Il colloquio del fiume, un racconto di Cesare Pavese

IL COLLOQUIO DEL FIUME

Cesare Pavese

Dopo l'ultimo incontro sulla riva del fiume vagabondai nei prati come facevo da ragazzo. La giornata non voleva finire. Io sapevo che un giorno quelle ore le avrei ricordate come ricordo i pomeriggi abbandonati di tanti anni fa. Ero ridotto come un bambino, troppo ammaccato per sentir altro che il mio corpo, e le angosce mi camminavano davanti come guide. Le seguivo istupidito.
Fabbriche e cupole lontane non superavano le siepi. La campagna diceva il suo vuoto. Senza dubbio ero già entrato nello stato di coscienza in cui tutto può accadere perché piú nulla importa. La cocente distrazione che mi aveva cacciato, si chiariva per ciò che era veramente – un distacco –, e mi trovavo staccato da me stesso al punto che guardandomi intorno ogni cosa era impensata. Saltai senza sforzo, senza volerlo, un corso d'acqua, e camminavo sull'orizzonte come nel sentiero. Ricordi remoti mi salivano agli occhi, quasi fossi felice. E intanto notavo ogni cosa; ripensavo le piante capovolte nel fiume e potevo esitare tra il mondo di sopra e quello di sotto, non sapendo quale fosse il piú verde. «Si riflettono nel cielo dell'acqua», dicevo, e studiavo le nuvole bianche, quasi fossero anch'esse un riflesso.
Il fatto è che qualcuno mi chiamava. Non so perché recalcitrassi. Avrei voluto esser disperso nel mio dolore, e invece sapevo che mi ero distratto e qualcosa mi cresceva dentro che mi occupava tutto quanto. Se quand'ero ragazzo mi avessero detto che mi attendeva quel pomeriggio, avrei risposto che un ragazzo non ha nulla da spartire con i grandi e sarei scappato via. Ora il ragazzo mi chiamava, e non volevo riconoscerlo. Non pensavo che a questo. Fin che sul prato fu lui solo, resistetti. Ma poi comparve anche la scalza, pelle fosca e robusta, il vestito a fiorami. Riannusai, come fosse presente, l'odor dell'estate. Mentre tutto sgorgò, rimasi immobile non potendo far altro, e guardavo esitante le siepi e il sentiero. Rispondevo al ragazzo, a voce bassa, ansioso come un abbandonato. E mi diedi al ricordo.
La donna era scalza, come allora. Allora era salita sul treno sotto i fiorami sventolanti, spinta alla vita da quell'uomo, contadino scuro in faccia come lei, che l'aveva rincorsa ridendo. Avevano in mano una cestetta tutta fradicia, e ci avevano guardati dal bianco dell'occhio. Il treno tornava in città e molti ridevano, pensando sul marciapiede le piante sudice della donna. Ridevano in faccia a quei due, messi di buon umore dalla loro goffaggine.
La scalza non guardò il ragazzo – era seduta abbandonata stringendosi all'uomo, e aveva ancora paglie nei capelli. Di dove venissero nessuno sapeva. Venivano da quelle colline, le avevano negli occhi e nel sudore. Soltanto il ragazzo non rise.
– Io di te non ho riso, – dissi alla scalza che mi venne incontro. – Quel ragazzo lo sa.
– Sí, – disse la voce. – Quand'eri ragazzo eri piú buono con le donne.
Volsi l'occhio, come a dire che in presenza del ragazzo era meglio tacere.
– Non eri un ipocrita allora. Non avevi di questi riguardi.
– Sí che li avevo, – dissi convinto. – Uno è sempre lo stesso.
Il ragazzo lasciava che parlassimo noi. Anzi pareva che sbirciasse per il prato, pronto a prendere la fuga non appena guardassimo altrove.
– Ma allora era giusto. Allora non sapevi che cosa è una donna.
Mi guardò, con gaiezza, dal bianco dell'occhio.
