Edmondo De Amicis senza cuore

Senza Cuore: Edmondo De Amicis, Tra due mosche

di Alessandro Abbate

 

Ma pure senza dignità, senza vergogna, senza valori, senza Dio. É così che si mostra l'umanità ai caleidoscopici occhi di una coppia di ditteri domestici, mentre, nella calura di un pomeriggio estivo, agitando nell'aria pesante le loro minuscole antenne, conversano sulla disgrazia di convivere con il "meschino colosso". Il giudizio è tanto disastroso quanto inequivocabile, nel variegato accumulo degli epiteti che si succedono lungo il testo: "gli uomini sono una razza trista e feroce", "odiosa", "disprezzabile", "maledetta"; nient'altro che "buffoni", "vili e malvagi", "stupide bestie"; l'uomo è "ignorante", allo stesso tempo "debole e violento", "ingiusto e irragionevole".

L'ultimissimo De Amicis, scrivendo sulle pagine della "Illustrazione Italiana" (popolare rivista settimanale creata dall'amico ed editore Treves di Milano), si congeda dal lettore con una serie di elzeviri e brevi narrazioni di tono polemico e deprecatorio, venati di ironica amarezza, nei quali l'indiscutibile abilità bozzettistica si fa strumento d'indagine e denuncia delle molteplici turpitudini e contraffazioni che regolano l'esistenza nel consorzio umano. Emerge, in questa sua conclusiva produzione, un'ossessiva urgenza di palesamento della falsità dominante; uno sguardo tenacemente inquisitorio che spazia, fra gli altri, dal linguaggio imbalsamato oggetto di Complimenti e convenevoli (dove, con garbata acutezza, si enumerano i vuoti formalismi di una comunicazione quotidiana che di frequente s'impantana nel lessico dell'ipocrisia), fino alle elucubrazioni fisiognomiche de La faccia, di vago sapore lombrosiano, il cui discorso sulle grottesche e ingannevoli maschere sociali muove da una questione di deformità estetica a un'altra di più intima abiezione, di bruttezza morale.

Una ventina di anni fa, la casa editrice romana Salerno ha riesumato quattro di questi singolari componimenti, per troppo tempo e scioccamente disertati, in un volumetto che affascina e sorprende tanto per le sue assonanze con l'emergente teoria psicoanalitica e con alcune forme della sperimentazione letteraria del primo Novecento (l'introspettiva divagazione cui si dedica il Cavaliere protagonista di Cinematografia Cerebrale - racconto che dà il titolo alla raccolta - lambisce gli sfuggevoli territori dello stream of consciousness, così come trasforma l'ozio pomeridiano in un'anticamera verso il subconscio e la rivelazione di un Io disintegrato), quanto per l'immagine del tutto desueta che restituisce dello scrittore di Oneglia (ma piemontese d'adozione), pressoché inconciliabile con quella stereotipata di un autore tutto buoni sentimenti, positivistica fiducia nel genere umano, e da affrontare col fazzoletto alla mano.

Di questa breve antologia, Tra due mosche (che vide la luce il 29 dicembre 1907, poco più di tre mesi prima della morte di De Amicis) può apparire quello meno complesso nel generale disegno di censura, non fosse altro che per il genere (favolistico) cui si richiama. La semplicità di superficie, tuttavia, serve ad affondare meglio il colpo. L'intento moralistico del classico apologo con animali diventa qui condanna inappellabile dell'agire umano, priva di qualsiasi finalità educativa, giacché articolata senza alcun segno tangibile di immedesimazione, né sul piano emotivo né su quello della costruzione formale. Siccome l'antropomorfismo (quanto meno verbale) non regge una narrazione di senso metaforico, mantenendo piuttosto ben distinto e separato l'insetto dall'uomo (nella funzionale, contraddittoria convivenza all'interno del testo), più che guardare indietro ai modelli di Esopo, Fedro o La Fontaine, il racconto sembra piuttosto anticipare il registro beffardo, insolente (ma pure a tratti disilluso) delleBestie del 900 di Palazzeschi (si pensi alle apotropaiche dichiarazioni di avversione da parte della gallina Pompona nei confronti della massaia megera dal "naso grifagno e le grinfie d'arpia": "Ti si aprisse la cateratta! Ti si accavallassero le budella!"; alla sboccata diffidenza del pesce Liù, meravigliosa regina, mentre il pittore che ne sta facendo il ritratto già si chiede come cucinarla: "Lazzarone! Belva umana! Ho ragione di gridare? Fritta... lessa... e servita con una salsettina piccante... Cornuto integrale!"; alle melanconiche considerazioni di Kan, vecchio leone vegetariano di cui nessuno ha più paura ormai: "Mi pare d'essere uno di quei vestiti che vengono rovesciati prima di buttarli nelle immondezze, perché dall'altra parte possono ancora servire").
 

