di Alessia Carsana
Tra gli scrittori più amati, citati, studiati e in parte anche abusati del Novecento italiano brilla Italo Calvino. Noto soprattutto per una delle sue sfumature, quella più sognante, avvolta in un’aura fantastica, quasi sovrannaturale. Multiforme, leggero, cristallino nell’uso della lingua e con uno stile adatto a più livelli di lettura: di Calvino si è scritto, si è pensato, si è immaginato proprio tutto. Le sue opere sono state analizzate, sezionate, scomposte in mille pezzi. La critica ha avuto fin troppo pane per i suoi denti e la scuola italiana ha fatto di lui uno degli autori portanti nei programmi di studio sin dalla tenera età. La trilogia de I nostri antenati, Le cosmicomiche e Le città invisibili è tra i titoli più noti della nostra letteratura. Eppure Calvino rivela ogni volta qualcosa di inedito, cambia continuamente le nostre prospettive, e, se si è disposti ad andare oltre quello che di lui da sempre ci è famigliare, mostra al lettore un volto molto più sfaccettato.
Per esempio, che cosa sappiamo del Calvino delle origini? Quel Calvino appassionato di fumetti, cinema e teatro, così poco studiato perché ancora titubante sulla grana della propria stoffa, orgogliosamente impaurito all’idea di restare impantanato nel sottobosco della mediocrità letteraria da eccedere nel suo perfezionismo e travestito da agronomo per volere della famiglia? E’ un autore che subisce un rifiuto, per quanto sia difficile crederlo. Ed è Einaudi a chiudergli la porta, nel 1942, quando diciottenne si fa coraggio e tira fuori un manoscritto di racconti dal titolo Pazzo io o pazzi gli altri, a cui la nota casa editrice risponde con un «la nostra casa non accoglie per principio che libri unitari», ossia un romanzo. Ma in queste origini Calvino ha un’esigenza viscerale che non può mettere da parte: il racconto. È così che vorrebbe presentarsi al pubblico librario quando nel 1946 pensa di raccogliere tutte le prove realizzate fino a quel momento. È Cesare Pavese a spingerlo verso il romanzo: «Io pensavo di fare un librettino di racconti, tutto bello pulito stringato, ma Pavese ha detto no, i racconti non si vendono, bisogna che fai il romanzo. Ora io la necessità di fare un romanzo non la sento: io scriverei racconti per tutta la vita» dice in una lettera del ‘46 allo scrittore Silvio Michieli. I racconti quindi, perché i racconti? Perché per lui la scrittura è «partire in una direzione, giocare tutto su una carta però con la coscienza che ce ne sono delle altre», questa la definizione che darà di se stesso ad Elsa Morante nel 1950: prendere un’opzione e utilizzarla più di una volta, con riformulazioni diverse, per sperimentarla sotto tutte le angolazioni possibili. E per poter fare questo è decisamente più congeniale una forma di narrazione breve.
In questa preistoria calviniana, rimasta a lungo nell’ombra, spiccano tra gli altri un fascio di ventisei testi poco conosciuti, pubblicati solo postumi e realizzati tra il 1943 e il 1944: i cosiddetti Apologhi esistenzialistici o Raccontini di dopodomani. Siamo in piena guerra, una contingenza che entra con forza nel giovane Calvino, e la scelta del racconto è strettamente collegata all’oppressione fascista. Dice l’autore nei suoi Appunti: «Quando l’uomo non può più dar chiara forma al suo pensiero lo esprime per mezzo delle favole». Nel buio più totale, quindi, una fede positiva, la parola. Si tratta di esperimenti che testimoniano una precoce predilezione per una scrittura antiemotiva, antipsicologistica, asciutta e nervosa. Rapidi, con il sapore della gag fumettistica, costruiti su dialoghi assurdi, aperti con incipit dal taglio indeterminato che catapultano il lettore nella scena già in corso e chiusi con finali spiazzanti.
Tre sono i nuclei tematici fondamentali che si mescolano tra loro: la vita rappresentata come insondabile, sfuggente, assurda e annoiata; poi la polemica politica di ispirazione anarchica contraria allo statalismo autoritario e al conformismo delle masse; e infine la guerra, l’atmosfera storica.
Due sono i tipi umani che si muovono sulle scene: le identità deboli e quelli che possono essere definiti i “profeti muti”. A dominare i racconti è un personaggio dall’io non rilevato, anonimo, la cui interiorità è ben poco caratterizzata. Le figure danno l’impressione di essere nuove al mondo, estranee, e nelle loro azioni si susseguono, posti sullo stesso piano della bilancia, gesti minimi insignificanti, come chiamare qualcuno per nome, e gesti gravi e irreversibili, come darsi la morte. Nei loro destini si alternano momenti di stasi e momenti di catastrofe: è l’esistenza che procede sonnacchiosa nella noia e poi accelera di colpo tragicamente, è la vita nella sua precarietà. E l’identità dell’individuo? Per Calvino è sfuggente e mutevole, dal momento che il rapporto tra l’uomo e il suo ruolo sociale, o addirittura tra l’uomo e il suo nome, è intermittente e reversibile. Lo dimostra il brevissimo racconto Invece era un’altra:
Quello che mi faceva arrabbiare era pensare che lei veniva con me come sarebbe andata con un altro, per esempio con Ferruccio. Mentre eravamo sul prato glielo dissi.