– Adesso dovresti saperlo.
Allora le dissi: – Sempre cosí giovane sei?
Le guardavo la gola e parlavo sommesso. Mi aspettavo un'ingiuria, una smorfia, uno scatto.
Invece fu un rauco sospiro, intonato alla veste e ai capelli arruffati. – Perché me lo chiedi? – disse, e indicò il ragazzo. – Lo sa lui, non ti basta?
La veste ebbe un sussulto sui polpacci.
– Sei sempre la stessa, – dissi animato. – Non dimentico piú quella sera d'estate.
La scalza sorrise di nuovo.
– Ne parliamo sempre. Vuol sapere che cosa facevo, di dove venivo, se quel giorno avevamo pescato. Se non fosse per lui non sarei qui.
– Non ti chiede chi fosse quell'uomo?
– Che uomo?...
Mi guardava sorpresa, poi rise.
– Va', – disse forte. – Lui non è come te. Mi vuol bene. Preferisce il mio vestito a fiori. Diversamente gli farei paura –. Il ragazzo si venne accostando e pareva guardarsi le scarpe. – Gli piace l'odore del sole di allora. Lo vedi?
Tendendo la mano lo prese alla nuca, con quel gesto come si fa ai gatti. Il ragazzo si scrollò e scostò il capo, ma non se ne andava e rimase a guardarci in silenzio. La scalza sorrise – dell'aspro sorriso che le suonava nella voce come ruggine di sole.
– Lo vedi? – mi disse. – Quel che pensa, lo mostra.
– Ti nascondo qualcosa? – chiesi.
Allora mi diede uno sguardo terribile – lo sguardo che avevo temuto da un pezzo – ma senza deporre il sorriso di prima, che parve fasciarlo. Compresi il pericolo che c'era in quegli occhi. Se mi voleva giudicare ero perduto. Col cuore in tumulto, risposi:
– Hai ragione. Sono pieno di cose vigliacche e cattive. Come te. Siamo tutti cosí. Il tempo passa.
La scalza ascoltava. – Non sei piú una bambina e capisci anche tu. Ma quest'oggi non ho fatto del male. E chi mi ha schiacciato non è come te.
Le ultime parole le dissi alla terra. Sentii l'erba frusciare e vidi appena il piede nudo, che già la mano mi palpava la nuca e io mi scostavo scontroso e felice. La voce mi disse: – Non parli con lui?

Capii ch'ero solo, e tornai vagabondo alla riva del fiume, sul greto tranquillo. Li trovai già seduti sui sassi. Mi sedetti tra loro e poggiavo il mento sul ginocchio.
Il ragazzo si alzò e tirò un sasso a fior d'acqua. – Era meglio se non vi parlavo, – cominciai. – Non è la prima volta che vengo sul fiume.
– Dillo a lui, – cantò la scalza.
– Lui lo vedi com'è. Non saprei cosa dirgli. Tutte le volte che lo guardo se ne scappa. A lui basta tirare le pietre e salire sugli alberi.
– E se fosse cosí che ti parla?
Guardavo l'acqua e non capivo piú me stesso. Quell'orrendo sciacquío che avevo in testa da tutto il pomeriggio, pareva adesso un'altra cosa, un sommesso parlare. E non pensavo piú alla sera e all'indomani: lasciavo che il giorno morisse sull'acqua e il mio solo pensiero era che i due non se ne andassero.
– Altre volte, – dissi, – ho aspettato la sera cosí. Chi sa dove.
– Nella vigna, – disse il ragazzo di scatto.
– Nella vigna, – dissi. – Sí. Ma cos'altro ricordo che una vigna e un sentiero di canne, e un glicine sempre uguale sul balcone? Adesso a volte mi vergogno. Si può pensare giorno e notte a queste cose? Eppure, scava scava, è tutto qui.
– Il sentiero va nei boschi, – disse il ragazzo acceso.