Lo spunto, come già anticipato, riguarda le difficoltà incontrate da una mosca per sottrarsi alle mille insidie dell'ambiente domestico, agli incessanti tentativi di sterminio da parte dell'uomo: "Le case degli uomini sono covi d'insidie, dove si rischia la vita ogni momento e si vive in affanno continuo". Da un tale, futile pretesto, De Amicis imbastisce la paradossale esposizione di una bestialità umana che è speculare a quella dell'insetto, finanche maggiore (e non certo per una mera questione di dimensioni fisiche). Il chiaro e misurato fraseggio (è di pochi anni precedente la sua finale teorizzazione di una "lingua media" affidata a L'idioma gentile) è messo al servizio di un sarcasmo spinto fino ai limiti dell'iperbole, che spazia dalle abitudini alimentari ("E non ti puoi figurare quanti piccoli insetti ripugnanti ingoiano con le frutta, i legumi, col cacio. Ah, che schifo! E trattano noi come animali immondi!"), passando per l'organizzazione domestica, l'educazione della prole, fino a interpellare le pratiche igieniche ("O cos'è tutto questo schifo che hanno per le mosche? Noi siamo più pulite di loro. Loro si lavano il viso e le mani una volta al giorno; noi lungo il giorno facciam pulizia mille volte"). Ma soprattutto, allargando lo spettro delle considerazioni fatte dai due muscidi, De Amicis redige una dissacrazione tout court dell'istituto familiare, catalogando e mettendo alla berlina gli squallori, le crudeltà, le menzogne di individui fobici, ottusi, egoisti, violenti.

Il nucleo familiare è un coacervo di promiscuità: il padrone di casa se l'intende con la cuoca, suo figlio con la cameriera; la figlia maggiore s'intrattiene in illeciti passatempi con vari giovanotti; la signora usa sollazzarsi con il pingue parroco, dopo che questi s'è abbondantemente rifocillato ai pranzi cui viene regolarmente invitato (e che non manca di benedire). Alle stoccate anticlericali, De Amicis aggiunge una sensibilità animalista ante litteram, per altro giustificata da un vero e proprio spettacolo da Grand Guinol: "Nella loro stanza del fuoco [la cucina] io vedo strozzare e scannare, scorticare animali vivi, e vivi gettarli nell'acqua bollente, dove si torcono fra così atroci spasimi [...] Brandelli di carne, visceri, zampe, teste tagliate, da ogni parte: ogni giorno è una strage, un macello che insanguina tavole, panni, mani, ogni cosa". Una simile ferocia, nell'uomo bruto, si accompagna alla più insanabile stupidità: "Ha visto migliaia di noi, ci vede di continuo, e non ci conosce, non sa come siam fatte. Egli pensa di coglierci di sorpresa, avvicinando a noi la mano aperta, lentamente di dietro, come se non la potessimo scorgere". Pur nell'ironica fallacia del punto di vista di un insetto, certe perversioni affiorano in tutta la loro disgustosa plausibilità: "Più d'una volta ho veduto la femmina della polvere [la domestica] cogliere a volo una mosca, ammazzarla e cacciarla in fondo alla tazza del caffè che portava poi alla padrona, e questa ha ingolato tutto. Senza dubbio quella le mette le mosche nel caffè perché sa che le piacciono".

In questa disgustata revoca dell'idealizzazione dei saldi e genuini legami familiari che erano stati il fulcro del progetto pedagogico di Cuore; nell'evidente smorzamento degli entusiasmi di progresso antropologico del tricolore post-risorgimentale, permane tuttavia un residuo della "umbertina" aspirazione di De Amicis all'unità di un popolo italiano (non ancora tale) che superi le distinzioni etniche e territoriali, così come di un socialismo umanitario tendente all'armoniosa convivenza fra le classi (senza però cancellarle). Delle due mosche, infatti, l'una è cittadina; l'altra "era una mosca di campagna, ch'era venuta sul dorso d'un bove in città con la speranza di menarvi una vita più agiata e più gaia che nella solitudine dei campi; e immaginando che la sorella cittadina sopraggiunta abitasse nella casa lì accanto, le espresse il desiderio di prendervi domicilio sotto la sua protezione". Questo progetto di mobilità (al pari della narrazione dialogata, dunque corale, e della condivisione del problema di fondo) allude a una felice sintesi delle diversità geografiche e sociali, che a sua volta ripropone, pur nella trasfigurazione della fabula irriverente, la matrice dell'auspicata unità e identità nazionale (del "ragazzo calabrese" che nomina la "patria" in un scuola elementare di Torino, per dirla col De Amicis del 1886). Ciononostante, è avvenuta una inversione di prospettiva: da artefice di evoluzione civica e culturale, l'uomo è ridotto adesso a fallimentare oggetto di indagine impietosa, come per effetto di un paradossale processo di entomologia rovesciata.