– Senti, tu vieni con me perché sono io o come vieni con me potresti andare con un altro, per esempio Ferruccio?
E lei rispose: – Vengo con te perché sei te.
E io le dissi: – Giuralo, Teresa.
E lei fece: – Teresa?
– Così – dissi io.
Invece lei: – Ma io sono Bianchina- disse.
Era vero. Era Bianchina, non Teresa.
– E Teresa? – chiesi. – Non so- disse. – Mi sembra di averla vista andare con un altro, per esempio con Ferruccio.
A me seccava, poi ci pensai.
– Ferruccio? – chiesi. – Così – disse lei.
Allora mi ricordai: – Ma sono io Ferruccio.
Era vero. Ero Ferruccio, non Michele.
– Ci si confonde sempre – disse lei.
– Davvero – dissi io – capita sempre di confondersi uno con l’altro.
Ma adesso siamo a posto.
– Sì – fece lei – tanto poi è lo stesso. E si rimase sul prato fino a sera.
Uomini e donne che si muovono impacciati fra le cose e la gente, incapaci, impotenti, che faticano a inserirsi con armonia nel mondo che li circonda, e con i sentimenti atrofizzati a tal punto che la vita acquista valore solo per un attimo, per esempio nell’acquisto di un gelato al lampone come in Passatempi. A fare da contrappeso ci sono i “profeti muti”. Figure individuali o collettive che sembrano a prima vista capaci di una qualche azione e in grado di comprendere a pieno la realtà. Ma anche questa comprensione è temporanea, fugace, a volte solo ipotetica: è il bisogno di risposte, la speranza dubbiosa di Calvino in un contesto storico di difficoltà. Nasce così il sapiente reticente, incapace di parlare, del racconto Il profeta muto, una sorta di controfigura declassata di Cristo che alla domanda «Perché tu taci maestro? Come puoi abbandonarci così? Svelaci la tua verità (…)» risponde al lettore «Tanti anni sono passati dal tempo in cui queste cose ebbero luogo che più non ricordo se in realtà io fossi un viandante creduto per errore un profeta o non piuttosto un vero profeta, che aveva avuto paura.»
In alcuni casi è la guerra la protagonista principale. Non raccontata nell’azione dello scontro ma nei suoi effetti sulla coscienza di chi la subisce. Come nella storia del reduce Luigi, che tornato dal fronte non riesce a fare altro che camminare dietro agli altri e guardare in basso, perché fa parte di lui ormai la sensazione della fila lenta dei soldati in marcia.
Ma il Calvino di questo periodo è anche un autore politico e polemico. Fortemente contrario allo sviluppo di uno statalismo autoritario e al conformismo delle masse, ne fa un ritratto paradossale dall’ironia amara nel testo Disorganizzazione: una donna cammina, piange per i figli ammazzati e due agenti la fermano perché «non si può piangere per strada, non è ordinato», ci sono luoghi apposta per piangere, sennò è un arbitrio, un’anarchia, «poi non sappiamo in che senso è che voi piangete: potrebbe essere in un senso sbagliato».
Eppure dallo scetticismo più pessimista di questi primi racconti, Calvino riesce a poco a poco a far emergere qualche punto fermo, l’avvio per una fede positiva, nell’uomo e nella scrittura. Dalla mediocrità, dall’inettitudine l’individuo si deve riscattare per portare il proprio contributo, prendendo atto della necessità di connessione con l’umanità, di superamento della prospettiva egoistica e frammentata per farsi come Noè e «salvare quelle poche cose, tutto quello che basta all’uomo per ricominciare» (Come non fui Noè). È la ritrovata fiducia nel carattere insostituibile dell’individualità umana di cui si fa portavoce il personaggio del racconto Importanza di ognuno. Antonio spala la terra, come gli altri, sempre nella stessa maniera, ma è l’unico ad accorgersi che ogni momento è irripetibile, ogni individuo è irripetibile, che non ci sarà nessun altro che spalerà come lui nello stesso posto e nello stesso modo, che «la storia del mondo diventa differente se io spalo o non spalo». E non è certo un caso che Antonio, l’unico tra gli uomini ad avere questa intuizione, fosse stato un poeta, prima di mettersi a lavorare la terra.