– E le canne finiscono al pozzo. I boschi coprono mezza collina e si vedono dal terrazzo.
Allora sorrisi e dissi: – È vero.
– D'estate, – disse il ragazzo, – quando l'uva matura, nella vigna non si sente un filo muovere: se uno sta zitto è come urlasse tanto forte da non sentir piú.
– E con questo? – disse la scalza.
Il ragazzo ci guardò – È il rumore del sole che cuoce la terra.
Io dissi: – È come il tempo, che sul terrazzo del glicine è fermo. Per tutta l'estate. Soltanto, verso sera c'è come uno scatto e poi viene il fresco, e di là dalle piante si sente parlare e discorrere. Il ragazzo mi sgranò gli occhi addosso. Mi ascoltava attento. Io sapevo che cosa accadeva e avrei voluto dirgli tutto. Ripresi: – Anche nei boschi il tempo è fermo. Ma a vederli dal pozzo sembra sempre che nel prato in mezzo ai roveri debba succedere qualcosa. Chi sa mai se di notte non esce qualcuno in quel prato. Tu lo sai?
Rispose in fretta: – Non posso andarci fin lassú.
– Ma lo sai?
Intervenne la scalza: – È un ragazzo.
Noi ci guardammo dentro gli occhi: nei suoi, bambini, opachi, c'erano informi tante cose che dovevano accadere.
– Sciocco, – dissi, – la vigna e il terrazzo non sono niente. Conta solo la paura e il batticuore. E a due passi dalla vigna ne trovi.
– Non tormentarlo, – aggiunse lei. – Lo sa bene.
– Basta sentir passare il treno, – disse il ragazzo.
Non gli chiesi perché. Dissi alla scalza:
– Il tempo è fermo, ma c'è il mondo che aspetta. Capisci? Tutti i treni che passano portano via. Allora sí che verso sera batte il cuore, quando si sente cantare di là dalle piante.
– Come adesso.
Ascoltai lo sciacquío, dal greto alla riva di fronte, incerto nella sera. La campagna era vuota. – Le notti d'estate, – disse forte la scalza, – andavamo a ridere e cantare sotto il paese. Quante volte ci andammo. Tu no?
Il ragazzo taceva, scontroso.
– Non mi lasciavano, – risposi. – Qualche volta scappavo.
– E cantavi cosí?
Allora mi giunse nell'aria vaga una voce, e non era piú il fiume. Si levava lontano, di là da quei prati, di là dalle nuvole – una voce di collina e di vigna, come un coro smorzato. Non risposi alla scalza. Ascoltavo nel canto scoppi netti di risa e parole. Serrai gli occhi felice.
– Cambia il vento e si sente, – disse lei. – Da un paese all'altro. Cantavi anche tu?
– Ascoltavo dal terrazzo nel buio.
– Ma quando scappavi?
– Avrei voluto andare in cima alle colline. Non ero mai solo abbastanza.
Riudii l'aspro sorriso. La scalza si piegò all'indietro quasi a toccarmi – non vidi il ragazzo – e mi disse: – A sfogliare la meliga andavi?
Feci per prenderle la faccia, e si scansò. – Avevi tutto questo, – disse, – e ti vergogni della vigna e del terrazzo?
– Di niente mi vergogno. È passata.
– Non hai piú il batticuore?
Allora le presi la faccia e sentii sotto le dita la bocca schiusa e ridente. La scalza mi stette un momento vicina; mi passò un sospiro rauco sulla gota, poi disse: – Ricordati la vigna e il terrazzo.
Sentii che sfuggiva e non potevo trattenerla. Le dissi sul viso: – Ritorni?
La voce rispose: – D'estate.
La penombra del fiume era tutta sciacquío. Tesi l'orecchio a lungo, se ancora coglievo l'aerea canzone di prima. Poi quando fui solo, proprio solo, mi alzai sotto il cielo e andai via.