E forse non è un caso che, sotto la lente d'ingrandimento, l'immagine più repellente sia proprio quella del bambino, del "figliuol piccolo", nel quale si manifesta "tutta la crudeltà di questa gente": "Costui passa a volte un'ora intera a darci la caccia [...] Ma non per liberarsi della nostra molestia: per il solo gusto di torturarci lavora. A quante n'acchiappa strappa le ali, le zampe e le teste [...] Le une infilza con uno spillo, le altre brucia alla fiamma d'una candela; ne stronca qualcuna e la lascia libera per vederla andar barcollando con le interiora fuor del corpo". Sono spariti ormai gli eroici fanciulli celebrati dal maestro Perboni. L'edificante e lacrimevole sacrificio dei vari scrivani fiorentini, vedette lombarde e tamburini sardi ha lasciato il posto all'istinto assassino di un sadico moccioso: "dei patimenti orrendi di tutte, che spia e indovina, gode, il piccolo mostro, tanto che gli scintillano gli occhi e gli fa la bava alla bocca". La classe di Errico Bottini è deserta: v'è rimasto soltanto Franti, a maturare ulteriormente nella propria cattiveria, in virtù del disastro formativo che gli viene somministrato (espresso dalla "infima" mosca con meste parole che riecheggiano lo Shylock shakespeariano): "E sai cosa gli dicono, quando lo vedono all'opera orrenda, il padre e la madre? - Che non perda a quel modo il suo tempo! - Null'altro! Par che non pensino che noi soffriamo, perché siam piccole".

Questo breve racconto è un aspro divertissement da cui trapela un'ansia di esorcizzare non soltanto l'entusiasmo, ormai scaduto, che in Cuore aveva dato voce alla patetica santificazione dell'ordine borghese; ma pure, e sopratutto, più dolorosi e scomodi spettri autobiografici. Il naufragio familiare, il lerciume nascosto nelle quattro mura, toccò De Amicis in prima persona. Il suo matrimonio con Teresa Boassi è di recente emerso (grazie alle ricerche di Luciano Tamburini) essere stato all'insegna della violenza domestica, del sistematico sopruso, dell'inganno. Conclusione, il logorroico romanzo (a metà strada fra il delirio e la vendetta; oggi superstite in sole due copie) dato alle stampe dall'ex signora De Amicis subito dopo il molto litigioso divorzio fra i coniugi e il suicidio del primogenito Furio, ci consegna la figura di un marito canaglia, di un orco, un dissoluto, un perfido (l'epigrafe al volume è quanto mai eloquente: "a tutte le martiri che si sono sacrificate invano"). É plausibile l'agire di un anelito espiatorio, quindi, o quanto meno di un ineluttabile vincolo di confessione, nel fatto che il "bestione" a capo della sciagurata famiglia moschicida sia proprio uno scrittore, il quale "sta tutto il giorno a far segni neri su dei fogli bianchi con un cannetta che intinge in un vaso pien di porcheria".

La "porcheria" dell'inchiostro, per metonimica attinenza, evoca l'Edmondo De Amicis con cui colloquia Giorgio Manganelli nelle sue Interviste impossibili, quando si definisce "un badilante della prosa", "uno scrittore infimo, disonesto, vigliacco". Sorge l'interrogativo se Manganelli (che scriveva a metà degli anni '70) ricamasse, pur con acume critico, sul prediletto adagio della "letteratura come menzogna"; ovvero se fosse effettivamente a conoscenza degli incresciosi scheletri nascosti nell'armadio di casa De Amicis, guardando come la dolente disistima che il fittizio autore di Cuore ammette di se stesso travalichi infine l'ambito professionale: "Ero convinto di essere un brav'uomo, di avere sentimenti [...] impeccabili: quanto poco tutto ciò era vero. [...] Sono costretto ad accorgermi di essere, tutto considerato, una figura losca, impura, disonesta". In ogni caso, sono parole, queste, che le nostre due mosche non avrebbero esitato a sottoscrivere.