Polidoro editore ha pubblicato le novelle di Salvatore Di Giacomo Mattinate napoletane, restituendo alla narrativa uno dei maggiori esponenti della tradizione letteraria napoletana.
Cattedrale vi propone un estratto della prefazione a cura di Marco Perillo e uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.
di Marco Perillo
Nel 1887 Salvatore Di Giacomo aveva ventisette anni. E vagava per Napoli in cerca di storie da raccontare. Vicolo vicolo, lui che già da un paio d’anni era diventato famoso per la scrittura dei testi di alcuni successi musicali, oggi immortali, andava a caccia di scene di vita da poter proporre al giornale con cui collaborava. Di Giacomo non voleva scovare notizie; non era un giornalista come tanti. Era un narratore. Motivo per il quale era alla costante ricerca di spaccati di quotidianità che potessero far balzare agli occhi le diversificate realtà napoletane. Realtà fatte di miseria e di stenti, le stesse che pochi anni prima, nel 1884, Matilde Serao aveva denunciato nel suo Il ventre di Napoli. Di lì a poco, il piccone del Risanamento avrebbe cambiato per sempre i connotati dell’ex capitale borbonica, senza risolvere atavici problemi come la fame, le malattie, l’indigenza. È la “città dolente” narrata anche dal medico svedese Axel Munthe, quella della precarietà sanitaria che già nel 1877 la cronista inglese Jessie White Mario aveva evidenziato nel suo fondamentale saggio La miseria in Napoli. Sebbene possano sembrare simili, gli intenti del giovane Di Giacomo, rispetto alla Serao, a Munthe e alla Mario erano un po’ diversi. C’è poca sociologia e poco sdegno nei racconti di colui che a giusta ragione è considerato il massimo poeta della napoletanità. In essi prevale, più che la denuncia, la pietas, l’immedesimazione nella condizione altrui. Lo sguardo di Di Giacomo è indulgente, la sua penna inizia a intingersi in quel “verismo sentimentale” che da lì in avanti contraddistinguerà tutti i suoi lavori, dalle novelle ai drammi teatrali. Il germe di questa sua poetica risiede esattamente qui, in questi quindici racconti che compongono Mattinate napoletane, il libro che vi trovate tra le mani.
Le bevitrici di sangue
di Salvatore Di Giacomo
Dalle sette e mezzo della mattina fino alle dieci la carneficina delle vacche, al macello di Poggioreale, si compie tra uno strano affollamento di bevitrici di sangue, dura tra i desideri sanguinosi delle anemiche, delle clorotiche, delle povere fanciulle sbiancate in faccia come la cera. Esse accostano alle pallide labbra il bicchiere colmo di quello spumante vin delle vene e bevono d’un fiato, socchiusi gli occhi, la mano che leggermente trema. Intorno seguita la strage, tra un continuo romore di battiture, di tonfi sordi, di catene che si sciolgono, d’argani che rizzano i cadaveri ancor palpitanti delle povere bestie. Dopo bevuto il caldo sangue spicciato dalle carotidi incise, si passa in una stanzaccia nuda e sporca e lì si sciacquano le coraggiose bocche femminili e le mani insanguinate. A parte il bene che può fare questo rimedio novello, lo spettacolo è orribile.
Appena entrati nel macello, come il visitatore si va accostando allo scannatoio, ode un rapido succedersi di colpi sordi, i quali danno la precisa idea di una gran quantità di tappeti sciorinati e battuti da servitori invisibili a un invisibile terrazzo. I tappeti sono cadaveri ancor palpitanti di vitelli, di vacche, di bovi smisurati. I carnefici, appena caduto l’animale sotto il coltello pugnale di questi toreadores del macello, cominciano a menar di gran colpi di mazze sulle reni e sul ventre delle bestie, perché la pelle se ne stacchi. E mentre uno compie codesta bisogna, un altro si vale d’un mantice per gonfiare l’animale, e un altro d’un lungo ferro tondo per frugar nelle viscere. Il sangue scorre d’ogni parte e inonda il pavimento. I garzoni s’accovacciano, radunano con le mani il sangue a pezzi già quasi coagulato, riempiscono scodelle di ferro e queste rovesciano nelle botti preparate in un angolo. Tutto questo è fatto con grandissima rapidità, l’ammazzamento durando tutta la giornata e dovendo i beccai sbarazzarsi in un giorno fin di ottocento animali. Le vacche entrano malinconicamente nell’ammazzatoio. Piegano fino a terra la testa. Annusano il sangue e si volgono intorno. Un primo leggero fremito inconsciente increspa loro la pelle, gli occhi grandi e dolci s’inumidiscono. Attaccate per le corna ai pali dei cavalletti enormi, alle forche bruttate di sangue rappreso, continuano a dondolare la testa inquieta, lasciando mescolare al sangue, per terra, i fili argentei della bava, ond’hanno tutto umido il muso. Subitamente un carnefice s’accosta: nascoso il pugnaletto nella destra, guardingo. Leva la mano. Il pugnale s’abbassa, colpisce tra le corna, penetra, rapidissimo, fin nel cervello, e riappare fumante. Il carnefice dà un balzo, e si scosta. La vacca cade, fulminata. Una sola breve convulsione le agita le gambe, ed è tutto; è morta. La sua compagna si agita, cerca di liberarsi, leva il capo, sbarra gli occhi, spaventata. Ma cade anch’essa sotto l’orribile forca, accanto alla prima. Lì per lì comincia la battitura, cominciano ad agire il soffietto, il ferro tondo, il gran coltello sventratoio. Ma prima, appena l’animale piega le gambe e si rovescia sul dosso, il fornisore di sangue, scalzo, sguazzanti i piedi nel sangue, accosta alla viva fontanella il bicchiere e, correndo, lo porta alla fanciulla anemica. E costei beve d’un subito fino all’ultimo gocciolo, e le labbra e il mento le si dipingono d’un rosso fortissimo, e le dita si sporcano, e gli anellini luccicano tra il sangue gocciante. * * * La gran parte di queste bevitrici si compone di un elemento assai borghese. Sono modistine, sartine, fioriste e simili. Escono dall’ammazzatoio con le punte delle scarpette, coi tomai alti, macchiati. In Napoli l’anemia serpeggia un po’ da per tutto: ora pensate a queste povere ragazze che fanno una vita sedentaria, in un laboratorio, coi lumi a gas d’inverno; pensate a queste giovanette elegantemente vestite che a casa loro dormono in un miserabile sottoscala, senza luce; pensate alle privazioni, alla mancanza dell’aria, del sole, alla mancanza del cibo sano, della carne che costa troppo, e vi spiegherete la mancanza dei globuli rossi.
Ma guardatele, quando, nelle prime ore della mattina, queste fanciulle del popolo attraversano Toledo, in cappellino lucente di conterie, vestite come tante marchesine, le calze nere, di seta, lo stivalino verniciato, la punta ricamata d’un moccichino che scappa fuori dalla saccoccia in petto, la mantiglia sul braccio e l’ombrellino in mano. Son quelle che ieri han bevuto, fortemente, il sangue vivo vivo. Ora guardatele; hanno due soldi in tasca per la merenda, ma le labbra carezzano il gambo d’un fiore, o sorridono deliziosamente a un giovanotto cocchiere padronato, che sorride e minaccia con la frusta elegante...