloso amico".
Anziché all'assillo metamorfico dello scrittore, la fretta sembra piuttosto appartenere a questa considerazione conclusiva del racconto. Credo che Borges ne sia stato un commentatore di mirabile acutezza e profonda sensibilità umana (seppure estremamente sintetico) nell'invalidarne quel non poco compiaciuto e a tratti presuntuoso sentimento di dramma esclusivo (ovunque percepibile fra le pagine; anche soltanto nello scroscio di un pronome indefinito che nella negazione si arroga il privilegio dell'unicità: "nessuno può sapere ciò che io dico e ciò che voglio. Nessuno saprà mai quello ch'è in me, in questi paurosi momenti. Nessuno, proprio nessuno"); e perciò affermando, nell'introduzione al volume papiniano de "La Biblioteca di Babele", che "Non voglio più essere quello che sono" rappresenta, al contrario, "l'espressione perfetta di un anelito che tutti gli uomini hanno sentito".